LE CARTE NAUTICHE VANNO IN PENSIONE

LE CARTE NAUTICHE TRADIZIONALI VANNO IN PENSIONE

Il Comandante Mario Terenzio Palombo sulla nave "Costa Fortuna"

 

Comandante carismatico della Costa Crociere, Mario Terenzio Palombo é spesso citato come protagonista di quella storia marinara che parte dai segreti della vela “carpiti” a nonno Biagio, armatore di un pinco-goletta, ed arriva fino ai giorni nostri, con l’assoluta padronanza delle moderne tecnologie installate sulle grandi navi da crociera che lui stesso ha allestito e poi comandato. Conoscendo la chiarezza espositiva e la capacità di sintesi del Comandante Mario T. Palombo, gli abbiamo rivolto alcune domande sul prossimo STEP tecnologico che si sta delineando all’orizzonte della “Marineria Mondiale”: la sostituzione delle millenarie  “Carte Nautiche” con quelle elettroniche.

 

Carta Pisana. Secolo XIII o XIV, probabilmente realizzata a Genova, Carta del Mediterraneo, Parigi - Mappamondo.

 

Carta nautica tradizionale

Comandante Palombo, le “Carte Nautiche” tradizionali stanno per andare in pensione e saranno sostituite dall’ultima novità tecnologica: le “Carte Elettroniche” e l’ECDIS (Electronic Chart Display and Information System). Quando avverrà il passaggio di consegna?

 

 

- Mi risulta che le Carte Nautiche Elettroniche e L’ECDIS, diventeranno obbligatorie a partire dal 1 Luglio 2014. Gli Ufficiali delle navi passeggeri stanno già effettuando i corsi di aggiornamento che saranno poi indispensabili per l’imbarco (Operatore ECDIS).

 

 

Questo nuovo modo di navigare coinvolgerà solo l’élite delle navi passeggeri, oppure il sistema sarà esteso a tutte le navi?

 

 

- Tutte le navi passeggeri esistenti e quelle in costruzione, a partire da quella data, dovranno essere dotate dell'ECDIS e dovranno avere un sistema di Carte Elettroniche approvate. Gradatamente, anche tutti gli altri tipi di navi si adegueranno al nuovo modo di navigare.


The Raytheon Anschütz Synapsis ECDIS is a high performance Electronic Chart Display and Information System (ECDIS). With its enhanced functions, ...

I due sistemi avranno un periodo di “convivenza” ?

 

- Le carte “di carta” non spariranno subito, ma una volta che le navi saranno “full ECDIS”, e saranno dotate di DUE sistemi ECDIS (uno di riserva all'altro), allora, a quel punto non si avranno più carte di “carta”, e di conseguenza “spariranno” anche le squadrette da carteggio, matite e compasso.

Sala nautica della T/n Michelangelo. Notare il Tavolo da Carteggio e i 10 cassettoni delle carte nautiche. Sullo sfondo il Ponte di Comando.

Comandante, per capirne realmente i vantaggi, sarà necessario entrare un po’ più nel dettaglio dell'operazione?

 

 

- Con questo nuovo sistema c’è il grande vantaggio che,  per pianificare un viaggio da un porto all’altro, con rotte varie e relative distanze, lo si farà in pochi minuti, mentre prima si doveva consultare l’Atlante Geografico delle Carte Nautiche, tracciare le rotte sulle stesse, dopo averle estratte dagli appositi cassetti e dispiegate sul tavolo da carteggio, misurando le miglia con il compasso. Altro vantaggio è che la carta nautica elettronica (ENC Electronic Navigation Chart), avendo fedeltà e completezza, permetterà una selezione dei dati presentati in relazione alla scala impiegata nel momento. Inoltre, avrà l’aggiornamento periodico dei dati, come avviene negli attuali avvisi ai naviganti.

Electronic navigational chart (NOAA)

 

 

Le carte nautiche elettroniche saranno compilate dai vari Istituti Idrografici, sulla base delle carte esistenti?

- Esatto! Dovrebbero essere distribuite dal famoso Istituto dell’Ammiragliato Inglese (Admiralty), ma si utilizzerebbero carte nautiche degli Istituti Idrografici di tutto il mondo, che le "darebbero in uso" all'Admiralty.

 

Può specificare meglio?

- Funzionerebbe così:  L'Admiralty, dovrebbe pensare a "raccogliere" tutti gli aggiornamenti e a distribuirli insieme alle carte elettroniche. Il sistema memorizza la posizione ogni minuto e può memorizzare le posizioni almeno per 12 ore, o fino a 90 giorni. Nel caso il GPS non funzioni, si potranno mettere i punti nave con "rilevamenti" elettronici e distanze presi dal radar oppure ottici, e si potranno memorizzare sulla carta elettronica, e là rimarranno fino a che non si cancelleranno. Il sistema, come tutti gli strumenti di navigazione, dovrà funzionare sulla rete di emergenza (alimentazione dal quadro di emergenza).

 

Comandante Palombo le rivolgo l’ultima domanda. Non mi risulta che gli Istituti Nautici Italiani riescano a tenere il passo con le nuove strumentazioni di bordo. Qual’é il suo parere?

 

- E’ un vero peccato che gli Istituti Nautici  italiani non siano attrezzati ad insegnare questo sistema. Gli stessi professori dovrebbero fare dei corsi e poi mancano gli strumenti.

Comandante Palombo, lei ha calcato per oltre quarant’anni i Ponti di Comando delle più grandi “navi da crociera” che hanno solcato i sette mari, studiando e frequentando corsi di aggiornamento nei maggiori porti del mondo, con risultati eccellenti, per arginare l’avanzata della tecnologia. Che sensazione le dà vedere andare in pensione pezzi importanti della storia navale, ma anche di quella nostra personale?

 

- Navigare adesso é completamente diverso, questi nuovi sistemi sicuramente contribuiranno ad aumentare il livello di sicurezza dell’andare per mare, ma oltre all’elettronica, secondo me, ci vorrà sempre l'occhio esperto del marinaio perchè la moderna tecnologia non sarà MAI superata dall’ARTE DEL NAVIGARE.

 

 

PAROLE SANTE! Grazie Comandante per la sua disponibilità!

 

Carlo GATTI

 

Rapallo, 20 Aprile 2014

 


GALERE GENOVESI: Vita di bordo

GALERE GENOVESI

VITA DI BORDO

 

 

 

Ciò nonostante imbarcarsi per molti voleva dire uscire dalla disperazione o fuggire dai rigori della giustizia. Fra loro cerano anche ex galeotti che, usciti a fine pena dalle patrie galere non avendo ancora pagato i debiti per i quali erano colà finiti comprese le spese processuali, con l’ingaggio si illudevano di potersi riscattare. Abbiamo detto che non erano incatenati ma ci sono documenti della Repubblica di Genova che puntualizzano << il buonavoglia a termini del suo contratto è esente di giorno dalla catena a differenza del forzato…..ma se commette mancanza può essere condannato per qualche tempo alla continua catena…>>

 

Circa poi la possibilità di contrarre debiti anche mentre vogavano e quindi impossibilitati a sbarcare sino a saldo effettuato, era abbastanza facile perché << il buonavoglia doveva pagarsi tutti gli extra dall’alimentazione al vestiario, dai medicinali ai debiti di gioco contratti durante le pause>> ad ognuno di questi debiti, di volta in volta, faceva fronte il Comandante che, alla fine, doveva però essere rimborsato; in caso di impossibilità, il disgraziato poteva estinguere l’impegno restando…… ancora a remare.

 

Come si vede questa gente rappresentavano la feccia dell’epoca; non si capisce come un gruppo di intellettuali di Genova, per dare una mano alla Città, si sia in questi ultimi tempi associato appropriandosi di quel nome. Che abbiano erroneamente interpretato quel tristo ricordo  come sinonimo di “spontanea buona volontà”, che è altra cosa?

 

L’altra volta abbiamo visto come le galere, per mole e carenatura, viaggiassero solo  da Marzo ad Ottobre quando il mare è relativamente calmo e le giornate di luce sono più lunghe, con la indispensabile necessità di ridossarsi ogni sera anche per rifornire la cambusa.

 

Durante gli altri mesi i galeotti venivano rinchiusi nelle apposite galere che all’epoca erano edificate su di uno scoglio nel porto: se condannati, scontavano lì i restanti giorni di pena. Erano però riscattabili “ pagandoli” 400 formaggette l’uno. Valevano ben poco.

 

 

Museo Galata Genova

 

A bordo, incatenati o no, tutti sedevano su dei banchi larghi 25 cm che di giorno fungevano da sedile e, di notte, da giaciglio o, più correttamente, da appoggio per tentare di dormire. Fra banco e banco c’era la “banchetta” ovvero una tavola parallela ai banchi su cui sedevano, ma più in basso di questi e sulla quale i vogatori appoggiavano un piede per puntellarvisi durante lo sforzo della voga.

 

 

Una fedele riproduzione di una di queste galere è oggi visitabile al Museo Navale “Galata”, nel porto di Genova.

 


 

 

La vita assolutamente disumana che a bordo conduceva la ciurma ci è ben descritta, anche se riferita a galere francesi, da Jean Marteille de Bergerac nobile colà condannato per le sue malefatte. Lo scrive nelle sue memorie edite in Rotterdam nel 1757: suo malgrado fu, all’inizio del ‘700, ospite di una di queste e così descrive la sua esperienza di galeotto << Si immaginino, se possibile, sei uomini incatenati seduti ai loro banchi; (la maniglia del) remo tra le mani, un piede è sulla banchetta, grossa sbarra di legno inchiodata alla panca (banco) e l’altro sul banco davanti. Il corpo allungato, le braccia rigide per spingere innanzi il remo fin sopra il dorso di quelli che sono dopo, intenti nel medesimo movimento (indispensabile rispettare il sincrono). Dopo aver così portato avanti il remo, lo si alza per tuffarlo in mare, e, contemporaneamente, ci si getta o meglio, si precipita indietro per ricadere sul proprio banco, il quale per attutire il colpo di questa pesante caduta, è coperto da un cuscinetto>> e prosegue << E’ vero che una galera non può attraversare i mari con questo sistema, e che ci vuole necessariamente una ciurma di schiavi, ed un còmito che eserciti la sua dura autorità per farli vogare non già per un’ora, né per due, ma persino per dieci, dodici ore  consecutive. Rammento di aver remato per ben ventiquattrore, senza un istante di tregua. In questi casi i còmiti e gli altri marinai ci nutrivano mettendoci in bocca un pezzo di galletta inzuppata nel vino e senza che noi togliessimo le mani dai tremi, perché non cadessimo svenuti>> Oggi sappiamo che in quei frangenti veniva somministrato anche dell’hashis e continua << E non si udivano che le urla degli infelici, intrisi di sangue sotto i colpi del flagello; lo schioccare delle corde sui dorsi dei miserabili, le ingiurie e le più atroci bestemmie dei còmiti schizzanti rabbia e minaccia quando la loro galera non andava come avrebbe dovuto o non navigava al pari delle altre>>

 

E’ vero che la vela ha soppiantato il remo come mezzo di sostentamento del moto, ma il trattamento alla ciurma non variò di molto.

 

 

 

Renzo BAGNASCO

Foto a cura del webmaster Carlo GATTI

Rapallo, 19 Aprile 2014

 

 


GALERE GENOVESI: Cosa si mangiava a bordo?

 

GALERE GENOVESI

COSA SI MANGIAVA A BORDO?

 

 

 

Galea trireme. Bastimento sottile, di circa 50 metri di lunghezza, largo circa 7, con due metri di pescaggio

 

 

Siamo nel XV° secolo su di una galera genovese non da guerra, del tutto paragonabile alle altre simili, battenti bandiere di altri Stati. Il nome di questa imbarcazione diventò, ed è tutt’ora, sinonimo di prigione. A bordo c’erano un Capitano, due Gentiluomini di poppa rappresentanti l’Armatore o chi ci aveva messo i soldi, uno scrivano, tre Sottufficiali ( i còmiti), un Pilota, un Chirurgo, un Aguzzino che sapeva ben usare lo staffilo, undici marinai per le vele, trenta marinai per le funzioni più varie, quattro addetti alla manutenzione, e duecentosessanta rematori ai ferri, la così detta “ciurma”.

 

 

Questa era composta da un  20/28 per cento di schiavi, 35/45% da forzati colpevoli di gravi reati e costì condannati e da un 30/50 % da buonavoglia, disperati che per una misera paga si assoggettavano volontariamente a quella vita d’inferno. Queste imbarcazioni navigavano da Marzo ad Ottobre e solo di giorno perché di notte doveva ridossarsi per dormire e ricaricare le derrate e l’acqua consumate durante il giorno. Barche non adatte a tenere il mare (avevano chiglia piatta) sottocoperta avevano sei gavoni così utilizzati: uno leggermente sopraelevato di poppa per il Capitano ed i Gentiluomini. Subito accanto lo “scandolaro” per contenere le armi, gli assi e i teloni da rapidamente montare per riparare dalle improvvise piogge i vogatori, poi la dispensa (detta “compagna”), il pagliolo, la camera di mezzo ed in fine il gavone per le vele. I sottufficiali e gli altri membri “liberi” dell’equipaggio si arrangiavano a dormire dove potevano;

 

 

 

i galeotti restavano in catene e sonnecchiavano sul posto “di lavoro”. Il ponte era tagliato in mezzeria da un camminamento che divideva per il lungo i due banchi dei rematori e su di esso camminava l’aguzzino; al centro il fogon per preparare il rancio, rigorosamente una volta al giorno all’imbrunire. I maligni dicono per non far veder cosa si mangiava.

 

Già, ma cosa si mangiava?

 

Gli unici ad avere pasti quasi normali erano il Comandante e i Gentiluomini, il restante equipaggio poteva contare su di un po’ di baccalà condito con un filo d’olio, a volte pasta o riso e un po’ di carne conservata essicata e una razione di vino.

 

 

 

Ai rematori invece era riservato  un po’ di “biscotto” le classiche gallette sia nei periodi di voga estivi che quando, d’inverno, erano rinchiusi nella loro galera. Venivano sbriciolate a formare una specie di puré; due volte al mese una minestra di fave, riso e olio e nelle solennità religiose, se non costretti a digiunare secondo il dettato di Santa Romana Chiesa per una specifica ricorrenza, una libbra di carne (300 gr circa) ed un boccale di vino (73 cl); spesso e volentieri, per nascondere il puzzo di “rancido” delle derrate mal conservate (da cui il nome “rancio”) veniva spruzzato con aceto. Questo a Genova.

 

Il “menù” della Marineria Pontificia invece prevedeva 850 gr di gallette e, tre volte alla settimana, una minestra che veniva però eliminata d’estate. I Veneziani  passavano 650 gr di gallette, 4 tazze di vino di “onesta misura”e una scodella di minestra; quattro volte alla settimana 240 gr di carne e tre volte 160 gr di formaggio. Il Mercoledì ed il Venerdì 2 sardelle.

 

Più parca la Marineria Toscana dava 500 gr di gallette e una minestra di cavoli, rape e fave mentre, solo nelle solennità annuali, era prevista della carne fresca pari a 340 gr  a testa, oltre a ½ litro di vino. Le fave saranno rimpiazzate poi dai fagioli portati da Colombo con il vantaggio di essere meno flatulenti e più nutritivi.

 

 

Nei momenti in cui era richiesto il massimo sforzo ai remi, è documentato che a volte erano costretti a remare anche per 24 ore consecutive, venivano imboccati dagli aguzzini. Recenti ricerche hanno rivelato che ai rematori, nei momenti sopra descritti, quando ne il vino ne le scudisciate riuscivano a garantire il ritmo infernale imposto, venivano ammannite dosi di hashish, con funzione di sovra alimentatore, un po’ come oggi fanno i turbo nei nostri motori.

 

E’ stato calcolato che le 3000/4000 calorie ingerite avrebbero potuto essere sufficienti se fossero state dispensate regolarmente. In realtà lo zelo maniacale dei Comandanti a far rispettare i digiuni prescritti dalla pratica religiosa, lo documentano i diari di bordo, era applicato con una meticolosità che è difficile oggi stabilire se per profonda fede o non piuttosto come scusa per risparmiare a proprio favore il <non speso>, rendeva la vita di quei poveri disgraziati, se possibile, ancor più grama.

 

Durante i turni massacranti ai remi, sotto i colpi delle sferze degli aguzzini, le bestemmie se le potevano permettere solo i vogatori delle galere che battessero bandiera di Stati non cattolici, perché per questi ultimi vigeva la norma << Chi biastamerà Dio over la sua Madre, et Santi et Sante, sel sarà huomo da remo sia frustato da poppa a prua; sel sarà huomo da poppa, dieba pagar soldi cento>>

 

 

Forse è per reazione a questo forzato silenzio repressivo del proprio sentire che i liberi marinai di Genova, una volta abolite le galere, poterono contare su di un particolare contratto di lavoro articolato su due diverse paghe che essi stessi potevano scegliere al momento dell’ingaggio per l’imbarco: paga più elevata se si rinunciava, durante il lavoro, al “mugugno” oppure paga sensibilmente più modesta ma con il diritto a “mugugnare”.

 

I genovesi preferivano, in genere, questa seconda. E poi non vogliamo sentirci dire che un po’ strani lo siamo.

Renzo BAGNASCO

Foto a cura del webmaster Carlo GATTI

Rapallo, 19 Aprile 2014



LUCIO MASCARDI, un rapallino da ricordare

LUCIO MASCARDI

un rapallino da ricordare!

2002, Riccione - Campionati Italiani Masters  - Medaglie e record con gli intramontabili(da sinistra):  Lorenzo Marugo, Carlo Gatti, Cristina Grugni, Lucio Mascardi e Alba Caffarena.

 

Una quindicina d’anni fa o forse più, con l’intento di proporre al pubblico di “Mare Nostrum” una ricerca sugli emigranti rapallini nelle Americhe, mi accorsi quasi per caso d’aver avuto, per tanti anni, come compagno di squadra nella RAPALLO NUOTO - MASTER, un autentico personaggio: Lucio Mascardi, un signore d’altri tempi… con un passato “straordinario” che era noto soltanto ai suoi familiari. Lucio era geloso dei suoi ricordi personali e pur avendo una memoria di ferro - era stato  archivista del Comune di Rapallo - non amava rivivere certi episodi che avevano  segnato dolorosamente la sua vita. Per la verità, Lucio, anche quando raccontava le sue imprese a volte veramente drammatiche, riusciva ad insaporirle con aneddoti succosi e ricchi d’ilarità, perché il suo umorismo era tale che, in qualche modo, doveva prevalere persino sulla ferocia dei tedeschi, sul freddo delle steppe russe e sui mitragliamenti a raffica dei tovarish che sibilavano a pochi centimetri dalla sua moto da bersagliere motorizzato. Lucio se n’è andato dieci anni fa, all’età di 88 anni, in  modo avventuroso, così come aveva vissuto, scivolando su una pietra mentre cercava funghi sul monte Aiona con i suoi nipoti. Lucio aveva collaborato ad importanti testate come giornalista sportivo ed era soprattutto un autentico campione di nuoto. Il suo record sui 200 rana è tuttora imbattuto ed è visibile sul display del sito della Federazione Italiana Nuoto.

 

Lucio Mascardi, nacque nel 1916 a Rapallo. Quando era ancora in fasce, come si diceva un tempo, emigrò con la mamma Clorinda Sbarbaro ed il papà Antonio verso il Cile, dove il nonno Tommaso era emigrato a fine ‘800 ed era morto prematuramente nel 1907 sulle Ande, in treno, per malattia. Anche Gerolamo, fratello della mamma Clorinda era emigrato in Cile nei primi anni del ‘900 ed aveva iniziato la sua attività negli Almacien, diventandone  proprietario, in seguito fondò una prima fabbrica di tessuti e poi un’altra ancora più grande a Tomé. Gli Almacien erano i supermercati ante litteram: c’era di tutto e per tutti, ma erano tempi difficili e quando si trovavano decentrati per ragioni strategiche, non mancavano le rapine e gli assalti  tipo far-west. La vita di questi nostri emigranti era improntata al coraggio, all’iniziativa ed alla sfida dei mercati. Gli Sbarbaro, fedeli alle loro origini costiere, fondarono anche una fabbrica di prodotti ittici, la SIAP. Questa società ebbe due rapallesi come soci: Gasparini e Peruggi. Queste fabbriche, per le note vicende politiche, vennero in seguito nazionalizzate e tanti sacrifici svanirono improvvisamente nel nulla. L’impegno, il coraggio, l’operosità di molte generazioni di emigranti, che portarono tecnologia, progresso, lavoro e amore per il “nuovo mondo”, s’immolarono sull’altare delle nuove infauste ideologie.

 

Il destino di Lucio, tuttavia, era stato scritto per essere compiuto sull’altra sponda dell’oceano.

 

“Tomaso di Savoia” – Lloyd Sabaudo /1907-1928)


“Re Vittorio” – N.G.I.  (1907-1929)

 

Nel 1919, tre anni dopo l’arrivo della famigliola in Cile con il p.fo “Tomaso di Savoia”, il padre Antonio moriva e la madre Clorinda, decideva di rientrare in Italia con il piccolo Lucio di 4 anni, contro il parere del fratello e di tutti gli altri parenti; tre giorni di treno sulle Ande e poi il triste imbarco a Buenos Aires sul p.fo “Re Vittorio”.

 

A quel tempo Rapallo era certamente più bella di oggi, ma la vita in Riviera non era  così facile e le opportunità di lavoro erano molte scarse e quando Clorinda, ancora giovanissima, rimase completamente cieca, per lei e per il suo unico figlio, il sopravvivere diventò ancora più difficile. Nel frattempo, le nubi nere del regime facevano presagire tempi ancora più duri e, con l’avvicinarsi della Seconda guerra mondiale, a nulla valsero le rimostranze di Lucio che si opponeva all’arruolamento per non abbandonare la madre in quella penosa condizione. Lucio era diventato un atleta: buon nuotatore-pallanuotista in estate, ed ottimo calciatore d’inverno, aveva un fisico robusto e la Patria, minacciandolo di diserzione, lo inquadrò inderogabilmente nel Corpo dei Bersaglieri.

 

Le truppe italiane inviate sul Fronte orientale Russo tra il 1941 e il gennaio del 1943

 

La Campagna di Russia era l’occasione per pagare l’obbligo morale che Mussolini sentiva nei confronti di Hitler dai tempi della non belligeranza.

 

“Il Duce era sicuro circa il buon esito dell’impresa e confidava nella potenza tedesca e nella scarsa capacità di resistenza sovietica” - Sosteneva Lucio che amava spesso analizzare, da storico appassionato, le vicende della 2° Guerra mondiale -“Mussolini ignorò la pur minima valutazione logistica e ordinò in tempi ristrettissimi la formazione e l’invio al fronte del CSIR (Corpo di Spedizione Italiano Russia) di cui feci parte insieme a più di 60.000 soldati italiani già operativi nell’agosto del 1941 sotto il comando del generale G. Messe. Nel giugno del 1942 questo Corpo iniziale  venne rinforzato ed inglobato in un secondo corpo di Spedizione chiamato ARMIR Armata Italiana in Russia”.

 

Dopo circa un anno speso a difendere un fronte di 270 chilometri lungo il fiume Don, Lucio riuscì a rientrare fortunosamente in Italia per le note ragioni familiari.

 

Giunto a Rapallo – mi raccontò Lucio - Ero intenzionato a rimanervi per sempre. Ne avevo già viste fin troppe… In un primo tempo mi nascosi nei boschi, poi mi consigliarono di darmi ammalato e, grazie al Dott. Bruno, riuscii ad ottenere due settimane di cure mediche, ma poi fui preso dai carabinieri ed inviato con la forza, per la seconda volta, sul fronte russo.

 

 

La situazione, quando rientrai nei ranghi, era ancora abbastanza stabile, poi, tra il dicembre del 1942 e il gennaio del 1943 si scatenò la grande offensiva invernale dell’Armata rossa. Fummo investiti in pieno dall’urto degli attaccanti e, inferiori di uomini e di mezzi, fummo costretti alla ritirata e a marciare per centinaia di chilometri nelle terribili condizioni climatiche dell’inverno russo. Il numero delle vittime tra i nostri soldati italiani fu di 84.830 tra caduti e dispersi; se sono ancora qui a raccontare questi fatti è perché durante la famosa ritirata, io e pochi altri compagni riuscimmo a salvarci rifugiandoci ogni notte nelle Isbe, (erano le case di legno dei contadini russi) dove c’erano solo donne, che ci sfamavano e poi ci ripulivano anche dei pidocchi ed altri insetti che ci torturavano peggio dei P.P.Sh (Pepescia) e delle baionette dei loro mariti in guerra contro di noi”.

 

Isba russa degli anni ‘40

 

La lunga notte buia di Lucio si concluse con lo svanire degli ultimi bagliori di guerra e, grazie alla sua forte fibra cominciò a costruire il suo futuro. Un posto in Comune, un felicissimo matrimonio con Rina, la nascita di Antonella e poi i nipoti Francesco e Tommaso. Una vita che è proseguita serena e metodica dopo il pensionamento e che iniziava ogni mattina con la visita al cimitero alla mamma Clorinda e alla suocera…. che aveva coccolato e protetto fino alla soglia dei cent’anni. Il suo giro giornaliero proseguiva poi con l’ormeggio della bicicletta vicino alla porta principale della parrocchia, un salto al Bar Colombo per salutare gli amici Nebbia e Gallo, un po’ di spesa al mercato e poi il rientro a Costaguta, nel suo regno, nel suo bosco sopra villa Sbarbaro, dove si era rifugiato durante la guerra, dove cercava funghi, dove si “allenava” con il suo fidato rastrello ogni giorno e con qualsiasi tempo. In questo suo paradiso, ogni tanto radunava gli amici, stappava il suo vino migliore e gli trasmetteva, inconsapevolmente, l’amore  per le cose “semplici” come la modestia, il culto per la famiglia, per lo sport e per tutto ciò che emanava con naturalezza da ogni suo poro: l’onestà pratica nel quotidiano e quella intellettuale nei valori etici e morali. Lo spirito religioso era per lui talmente naturale e scontato da non sentirne mai la necessità di esibirlo o nasconderlo.

 

Lucio è stato un grande maestro di vita!

 

Carlo GATTI

Rapallo, 22 Aprile 2014