NOLI - Repubblica Marinara dal 1192 al 1797
NOLI
REPUBBLICA MARINARA DAL 1192 AL 1797
Alla scoperta di un piccolo angolo di medioevo sull'antico mare della Liguria
Il primo incontro con la cittadina di NOLI, in provincia di Savona, risale al mio primo viaggio da allievo Ufficiale di coperta su una petroliera, ed avvenne tramite un giovane 3° Macchinista nativo di quella Repubblica Marinara Minore. All’epoca la mia testa era piena di punti nave, “rette d’altezza”, caricazioni di “crude oil” in Golfo Persico e scaricazioni del medesimo, per ben sei volte, nei porti del Giappone. Ascoltavo con finto interesse il glorioso racconto del passato di Noli, che però registravo in qualche cellula della mia mente ripromettendomi di verificare a tempo debito quelle notizie che, per la verità, mi sembravano un po’ esagerate. Tuttavia, dopo averne ammirato più volte, soltanto di passaggio, la golfata, i castelli e la bella passeggiata a mare, venne il giorno che decisi di fare una gita proprio a Noli.
Prendendo le sembianze di un turista qualunque, mi armo di macchina fotografica e di una valida “guida” del Touring che consulto prima di addentrarmi nel centro storico.
“Il termine Repubbliche Marinare venne attribuito tra il X e il XIII secolo a quattro città costiere italiane: Amalfi, Pisa, Genova e Venezia, poiché le flotte di queste città dominarono nei commerci l'intero Mediterraneo. Questo titolo però venne anche assegnato ad altre città quali Ravenna, Comacchio, Noli, Gaeta, Palermo e Brindisi. Le Repubbliche marinare rappresentano una variante alla civiltà comunale dove i mercanti istituirono le prime forze economiche di capitalismo: coniarono monete d'oro, misero a punto nuovi generi di trattative, brevettarono nuovi sistemi di contabilità e incentivarono progressi nella navigazione”.
Il mio amico Piero aveva ragione! E voi avete capito bene! Noli é quel Comune di 2.797 abitanti in provincia di Savona che dal 1192 al 1797 fu capitale della Repubblica omonima che ebbe forti legami con la Repubblica di Genova. Continuo a documentarmi: Le antiche pergamene conservate nell’Archivio storico del Comune di Noli comprovano, insieme alle altre vicende storiche della Repubblica, anche i trattati di alleanza stipulati con Genova dai quali emerge chiaramente che Noli, già dal 1202, fu sempre “alleata paritaria” e mai “succube” della Repubblica genovese.
Noli, tuttavia, vanta origini blasonate ben più lontane. Antico centro dei Liguri, fu municipio in Epoca Romana . Nel Medioevo collezionò botte e occupazioni provenienti da ogni direzione: fu base Bizantina . I Longobardi la distrussero nel 641 fu dominio anche dei Franchi di Carlo Magno. Allo smembramento dell'Impero Carolingio fu inserita, assieme alla vicina Varigotti, nei possedimenti della Marca Alemarica e della famiglia Del Carretto, del ramo di Savona. La gloriosa storia di Noli iniziò alla fine del primo millennio quando divenne compartimento di una notevole flotta e quindi un importante centro marinaro. Diventò famosa quando prese parte alla Prima Crociata nel 1099 ricevendo privilegi politici, ma soprattutto commerciali, dal re di Gerusalemme Baldovino I, dal signore feudatario Boemondo I d'Antiochia e da Tancredi di Sicilia.
Noli aveva la fortuna di affacciarsi su un golfo riparato, all’interno del quale le navi del tempo davano fondo l’ancora e facevano operazioni commerciali. Nell’epoca del suo massimo splendore la Repubblica era più vasta e comprendeva anche parti dei vicini territori di Orco, Mallare, Segno e Vado. La potenza e la grandezza di Noli raggiunsero l’apice durante le Crociate e durarono sino alla fine del secolo XIV. Il limite della sua espansione economica fu l’assenza di un vero porto che fosse in grado d’accogliere i traffici del cabotaggio. Fu così che Noli uscì dalle rotte commerciali e cadde nell’isolamento. Da audaci navigatori, avveduti commercianti e persino corsari, i nolesi si trasformarono in pacifici pescatori.
Il suo declino seguì le sorti della Repubblica di Genova, alla quale rimase sempre fedele ricevendone adeguata protezione. Nel 1797 passò sotto la dominazione francese perdendo la propria indipendenza dopo settecento anni di sostanziale libertà.
Panorama della cittadina. Da qualche anno, Noli fa parte dei "Borghi più belli d'Italia".
La Torre Comunale e parte del Palazzo Civico. Alta 33 metri, in pietra verde locale con merli ghibellini. Oggi restano otto case-torri delle 72 originarie. Edificata sul finire del XIII secolo è attigua al palazzo comunale. Pressoché intatta e terminata da merli a coda di rondine, presenta un basamento in pietra verde del luogo e con una parte soprastante in mattoni.
Il Palazzo Comunale, già sede di governo dell’antica Repubblica Marinara di Noli
Inizio il “tour” dalla Loggia della Repubblica, situata a fianco del palazzo del Comune, sotto la quale vi sono delle targhe commemorative di illustri personaggi storici nati nella località o che vi hanno trascorso un periodo della loro vita, come Cristoforo Colombo, Giordano Bruno e Antonio Da Noli.
Di fronte alla loggia si può ammirare una bellissima piazza in cui, con delle piastrelle marmoree, sono rappresentate le bandiere delle Repubbliche Marinare e di Noli che nel decimo secolo era la Quinta Repubblica Marinara.
Sottostante il Palazzo Comunale si trova la Loggia della Repubblica (secc.XIV.XV) con due grandi archi in laterizi che poggiano su una colonna ottagonale con capitello a bugnato tipico della fine del ‘300 - inizi ‘400. Interessanti sono le lapidi infisse nel muro della Loggia stessa, proprio davanti alla porta della prigione bassa o Paraxetto e all’anello di ferro usato per la tortura detta dei tratti di corda. Esse ricordano alcuni uomini illustri che a Noli nacquero o soggiornarono. Da Noli, infatti, passò Dante: “Vassi in San Leo e discendesi in Noli” (Purgatorio IV, 25).
Dalla rada di Noli partì Cristoforo Colombo il 31 maggio 1476 per iniziare, dal Portogallo, il lungo cammino che lo avrebbe portato alla scoperta del Nuovo Mondo. A Noli visse per alcuni mesi, nel 1576, Giordano Bruno insegnando a’ putti la gramatica et legendo la sfera a certi gentilhuomini, prima di morire bruciato come eretico, nel 1600, in Piazza delle Erbe a Roma.
Qui nacque Anton da Noli che scoprì, nel 1460, le isole di Capo Verde.
La Loggia conserva, però, un’altra lapide molto interessante; è la prima a destra verso la Porta di Piazza. Non parla di personaggi ma è l’unico ricordo marmoreo delle ferree leggi che vigevano nella Repubblica.
Poiché nel 1666 gli Antichi Decreti di buon governo, specialmente quelli stabiliti nel 1620 che imponevano, per i forestieri, la sicurezza in cambio del pagamento di 300 scudi, venivano disattesi, il Mag.co Consiglio grande de’ quaranta in legitimo e sufficiente numero congregato deliberava: “Che si facci registrare la sostanza di detto decreto in una pietra marmorea da ponersi ad una delle colonne del pubblico Palazzo, affinché in l’avvenire si tenghi in viridi osservanza, e ogn’uno sappia quello che converrà fare e si guardi bene a non contravenire.”
Questo editto si trova ora infisso sotto la Loggia a perenne ricordo! (Gandoglia, op. cit., pp. 279-280
Al termine di via Sartorio, la vecchia linea ferroviaria che attraversava Noli, ha risparmiato l’unica grande Torre ancora alta fino alla sommità, la Torre del Canto, o dei “Quattro Canti”. così denominata perché situata nel centro geometrico della città e all’angolo della via proveniente da monte. Essa è curiosamente trapezoidale e non quadrata, ed è forse la più antica fra quelle conservate, avendo ancora abbondanza di elementi romanici e poche aperture in alto ...”
L'alta torre è a forma trapezoidale con fusto compatto e con rade aperture in stile romanico nella parte bassa.
La chiesa di San Paragorio, prima cattedrale di Noli
Lasciando la piazza e proseguendo per i caratteristici vicoli, si possono raggiungere le varie Chiese del paese, tra cui quella di San Paragorio, dedicata all’omonimo martire giunto a Noli durante il dominio bizantino e che è stata dichiarata monumento nazionale. PRIMA CATTEDRALE DELLA REPUBBLICA S. PARAGORIO
La chiesa, uno dei monumenti protoromanici più importanti della Liguria, sorge fuori dalle mura cittadine ed è circondata da un’area cimiteriale bizantina e altomedievale. Nella sua forma attuale è databile al primo periodo romanico (sec. XI). Gli scavi, avviati nel 1889 da A. D’Andrade, ripresi da N. Lamboglia, fondatore dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri, che proseguono tuttora per opera della Sovrintendenza archeologica della Liguria ed hanno evidenziato, sotto l’attuale edificio, la presenza di una chiesa paleocristiana.
Casa Pagliano. Costruita nel XIV secolo e restaurata nel 1906 da Angelo Demarchi, assistente dell'architetto Alfredo d'Andrade, il suo interno fu notevolmente trasformato in tale rivisitazione. L'esterno si presenta come la tipica casa medievale nolese: un basamento in grossi conci in pietra verde locale e con poche aperture e una parte superiore in mattoni con bifore e trifore. Fu sede delll'Ordine dei Cavalieri di Malta.
Torre e Porta Papona delXIII-XIV secolo. Edificata fuori le mura antiche del borgo e collegata, con un arco in mattoni, al camminamento che scende dal Castello di Monte Ursino, l'edificio fu nei secoli deposito di armi e munizioni della Repubblica. Presenta bifore e monofore in stile gotico.
La Porta Papona, munita di porta ferrata, si trovava di fronte alla Torre omonima. Nei tempi della Repubblica aveva grande importanza strategica, in quanto sbarrava l’accesso al Monte Ursino che fu sempre l’estremo rifugio degli abitanti di Noli in caso di assalti nemici. La Torre (secc. XIII - XIV), con monofore e bifore gotiche, è posta appena fuori della prima cinta muraria (secc. XI - XII) ed è collegata, con un arco in mattoni, al camminamento delle mura che scendono dal Castello. La Torre servì come deposito per le armi e le munizioni della Repubblica. Dai libri dei conti, conservati nell’A.S.N., si può ricavare che, nel 1581 “il maistro Francesco Colombo era intento a chiudere li barchoni della Torre di Papone, ove si mettevano in deposito le polveri, armi e munizioni portate col leudo di patron Benedetto Badetto”. La polvere da sparo si comprava in barili sia a Genova che a Toirano “al prezzo medio di lire 10 e mezza il rubbo”
Il castello di Monte Ursino (XII-XIV sec.)
Inoltre non bisogna dimenticare il Castello di Monte Ursino, situato sulla collina e che può essere raggiunto a piedi o in macchina e le torri medievali “sparse” per il paese. Il Castello di Monte Ursino, nella sua forma attuale, risale ai rifacimenti che Genova volle venissero effettuati, nel 1552, dal Capitano Andrea da Bergamo per adeguare torri e mura ai nuovi tipi di armi da combattimento come, ad esempio, bombarde e spingarde che impiegavano la polvere da sparo. il Castello è formato da un recinto poligonale irregolare che racchiude il poderoso maschio circolare; ai lati sono visibili i resti di due torri più recenti. La collina di Monte Ursino racchiude, però, altri “tesori”. “Occorre ricordare che, prima dello sviluppo dell’abitato al piano, nel sec. XII, il primitivo borgo feudale, al riparo del Castello dei Del Carretto, aveva cominciato a svilupparsi sulle ripide pendici del monte e presumibilmente fin sul mare mediante una serie di costruzioni in grandi blocchi, simili alle «casazze» di Calvisio a Finale; di esse restano numerosi avanzi fra le fasce e gli uliveti inclusi nella cinta del sec XIII”
Le pietre antiche di Noli hanno un fascino misterioso cui é difficile sottrarsi, tuttavia ciò che mi ha colpito maggiormente é la storia ancor più misteriosa del suo più importante ed emblematico personaggio: Antonio da Noli.
Il Monumento alle Scoperte venne costruito nel 1960 a Lisbona per commemorare i 500 anni dalla morte di uno dei più famosi personaggi della storia portoghese: Enrico il Navigatore, uno dei più grandi imprenditori di spedizioni marittime di scoperte.
Costruito ai piedi del fiume, nel quartiere di Belém a Lisbona, si distacca per la sua magnificenza: 52 metri d´altezza. L´opera venne disegnata da José Ângelo Cottinelli Telmo e Leopoldo de Almeida e rappresenta una caravella e tutto il gruppo della marina comandato per Enrico il Navigatore che si situa sulla prua della barca in cemento. Dietro di lui e per ordine di importanza, troviamo altri eroi marittimi che collaborarono alle scoperte.
Una delle cose più interessanti del monumento è che si può esplorare nella sua interezza e ci sono sia delle scale che l´ascensore che vi porteranno fino al sesto piano, dove potrete ammirare tutta la costa del fiume e la regione di Belém.
La costruzione ha due lati, ovest ed est, ma visitare il monumento e vederlo da ponente è un´esperienza indimenticabile,dato che il sole aiuta a far prendere quasi vita ai marinai dell´imbarcazione.
Da Noli a Capo Verde
Il più antico documento in cui si riferisce l'origine di Antonio de Noli afferma che era un navigatore «di nazionalità genovese e di sangue nobile». L'origine genovese del navigatore è stata confermata nel manoscritto antico Famiglie di Genova. Antiche, e moderne, estinte, e viventi, Nobili, e populari trovato nel 2008 a Genova, che descrive il navigatore come membro della stessa famiglia di Giacomo de Noli, il quale nel 1315 divenne membro del Consiglio di Genova "XII –Anziani” sotto il governo del doge Nicolò Guarco. In questa fonte è indicato anche che l'origine della riferita famiglia Noli di Genova "si può supponere dalla piccola città o Castello di Noli".
Si sostiene che Antonio de Noli sarebbe nato intorno al 1419, forse a Serra Riccò, dove esiste da tempi antichissimi una frazione con il nome di Noli, oppure a Voltri (nel tempo di Antonio Noli anch'essa facente parte della Repubblica di Genova). In passato, alcuni autori legati alla città di Noli (ad esempio Gandoglia, 1919) hanno dichiarato che il navigatore è nato a Noli, provincia di Savona. Nondimeno, né documenti né prove sono mai stati presentati a sostegno di questa ipotesi. Gli stessi autori hanno usato il nome “Antonio da Noli” (una versione portoghese del nome), dove "da" avrebbe significato "proveniente” dalla Città di Noli.
Il navigatore è detto anche Anton da Noli, e potrebbe essere la stessa persona conosciuta come Antoniotto Usodimare, anche se l'identità fra i due non è accertata, né universalmente riconosciuta. Inoltre, la maggior parte degli storici ha fatto riferimento al navigatore genovese nella letteratura italiana e internazionale come Antonio de Noli.
Nel 1449, per ragioni politiche, partì da Genova insieme al fratello Bartolomeo e al nipote Raffaele, con tre galee di sua proprietà e si recò in Portogallo per ottenere l'appoggio dell'"infante" Enrico il Navigatore, noto finanziatore di esplorazioni. Su mandato di questi, tra il 1456 e il 1460 esplorò le coste atlantiche dell'Africa, spingendosi ad esplorare le Isole Bijagos, il fiume Gambia e le isole del Capo Verde delle quali, secondo alcuni, fu il vero scopritore nel 1460. In questo periodo navigò anche con Alvise Cadamosto, fatto che contribuì a far crescere l'incertezza sulle attribuzioni delle scoperte.
Nel 1462 ottenne dal re Alfonso V il riconoscimento ufficiale di scopritore delle isole, insieme al possesso dell'isola di Santiago (conosciuta dai navigatori anche come "Isola di Antonio"). Qui venne fondata Ribeira Grande, dove il de Noli si stabilì per avviare la colonizzazione delle isole. Nel 1466 ottenne l'autorizzazione di esercitare la tratta degli schiavi africani. Nel 1472 venne nominato governatore delle isole del Capo Verde.
Durante la Guerra di successione castigliana iniziata nel 1475 i castigliani occuparono le isole di Capo Verde. Antonio de Noli inizialmente rimase come governatore, ma dopo fu preso prigioniero e portato in Spagna. I portoghesi non chiesero il rilascio di Antonio de Noli mentre era prigioniero in Spagna. Dopo essere stato liberato nel 1477 per ordine del re Ferdinando di Castiglia, se ne persero definitivamente le tracce. Non è documentato cosa in concreto successe ad Antonio de Noli e la sua sorte dopo il recupero di Capo Verde da parte dei portoghesi. Il navigatore aveva una figlia, Branca Aguiar e fonti portoghesi riportano che qui il navigatore aveva anche un figlio che lo accompagnò poi nelle campagne di Gambia. Manoscritti che si trovano presso la Biblioteca Malatestiana indicano che il figlio sarebbe stato Simone de Antonio Noli Biondi (Simone “figlio de Antonio Noli”), della famiglia "oriunda" che era arrivata a Cesena alla fine del Quattrocento e aveva comprato seggi nel Consiglio di Cesena, pagandoli in oro. La figlia Branca Aguiar era stata sposata con un nobile portoghese (Dom Jorge Correia de Sousa, fidalgo da casa real) e quindi le piantagioni dei de Noli a Capo Verde sarebbero diventate patrimonio della Corona portoghese.
Il nome "Antonio da Noli" è stato dato ad un cacciatorpediniere della Regia Marina italiana (vedi foto) che operò durante la seconda guerra mondiale e ad una nave freight-liner della Società di Navigazione ITALIA di 11.245 TSL in servizio di linea tra Genova e Vancouver via Canale di Panama dal 1972 al 1979.
Nel 2009 è stata fondata a Serra Riccò (Genova) dal professore universitario svedese Marcello Ferrada de Noli la rete di ricerca internazionale Antonio de Noli Academic Society.
Carlo GATTI
Rapallo, 4 Dicembre 2014
Ö DRIA de Pegi: l’Andrea di Pegli
Ö DRIA de Pegi: l’Andrea di Pegli
‘Na nuvia un pö ciù larga,
na giornâ de maccaja
e o cheu ti l’ae in ti pê.
Libera traduzione: Una nuvola un po’ più larga, una giornata di tempo umido e afoso, e il cuore ce l’hai nei piedi.
Questi versi, di Vito Elio Petrucci, ci fanno capire quanto la gente di mare sia sensibile al mutare del tempo.
I vecchi marinai sono sempre riusciti a prevederlo, confortati dalla saggezza dei proverbi che, come tutti gli adagi, sono il filtrato d’antiche esperienze riferite a fatti che, in pari condizioni, si ripetono eguali nel tempo.
Anni fa, a questo riguardo, ho conosciuto un vero fenomeno di nome Andrea; Dria, in dialetto.
Pegli, località che abbiamo visto essere stata sino al 1932 Comune a sé, poi inglobato ad altri per dare vita alla “Grande Genova”, possedeva, fino a pochi decenni fa, le più ampie ma anche le più attrezzate spiagge della Città, rese accoglienti anche da un invidiabile clima tanto che il Graviers, nella sua <Guide de Gênes > del 1837, la definisce <lieu charmant >.
Da prima le frequentarono alcuni regnanti europei con le loro corti, arricchite dagli immancabili cortigiani e, a decrescere anno dopo anno, da prima la nobiltà quindi i grandi industriali, i cui rampolli rappresentavano possibili e ambiti “partiti” per nobili dal nome orecchiabile ma dal patrimonio dilapidato ed, in fine, la solida, oculata e ricca borghesia.
Il parco di Pegli
Al Lido di Pegli c’erano le più ambite spiagge perfettamente attrezzate, protette dalla vista della retrostante ferrovia da un’ininterrotta fila di cabine balneari, l’una a seguire l’altra. Solo il diverso colore dava a capire a quale stabilimento appartenessero; il vasto antistante arenile permetteva di essere arredato con tutte le indispensabili attrezzature.
Ciascun stabilimento aveva la sua classica veranda che facilitava gli incontri, protetta da finestrate decorate con formelle di vetri dalle variopinte trasparenze, disposti a scacchiera secondo la moda dèco dell’epoca; il sole vi filtrava creando atmosfere esotiche.
Sempre lì si potevano gustare piatti locali, preparati alla casalinga, in cucine improvvisate sul retro e, sovente, la giornata finiva con “intrattenimenti danzanti”.
In mare galleggiavano, ancorate al fondale, boe rettangolari di legno colorato come le cabine, raggiungibili a nuoto e, una volta arrivati, con la scusa di riposarsi, possibilmente, cercare di “rimorchiare”; i più bravi si esibivano tuffandosi dai giganteschi trampolini protesi a superare la battigia. Sorretti da grosse ruote che li slanciavano verso l’alto, erano talmente lunghi che la loro punta arrivava sul mare sino a dove è abbastanza profondo da consentire, ai più spericolati, di tuffarsi in armoniosi voli come fossero angeli, fra gli<hoo> d’ammirazione delle signore. In fine le immancabili seggiole a sdraio allineate, quasi pennellate di colore sulla chiara arena che, con il variare del loro cromatismo, segnalavano anch’esse il cambio di stabilimento. Una staccionata colorata, divideva l’uno dall’altro.
In quella zona l’abbondanza di profonde e lunghe spiagge ne decretò il nome; il Lido.
Il mare vi espletava il suo equilibrato apporto di sabbia secondo una millenaria paritetica ripartizione, grazie all’eterno lavoro di ripascimento. Da sempre le burrasche di scirocco prelevavano il materiale inerte, eroso e trascinato a valle dai vari corsi d’acqua che sfociavano alla destra della zona interessata per depositarlo sulle spiagge limitrofe mentre, la successiva mareggiata, quella di libeccio invece ne distribuiva altro lungo la costa situata alla sinistra delle foci stesse.
Quest’indispensabile alternativo lavorío di trasporto e deposito degli inerti, residui dei fiumiciattoli e dei rivi, una volta a manca e la successiva a destra, s'interruppe quando l’uomo ha ridisegnato, alterandolo, il naturale profilo del territorio, costruendovi dighe, tombando tratti di mare, realizzando dissennate barriere protettive per non farsi portar via ciò che ormai aveva mal costruito. L’insieme di queste sconsiderate opere artificiali, ha sconvolto le correnti marine del paraggio con il risultato che le varie mareggiate, non potendo più apportare nuovi inerti prelevandoli da dove si depositavano, li sottrasse alle ultime spiagge rimastre, fagocitandosele.
Il Dria, che io ho sempre conosciuto anziano, asseriva d’aver, fin da ragazzetto (ma lo sarà mai stato?) navigato questo mare, dapprima come mozzo e poi in qualità di marinaio, imbarcato sui “leudi” o le “bilancelle” che esercitavano il piccolo cabotaggio, lungo la costa che proprio lì vicino aveva un pontile per lo scarico. Poi il fratello, più anziano, lo convinse a sbarcarsi e a dargli una mano nella conduzione dei Bagli Lido, quelli un tempo situati ai piedi del Castelluccio di Pegli, il fortilizio anti-pirati.
Accettò e in quello stabilimento balneare visse tutto il resto della sua vita, nel senso più letterale del termine perché lì vi abitò stabilmente. Aveva, come un tempo si diceva, le “mani d’oro” e a tutto provvedeva lui; si vedeva sempre attivo fra quelle dritte sfilate di cabine colorate, allineate come Guardie della Regina in estiva immobile parata. Raramente parlava e, quando lo faceva si esprimeva in dialetto; impossibile quindi per lui comunicare con i clienti “furesti”, prevalentemente lombardi o piacentini, all’epoca frequentatori assidui delle spiagge del Lido di Pegli. Schivo com’era la cosa non lo rattristava; lui non li capiva, né loro, lui. Ciò non di meno era da tutti ben voluto perché, anche senza parlare, come capita a chi intuisce d’istinto, preveniva i loro desideri.
Era un taciturno dal breve corpo tozzo e asciutto, forte e nodoso come un ulivo di Liguria; come un capo branco, fiutava in anticipo ogni mutare del tempo, pronto ad intervenire. Avrebbe potuto fare suoi, se avesse saputo leggere, i versi del più noto e sensibile fra i poeti genovesi, Edoardo Firpo, là dove scrive:
No so s’à cante o s’à cianze:
l’anima mae a l’è unna spunda
dove quest’onda a se franze.
Libera traduzione: Non so se canta o pianga: l’anima mia è una sponda dove quest’onda si frange.
A lui, effettivamente, bastava vedere come si dissolvessero, rincorrendosi, le nuvole o come volavano i nevrotici gabbiani emettendo rauchi richiami o, addirittura, che tipo di pesce in quel momento abboccava all’immancabile pescatore, accosciato su uno dei massi di pietra buttati per difendere dall’erosione la retrostante ferrovia, per prevedere il tempo dell’indomani.
La sensibilità acquisita negli anni, gli permetteva di averne conferma anche osservando l’angolo che la schiuma dell’onda forma quando, omai smorzata, pigramente raggiunge, scivolando sulla rena, la riva e s’interseca con quella di ritorno, giusto un attimo prima che quest’ultima venga risucchiata dalla sabbia della battigia. Quei segnali gli erano sufficienti per cominciare a porre in salvo tutti gli arredi che la imminente mareggiata poteva ghermire o distruggere; e anche i colleghi, concorrenti, erano attenti al suo andarivieni con, sotto le braccia, fasci di sdraio ripiegate e ombrelloni richiusi. Quello era la conferma che il tempo si metteva al brutto; lui non aveva mai sbagliato e loro lo sapevano. Altro che gli attuali satelliti.
Quel suo volto asciutto, brunito dal sole, con l’eterna barba del giorno prima, non l’ho mai visto rasato, ma neppure con la barba lunga, quel naso adunco, testimonianza d’antiche scorribande saracene con le donne della costa, non lasciava mai trapelare emozione alcuna.
Una brutta notte però, il mare, esasperato dai folli lavori dell’uomo che gli contrastavano il suo inestinguibile ripetitivo moto, senza preavviso, si portò via tutti gli stabilimenti balneari della zona, Bagni Lido compresi, portandosi via pure, irrimediabilmente, la spiaggia che da sempre ripasceva.
Purtroppo “ö Dria” aveva imparato a leggere perfettamente la natura ma, ahinoi, non i giornali, che proprio in quei giorni sbandieravano, con trionfalistica enfasi, la notizia che l’uomo ancora una volta aveva vinto il mare, strappandogli le onde e colmando quella ferita con la terra. L’uomo, presuntuoso e maldestro imitatore del Creatore, non si accorgeva che stava squassando irreparabilmente un equilibrio, messo a punto dopo millenni di prove.
E’ l’eterno apparentemente indecifrabile rapporto fra l’uomo e il mare; prendiamo in prestito i versi di Gabriele Dannunzio, poeta che visse il mare, e leggiamo:
là dove le coste
sono più scoscese
e il flutto più rimbomba
nelle caverne più nascoste
con le eterne risposte
alle eterne domande
Renzo BAGNASCO
Rapallo, 3 Dicembre 2014
LA TRAGICA FINE DELLA BALENIERA ESSEX
LA TRAGICA FINE DELLA BALENIERA ESSEX
ISPIRO’
L’AUTORE DI MOBY DICK
A partire dal 1400, i coraggiosi pescatori baschi furono i primi a cacciare le balene con agili scialuppe che, una volta arpionati i capodogli, avevano anche il compito di rimorchiarli a terra. In seguito i cetacei scelsero rotte più lontane per evitare gli agguati sotto costa e i pescatori, diventarono “marinai d’altomare” per poterle inseguire utilizzando Karake alte e potenti della lunghezza di 20 metri. Più tardi queste imbarcazioni furono sostituite dalle Caravelle dotate di maggiore manovrabilità e capacità di stivaggio. Tra il 1700 e il 1800 la caccia ai cetacei immortalata da Melville, raggiunse il suo apogeo e la tipica nave-baleniera acquisì il suo shape definitivo. I primi Sloops ad un solo albero furono costruiti e armati a Nantucket nel 1715, ma in seguito, come accadde alcuni secoli prima in Europa, le zone di caccia si estesero per tutti i sette mari. Fu così che l’Oceano Pacifico diventò la nuova meta dei cacciatori di balene, ma per superare le insidie di Capo Horn occorrevano baleniere a tre alberi di almeno 400 tonnellate, con una capacità di stivaggio idonea per affrontare campagne di pesca della durata di 3-4 anni.
Quando, il 6 settembre del 1841 il Charles W.Morgan (nella foto) salpò per il suo viaggio inaugurale dal porto di New Bedford, nel Massachusetts; erano trascorsi solo nove mesi da quando un’altra nave, la baleniera Acushnet aveva imbarcato per la sua prima esperienza di caccia un giovane scrittore: Herman Melville. Oggi, quel che di più tangibile resta dell’epopea delle baleniere americane è quanto di vero Melville scrisse in “Moby Dick“, e poi c’è la Morgan, ultima superstite di una flotta che contava 2700 navi dedicate alla sola caccia ai cetacei.
Ma se vogliamo farci un’idea più precisa dobbiamo salire a bordo di una qualsiasi baleniera ed ascoltare il narratore:
“Il ponte della nave era soggetto a rapido deterioramento vista l'azione di bollitura del grasso di balena e dello squartamento dei cetacei, effettuato con pale estremamente taglienti. All'arrivo nelle zone di caccia sul ponte principale veniva eretta una piattaforma di mattoni sulla quale erano poste grandi marmitte metalliche (in genere 2) e un recipiente di raffreddamento pieno d'acqua per cercare di limitare gli effetti del calore. Al termine della caccia, riempite le stive, il forno veniva demolito: questa circostanza era accompagnata da festeggiamenti dell'equipaggio. Le baleniere erano prevalentemente di colore nero, con una striscia bianca su entrambi i fianchi intervallata da riquadri neri, disegnati per simulare alla distanza la presenza di bocche da fuoco, onde prevenire in qualche misura attacchi”.
Nel 1820 la baleniera ESSEX, che faceva compartimento Nantucket-USA, entrò in collisione con un enorme capodoglio. La tragica storia che ne seguì, pare abbia ispirato il più celebre narratore americano Herman Melville per il suo Moby Dick.
Pollard, il comandante della Essex, era incappato in mari poco pescosi, le stive della baleniera erano quasi vuote e il grasso di balena era molto richiesto per l’imminente inverno. Dalle coste atlantiche di Nantucket era necessario passare dall’altra parte, nell’Oceano Pacifico, ma era pur sempre una sfida infernale. Nessuno era mai riuscito a doppiare Capo Horn senza soffrire le pene dell’inferno e Pollard ne ebbe la conferma, ma ci riuscì senza danni eccessivi ai tre alberi e all’attrezzatura di bordo.
Scampato il pericolo dei “Quaranta Ruggenti”, risalì per meridiano le coste spelate del Cile e poi si spinse al largo dell’Oceano verso rotte solitarie, forse mai navigate, alla ricerca del carico più prezioso che il mare poteva offrire due secoli fa: una grande balena, la cui cattura non era mai gratuita. Dopo settimane e settimane di snervante “niente in vista”, improvvisamente si sentì un urlo partire dalla coffa, il marinaio di vedetta aveva avvistato una grande famiglia di capodogli.Il comandante Pollard toccò il cielo con un dito: fece calare tre scialuppe-baleniere e ordinò agli equipaggi d’inseguire quel branco entrato, in quel periodo, nella stagione degli amori.
La lancia più veloce mise la prua su un enorme maschio di capodoglio che si fece astutamente raggiungere per attirare su di sé il predatore. L’esperienza dei marinai di Nantucket non fu sufficiente ad evitare la tremenda collisione che li fece volare insieme ai loro remi e alla scialuppa che nella ricaduta si capovolse e finì in pezzi sulle loro teste. Due uomini si salvarono a nuoto e furono recuperati a stento dai marinai terrorizzati delle due altre lance che accorsero immediatamente.
Il capodoglio fece un ampio giro, poi mise la ESSEX nel mirino, prese la rincorsa e si scagliò con la sua incredibile massa verso il fianco della nave-officina procurandole una “tragica” falla. L’equipaggio sotto schock non sapeva come reagire, ma la balena si.
L’enorme cetaceo riemerse nuovamente e con la stessa potenza devastante colpì ancora una volta la già ferita ESSEX colandola a picco con i marinai che non fecero in tempo a saltare sulle lance.
Passati 78 giorni dal naufragio, i 20 superstiti approdarono fortunosamente sulla spiaggia dell’atollo di Henderson. Purtroppo, in breve tempo esaurirono le scorte di frutta e di acqua, quindi decisero di ripartire lasciando tre compagni sul piccolo atollo nell’attesa d’improbabili soccorsi.
L’Oceano chiamato Pacifico dimostrò ancora una volta di essere calmo, ma letale. Un crudele destino era alle porte di quella sfortunata spedizione. I naufraghi, estremamente indeboliti e senza una attendibile posizione nautica, andarono alla deriva con le loro lance cominciando a morire di sete e di fame. La disperazione mista a follia li spinse al cannibalismo dei compagni morti e quando anche questa risorsa si esaurì, si convinsero della necessità di una terribile, estrema soluzione: uccidere un compagno, estratto a sorte e mangiarne il corpo. Così fu, perché così fu raccontato dal capitano e da Owen Chase quando, finalmente, 300 miglia al largo delle coste del Cile, una nave salvò i due sopravvissuti.
Il rimorso per il cannibalismo e il tragico sorteggio avrebbe segnato il resto della vita degli uomini sopravvissuti. Il resoconto di uno degli otto superstiti, Owen Chase, sconvolse il pubblico ottocentesco: in particolare colpì Herman Melville, che ne trasse ispirazione per Moby Dick, la storia della Pequod, anch'essa salpata dal porto di Nantucket.
L’impari lotta degli uomini di mare contro le tempeste, il freddo, le malattie, l’ombra della morte che saltella sui pennoni nell’attesa di scagliarsi sulla prossima vittima, l’impercettibile cima della sopravvivenza cui si aggrappa la ciurma disperata, altro non sono che la realistica parabola sul destino umano. Il Dio dei marinai di Nantucket li rende padroni del mare e delle sue creature, ma pone anche un limite al loro orgoglio scagliandoli negli abissi dell’oceano, oppure trasformandoli in vermi costretti a nutrirsi della loro stessa carne.
Carlo GATTI
Rapallo, 28 Dicembre 2014
DONNE
Donne
E sedutosi davanti al tesoro (Gesù) osservava come la folla gettava monete nel tesoro; e tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a se i discepoli, disse loro: <In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri, poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere.>
Marco, 12,38-44
Questo è ciò che anch’io penso delle donne e della loro generosità.
Non ne ho parlato molto in questi miei ricordi, non perché, ininfluenti, abbiano attraversato la mia vita, anzi; se la vivo serena, è anche grazie alle straordinarie figure femminili che ho avuto la fortuna di incontrare, da mia madre a mia moglie sino all’ultimo sempre al mio fianco, anche in quanto ho qui scritto, ma perché, ragazzo a quel tempo, ci si soffermava meno sull’altro sesso, imbevuti com'eravamo di “fascistico” maschilismo. Avanzando negli anni, capii che, come ricordava l’affascinante attrice Michèle Morgan, sono loro <…che sempre pagano un prezzo più alto >.
Volendo rendere omaggio a tutte sotto una visione laica, mi limiterò a ricordare quelle del tempo di guerra perché, proprio in simili situazioni estreme, emergono le qualità essenziali; furono leonesse nel portare avanti il loro ruolo di perpetuatrici della specie.
E’ provato statisticamente che nove mesi dopo luttuose calamità, c’è un incremento della natalità; è l’uomo che, a fronte di tanta morte o paura, tenta, a volte anche inconsciamente, di rilanciare la vita come fa l’albero che, prima di morire, produce in un ultimo sforzo vitale, più frutti e quindi più semi, così da assicurare la continuità alla specie.
E’ difficile parlare di loro senza cadere nell’ovvio o nel moralismo, ma una cosa va detta: l’Italia, spaccata in due e abitata da italiani ormai fuori di senno, senza alcuno che facesse rispettare la legge, occupata da stranieri che in casa nostra si combattevano e ci combattevano, grazie alle donne, ha continuato a vivere.
Le famiglie, ancorchè smembrate da forzate assenze d’alcuni suoi componenti, non si sono sfasciate per loro merito e le hanno traghettate sino ai giorni nostri, sopperendo alle assenze maschili, sostituendole in casa, nel lavoro e nella scuola, rivelando una combattività fino allora insospettata.
Oggi, passata l’emergenza e dimenticandosi alcuni cosa seppero fare quelle donne per salvare la famiglia dallo sfascio, accompagnando per mano quei bambini sino a divenire uomini, oggi dicevamo auspicano di poter impunemente sostituire quel coagulante con non si sa quale alternativa.
Noi figli, nonostante crescessimo in quel caos generale che per quanto se ne parli oggi, resta inimmaginabile, siamo stati, al limite dell’impossibile, accuditi e dalle nostre madri abbiamo appreso ancora i vecchi principi fondamentali che ora, in tempo di benessere, sono messi in discussione, se non dimenticati da chi ci ha seguito. Quell'educazione si rivelò preziosa per il nostro equilibrio, facendoci sperare e stimolandoci, fin da allora, a credere e, appena possibile, a dar vita ad un domani migliore anche se, quotidianamente in quei tempi, i violenti con il loro agire, parevano smentirle e disattenderle.
All’epoca della Repubblica di Salò, negli ultimi tempi della guerra, uscendo da casa, potevi incappare in uno sconosciuto morto ammazzato in strada; era consigliabile non fermarsi per recitare anche una sola preghiera perché, con quel gesto d’umana pietà potevi, platealmente e senza neppure volerlo, dare l’impressione agli esecutori di non condividere le motivazioni di quell’uccisione; agli occhi degli altri invece, saresti stato “etichettato” e perseguito assieme alla tua famiglia, quale sostenitore della parte che lo aveva ucciso, anche se a te, quest’ultima, continuava ad esserti realmente ignota. Vicino a quei morti ho sempre visto una qualche donna pregare piangendo.
In tutto questo sovvertimento di valori umani, si possono anche capire se non giustificare, quelle donne che si dettero agli occupanti tedeschi, non certo per condivisione della loro fede politica o per accettazione ideologica della dittatura; molte v’incapparono nella ricerca di un contatto, che poi si rivelò galeotto, atto a poter liberare il congiunto appena caduto in una retata cittadina, attuata per catturare forze di lavoro da deportare in Germania a sostituire i lavoratori tedeschi inviati al fronte, o peggio, solo per eseguire una rappresaglia vendicativa.
Altre, irretite da promesse rivelatesi poi mendaci, pensarono di rendersi utili ai parenti “internati” nei lager (all’epoca, non si sapeva cosa realmente succedeva in quei campi) dimostrandosi compiacenti con gli occupanti sperando di, attraverso questi, influenzare i loro camerati aguzzini, per permettere almeno di far arrivare colà, aiuti e corrispondenza.
Questa disponibilità finiva con il “rompere il ghiaccio”, anche fin troppo, fra le parti. Gli occupanti potevano apparire, agli occhi di chi aveva bisogno di tutto per vivere che, attraverso loro, si sarebbe anche potuto tentare di alleviare le sofferenze dei loro cari “internati”. In molti casi, in quei giorni, gli occupanti parevano detenere tutto ciò che esse ritenevano vitale. In fine c’è anche l’altro aspetto che non và sottaciuto; tutti gli uomini validi erano da troppo tempo lontani da casa e, si sa, la carne è debole. A loro volta gli stessi occupanti avevano dovuto lasciare le loro famiglie, e sapevano anche che anche là quotidianamente venivano bombardate. Solo dopo si seppe cosa realmente, in quei giorni, stava succedendo in Germania; mio zio Mario, lavoratore deportato, “aggiustatore” dalle mani d’oro, seppe rendersi utile in mille frangenti. Quante volte, il giorno dopo l’ennesimo bombardamento, veniva inviato a riassestare le case bombardate dove incontrava vedove bianche, a loro volta disponibili.
Finita la guerra, quelle che avevano ingiustificatamente perso la testa furono, dai partigiani, arrestate, insultate ed esposte al pubblico ludibrio, dopo essere state rasate e aver loro imbrattato con pittura il cranio nudo; venivano poi fatte sfilare per le strade e tutti si sfogavano ad insultarle o peggio. In quelle occasioni, come sovente capita, le più implacabili accusatrici furono spesso le altre donne, quelle la cui condotta, nel frattempo, non era certo irreprensibile con gli ultimi arrivati, i “liberatori”.
Generalmente, le prime, venivano rinchiuse per qualche giorno in guardina e, dopo averle sommariamente processate e redarguite, rispedite a casa, additandole come <puttane >.
Quelle invece che si portarono, in letti del tutto simili, i “liberatori”, sono passate alla cronaca dell’epoca con l’accattivante nomignolo di <segnorine >. Entrambe però furono spinte, forse senza neppure saperlo, dalla necessità di riconfermare il trionfo della vita sulla morte, andando assieme al maschio, in quel momento, “dominante”. Questo, di massima, era la situazione che poi, caso per caso poteva anche avere altre motivazioni.
Non intendo dare giudizi morali perché racconto cose viste e memorizzate con gli occhi di un ragazzo cresciuto, per alcuni anni, in mezzo alla morte, al dolore, alle privazioni e alla paura; bisogna inquadrare tutto in quel particolare momento storico e psicologico in cui spesso non era facile ravvisare il bene dal male, il torto dalla ragione e il falso dal vero. Eravamo troppo affamati, terrorizzati ed assonnati per poterlo nettamente percepire.
E tutte le altre donne? Come sempre capita a chi, in silenzio, compie il proprio dovere, la quasi totalità soffrì a casa, tacitamente cercando, nei limiti del possibile, d’essere punto di riferimento, supplendo così anche chi era forzatamente assente; stettero, finché fu loro possibile, vicino ai propri uomini, non facendo loro mancare la propria presenza ogni qual volta ve ne fosse l’opportunità.
Contrariamente alla guerra “15/18”, quest’ultima portò il fronte in mezzo alle nostre case e nelle nostre strade; anche qui si poteva morire a causa dei continui bombardamenti o per mano di avversari fuori di senno, soffrendo disagi, spesso paragonabili a quelli di chi combatteva. E le donne, eterno punto di riferimento, passarono attraverso quest’immane tempesta, preparando noi ragazzi, nell’attesa del ritorno dei padri sopravissuti, ad affrontare il dopoguerra senza mai perdere di vista i veri valori dell’uomo, mai come in quei giorni così travisati e calpestati.
In questo ricordo è giusto accomunare le donne della gente di mare che a Genova, ed in Liguria in generale, terra di marittimi, sono sempre state numerose. Se pur allenate a lunghi periodi di forzata separazione, in tempo di conflitto quella trepidazione divenne incubo continuo perché le notizie negative o, quanto meno contraddittorie, fornite dai vari bollettini radio, che per ragioni di segretezza frammista alla propaganda, censuravano i dettagli, non indicando mai dove erano realmente avvenuti gli attacchi che stavano segnalando ne sapevano dove quel giorno stava navigando il loro congiunto. Nell’indeterminatezza, ognuna poteva pensare di aver perso il familiare e, quindi tutte indistintamente, n'erano coivolte; né contribuiva a confortarle il nostro servizio postale, cronicamente inefficiente ma che in tempo di guerra, ove possibile, lo era ancor più.
Quelle poche lettere che riuscivano ad arrivare, moltissime andarono distrutte per causa di eventi bellici, avevano molte righe cancellate da un impenetrabile largo segno nero, specie in quei passaggi che indicavano luoghi o date ma anche semplici espressioni di sconforto o disappunto a riprova che l’unica cosa da noi funzionante efficientemente era la censura fascista che, in questa specifica attività, faceva faville.
Molte volte gli scriventi tornavano prima che giungessero le loro ultime lettere ma, troppo spesso, succedeva che quelle ferali del Ministero fossero recapitate alla famiglia dai Carabinieri, magari un attimo dopo aver finito di leggere la tanto attesa lettera, consegnata poco prima dal postino tradizionale e firmata da chi, nonostante tutto, continuava a scrivere di credere in un avvenire migliore da edificarsi a fine guerra.
In ultimo, non posso non ricordare tutte quelle donne ebree, madri o spose che, pur di non distaccarsi dalla propria famiglia, decisero spontaneamente di imbarcarsi esse stesse sui treni che deportavano nei lager i loro cari e poi, contemporaneamente ad essi, ma in campi rigorosamente separati, soccombere.
Tutto quello che ho scritto è frutto di ciò che oggi rivedo come se stessi guardando uno sfocato dagherrotipo; come quello, anche la memoria non è sempre di facile “lettura”. Posso anche aver descritto cose che, pur nella più completa buona fede, la patina del tempo che sbiadisce ogni cosa, mi può aver fatto travisare; perdonatemi, sarà l’età e l’infinito amore per questa mia Liguria.
Volendo fare un bilancio della mia vita devo dire che fu varia e senza insormontabili mutamenti; questo grazie alle persone che mi sono state attorno. Mio padre mi ha dato esempio di retta onestà e mia madre di profonda e partecipata fede. Per parte mia posso essere onorato d’aver vissuto accompagnato da pochi veri amici ma per me importanti, due dei quali sono oggi tumulati nel Famedio dei Genovesi Illustri a Staglieno.
Un solo grande, incolmabile rimpianto è quello di aver perduto, negli ultimi chilometri che mi rimangono da percorrere, la insostituibile compagnia di mia moglie. Il destino, insensibile ai miei desiderata, ha dato invece corso al proprio programma già predeterminato.
A tutte loro dedico questa poesia di Vito Elio Petrucci, il poeta che mi ha è stato amico per una vita:
FIN CHE NO TI SENTI
Fin che no ti senti
in te’na notte de lunn-a
l’ödô do limoneto
derrê a-a muagetta:
allöa l’è primmaveja.
Gh’è drento tutti i peccoei do mondo
E a coae de fâne di atri.
Allöa lìè primmaveja, pe accorzise
Che appreuvo a quello fî d’äia döçe
( o gusto ti o senti in bocca)
Gh’è o segreto de ‘na natüa
Che de peccòu in peccòu a fa cammin.
Libera traduzione: Finché non senti in una notte di luna l’odore del pittosporo dietro al muricciolo: allora è primavera. Ci sono dentro tutti i peccati del mondo e la voglia di farne degli altri. ■ Allora è primavera per accorgersi che dietro a quel filo d’aria dolce (il gusto lo senti in bocca) c’è il segreto di una natura che di peccato in peccato fa cammino.
Renzo BAGNASCO
foto del webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 28 dicembre 2014
SANTA MARGHERITA L. e la Guerra '15-'18
SANTA MARGHERITA
la guerra ’15 -‘18
<Santa Margherita è forse, in inverno, la stazione climatica che gli Inglesi e i Teutonici amano di preferenza affollare. Quando imperversa con la calura la torrida estate, non è italiano che non vi trascorra qualche giorno per tuffarsi nelle glauche acque del Tirreno. Si leva nel golfo di Rapallo come una ninfea voluttuosa, in una baia ridente, protetta da tutte le furie di Eolo. Santa Margherita accoglie oggidì nei suoi alberghi di primo ordine tutte le categorie degli errabondi che lasciano le nordiche case e si installano in questa riva magica che il dattero di oriente profuma, maturando >.
Trascrizione integrale nella quale é difficile ritrovarsi oggi, ma così appare nel volume <Liguria > della collana “Bellezze d’Italia” con tanto di dedica bene augurante, posta sotto il ritratto a tutta pagina in apertura del libro, firmata da Benito Mussolini; era il Gennaio del 1924.
In quegli anni, qualche italiano turista era possibile ci fosse; solo quei pochi che se lo potevano permettere erano accomunati ai nordici, compreso il brivido dell’avventura di <solcare i mari >, anche se in realtà si limitavano a circumnavigare i capi del golfo del Tigullio su motoscafi privati, gli unici che all’epoca facessero servizio a noleggio. Fino ai primi decenni del ‘900, quel golfo, com’è facile intuire, era meta di un turismo di élite, per altro anche l’unico in circolazione all’epoca, nonostante sia scritto <..non è italiano che..> nel libro menzionato.
Papà, giovanissimo appassionato di motori e di salsedine, comandava, guidava e manuteneva uno di quei battelli e accompagnava i clienti a vedere quelle che D’Annunzio, in “Elettra”, descrive come:
le rupi che nel mar di Liguria
si protendono come sfingi
coronate di fiori!
Il servizio di battelli che oggi trasportano masse di gitanti, non esisteva ancora, così come, lo abbiamo detto, non esistevano per altro neppure le “masse di gitanti” che potessero permettersi il lusso di esserne trasportati.
Ogni qual volta navigo in quelle acque, non posso dimenticare quanto mi raccontava, di quel poco che ha voluto dirci della sua vita, mio padre a proposito di una decisione, per lui giovinetto, importante.
Nel 1915, appena ventenne, decise di lasciare l’ottimo posto di lavoro che aveva presso gli stabilimenti Ansaldo per seguire, volontario, i suoi più anziani colleghi che, invece, erano stati chiamati alle armi per combattere nella “grande guerra”, già scoppiata; “grande” la si definì solo alla fine anche se, come per tutte le guerre, sarebbe stato più consono definirla “immane”.
Prese quella decisione perché aveva ritenuto ingiusto restare a casa, magari facendo pure carriera grazie alla loro assenza, anche se la Direzione dell'Ansaldo aveva per lui ottenuto l’esenzione dal servizio militare. Era ritenuto, per certe sue intuizioni migliorative della produzione, indispensabile, perché capace di risolvere problemi normalmente ovviabili solo dopo lunghi studi a tavolino; in tempo di guerra la velocità può rivelarsi decisiva.
Venuto a conoscenza che il figlio “dandy”, prediletto e viziato dalla madre, una nobildonna milanese sua assidua cliente ai tempi del cabotaggio, era stato chiamato alle armi, prese contatti con la signora stessa, ponendosi a sua disposizione.
All’epoca, per essere graduati, non era indispensabile un titolo di studio; si poteva ovviare portando in <dote > un’attrezzatura che fosse ritenuta utile per la patria in armi. Entro certi limiti, si aveva diritto ad un grado proporzionale all’apporto offerto; poteva essere valido già un cavallo, per poi salire ad una moto, un’auto, un camion, un motoscafo sino ad arrivare all’ambitissimo aeromobile, in quei tempi agli esordi.
La signora, conoscendo la serietà e le capacità tecniche di mio padre, acquistò per il figlio un motoscafo e lo equipaggiò anche con un pilota-meccanico di prim’ordine, in modo che potesse fungere da angelo custode al figlio e garantire, nello stesso tempo, un’efficiente manutenzione all’imbarcazione: papà, per l’appunto.
Subito il “signorino” fu nominato Ufficiale e aggregato al Comando della Marina a Venezia dove, libero dalla presenza vigilatrice della madre, si dette alla bella vita con i “soldi di mammà”. Mio padre avrebbe dovuto fargli da attendente-pilota ma, una volta arrivati a destinazione e trovato per “l’armatore” una comoda sistemazione al Lido, noblesse oblige, domandò e ottenne di potersi aggregare, barca al seguito, a Chioggia, con compiti operativi. D’altro canto lui era lì per combattere, purché sul mare, e questo intendeva fare. All’epoca era in auge D’Annunzio con il suo dire:
Il mare è la mia patria, la patria dei liberi.
Era spesso inviato a risalire il Piave o l’Isonzo, per missioni di guerra; appena calata la notte doveva trasportare, oltre gli avamposti austriaci, gruppi di <arditi > assalitori con il compito di neutralizzare silenziosamente, usando solo pugnali e corti cavetti d’acciaio, gli occupanti di certe postazioni nemiche che, durante il giorno, avevano dato del "filo da torcere" agli alleati. Poi, prima del rischiarare dell’alba, in ora e sito stabilito, doveva recuperarli per riportarli alla base; moltissime volte, purtroppo, il motoscafo ritornò semivuoto. Normalmente, non appena rimbarcati i presenti all’appuntamento, sfruttando la corrente discendente del fiume per ridurre al minimo il rumore dei motori, a luci spente, iniziava il ritorno fra sponde infide.
Nel tentativo di far recuperare agli arditi le perdute e intirizzite energie, preparava sottocoperta delle spaghettate; a mano a mano che le missioni s’intensificavano, sempre più spesso quel pasto caldo serviva a sedare frequenti incontrollabili tremori. L’acqua per cuocere l’attingeva direttamente dal fiume e, raccontava che, in occasione della ritirata di Caporetto, era insolitamente rossastra tanto che era difficile trovare un’ansa dove l’acqua non fosse insanguinata.
Per il suo coraggio e la sua capacità lo addestrarono per partecipare alla <Beffa di Bucari > in qualità di riserva ma, alla fine, non venne chiamato.
Suo fratello, poco più anziano di lui, era anch’esso combattente ma “fantaccino pesta fango” sul Carso; quest’ultimo, uomo di tutt’altro carattere rispetto a quello di papà, pragmatico, disincantato e da sempre un mattacchione mai ligio alle norme, aveva avviato, in prima linea, un fiorente commercio d’alcolici, arrivando persino a barattarli con il nemico, facilitato in questo dalla sedentarietà prolungata delle reciproche postazioni, tanto che certuni, pur su fronti opposti, avevano installato fra loro un certo dialogare.
La bevanda più compravenduta era la grappa che, se fraudolentamente distribuita prima d’ogni assalto in misura leggermente inferiore al prescritto, gli permetteva di commerciarne il residuato surplus.
Un giorno papà decise di dedicare un permesso ottenuto, andando a trovarlo, così da poter poi mandare notizie alla loro madre che, in ansia e in preghiera, a casa attendeva. Partì per il Carso con lo stesso spirito, ho motivo di credere, con il quale oggi partiremmo per un fine settimana fuori porta; giunto in prima linea, non faticò molto a farsi indicare in quale trincea avrebbe potuto trovare il fratello, tanto il personaggio si era fatto conoscere. Stanco del viaggio e non trovandolo si accoccolò, per attenderlo, nella “tana” che il fratello si era ricavata fra le rocce e, qui, si addormentò.
Lo svegliò un fastidioso raggio di sole che, all’improvviso, filtrò dal pezzo di sacco assurto a tenda d’ingresso; nello sbirciare, focalizzò contro luce, un Capitano che, scostata la tenda, stava entrando. L’abitudine lo fece balzare in piedi di scatto, ancorché semistordito dalla stanchezza e dal sonno, mentre tentava di qualificarsi perché si rendeva conto che, per quello, non era usuale incontrare un marinaio sul Carso senza adeguata giustificazione. Subito però riconobbe nei panni del graduato suo fratello che, con sottobraccio una botticella gli spiegò, con la più invidiabile naturalezza, che stava per l’appunto tornando da una missione “commerciale”.
Una volta dentro, si sfilò dal berretto cilindrico, tipico degli ufficiali di quella guerra e immortalato nelle foto di Vittorio Emanuele III, il re soldato, i galloni che erano formati da cerchi in passamaneria “coda di topo” dorata, tanti quanto il grado imponeva, e appendedoli ad un chiodo, tornò soldato semplice quale effettivamente era; spiegò, al sempre più trasognato e ligio fratello, che quelli gli erano indispensabili per poter liberamente circolare ad alimentare il suo commercio. Una volta appurato a quale grado apparteneva il comandante di giornata, s’infilata un cerchio in più di quanti non n’avesse l’altro, per non correre il rischio di essere ostacolato in una delle sue frequenti “missioni”.
Mentre il fratello raccontava queste “allucinanti” cose, papà avvertì crescenti fastidiosi spifferi d’aria che, all’arrivo lassù, non aveva accusato; si guardò e non potè che costatare che la sua logora divisa di panno da marina, era ormai tutta un buco, nemmeno fosse fatta di sottili fette di gruviera. La spiegazione la scoprì ben presto; durante il sonno, i topi avevano banchettato, come da mesi non capitava loro, a base di panno intriso d’olio da motore frammisto a grasso per i supporti degli assi delle eliche. Rimediata una divisa, forse tolta a qualcuno che nell’ennesimo tentativo d’assalto non aveva avuto fortuna, rientrò a Chioggia, apparentemente arruolato in un’arma che non era la medesima di quando era partito.
Così i nostri padri accettarono o dovettero accettare di mortificare i migliori anni della loro giovinezza nella speranza almeno, di contribuire a creare una Patria forte e in pace. Nel nome dello stesso ideale, altri combatterono poi in Africa ed in Spagna, non pensando che da lì a poco molti di loro, ormai non più giovani, si sarebbero trovati inspiegabilmente alleati con quelli che sino ad ieri avevano considerati nemici e, per di più, ora uniti in una nuova disperata avventura.
Renzo BAGNASCO
Rapallo, 28.12.2014
La scomparsa DI STEFANO "NITTI" RISSO
STEFANO RISSO "NITTI"
E' MANCATO!
Dicembre 2014 - L'ultima Conferenza di Nitti alla Lega Navale di Chiavari
Taranto 1934 - Sestri Levante 2014
INGEGNERE NAVALE E UOMO DI GRANDE CULTURA, ERA SICURAMENTE UN CHIAVARESE DOC
Da tempo era socio-conferenziere di MARE NOSTRUM RAPALLO
Dopo un male incurabile che ha avuto il lungo decorso di un anno è mancato all'ospedale di Sestri Levante l'Ing. Stefano Risso, per tutti "Nitti". E' mancato la mattina del 28 Dicembre 2014, di buonora alle 5, quando nessuno se lo aspettava, anche se ormai le sue condizioni erano gravissime.
Era nato a Taranto nel 1934, per "ragioni belliche", diceva scherzosamente, da Luigi Risso, Tenente di Vascello della Regia Marina, e Lina Canepa, Chiavaresi doc del rione Scogli. Il padre Luigi era figlio di Stefano Risso detto "Pedrin Troppaciappi” per i suoi infiniti impegni che spesso non riusciva a portare a termine appunto per le sue troppe occupazioni. I Risso, erano una delle tante famiglie che hanno fatto la storia degli Scogli, la vera storia, non quella dei "furesti", per il loro lavoro nelle costruzioni navali e non solo. I Risso erano 7 tra fratelli e sorelle. I fratelli del “Troppaciappi”, cioè di suo Nonno, figura mitica del Rione Scogli, erano il fratello Luigi Risso detto “Scruscin”, Bartolomeo detto “Caachin”, Stefano (altro Stefano) detto “Mamun” deceduto a 25 Anni; e poi c'era Ida, coniugata a Paggi Pietro, Angelo detto "Cialan" famoso Calafato e Maria coniugata Tommasino Vittorio detto Cicìa. Ma tra le varie parentele c’erano anche i Ruocco (ricordiamo Emilio deceduto nella tragedia della Regia Corazzata Roma il 9 Settembre 1943) così come i Moladuri e come detto anche i Paggi e i Tommasino, questi ultimi legatissimi al Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari per via del Co-fondatore Franco detto "Mario".
"Nitti" parlando degli antenati diceva che il nome Stefano e Luigi era sempre presente e ricorrente in qualche ramo della famiglia portando a volte confusione nelle varie parentele. Diceva schezosamente che i suoi parenti nei nomi non avevano molta fantasia. Infatti notiamo anche che Stefano Risso "Troppaciappi" era padrino del fratello più piccolo anche lui di nome Stefano detto "Mamun" ! A parte poi che "Nitti" si chiamava Stefano e molti altri cugini portavano il nome di Luigi o Stefano ! Un vero ginepraio per chi non è di famiglia.
"Nitti" da bambino trascorre qualche anno a Taranto, dove appunto suo padre era destinato come ufficiale di Marina, poi Venezia, Pola e, allo scoppio della guerra, a Chiavari, presso la nonna Oliva Sarmoria, moglie appunto del "Troppaciappi".
Passano pochi mesi dallo scoppio della guerra il 10 Giugno del 1940 e Luigi Risso, suo padre, Comandante della Torpediniera Palestro, scompare in mare con la sua nave, silurata da un sommergibile nemico nel basso Adriatico del Settembre 1940. Medaglia d’Argento al Valor Militare, a lui è intitolata Via Luigi Risso proprio nel suo rione, gli "Scogli".
Al Comandante Luigi Risso, Medaglia d’Argento al Valor Militare viene intitolato il "Concorso Narrativa 2008" col patrocinio dell'UNUCI di Chiavari – Scuola Telecomunicazione FF.AA. – del Comune di Chiavari - Comitato d’Intesa Associazioni Combattentistiche – Comune di Lavagna – Comune di Sestri Levante.
Per la cronaca si classificherà al primo posto Ernani Andreatta con l'elaborato "Falciato da ordigno infame - e .... già era la pace" - Un storia terribile in memoria di Silvio Santini detto "Muneggia", perito in mare per un atto di solidarietà, che è anche uno spaccato di come si viveva nel Rione Scogli prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale.
La tragedia di suo Padre influisce molto sulla vita di Nitti, soprannome datogli da uno degli attendenti del padre, in quanto gli sarà ostacolata, sempre, dalla mamma, la sua ambizione di continuare in Marina le tradizioni di famiglia.
Orfano di padre, già appena maggiorenne, "Nitti" mostra subito il suo ingegno e capacità dando lezioni di matematica ai giovani laureandi di Ingegneria. I soldi erano pochissimi - diceva - dopo la guerra e mia madre faceva i salti mortali per mantenere me e mia sorella Luciana, ormai deceduta. Così anch'io mi arrangiavo con qualche ripetizione. La pensione di mio Padre "morto per la Patria" diceva con rispetto e malinconia, tardò molti anni e poi era una vera e propria ben "misera pensione".
Segue quindi la classica routine degli studi, fino alla laurea in ingegneria ottenuta con 110 e lode, e i primi impieghi in grandi società internazionali.
Col passaggio ad una terza società americana, a quei tempi ogni tipo di lavoro era a portata di mano, avviene il cambio di indirizzo professionale, da tecnico a commerciale.
Seguono le nozze con Andreina Varani, - ieri 27 Dicembre compivano 43 anni di matrimonio - al quale era legatissimo e lo ha assistito in questo suo ultimo anno di vita con una straordinaria e commovente dedizione.
Nitti, in seguito, cambia ancora professione in un certo qual modo e passa ad una quarta società - questa volta tutta italiana - col grado di direttore commerciale e un incarico tutto particolare, cioè la creazione dal nulla di reti commerciali in territori "vergini" .
La nuova società si interessa di progettazione e costruzioni di impianti di poliuretano o materiali similari. Incarico un po' difficile, e molto complesso, ma molto attraente e di grande soddisfazione - "quando riusciva", diceva, "ma riusciva quasi sempre".
Continuano così le peregrinazioni per il mondo, cominciate già con la società americana, ma ora in modo più intenso, in Europa, Medio Oriente, Estremo Oriente tra cui Singapore di cui parlava spesso e gli ultimi tempi, Sud America.
Parlava molte lingue "Nitti" a parte l'Inglese, il Francese e lo Spagnolo, non disdegnava nemmeno il Tedesco e il Russo, che sapeva anche scrivere o il Croato che era un pò la sua passione.
Dopo 44 anni di lavoro, arriva la meritata pensione, ma gli impegni personali non diminuiscono, anzi. I famosi calendari di Nitti disegnati tutti a mano e a colori, per l'ultima società, sono dei capolavori di spaccati di storia di grandi avvenimenti interpretati a modo suo con una infinità di micro figure incredibili a realizzarsi tutte a mano libera, come solo lui sapeva disegnare e spesso "inventare", ma il risvolto storico non mancava mai.
Una dote che stupiva tutti e che i tanti amici potevano ammirare senza mai poter capire come potesse realizzarli.
L'ultima sua opera, il calendario del 2015 ha per tema la costruzione della Torre Eiffel a Parigi. Anche se ormai molto malato è riuscito a partarlo a termine nel novembre scorso con incredibili sforzi fisici e non solo.
E poi i modelli di navi, perfette riproduzioni in scala di mitici bastimenti come il Cutty Sark, la Victory ecc. Delle attrezzature di grandi velieri e vascelli, conosceva tutta la numenclatura a memoria e ne snocciolava i nomi come se li stesse leggendo in un manuale. Nessuno poteva competere con la sua memoria. Era una vera e propria enciclopedia vivente e con riluttanza accettò di comprarsi poi un computer dato che lui "internet" diceva scherzando, ce l'aveva in testa, ma non era una presunzione, era praticamente la verità. E poi, le conferenze alla Lega Navale di Chiavari che erano attesissimi avvenimenti per gli appassionati di storia e non solo, anche per la verve e la simpatia con la quale sapeva parlare di storia naturalmente navale o marinara. L'ultima conferenza che ha svolto è stato uno sforzo non da poco tenuta il 13 Dicembre ultimo scorso alla Lega Navale, sul tema del confronto tra il rigalleggiamento delle navi tedesche autoaffondare a SCAPA FLOW e il rigalleggiamento della COSTA CONCORDIA all'isola del Giglio. Uno sforzo immane perchè il male lo stava ormai divorando, ma lui ha voluto ed è stato sempre lui, "Nitti" uno straordinario personaggio, irripetibile, per intelligenza e simpatia non comuni e soprattutto nell'arte figurativa, che non ha riscontri. Non disdegnava conferenze anche in altre associazioni come a Novembre 2014 a Mare Nostrum Rapallo e così come dibattitti in Televisione a Entella TV in compagnia dell'amico Mino Orbolo per l'Associazione Culturale "O Castello" di Chiavari a volte in duetto con Ernani Andreatta.
Dal 2011 al 2013 è Presidente dell'Accademia dello Stoccafisso e del Baccalà "Rinaldo Zerega" fondata nel 1999.
E poi ancora i suoi viaggi, finalmente per turismo! Con l'inseparabile Andreina, ultimamente quasi sempre in Europa, dove la Spagna e la Francia erano le sue mete preferite spesso per ragioni "gastronomiche" dato che era anche un cultore del mangiar bene e bere ancora meglio, con visite a Musei o Mostre Navali di tutte le nazionalità per vedere cosa facevano gli altri nel settore della storia navale, perchè il mare ce l'aveva sempre dentro.
Il DNA del "Troppaciappi" o dei suoi molti parenti o di suo padre Luigi Risso era incancellabile.
Per molti anni fu appassionato di vela e con la sua barca andava per mare con perizia, dove effettuava piccole crociere sempre con l'inseparabile "Andreina". Poi alcuni anni fa la vendette dicendo che "non era più il caso".
Crediamo anche di fargli piacere a "Nitti" di nominare il suo ultimo cane, "la Sheila" una bestiola un pò ingombrante ma alla quale entrambi i coniugi erano molto affezionati e che gli è mancata alcuni anni fa.
Ultimamente con il suo computer si era dedicato alla catalogazione delle migliaia di fotografie fatte in giro per il mondo, che diceva lui "richiederebbero giornate di 48 ore invece delle normali di 24".
Nitti era un vero genio sia per sua capacità di memoria di qualsiasi avvenimento storico, sia per l’arte della riproduzione figurativa con sua propria inventiva a corollario delle sue opere. I suoi disegni, i suoi quadri, sono straordinari, suo anche il Presepe con personaggi degli Scogli in statue di legno del 2007 e poi ripristinato nel 2012 dagli "Amici del Mare e degli Scogli" nonostante alcuni "vandali" come li chiamava lui, avessere buttato via e distrutto tre delle sue bellissime statue.
Lascia un vuoto incolmabile "Nitti", non solo alla sua amata “Andreina” o “Gigia” come la chiamava affettuosamente lui dove non faceva nulla senza la sua approvazione, senza il suo parere. La sua “Gigia, nell’ultimo anno di vita non lo ha lasciato un minuto, anche se lui, sempre imprevedibile se n’è andato alle 5 di mattina.
Molti amici si sono recati al suo capezzale specialemnte negli ultimi tempi. Marina, Bianca, Francesco, Aldo, Carmen, Marisa e il sottoscritto. Ma da "Nitti" ci si andava volentieri perchè anche malato era sempre lui, "Nitti", col suo sorriso buono e simpatico e lo sguardo negli occhi che tutti ricorderemo sempre.
Forse non voleva dare "fastidio" o troppo dolore alla sua "Gigia" perchè tra le altre cose era anche un gran signore ed un uomo molto educato.
Ma il vuoto di Amico, di grande Amico, di uomo di grande cultura, arte e intelligenza, sarà molto difficile da dimenticare.
Da notare che già a verso Marzo - Aprile scorsi certi ospedali gli avevano dato poche settimane di vita, ma lui ha resistito sino a ieri e qualcuno diceva che "Nitti" aveva 7 vite come i gatti. Poi purtoppo anche il suo robustissimo fisico ha ceduto.
E’ mancato alle 5 di Mattina appunto, quasi in punta di piedi per non disturbare, all’ospedale di Sestri Levante, dove era stato ricoverato dieci giorni prima dopo infinite peripezie tra Genova, i vari ospedali della Riviera e casa sua naturalmente.
Ora riposa nella camera mortuaria di Sestri Levante con il Rosario che sarà recitato alle 18 e i funerali che si svolgeranno oggi alle ore 15.00 del 29 Dicembre 2014 nella Chiesa di San Giovanni a Chiavari. Dopo l'omelia, riposerà per sempre, nel Cimitero di Chiavari.
ALBUM FOTOGRAFICO
I QUATTRO che hanno organizzato il Presepe nel 2006
Il Presepe costruito da NITTI
Maggio 2007 - Dipinto Murale di NITTI
NITTI e la moglie ANDREINA
ERNANI ANDREATTA
Chiavari 28 Dicembre 2014
Webmaster Carlo GATTI
RITORNO A GANNA
RITORNO A GANNA
Panorama di Rapallo Anni ‘50
L’infanzia è un luogo o un tempo?
Questo si chiedeva Gianna quando pensava a quei giorni della sua vita così pieni e gratificanti da alimentare un rimpianto invincibile.
Il mare di una volta....
Tempo è l’infanzia a Rapallo. I giochi con gli amici, le battaglie, i rischi, gli scontri che avevano reso così vitali quegli anni.
Tempo perché il luogo non esiste più. Distrutto dall’avidità.
Rapallo, Torre Civica
Castello cinquecentesco, simbolo di Rapallo
La bella villa genovese gialla, rettangolare a due piani, ferma sul poggio dominante il golfo, la Torre civica e il Castello.
Parte del Golfo Tigullio visto dalla collina di S.Agostino
La collina di S.Agostino vista dal mare
La grande casa non c’è più.
Circondata dal giardino, il cortile, il berceau e giù l’orto e il frutteto.
E’ distrutta.
Anche il rustico per il contadino allora già disabitato.
E’ sparito.
Era rifugio per il gioco dei ragazzi nelle giornate piovose., Lì si sentivano tutti Tarzan, sospesi alla scala orizzontale procedevano, un braccio dopo l’altro, fingendo che sotto scorressero fiumi gialli, tane di coccodrilli e serpi.
E la grande falegua fornitrice di infiniti proiettili per le battaglie con le cannucce contro la banda di nemici che provenivano dal centro a profanare il loro territorio.
E’ stata tagliata.
La Cappella di S.Agostino
Tutto questo non esiste più, se non nel ricordo.
Anonimi condomini hanno occupato il frutteto e tutto il resto. Alti, sgraziati, addossati, quasi a coprirsi l’un l’altro per la vergogna, hanno fagocitato tutto. Il luogo non esiste più.
Gianna vorrebbe che la sua mente proiettasse i ricordi, le visioni vivide in fotografie, in qualche documento che restasse, dopo di lei a testimoniare quei giorni felici.
Pretese inutili, quei luoghi, quei giorni furono felici a lei, indifferenti agli altri.
Due femmine, quattro maschi tutti i giorni insieme a riempire le ore di giochi, di esperienze, di litigi, di rappacificazioni.
Accanto, al di là della stradina pedonale, l’orto di Cagaspago, dove la banda si concedeva il diritto di razzia dei frutti acerbi, delle primule e delle viole, che raccoglievano con attenzione in minuscoli e profumati mazzetti per depositarli con riguardo sulle tombe abbandonate del cimitero, al quale arrivavano per prati e muri scavalcati, trascurando la strada.
C’è un altro cimitero nei suoi ricordi. Un cimitero di fronte al lago con alle spalle i binari a scartamento ridotto per il trenino di Ganna.
Ricorda la bisnonna come un quadro di Monet, luminosa nel vestito lungo e chiaro di chiffon, l’ombrellino di seta e avorio aperto ad ombreggiare il viso rotondo, incorniciato di riccioli bianchi, ferma al cancello in attesa che lei bambina finisse di raccogliere, con grande stupore, dei fiori gialli e viola.
- Che fiori sono, nonna? –
- Viole del pensiero, nascono qui, vicino ai morti per farli ricordare.-
- Sì, mi ricorderò per sempre.-
E così è stato, pensa Gianna, sorridente.
Chissà perché certi particolari insignificanti si fissano nella memoria così vividi, colorati come se fossero appena successi.
Se Rapallo è il tempo, Ganna è il luogo.
Dopo l’infanzia c’era ritornata da giovane riluttante, solo per accompagnare la mamma che ci ritornava volentieri. La visita non l’aveva emozionata. In quel momento l’infanzia non era importante per lei. Perennemente innamorata odiava allontanarsi da Rapallo anche per una sola settimana e, durante i giorni della lontananza, il suo pensiero tornava ossessivo al suo ragazzo, senza vivere la realtà presente.
Da quando era diventata anziana era emersa la nostalgia dell’infanzia e il desiderio di rivederne i luoghi.
Per Rapallo sarebbe stato semplice se il luogo fosse sopravvissuto alla speculazione edilizia, perché Gianna viveva lì.
Per Ganna invece avrebbe avuto bisogno di un compagno più disponibile, ma Franco era riluttante a muoversi. Così Gianna aveva coltivato a lungo questo suo desiderio, senza mai realizzarlo. Ogni tanto lo rispolverava come un ricatto o una lusinga.
Sì, io ti accompagno a Lugano alla mostra dei coltelli, ma ci fermiamo per il week-end, così facciamo in tempo a passare da Ganna. Vorrei tanto rivederla.-
- Figurati, ma cosa c’è a Ganna da vedere! Andiamo a Lugano in giornata guardiamo la mostra e facciamo un giretto lì.-
- Non se ne parla, vacci da solo. A me non interessa la mostra, a me interessa Ganna. Come io vengo incontro a te, tu potresti venire incontro a me e saremmo contenti tutt’e due. –
- E’ che tu hai sempre dei desideri così stravaganti. Ganna, un paesino di campagna, sperduto. Mi toccherebbe fare un giro... No, no non me la sento.-
Così le occasioni sfumavano e il desiderio cresceva.
Finalmente arrivò la coincidenza giusta. Un cugino di Gianna doveva recarsi urgentemente a Lugano per un affare, ma aveva l’auto dal meccanico. Le chiese in prestito la sua macchina. Gianna acconsentì chiedendo in cambio di poter andare anche lei.
Il cugino non fece storie e. al ritorno, percorsero la vecchia strada Ponte Tresa Ganna.
Già sul ponte di Tresa Gianna si rivide piccolina, con le tavolette di cioccolato goffamente nascoste sotto il cappotto e, pur senza averla in bocca gustò il sapore della cioccolata svizzera che da piccola la faceva impazzire.
Ecco il lago di Ghirla. lo rivide ghiacciato come nell’inverno del ’45, quando ci si andava a pattinare a turno, perché i pattini erano solo un paio. E la voce degli adulti: - Attente, non andate al centro. E’ sottile, potrebbe rompersi. -
Poi Ganna, un po’ diversa sulla provinciale. Manca l’edicola con i tre scalini, il macellaio, ma c’è l’ufficio nuovo della Posta.
Posteggiano, scendono e si affrettano nella stradine centrali. Sono asfaltate. Gianna ricordava i blocchi di porfido, le dalie al bordo degli orti, l’odore di stalla, proprio lì, nel centro del paese. Scende verso quella che era la stazione del trenino, non c’è più, lo sapeva, ma l’immagine globale è simile a quella del suo ricordo, tanto da farle trattenere il fiato. Il torrentello dove pescava gamberetti trasparenti gustosissimi. Sullo sfondo il campanile quadrato, dietro la Martica, davanti il monumento ai caduti.
Gli occhi si velano di commozione, la bocca sorride.
Si ricorda bambina con Lucia e Federico. Insieme giocano a saltare l’inferriata di ferro che circonda il monumento. Il primo salto va bene, ci prendono gusto. La seconda volta lei salta troppo basso, non supera bene la cancellata ed una lancia di ferro le taglia profondamente la coscia, in alto vicino alla natica. Risente il calore del sangue che esce abbondante sulla sua mano che cerca di chiudere la ferita, il suo pianto spaventato, la fatica di risalire fino a casa accompagnata dai due amici che la sorreggono, uno per lato.
Rivive lo spavento della mamma che deve gestire una ferita così importante, senza l’aiuto di un dottore.
La prima medicazione non regge. Qualcuno va a cercare il medico a Marchirolo Arriva, le sembra un orco. Parla a voce alta, decide di chiudere la ferita con i punti a graffetta, sottolinea il pericolo dell’infezione tetanica, ma anche il pericolo del siero antitetanico. Lascia ventiquattro ore di tempo alla mamma per decidere da sola sul da farsi.
La povera donna non sa cosa decidere. Di fronte alla casa colonica dove abitano Gianna , la mamma e la famiglia di Lucia e Federico, c’è una bella villa bianca. Villa Campiotti appartiene a una famiglia di Varese, benestante e numerosa. Sembra che qualche figlio studi da dottore. La mamma si fa coraggio e va a chiedere consiglio al giovane studente. Si decide di fare l’antitetanica. A questo punto gli urli di Gianna superano il muro del suono. Ha una irrecuperabile paura degli aghi e delle iniezioni.
Se pensa a quello che le è successo nella vita, sorride di quella bambina spaventata per così poco. Quante ne ha passate e superate negli anni! La paura però è rimasta: ogni visita, accertamento, intervento le procurano insostenibili ansie e malesseri.
- Signora, lei somatizza. – le dicono i medici.
Bella scoperta, almeno le insegnassero a sbloccare questo meccanismo malvagio.
Ora il monumento e la recinzione le sembrano meno maestosi e alti, ma l’emozione di ritrovarli è potente.
La badia di San Gemolo
Da lì in su è tutto come allora. La strada in salita con i blocchetti di porfido, la badia di San Gemolo bella e triste come si conviene ad un martire decapitato Sulla destra il convento, le scuole delle suore, nel giardino ancora intatta la grotta di Lourdes con la Madonnina bianca e le mani giunte.
- Com’è kitsch! – esclama Gianna guardando la grotta in calce e cemento. – Da bambina mi affascinava, sarei stata ore a guardarla..-. E’ felice di ritrovare tutto tale e quale.
Ecco alla fine della salita la casa colonica con il grande terrazzo in legno scuro, coperto dalla tettoia, dove venivano appese le pannocchie di granoturco raccolte nel campo davanti a casa.
A questo punto Gianna lascia che l’emozione prenda il sopravvento e piange di gioia, di commozione, tutto il suo corpo vibra come fosse percorso da una scossa. Ricorda con gli occhi della memoria il giallo delle pannocchie, risente il cigolio dell’altalena anch’essa appesa alla trave del terrazzo. Quante ore trascorse su quell’altalena: da sola, in due, in tre. Federico seduto e lei in piedi sull’altalena a dare la spinta piegando ritmicamente le ginocchia. Ad ogni spinta avvicinava il bacino al viso di Federico, che sceglieva sempre quella posizione, in un inconsapevole gioco sensuale.
Davanti alla casa c’è ancora il sentiero, grigio di ghiaia, che porta alla sorgente di San Gemolo. Un posto che l’attirava per l’acqua e l’impauriva per la salma incartapecorita del Santo conservata nella cappelletta vicino alla sorgente.
Non c’è tempo per salire i sentieri della Martica per vedere se ci sono ancora i ciclamini così profumati. Sulla via del ritorno verso l’auto incontrano il cimitero. Gianna entra e, come guidata da un istinto, si dirige a destra. Una, due, tre, cinque tombe. Si ferma. E’ la tomba della sua bisnonna. La fotografia ancora nitida, il marmo in ordine. Nonna Carlotta, il pensiero è sempre più forte della realtà in lei. E Gianna la ricorda paziente sotto l’ombrellino a dirle delle viole del pensiero.
Ne cerca una in giro, la trova, anche loro sono rimaste. Ne raccoglie una con delicatezza e l’appoggia sulla tomba della nonna.
Il cerchio dei ricordi si chiude in questo gesto antico: come faceva a Rapallo, così a Ganna.
Ada BOTTINI
Rapallo, 30 Dicembre 2014