AMOCO CADIZ - Disastro Ambientale
Petroliera
AMOCO CADIZ
233.564 G.T.
QUARTO DISASTRO DEL GIGANTISMO NAVALE
16 MARZO 1978
Il relitto della AMOCO CADIZ a Portsall (Finistèrre) Francia
Armatore :.... Amoco Transport Company
-
Lunghezza:334 Mt Larghezza:51 Mt - Puntale:26,18 Mt -Portata Lorda:230.000 T. - Impostata:28/06/1973
Entrata in linea: 11/05/1974
Dopo aver caricato greggio in Golfo Persico, navigava verso la costa da Limebay a Rotterdam, percorso abituale negli ultimi anni.
NOTA: Passaggio di Fromveur
Il Passaggio di Fromveur (« Passage du Fromveur » in francese) è situato tra l'arcipelago di Molène e l'isola di Ouessant, nel mer d'Iroise (Finistère, Francia). Questo tratto di mare è percorso da correnti molto violente: fino a 8 o 9 nodi localmente, e circa 7 nodi in mare aperto.
La navigazione è molto pericolosa anche perché il vento che vi spira è contrario rispetto alla direzione della corrente, per questo il mare risulta essere sempre molto agitato.
Per proteggere e aiutare i naviganti, ci sono due fari, tra i più famosi della Bretagna: la Jument e Kéreon.
Prima della creazione della Torre Radar di Ouessant nel 1982, questo luogo è stato teatro di una serie di tragici naufragi, tra cui le petroliere Olympic Bravery (1976) e Amoco Cadiz (1978) che causarono disastri naturali gravissimi. Infatti questo tratto di mare è frequentato annualmente da circa 50.000 navi.
Cronaca del disastro
Alle ore 09,45 del 16 Marzo 1978, il timone del “colosso” và fuori uso, tutto l'equipaggio della nave viene messo al corrente della situazione, la navigazione prosegue e il comandante Bardari comunica, via radio, all'armatore il problema. C'è uno scambio di pareri, ma il Comandante rifiuta ogni offerta d'aiuto. Purtroppo la nave senza la possibilità di governare finisce incagliata.
Le condizioni del tempo peggiorano, due rimorchiatori Olandesi navigano a tutta velocità verso la Amoco Cadiz. La nave continua ad avvicinarsi pericolosamente verso la costa.
Verso le ore 22,00 i rimorchiatori riescono ad agganciare la Amoco Cadiz, che si trova a sole tre miglia della costa di Portsall. Il comandante della Amoco Cadiz lancia un disperato SOS, il vento è tanto forte che rende difficilissimo il salvataggio dei 44 uomini dell'equipaggio, la nave ferita a morte, comincia a perdere greggio e le 230.000 tonnellate di prodotto finiscono in mare. Durante quella forte tempesta la nave si spezza in due e affonda.
La sistematica ricerca di trasporti a bassissimo costo spiega la lunga litania di disastri petroliferi, soprattutto nell'Europa occidentale: Torrey-Canyon nel 1967, Olympic-Bravery, Urquiola e Boehlen nel 1976, Amoco-Cadiz nel 1978, Gino nel 1979, Tanio nel 1980, Haven nel 1991, Aegean-Sea nel 1992, Braer nel 1993 e Sea-Empress nel 1996 (anno in cui sono naufragate, in tutto il mondo, 70 petroliere). Ultimo in ordine cronologico, quello della petroliera Erika che, partita da Dunkerque alla volta di un porto italiano, si è spezzata ed è colata a picco in seguito a una tempesta al largo di Penmarch, il 12 dicembre scorso.
La "AMOCO TANKER COMPANY", ordinò presso gli stessi cantieri una serie di quattro navi che hanno avuto i seguenti numeri di costruzione:
- C 93 AMOCO MILFORD HAVEN (affondata in rada a Genoa)
- C 94 AMOCO SINGAPORE
- C 95 AMOCO CADIZ (affondata a Portsall)
- C 96 AMOCO EUROPA
Una delle caratteristiche salienti di questa classe è la prua filante con il bulbo molto pronunciato, questo particolare rende subito riconoscibile la nave di questa classe, lunga 334 metri, larga 51, l'altezza della linea di costruzione è di 26,18 metri, la sovrastruttura è alta sette ponti.
Il viaggio della nave iniziò nel Golfo Persico con destinazione il porto di Le Havre (Francia) ed il disastro causato è considerato il 5º nella storia delle maree nere. Il carico era di 230.000 tonnellate di petrolio greggio iraniano trasportato, al quale si aggiunsero 3.000 tonnellate di gasolio, che si riversarono insieme lungo 400 km di coste bretoni della Francia.
La mattina del 16 marzo del 1978, verso le ore 09.00, le condizioni meteorologiche erano davvero proibitive: mare in burrasca, temporali e forti venti causarono, per le fortissime sollecitazioni, la rottura dell'impianto idraulico del timone. L'equipaggio della nave non ebbe altra scelta che richiedere soccorsi e assistenza alle autorità francesi. Nonostante l'arrivo di un potente rimorchiatore d’altomare, ci fu un ritardo operativo dovuto all’attesa dell’autorizzazione da parte della società Amoco. “Ritardo burocratico” che si protrasse a causa della TRATTATIVA in corso tra le parti sulla formula NO CURE NO PAY (Pago se mi salvi). Il comandante fu costretto ad attendere l'ordine dei dirigenti, ma a causa dei fortissimi venti, la superpetroliera raggiunse in poco tempo gli scogli affioranti in prossimità della costa e qui s'incagliò, si spezzò in due riversando il suo carico inquinante.
La mobilitazione
Centinaia di volontari si mossero immediatamente organizzati da Associazioni Ecologiste si rimboccarono le maniche per scongiurare una contaminazione dei litorali. In seguito, le Autorità locali dichiararono che non bastarono sei mesi per pompare e disperdere il petrolio che aveva ricoperto le spiagge colpite. Ben 90 comuni ebbero le spiagge invase dalla marea nera.
Le reazioni
La catastrofe nel paese transalpino suscitò notevole sconcerto e apprensione. Poco dopo l'accaduto, alcune Organizzazioni Ecologiste diramarono un appello per boicottare la SHELL, la società destinataria del carico, anche perché la stessa multinazionale non si era affatto impegnata nelle operazioni di bonifica delle aree contaminate.
Le conseguenze all'ambiente e il danno causato
Questo incidente fu il decimo per gravità nella storia dei naufragi di petroliere. I decessi non sono avvenuti immediatamente, bensì la più alta mortalità di animali avvenne nell'arco di due mesi dalla catastrofe. Già dopo un paio di settimane, milioni di molluschi e echinoidee (ricci di mare) morirono, a cui si aggiunsero circa 9.000 tonnellate di ostriche. Per molti mesi i pescatori raccolsero animali con ulcere e tumori alla pelle, e quelli che a "prima vista" apparivano sani, avevano uno sgradevole sapore di petrolio.
Nel 1988 il danno al turismo ed ai pescatori fu stimato in circa 250 milioni di dollari. Il Governo francese presentò un "conto" di 2 miliardi di dollari da destinare ai richiedenti: Stato, Comuni, singoli privati, associazioni professionali e ambientali.
A seguito di questo incidente, nel 1982 sull'isola di Ouessant fu costruita una Torre Radar che assicura da allora il controllo e l’assistenza ai naviganti che transitano in questo trafficatissimo tratto di mare.
Anziché adoperarsi per impedire che il greggio raggiungesse le coste della Cornovaglia, emerse in modo evidente l’inesistenza di coordinamento tra gli Stati confinanti per la salvaguardia del mare e delle coste, al contrario fu chiaro fin dall’inizio il tentativo estremo di salvare la petroliera con il suo carico. Solo quando fu chiaro che la Torrey Canyon era definitivamente perduta fu presa la decisione di far levare in volo otto aerei Buccaneers della RAF per bombardare la nave provocandone l’affondamento per evitare danni maggiori. L’uso massiccio ed indiscriminato di sostanze chimiche, molte delle quali tossiche, per il trattamento e la bonifica delle coste invase dal petrolio, finì per causare danni peggiori e duraturi all’ambiente. Il naufragio della Torrey Canyon fu un’Apocalisse nel vero senso del termine, cioè una rivelazione: la fiducia pressoché illimitata del pubblico nella possibilità di poter trasportare senza alcun rischio sostanze altamente inquinanti come il petrolio, colò a picco con essa.
Disastri navali e inquinamento da idrocarburi: il bilancio di un quarantennio.
Anche se in realtà dal 1959 i disastri navali con conseguente sversamento di idrocarburi erano già stati almeno una quarantina, fu solo nel 1967, cioè all’indomani dell’incidente della Torrey Canyon che l’opinione pubblica mondiale ebbe la reale percezione dei pericoli ambientali legati al trasporto del greggio via mare e che sul piano normativo e della gestione delle emergenze si prese coscienza della necessità di intervenire in modo più incisivo di quanto non si fosse fatto fino a quel momento. Tralasciando la ricostruzione cronachistica dei singoli incidenti e tentando una sia pure sommaria analisi dell’elenco di questi incidenti nell’arco dei decenni successivi al 1967 in base alla quantità di greggio rilasciato in mare e nell’ambiente circostante (Tabella 1), è possibile avanzare alcune interessanti riflessioni.
Tabella 1. Elenco dei maggiori disastri petroliferi (in milioni di galloni) (in corsivo gli incidenti provocati da petroliere)
1. Guerra del Golfo (1991) |
240.0 |
|
2. Piattaforma Deepwater Horizon, Golfo del Messico (2010) |
205.8 |
|
3. Piattaforma Ixtoc, Golfo del Messico (1979) |
140. |
|
4. Abt Summer, largo della Angola (1991) |
80.8 |
|
5. Nowruz, Arabia Saudita (1980) |
80.0 |
|
6. Fergana, Uzbekistan (1992) |
80.0 |
|
7. Castillo de Bellver, largo del Sudafrica (1983) |
78.5 |
|
8. Amoco Cadiz, Nord Ovest al largo della Francia (1978) |
68.7 |
|
9. Atlantic Empress – Aegean Captain, largo di Trinidad e Tobago (1979) |
48.8 |
|
10. MT Haven, largo di Genova (1991) |
44.4 |
|
11. Pozzo petrolifero, 480 miglia a sud-est di Tripoli (1980) |
42.0 |
|
12. Odyssey, largo della Nuova Scozia (1988) |
40.7 |
|
13. Pozzo di Lakeview, California (1910) |
37.8 |
|
14. Irene’s Serenade, Grecia (1980) |
36.6 |
|
15. Torrey Canyon, largo delle isole Scilly (1967) |
35.0 |
|
16. Sea Star, largo dell’Oman (1972) |
34.0 |
|
17. Shuaybat, Kuwait (1981) |
31.2 |
|
18. Urquiola, largo della costa Nord della Spagna (1976) |
29.0 |
|
19. Hawaian Patriot, Nord del Pacifico (1977) |
29.0 |
|
Premesso che quantificare con precisione la effettiva quantità di sostanze nocive, in questo caso idrocarburi, riversate nell’ambiente per cause accidentali è molto difficile e che le stime tendono a divergere, spesso anche notevolmente, a seconda delle fonti, si può infatti affermare che, a dispetto della loro fama le petroliere, pur restando una delle maggiori cause di sversamenti di petrolio (considerati convenzionalmente quei disastri che provocano il rilascio di più di 700 tonnellate di idrocarburi nell’ambiente), non solo non sono responsabili di almeno delle tre più gravi catastrofi della storia, ma che molti degli incidenti più gravi presenti nell’elenco sono prevalentemente concentrati tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta (dalla Torrey Canyon alla Amoco Cadiz e alla Atlantic Empress, fino alla Castillo de Bellver) fino ai primi anni Novanta (la Haven e soprattutto la ABT Summer entrambe affondate nel 1991, vero e proprio annus horribilis nella storia di questo tipo di disastri ambientali).
Carlo GATTI
8 Aprile 2015
WINDJAMMER, il Canto del Cigno della Vela
WINDJAMMER
L’ultima tipologia di velieri commerciali.
Il Canto del Cigno della Vela
Nave a Palo HERZOGIN CECILIE
Nel 1849 avvenne un fatto epocale nella storia della marineria: per effetto della scoperta di ricchi giacimenti d’oro in California, si creò un flusso di emigranti, ricercatori d’oro appunto, che era disposto ad imbarcarsi su qualsiasi mezzo diretto a S.Francisco via Capo Horn; il Canale di Panama si inaugurerà soltanto nel 1914.
Nello stesso periodo gli americani “inventarono” il CLIPPER. Le flotte d’Europa volavano verso l’ovest e fu l’epoca di memorabili gare tra questi “levrieri dei mari”, di brillanti records ed exploits di Comandanti e costruttori che passarono alla storia per la loro abilità e coraggio. Da quel clima “sportivo” di competizioni nacquero anche le scommesse a livello planetario sui Clipper vincitori.
Si scoprì l’oro anche in Australia e giunse l’ora dello sfruttamento commerciale dell’Oceano Pacifico. I grandi velieri commerciali viaggiavano carichi di emigranti e si incrociavano senza sosta lungo la rotta del Capo di Buona Speranza. Le lunghe traversate spronavano i Cantieri Navali inglesi a creare un tipo di veliero adatto alle grandi rotte oceaniche.
Purtroppo, la caccia all’oro non durò molto e, di conseguenza, il flusso migratorio andò scemando, ma il salvataggio dei grandi velieri dal disarmo totale avvenne per opera del guano della costa cilena, il grano californiano, e l’esistenza in Australia di grandi territori da colonizzare. Inoltre, buoni noli erano considerati: il cotone indiano, il carbone inglese, il nitrato cileno (eccellente fertilizzante) e la carne secca della Nuova Zelanda che riempivano le stive dei grandi “carriers” (Windjammer), gli ultimi velieri commerciali che resistevano ancora alla concorrenza dei più lenti, ma certamente più economici mercantili a vapore.
Mentre la nave a vela in legno tramontava definitivamente, il suo posto veniva preso dal veliero in ferro prima, e poi da quella in acciaio. Con l’apertura del Canale di Suez nel 1869, il mondo della vela accusò un ulteriore colpaccio perché solo le navi a vapore potevano utilizzarlo evitando il periplo dell’Africa. Il lento ma costante progresso della nave a vapore ottenne in quegli anni il monopolio del trasporto passeggeri.
Nel 1890 solo il 10% del naviglio varato dai cantieri inglesi era privo di propulsore a vapore: il rimanente alberava imponenti fumaioli tra la persistente selva di alberi e sartiame.
La navigazione a vela, dopo cinquemila anni di universale pratica, veniva lentamente sconfitta dal nuovo mezzo meccanico. Già! Lentamente, perché la lotta fu aspra e durò ancora nel corso della Prima guerra mondiale, quando gli U-BOOT tedeschi ne fecero scempio con il cannone.
Riservate ai velieri d’altomare rimanevano solo alcune rotte, quelle estreme dei collegamenti con le regioni più lontane (Australia e Cile). Regioni troppo lontane per la limitata autonomia della nave a vapore.
Il grande veliero da carico-WINDJAMMER presentava ancora due notevoli vantaggi:
- non doveva fermarsi per caricare carbone
- il vento non costava nulla
Facendo presa e insistendo coraggiosamente su questi due concetti, Francesi, Tedeschi e Scandinavi costruirono velieri sempre più grandi, destinati a caricare una sempre maggiore quantità di merci. Mentre la flotta dei velieri americani andava lentamente declinando, quella inglese divenne la prima al mondo.
Entriamo ora nel mondo della tipologia windjammer usando la classica definizione: “grandi velieri da trasporto che vennero realizzati tra la fine del XIX e l'inizio del XX Secolo”.
La grande novità costruttiva: scafo in ferro, e 3 - 5 alberi armati con vele quadre. Questa configurazione dava loro un profilo caratteristico perché furono le più grandi navi a vela mai costruite, avevano grandi stazze e non pochi vantaggi:
- la costruzione in metallo rendeva sia la produzione sia la manutenzione più economica di una nave a vela in legno di pari dimensioni.
- Lo scafo era più resistente e quindi permetteva il trasporto di un carico maggiore di una nave di dimensioni più grandi.
- Il moderno concetto di costruzione in serie sfruttava i rilevanti vantaggi dati dall’economia di scala.
- Lo stesso materiale: ferro prima, acciaio in seguito con il quale venivano realizzate, era di per sé meno costoso del legno. Inoltre lo scafo risultava più sottile e quindi lo spazio interno era maggiore.
- Il disegno costruttivo tipico del windjammer mostrava una particolarità molto importante per l’impiego dei più recenti ritrovati tecnologici. Le vele erano semi meccanizzate, gli alberi erano profilati in acciaio e, quando possibile, anche le manovre e il sartiame erano in acciaio.
- Lo scafo era affilato e rendeva il windjammer molto veloce e, nonostante il peso di quattro alberi, poteva raggiungere velocità media tra 15 e 18 nodi. La Herzogin Cecilie (vedi foto) aveva raggiunto la fantastica velocità di 21 nodi.
- Ma c’era un altro aspetto economico di grande rilievo: l'equipaggio tipico di un veliero dell’epoca era composto da: comandante, secondo, nostromo, 15 marinai esperti e 5 apprendisti, mentre l'equipaggio richiesto per governare un windjammer poteva essere di sole 14 persone.
- L'armamento e l’attrezzature fornivano prestazioni migliori della goletta e poteva navigare seguendo il vento meglio di una nave a palo, ed infine era più maneggevole di una nave dotata di sole vele quadre. La capacità di carico variava tra le 2.000 e le 5.000 tons. Il tipico carico, come abbiamo già visto, era costituito da guano, legno grezzo, grano e carbone.
- Su questo sito di Mare Nostrum Rapallo, nei titoli degli articoli riportati alla fine del presente servizio, abbiamo dedicato numerose pagine a questa tipologia WINDJAMMER a cui l’Italia diede numerose e celebri Navi a Palo di grandi stazze.
A cinquantotto anni dalla tragedia del famoso veliero-scuola PAMIR è doveroso un ricordo alla memoria del Comandante Johannes Diebitsch e dei suoi ufficiali, marinai ed allievi che perirono nel naufragio, avvenuto nell’oceano Atlantico a causa del violentissimo uragano “Carrie”. Il veliero aveva un equipaggio di ottantasei uomini e solo sei di essi si salvarono. La nave a palo tedesca (windjammer) Pamir, 3.020 di Stazza Lorda, naufragò nel settembre 1957.
Nel suo ultimo viaggio commerciale via Capo Horn, avvenuto nel 1949 sotto bandiera finlandese il Pamir aveva un equipaggio di 34 persone. Gli ufficiali erano cinque (comandante, primo ufficiale, secondo ufficiale, terzo ufficiale e nostromo), 14 marinai esperti, 5 marinai semplici e 5 mozzi di coperta, cuoco, assistente di cucina, cameriere e aiuto cameriere e infine un meccanico. I tempi erano definitivamente cambiati e i grandi windjammer si assunsero il compito di tramandare l’ARTE MARINARESCA velica alle nuove generazioni di marinai e ufficiali di mezzo mondo. Gli ultimi WINDJAMMER sopravissuti navigano ancora oggi con il nome, a tutti noto, di Tall Ships.
Tutte queste innegabili peculiarità del windjammer prolungarono la vita della vela essendo questi scafi molto competitivi (sulle lunghissime distanze) contro le prime navi a vapore che non superavano la velocità di 8 nodi.
Cinque Alberi PREUSSEN
Il più grande windjammer mai costruito fu il PREUSSEN che aveva 5 alberi. Il suo dislocamento era di 11.600 tons. Nella traversata dell’Oceano Atlantico, poteva mantenere una velocità media di 16 nodi.
La produzione maggiore di windjammer avvenne tra il 1870 e 1890 poi, quando la navigazione a vapore incrementò potenze, dimensioni e velocità, cominciò il loro inevitabile declino.
ALCUNE DIFFERENZE TRA IL CLIPPER ED IL WINDJAMMER
Clipper e Windjammer vengono spesso confusi perché somiglianti nello shape, ma si tratta di due tipologie di navi molto diverse. Il Clipper era una nave progettata in funzione della velocità, mentre il Windjammer lo era per la capacità di carico e la maneggevolezza. Molti Clipper avevano una costruzione mista (legno e ferro) e velatura completa, ma una capacità di carico inferiore alle 1.000 tons. I Windjammer erano invece di costruzione interamente metallica ed avevano, come abbiamo già visto, una capacità di carico molto elevata. Al tramonto del favoloso Clipper comparve sulla scena dei sette mari il Windjammer e fu il canto del cigno del mondo della vela da carico.
SEEADLER
Durante la Prima guerra mondiale, la Marina Imperiale Tedesca, utilizzò il Seeadler che stabilì un record come ultima nave a vela partecipante ad un conflitto. L'impiego principale dei windjammer restò però quello commerciale e, sebbene considerati una razza in via d’estinzione, alcuni restarono in servizio commerciale fino agli anni cinquanta del ventesimo secolo. L’avvento del motore DIESEL diede il colpo finale ai windjammer che terminarono la loro carriera occupando una nicchia nel trasporto di merci rappresentata dai collegamenti con quei porti che non disponevano di riserve di acqua o di combustibile e in alcune zone dell’Australia nel trasporto della lana e per le isole più lontane per il trasposto del guano.
Nave a Palo SEDOV
Ai giorni nostri, il più grande windjammer esistente ancora in attività è la nave scuola russa Sedov mentre il quattro alberi Moshulu, che può vantare il titolo di più grande windjammer esistente, è stato trasformato e viene utilizzato come ristorante di lusso a Philadelphia-USA. Spesso è possibile vedere altri esemplari di queste navi durante le principali manifestazioni dedicate alle gare tra le varie categorie di TALL SHIP.
Windjammer PASSAT
Windjammer KRUSENSTERN
Montague Dawson Paintings American Windjammer Under Full Sail
Windjammer KRUZENSTERN
Volle Fahrt voraus: Die "Sea Cloud II" erinnert an die Glanzzeiten der Großsegler.
Nave a Palo FRATELLI BEVERINO
Varato nel 1882 col nome di “Glenorchy” dalla Glen Line di Glasgow, passava alla Casa Beverino che nel 1909 lo vendeva a Gioacchino Lauro passando in Pacifico col nome “Cavaliere Lauro”. Passato infine col nome “Italia” all’armatore Esposito di Meta, di ritorno dal Cile con un carico di nitrato veniva investito da un piroscafo e affondava in pochi minuti.
Nave a Palo EMANUELE ACCAME
È la nave a palo più famosa e longeva di Loano, attiva su tutti gli Oceani. Varata a La Spezia nel 1891, gemella della “Edilio Raggio”, saliva a fama internazionale nella gara del grano sotto bandiera svedese col nome di “G.B.Pedersen”. Due drammatici passaggi di Capo Horn richiamarono il suo nome su tutta la stampa internazionale, quando, alla cappa durante una tempesta, venne salvata dalla collisione di un veliero inglese dall’allarme dato dalla bambina del capitano inglese, che stava a bordo con lui. Nel 1908 veniva a trovarsi a navigare tra i campi di ghiaccio che stavano chiudendosi riuscendo a guadagnare il mare libero all’ultimo momento. Dopo il 1911 veniva venduta alla Norvegia, poi alla Svezia distinguendosi in fatto di rendimento veloce. Nell’aprile del 1937, il grande veliero veniva speronato da un piroscafo ed affondava in 20 minuti ponendo così fine a 46 anni di navigazione.
SATURNINA FANNY
Fu realizzata nel 1890 su piani del Tappani nel Cantiere Nicolò Odero di Sestri Ponente dall'Ingegnere Navale Fabio Garelli che ne diresse la costruzione. Scafo in acciaio. Stazzava 1.594 tonnellate. Venne varata il 4 febbraio 1891. Armatori Raffo & Bacigalupo di Chiavari.
“ERASMO” in seguito “Pinguin”
Varato a Riva Trigoso nel 1903 per conto degli armatori Raffo e Bacigalupo di Chiavari, fu unità veloce collezionando primati malgrado le molte tempeste nelle quali ha avuto la ventura d’incappare, in Atlantico e nel Pacifico. Venduto alla Casa tedesca Laeisz, navigava col nome di “Pinguin” e veniva demolito nel 1923 dopo aver alzato anche la bandiera francese.
Nave a Palo “REGINA ELENA” – In seguito: “Ponape” – “Bellhouse”
Armato da Casa Milesi di Genova, veniva varato a Riva Trigoso nel 1903. Allestito con cura sotto la sorveglianza di capitani esperti, condotto in campagne effettuate con passaggi veloci e con carichi di vario genere non escluso il nitrato peruviano e il petrolio in cassette, nel 1912 veniva ceduto alla Casa Laeisz col nome di “Ponape”. Catturato dagli inglesi durante la prima guerra mondiale, navigava col nome “Bellhouse” passando poi sotto bandiera norvegese fino al 1927. Lunghezza 96 metri, larghezza 13,10, pescaggio 7 metri. Scafo in acciaio, stazzava 2.365 tonnellate. Portata 3.500 tonnellate. Era uno dei più bei quattr'alberi italiano. Aveva le vele di belvedere e controbelvedere.
Nave a Palo ITALIA
Scafo in acciaio, stazzava 3.109 tonnellate lorde, 3.030 nette. Lunghezza 98,80 metri, larghezza 14,54. Immersione 7,67 metri. Era armata con doppi velacci, velaccini e belvedere.
Con la sua portata di 4.200 tonn., è stato il più grande veliero costruito dai cantieri nazionali. Varato al Muggiano nel 1903 per conto degli armatori Cavalieri Becchi e Sturlese di Genova, attrezzato a nave a palo con i ritrovati più recenti, con 18 vele quadre, randa e 12 vele triangolari, albero maestro di 50 m. , era una nave splendida alla quale, però, non ha arriso la fortuna, che gli ha decretato la breve vita di 3 anni. Due le campagne, la prima di circumnavigazione del globo; la seconda campagna tra Europa, Australia e nuovamente Europa via Capo Horn. Durante la terza campagna, 1908, diretto allo scalo cileno di Iquique, l’“Italia” arrivava verso sera sotto costa quando veniva a mancare completamente il vento lasciando le vele inerti sicché bisognava ricorrere all’assistenza di uno dei pochi rimorchiatori della zona, che non fu possibile trovare (o giungeva troppo tardi). Il mare lungo che arrivava da Sud Ovest, dagli sconfinati spazi oceanici aperti, complice la corrente, spinsero il veliero sulle rocce della costa che scendeva a picco decretandone la fine per naufragio. Sinistro successo anche ad altre navi perché, essendo il mare molto profondo, era molto difficoltoso fermare la deriva per mezzo delle ancore. L’”Italia” riusciva tuttavia ad effettuare la manovra richiesta ma troppo tardi perché la poppa, ruotando, arrivò con il timone proprio sulle rocce che aprirono una via d’acqua fatale. Non rimaneva all’equipaggio che allontanarsi con le lance di salvataggio, che venivano soccorse da alcuni pescherecci.
Nave a Palo “GABRIELE D’ALI’” gemella della “Principessa Mafalda”
Progettista e Direttore dei Lavori fu l'Ingegnere Navale Fabio Garelli.Scafo in acciaio, stazzava 2.385 tonnellate. Zavorra 800 tonnellate d'acqua.Bastimento bello e dalla linea filante, risultò essere molto veloce anche per l'ampia velatura: gabbie, doppi velacci e controvelacci erano alti uguali sui tre alberi. Tra di essi e tra il contromaestro e la mezzana dotata di randa e controranda vi erano tre vele di strallo che, con fiocco, controfiocco e trinchettina al bompresso completavano l'imponente piano velico.
Fu un’ottima unità della Casa D’Alì di Trapani, il veliero più grande dell’Armamento meridionale italiano, varato nel 1903. Passato indenne tra i pericoli della guerra, veniva demolito a Trieste nel 1923, ultima nave a palo della flotta velica commerciale italiana.
- Si RINGRAZIA l’Archivio Fotografico dell’Agenzia Bozzo di Camogli che ci ha concesso la divulgazione di un pezzo della nostra Storia Marinara.
- Articoli correlati all'argomento WINDJAMMER sul sito di Mare Nostrum Rapallo:
Sezione STORIA NAVALE
- Le vere TALL SHIPS
- The TALL SHIPS’ RACE 2007
- I CLIPPERS, le FERRARI dell’800
- Gli ARMATORI CHIAVARESI
Sezione NAVI e MARINAI
- Nave a Palo ITALIA – C. CONCORDIA, due naufragi a confronto
- Veliero TROYAN e Cap. Filippo AVEGNO, un "Manico di altri Tempi..."
- L' AMERIGO VESPUCCI ha compiuto 80 anni ed é ancora la nave più bella del mondo
Carlo GATTI
Rapallo, 4 Maggio 2005
A BORDO CON IL PILOTA... VTE - Genova
A BORDO CON IL PILOTA…
di John GATTI
Capo Pilota del Porto di Genova
Nelle due foto sopra: Manovra di un grande portacontenitore al VTE
Ascoltando la gente parlare di eventi che avvengono in mare, anche se, in questo caso, proprio sotto le finestre delle case dei genovesi, mi rendo conto di quanto sia sconosciuta la professione del Pilota portuale.
La colpa è soprattutto nostra. E’ nostra perché viviamo in un “mondo” a parte, perché siamo “terrestri” pur restando marittimi, perché lavoriamo in equilibrio tra efficienza e sicurezza, ma anche tra coraggio e cautela, tra presenza di spirito ed emozioni forti, tra le parole “lo faccio, o non lo faccio?”, seguite da decisioni prese in un secondo. E’ nostra perché diamo per scontato che chi ci guarda dalla finestra capisce cosa c’è dietro al movimento di una nave all’interno di un porto.
Voglio usare l’ultima, in ordine cronologico, “avventura” piuttosto eclatante discussa sulle banchine del nostro porto e riportata su molti quotidiani, ma questa volta la voglio raccontare dal “Ponte di Comando”, usando un linguaggio pratico, diretto, marinaro.
Il telefono è squillato intorno alle 23,00, e una voce ferma e decisa mi ha avvisato che la nave Cosco Africa, lunga 349 metri e di 114.000 tonnellate di stazza lorda ormeggiata nel porto di Pra-Voltri, stava strappando i cavi che la tenevano ormeggiata in banchina a causa del forte vento di Tramontana. Dall’altra parte del telefono c’era Angelo Simi De Burgis, il collega in servizio nella zona di ponente. Quella telefonata ha fatto scattare delle procedure d’emergenza, procedure scritte sulla pelle di decine di migliaia di manovre, molte di routine ma tante altre estreme. Un minuto di telefonata mi ha permesso di capire la gravità della situazione, il grado di controllo e la preparazione alla gestione di un evento che avrebbe potuto avere conseguenze disastrose.
Il tempo trascorso in macchina per raggiungere la pilotina a Multedo, è servito a raccogliere tutte le informazioni possibili, ascoltando la sala Operativa dell’Autorità Marittima, la nostra Sede Operativa e quella dei rimorchiatori. L’ingranaggio, molto ben oliato, stava girando in modo perfetto. Nel frattempo Angelo era salito sulla nave e cercava di gestire la situazione: la nave aveva strappato tutti i cavi che la tenevano ormeggiata e, in quel momento, due ancore con due lunghezze di catena ciascuna e tre rimorchiatori a spingere agguantavano la Cosco Africa a circa 70 metri dalla Costa Concordia.
Nel frattempo gli ormeggiatori ci avvisavano che anche la nave MSC Vienna si stava allargando dalla banchina rischiando di strappare i cavi. Decido di imbarcare sulla MSC. Una volta raggiunto il Ponte di Comando dispongo per filare due lunghezze in acqua per essere pronti sulle ancore, faccio preparare i cavi per rinforzare gli ormeggi e mi metto in contatto con l’Autorità Marittima, la quale mi informa che hanno predisposto l’invio di altri due rimorchiatori, uno previsto arrivare in dieci minuti, il secondo in venticinque.
Effettivamente il rimorchiatore America arriva puntuale e, quando comincia a spingere, riusciamo a recuperare sul vento, riportando la nave all’ormeggio.
A questo punto Angelo, con cui ero sempre in contatto radio, mi chiede di raggiungerlo immediatamente perché la situazione stava diventando ingestibile. Il vento superava tranquillamente i 50 nodi con raffiche a 60.
Raggiungo il collega sulla Cosco Africa e mi trovo di fronte a una situazione veramente delicata: il Comandante, di nazionalità cinese, era molto provato dalla situazione e appariva decisamente agitato; la Costa Concordia si trovava ormai a meno di 50 metri e continuavamo a perdere acqua soccombendo, di fatto, alla forza del vento. Di poppa avevamo due rimorchiatori molto potenti che spingevano a tutta forza.
Per non finire contro la C.Concordia decidiamo di mettere la macchina avanti per cercare, in estrema necessità, di affiancare la nave alla diga nel modo meno traumatico possibile. L’abilità di tutti, la sincronizzazione perfetta delle forze e una buona dose di fortuna, hanno permesso di far rimontare la poppa al vento quel tanto che ci ha permesso, una volta raggiunti dal quarto rimorchiatore predisposto dall’Autorità Marittima, di usare con decisione la macchina indietro e di riportarci, metro dopo metro, vicini al posto d’ormeggio.
A questo punto abbiamo provato a riaffiancare la nave, ma raffiche di vento di incredibile violenza ci hanno portato più volte pericolosamente vicino alle gru, per poi riallargarci dalla banchina.
La situazione era sempre più critica: il vento sembrava aumentare di intensità, la nave si stava di nuovo allontanando dalla banchina, non avevamo più cavi a disposizione e gli avviamenti della macchina erano ormai agli sgoccioli.
Era arrivato il momento del “lo faccio, o non lo faccio?”.
Mettetevi nei nostri panni: il vento freddo di Tramontana rendeva difficile anche soltanto lo stare in piedi sull’aletta del Ponte di Comando, il rischio di finire sulla Concordia o sulla diga era diventato quasi una certezza, ma la nave ce l’avrebbe fatta a raggiungere la velocità necessaria per contrastare il vento e uscire dal porto, o avrebbe vinto lui.
Il secondo a disposizione era passato, i pochi avviamenti a disposizione avevano fatto da ago della bilancia.
“Rimorchiatori fermate la spinta!” – immediatamente la nave sente il vento e riprende ad allargarsi decisamente dalla banchina – “Comandante, avanti molto adagio!” – la macchina risponde decisa, ma gli interminabili minuti necessari a prendere velocità fanno scarrocciare il bestione di 350 metri in maniera impressionante – nel giro di una manciata di secondi passiamo dal Molto Adagio Avanti all’Avanti Tutta. Puntiamo la prua sul fanaletto rosso dell’imboccatura, ma la poppa continua a cadere. Gli ordini al timoniere vengono urlati, un po’ per superare il vento e un po’ per scuotere il Comandante seriamente preoccupato. La velocità aumenta e il controllo della nave migliora. Arriviamo ad affrontare il punto più stretto con una velocità di 14 nodi! Impressionante anche per noi.
Passiamo a una quindicina di metri dal cemento del fanaletto rosso, dove accostiamo con il timone tutto a “dritta” per mettere la prua al vento. In quel momento la poppa è a venti metri dalla diga.
Pochi minuti dopo siamo fuori. Diminuiamo la macchina, e con lei cala anche la tensione. Io e Angelo ci scambiamo lo stesso sguardo carico di soddisfatta energia che ha sottolineato numerosi momenti simili a questo.
Adesso devo chiudere con una riflessione che mi sembra oltremodo superflua, ma che comunque devo fare. Alla luce di quanto vi ho scritto, tenendo conto che in questo articolo non ho sottolineato abbastanza il ruolo avuto dall’Autorità Marittima e dagli altri servizi tecnico nautici perché il punto di vista non lo permetteva, vi invito a pensare alla pericolosità di un controllo e di una gestione diversa da quella prevista e attuata oggigiorno.
Quando un tipo di lavoro prevede l’accadere di situazioni limite, non ci si può permettere il lusso di compromettere un equilibrio collaudato, proponendo gestioni private e concorrenza laddove la sicurezza umana, delle infrastrutture portuali e dell’ambiente, verrebbero inquinate da interessi economici.
Voltri Terminal Europa (VTE)
di Carlo Gatti
La MERIDIANA di Voltri
Voltri Terminal Europa PSA Voltri Pra (Voltri Terminal Europa S.p.A.) è il maggiore terminal contenitori del Porto di Genova e uno dei più efficienti del Mediterraneo, con una capacità attuale di 1,5 milioni di TEUs annui e con traffici che, ad oggi, si attestano oltre il milione di TEUs, che rappresentano il 50% del totale movimentato nell'intero Porto di Genova.
Inaugurato nel luglio 1992 con la partenza del primo traghetto della società Viamare e arricchitosi nell’ottobre 1993 con l’approdo della prima nave car carrier, l’attività del terminal contenitori, il core business del VTE, è stato inaugurato nel maggio 1994, cambiando in modo sostanziale e qualificando a livelli europei la capacità di servizio del Porto di Genova e di tutto il comparto dell’Alto Tirreno.
Il Terminal, che nel triennio 2011 – 2013 ha movimentato più di tre milioni di TEU, ha registrato il proprio record storico nel 2012, anno in cui con 1.249.000 TEU movimentati contribuì consistentemente al raggiungimento dei 2.000.000 di TEU movimentati dal Porto di Genova.
Il terminal VTE è dotato di una banchina di 1430 m, su fondali di 15 m ed è servita da 8 gru post panamax (16 rows) e da 4 gru super post panamax (18 rows). Si estende attualmente su circa 110 ettari di piazzali ed è dotato del parco reefer più esteso del Nord Tirreno (più di 1.500 reefer plugs).
Inoltre, ulteriori 30 ettari sono dedicati al Distripark di Voltri, area di servizi, che fa capo a PSA - Prà Distipark Europa S.p.A. e che consta di una torre uffici e servizi da 7.200 mq e di magazzini per 20.000 mq. Questi ultimi hanno a disposizione un'ampia area per la sosta e le movimentazioni dei camion e dei contenitori e svolgono attività diretta a soddisfare la domanda di servizio legata al consolidamento di carichi eccezionali, container fuori sagoma (OOG), Break Bulk, perizie, ispezioni, verifiche, magazzinaggio e distribuzione delle merci.
BACINO PORTUALE DI VOLTRI
La vera Storia
di Renzo BAGNASCO
Scrivo queste righe perché ne sono stato testimone interessato.
E’ bene fare una premessa che, da sola, farà capire il perché del bacino a Voltri, realizzato in zona che parrebbe inidonea in quanto soggetta a ventolate terribili, che scendono incanalate lungo la stretta valle del Turchino. Il fatto che le navi per accostare debbano invece compiere evoluzioni a bassa velocità, ne avrebbero sconsigliato la sua collocazione, non compatibile con il governo di una imbarcazione in quei frangenti.
Per fortuna ci pensano i rimorchiatori, veri <Gatti> dei mari.
Ma a tutto questo ha fatto agio il fatto che per le opere marittime i costi, alla fine, sono i più difficili da verificare. Il grande porto di Genova era terminato, Multedo, per il quieto vivere, era meglio non toccarlo e quindi per foraggiare tutti gli addetti, partiti in testa, bisognava inventarsi un qualcosa: ecco allora il bacino di Voltri dal grande impatto popolare.
Il progetto iniziale, redatto da persone altamente qualificate oggi scomparse, prevedeva un’opera gigantesca dai costi mostruosi: cosa di meglio per chi doveva finanziarsi.
In Italia, all’epoca, le ditte che potevano eseguire lavori così importanti, erano forse due, tutte fortemente ammanigliate. Le stesse, grazie ai nostri solerti e “disinteressati” Ministri, hanno anche molto lavorato all’estero, spesso finanziate da noi, sotto forma di aiuti ai paesi in via di sviluppo, un po’ come gli aerei della Piaggio “regalati” a paesi africani. Al primo guasto, quelli li abbandonavano e noi andavamo a recuperarli, imputando i costi al nostro Governo, sempre sotto la voce <aiuti al terzo mondo>.
Con queste premesse è facile capire perché si finanziò subito la diga foranea, l’opera più incontrollabile, e poi, a seguire, sarebbe avvenuto il tombamento per creare una piattaforma, appendice della terra ferma allargatasi in mare per divenire Terminal. Il progetto infatti prevedeva che il torrente Branega, il più importante del sito, fosse prolungato e canalizzato sotto al terrapieno sino a sbucare nel canale di calma a ridosso della diga e, da li, al mare. Occorreva anche individuare, raccogliere e canalizzare tutte le innumerevoli acque nere che scaricano da sempre in mare, trasportate dai vari rigagnoli, per convogliarle in un unico depuratore, mentre i vari ruscelli e rivoli che sfociavano in mare, bisognava intercettarli, canalizzarli e portarli anch’essi a scaricare di fronte alla diga. Solo dopo si sarebbe potuto interrare. A seguito di questi ostacoli irrisolti, questo canale, inizialmente non previsto, rimarrà definitivamente …..provvisorio
Subito alcuni speculatori comprarono dai contadini le colline dietro Palmaro, perché era previsto di ricavarne i terreni da poi portare direttamente nel riempimento, utilizzando teleferiche che sorpassassero l’Aurelia e la ferrovia così da non intralciare, ingorgandola, la vita del ponente cittadino. Si sarebbe evitato il disastro che poi invece ci fu, dovuto al continuo transitare di centinaia di camion al giorno provenienti dalle cave, snaturando Voltri e tutta il ponente della Città. Subito si capì che questi approvvigionamenti tradizionali sarebbero stati costosi e insufficienti: si decise anche di abbandonare l’idea di ribaltare in mare le colline retrostanti e, con una ordinanza, si impose a tutti di scaricare inerti di qualunque naturale comunque ricavati, unicamente a Voltri: da Nervi alla Val Bisagno, dal Polcevera alla Vesima, fu un via vai di automezzi e questo per anni. Immaginarsi il caos, la polvere e i disagi nella zona di arrivo, anche ai fini della sicurezza stradale. Oggi c’è il sospetto che nel caos generale, qualcuno vi scaricò pure rifiuti proibiti. All’inizio si era pensato di colmare, utilizzando solo il materiale “pulito” di risulta dalla contemporanea costruzione della famosa bretella autostradale, il cui progetto purtroppo è tutt’ora in itinere. Campa cavallo: il coordinamento non è fra i pregi di queste Amministrazioni di sinistra, sensibilissime ad evitare che i propri elettori, perché esasperati, chiedano spiegazioni.
Che abbiano le manine un po’ sporche ???? Si vive da elezione ad elezione, senza programmare alcunché.
Intanto i lavori della diga procedevano speditamente (per quelli naturalmente i finanziamenti furono trovati) mentre per il riempimento si dovette attendere anni per racimolare tutto quel materiale. Morale: i cassoni di contenimento furono posati senza lasciare i fori per lo sbocco al mare dei rivi; fra l’altro nessuno li progettò e la sponda a mare fu realizzata senza i “buchi”. Ben presto si formò l’attuale bacino di acqua putrida e stagnante, in attesa di completare il tombamento di quel tratto, che non potrà mai avvenire perche devono risolvere l’impossibile problema dello scarico libero dei torrentelli, il ricambio delle acque ed eliminando anche gli scarichi non intercettati ma che ancor oggi vi si riversano tanto che la zona non è balneabile. Penso a Stoccolma dove gli appassionati possono pescare i salmoni in pieno centro della città.
Alle obiezioni d’aver creato una cloaca si rispose: <la lasciamo aperta a levante, nell’attesa di colmarla (impossibile come abbiamo visto ) così che scarichi verso Pegli davanti a quel litorale. Al ricambio penserà il vento che soffia da Voltri >. Peccato che la tramontana pulisca solo la superficie ma non crei, così sotto costa, corrente; anzi “scopando” terra, vi trasporta pure ogni sorta di “rumenta” cittadina, stradale e ferroviaria. In compenso i rivi non tracimano perché vi si riversano liberi e incontrollati.
Ci si dimenticò però che le correnti sotto costa viaggiano da Livorno verso l’Esterel. Ne sono testimonianza i cadaveri che, caduti in mare da noi, li ritrovano poi sulla Costa Azzurra. Nel sito, quelle più a terra e meno forti, sospingono le acque da Pegli verso il “cul de sac” creato a Palmaro, esattamente l’opposto di quanto raccontato nelle Assemblee, senza creare ricambio, anzi. La corrente che loro vantavano è quella di ritorno che, partendo dall’Esterl, corre dritta e al largo, raggiungendo Livorno. Quando il popolino se ne accorse, non poté tanto urlare perche la zona, da sempre controllata dalla “sinistra”, era e doveva essere in piena armonia con il Comune e la Regione. Pegli fu sacrificata perché non “rossa”. Per calmare le ‘acque del dissenso’ promisero una fascia costiera dedicata allo sport e nel canale, nel frattempo formatosi fra il riempimento del Terminal e la costa, sarebbe dovuto sorgere un bacino per il canottaggio olimpico, installazione di cui Genova è da sempre priva. Poi qualcuno fece presente che il sito è spaventosamente ventoso, le acque dichiarate non balneabili sono sporche e rischiose per chi vi si bagnasse. Oltretutto le sponde del canale non erano regolamentari: non realizzate inclinate e sassose così da smorzare le ondine provocate dai canoisti: non sarebbero garantite pari acque in tutte le corsie dello specchio d’acqua. Allora, arrampicandosi sugli specchi, lo dedicarono al vecchio e desueto ( non olimpico)canottaggio a sedile fisso, cioè dei gozzi un po’ più snelli, cosa congeniale ai pescatori della zona.
Tutto dall’epoca è rimasto così indefinito. La verifica dei lavori non fu mai fatta perché a quelle Ditte tutti facevano riferimento e, d’altronde, chi si sarebbe immerso per verificare se il piede della diga era realmente di 15 o 30 metri: chi poteva controllare se le mareggiate, susseguitesi negli anni, avessero realmente distrutto, sparpagliandolo sul fondo del mare, il materiale utilizzato per quelle subacquee in itinere, obbligando ogni volta a doverle rifare?
Per fare queste opere si sono sacrificate le ultime belle spiagge di Genova, dopo aver tombato quelle di Cornigliano con l’Italsider: in quel sito di Prà, vi erano storici palazzi di famiglie nobili genovesi che vi trascorrevano le estati.
Per parte sua l’Anas ha fatto il resto, collegandosi con ripidi tornanti, al nuovo porto. In mezzo a tutto lo smog, prodotto dai camion obbligati a innestare la “primina” per superare quei dislivelli, si coltiva il “famoso” basilico di Prà: e poi parlano di habitat vocato !!!. Un tempo la coltivazione partiva da Coronta e finiva a Pegli, perché quella era la zona dal clima idoneo: Prà era troppo fredda e ventosa. Oggi, in serra, lo si può coltivare anche sul Kilimangiaro. Basta saperla raccontare, ma non prendeteci in giro !!
Di tutte quelle imbarcazioni da diporto che si vedono dall’Aurelia ormeggiate nel canale, più della metà sono attraccate in zona abusiva e provvisoria, oltretutto irraggiungibili da grossi mezzi di soccorso, non essendovi strade di accesso. Le più a levante sono addirittura non praticabili neppure dai pedoni, in spregio all’accesso pubblico doveroso per legge, perché chiuse da cancelli non governati; da sempre corre voce che il promotore fosse amico del Governatore Burlando.
Pare che la Capitaneria non cerchi grane: per lei non sono autorizzati e quindi ……. Inesistenti.
In Italia in troppi tengono famiglia !!
(ANSA) - GENOVA, 5 MAR - La capitaneria interviene con una nota contro la possibile concorrenza tra privati e lo fa prendendo spunto dagli interventi compiuti la scorsa notte nel porto di Prà-Voltri dove tutte le componenti portuali sono dovute intervenire per mettere in sicurezza tre navi porta container minacciate da raffiche di vento fino a 125 km orari (una ha rotto gli ormeggi). "Alla vigilia dello sciopero il dispositivo di sicurezza che ha operato in queste condizioni estreme ha dato un'ulteriore dimostrazione non solo dell'alta professionalità di tutti gli operatori dei servizi tecnico-nautici - spiega la Capitaneria - ma anche di quanto il servizio pubblico da essi reso sia importante per la sicurezza, anche ambientale e l'operatività di un porto e di quanto sia indispensabile la loro valenza di servizio pubblico essenziale". E aggiunge: "Nessun soggetto privato in posizione di concorrenza potrebbe garantire quelle prestazioni che solo la natura pubblica dei servizi tecnico-nautici, sotto il coordinamento, la regolazione e la posizione di garanzia assunta dall'Autorità marittima, possono assicurare in situazioni ordinarie e in condizioni estreme, garantendo una presenza qualificata 24 ore su 24, altissima professionalita, sicurezza, e efficienza organizzativa". (ANSA).
Il Capo Pilota John Gatti a bordo della MSC BETTINA durante l’ormeggio nello scalo di Voltri-VTE
(ANSA) - GENOVA, 20 FEB - Prima assoluta per il porto di Genova per una super porta-container da 14.000 teus. Ha attraccato oggi al Terminal Vte di Prà Voltri Msc Bettina, 366 metri di lunghezza, 51 metri di larghezza, record per il porto di Genova insieme al suo carico di 14.000 container da 20 piedi. Per il suo accosto la nave ha fatto una manovra di una tale complessità che la Capitaneria di porto di Genova l'ha definita "da letteratura marinaresca". "L'ingresso in porto di un tale gigante dei mari - ha spiegato l'ammiraglio Vincenzo Melone, comandante della Capitaneria di porto di Genova - è certo frutto delle capacità imprenditoriali di chi gestisce quel terminal, ma si avvale delle quotidiane sinergie istituzionali esistenti tra Autorità portuale, Autorità marittima e abilità dei servizi tecnico-nautici". "Non sempre - ha aggiunto Melone - competitività è sinonimo di privatizzazione, anzi, nel caso dell'ormeggio di mega-portacontainer nei porti come Genova - le cui infrastrutture necessitano di adeguamento alle nuove esigenze dello shipping mondiale - solo la presenza dello Stato, delle sue potestà di regolazione, programmazione, pianificazione, può garantire quell'efficienza, efficacia e sicurezza dei servizi che sono il vero 'sale' della competitività di un porto". (ANSA).
RIPRODUZIONE
Uno scorcio del VTE
Vento a 125km/h e superlavoro questa notte per l’autorità marittima e i servizi tecnico nautici nel porto di Genova-Pra’. Le raffiche, giunte fino a 125 km orari con una media sempre superiore ai 70 km/h a partire dalle 23, hanno comportato un super lavoro per l’autorità marittima e i servizi tecnico-nautici di pilotaggio, rimorchio e ormeggio. Gli effetti più critici si sono avvertiti nel bacino portuale di Pra’–Voltri, dove, oltre alla completa sospensione di tutte le operazioni e alla chiusura del terminal, delle tre navi portacontainer presenti, una, la Cosco Africa, è stata addirittura costretta a lasciare il posto d’ormeggio per essere portata fuori dal porto, alla fonda in posizione di sicurezza. Poco dopo mezzanotte, con la nave – di 349 metri e 114.000 tonnellate di stazza lorda – che stava iniziando a scostarsi di molti metri dalla banchina, sotto l’effetto del vento costantemente superiore agli 80km/h, nonostante le ancore in mare e la contro-spinta esercitata da quattro rimorchiatori appoggiati sul lato mare dell’unità, la Capitaneria di Porto insieme ai Piloti e agli stessi Rimorchiatori, ha deciso di portare la nave fuori dal porto, per posizionarla alla fonda in una zona più ridossata della rada di Voltri. Le altre due navi, la Msc Vienna (260 metri di lunghezza e 41.000 t.s.l.) e la Maersk Tukang (322 metri di lunghezza e 91.000 t.s.l.), ormeggiate sul lato di Ponente della banchina del terminal VTE, pur risentendo in misura minore degli effetti del forte vento – per la loro minor stazza e per il posto d’ormeggio meno esposto alla direzione del vento di ieri sera – hanno comunque avuto necessità non solo di rinforzare i cavi d’ormeggio ma anche della contro-spinta di un rimorchiatore ciascuna. Criticità rilevanti, seppur non della stessa intensità, si sono registrate anche nei bacini di Multedo e Sampierdarena, ove c’è stato bisogno solo di squadre supplementari di ormeggiatori per rinforzare gli ormeggi di alcune unità.
UN ALTRO COMMENTO
Per dare un'idea della vicinanza delle gru-Paceco alla nave ormeggiata nel porto di Voltri-VTE e quindi dell'impossibilità di mettere bitte alte ed idonee, o altri sistemi che possano tenere legata la nave alla banchina, allego queste foto che meglio di tante parole spiegano la situazione.
Pista dell'Aeroporto
Porto di Voltri. Sullo sfondo l'Aeroporto.
Perché hanno costruito un porto così? Ecco la spiegazione: causa la presenza dell'aeroporto, la cui pista é perfettamente allineata con la banchina del VTE, le gru non possono raggiungere una certa altezza per ragioni di sicurezza. Quindi le gru/Paceco installate al VTE sono del tipo più basso, con meno sbraccio, la distanza gru-nave é minima per una necessità operativa, quella di poter lavorare sui container più distanti (lato sinistro della nave, vedi foto), quindi i cavi d'ormeggio guardano tutti in verticale e le bitte sono quelle tradizionali. Quando c'è il vento famoso dal Turchino, la nave si allarga, i cavi si spezzano e succedono i guai di due giorni fa...
Carlo GATTI
Rapallo, 8 Aprile 2015
Il TRATTATO DI TORDESILLAS
IL TRATTATO DI TORDESILLAS
Dall'avventura di Colombo alla nascita del colonialismo
Il 12 ottobre 1492, dopo sessantanove giorni di navigazione, Cristoforo Colombo gettava l’ancora della sua caravella, la Santa Maria, presso l’isola Guanahani (futura isola di San Salvador). Fu così che, nel tentativo di raggiungere via mare il Catai ed il Cipango (le attuali Cina e Giappone) per una nuova e inesplorata via, l’ignaro navigatore fece dono alla Spagna e all’Europa del Nuovo Mondo. Cristoforo Colombo era nato a Genova nel 1451. Eccellente navigatore, si era stabilito in Portogallo, appassionandosi alle esplorazioni e studiando un modo più rapido per raggiungere via mare il Cipango e altre terre sconosciute e colà raccogliere l’oro necessario per una nuova crociata contro i turchi. Intorno al 1484, aveva proposto il suo progetto al re del Portogallo; al rifiuto del sovrano, Colombo si era rivolto ai monarchi di Castiglia e Aragona. Il primo rifiuto dei re spagnoli, nel 1487, non scoraggiò Colombo, che pochi anni dopo, nel pieno fervore della guerra di riconquista cristiana della Spagna, riuscì ad accordarsi con i reali per il finanziamento dell’impresa. Era la primavera del 1492. Il 3 agosto di quello stesso anno Colombo salpava verso Occidente da Palos con tre imbarcazioni: la “Niña”, la “Pinta” e la “Santa Maria”. Dopo una sosta alle Canarie, l’8 settembre la piccola flotta iniziava la traversata dell’Oceano Atlantico.
Dopo il rientro di Colombo in Europa, avvenuto nel marzo 1493, papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia), si ritrovò a dover dirimere le rivendicazioni territoriali dei sovrani iberici: al Portogallo infatti avrebbero dovuto spettare tutte le terre sul parallelo delle Canarie, in base ad un accordo fra quel regno e la Castiglia di una decina d’anni prima. La scoperta delle Indie da parte di Colombo e il nuovo assetto politico della penisola Iberica (dove Castiglia e Aragona s’erano unite nel nuovo regno di Spagna) entravano in conflitto con quel trattato e rischiavano di spaccare la cristianità. Rodrigo Borgia dovette mediare fra le pretensioni di Giovanni II di Portogallo e quelle di Sovrani Cattolici di Castiglia e Aragona, ed emanò una serie di documenti, tra i quali il più importante è la bolla Inter cetera del 4 maggio 1493. Il documento è contenuto nel Registro Vaticano 777 dell’Archivio Segreto Vaticano. La Inter coetera (di cui esistono due redazioni) venne retrodatata, nella sua versione definitiva al 4 maggio, anche se composta, spedita e registrata solo alla fine del giugno 1493. Con quel documento, definito anche “bolla di partizione”, il papa – in virtù dell’autorità apostolica sulle terre occidentali dell’ex Impero Romano, esercitata in forza delle prerogative attribuite ai papi dalla falsa donazione di Costantino – concedeva ai sovrani spagnoli il possesso di tutte le isole e le terre scoperte e di quelle che sarebbero state scoperte in futuro, a Ovest di una linea di confine ideale Polo Nord/Polo Sud, idealmente tracciata a circa cento leghe dalle isole Azzorre e dalle isole di Capo Verde.
Con questo atto il pontefice delimitava il dominio marittimo e coloniale di Spagna e Portogallo. Il papa chiedeva poi ai sovrani di provvedere al più presto all’invio di missionari cattolici che operassero per convertire alla vera fede di Cristo le popolazioni indigene. Nel documento papale s’incontra fra l’altro l’esplicito riferimento alla missione svolta da Cristoforo Colombo (chiamato nella bolla Cristoforus Colon), “uomo particolarmente degno e assai raccomandabile, nonché capace di compiere una così grande impresa”, incaricato dai sovrani spagnoli “di cercare non senza fatiche e pericoli certe isole lontanissime e terre mai scoperte prima”.
L'intervento del Papa nella questione fu giustificato alla luce della Donazione di Costantino. Il documento (di cui è stata peraltro provata l'inautenticità) includeva nel lascito di Costantino alla Chiesa, tra le altre cose, le isole della parte occidentale dell'Impero Romano. All'epoca si riteneva che le nuove scoperte fossero semplicemente delle isole (ci si rese conto solo più tardi che si trattava invece di un nuovo continente): di qui, presupponendo di intendere l'Oceano Atlantico ricompreso nella "parte occidentale dell'Impero Romano", la giustificazione dell'arbitrato papale.
Altra interpretazione vuole invece che l'intervento papale, forte dell'autorità acquisita grazie alla guerra santa di matrice cristiana e alle crociate servisse a legalizzare la posizione di Portogallo e Spagna su territori inesplorati, selvaggi e abitati da pagani , dove la loro pretesa di legittimità era labile: fintanto che le operazioni militari si svolsero nella penisola spagnola, con lo scopo di ripristinare la Christianitas, non fu avvertito minimamente dalle monarchie iberiche nessun bisogno di avallo da parte di un potere superiore, cosa che invece, divenne indispensabile con le nuove scoperte geografiche.
La divisione tracciata dalla bolla, comunque, non fu equa. La Spagna influenzò pesantemente la decisione, che di fatto escluse il Portogallo dall'America (Alessandro VI era di origine spagnola). La ragione per cui la bolla favoriva la Spagna fu individuata nel servizio che la nazione spagnola rendeva, o avrebbe reso, alla Chiesa di Roma. Il dettato della bolla alessandrina fu poi superato dal Trattato di Tordesillas, nel 1494, che spostò la linea molto più ad ovest, permettendo al Portogallo di reclamare il suo dominio sul Brasile.
PREMESSA
La bolla Inter Coetera,* di papa Alessandro VI, scritta il 3 maggio 1493, su richiesta dei Re Cattolici di Spagna, è uno dei documenti più importanti della chiesa cattolica rinascimentale, poiché con esso non solo si sanziona giuridicamente la nascita del colonialismo internazionale dell'Europa occidentale, ma si inaugura anche il moderno colonialismo ideologico e culturale del cattolicesimo romano, allora strettamente legato a quello ispano-portoghese. A dir il vero, la bolla nacque per rivedere un trattato di spartizione imperiale circa le isole dell'Atlantico (isole già conosciute e ancora da conoscere), già stipulato, senza mediazione pontificia, nel 1479, tra Spagna e Portogallo, ad Alcaçovas (in virtù del quale la Spagna poté assicurarsi solo le Canarie).
Con la scoperta dell'America (che allora si pensava fosse la Cina), la Spagna decise di non rispettare quel trattato e, rivolgendosi direttamente al papa, sperava di evitare una guerra col Portogallo e di stipulare un nuovo trattato.
Il Portogallo, infatti, riteneva che proprio in virtù di quel trattato, le terre scoperte da Colombo gli appartenessero di diritto e, poiché la sue proteste presso la corte spagnola non avevano ottenuto alcun risultato, aveva allestito una flotta da guerra che doveva seguire Colombo nei futuri viaggi per occupare con la forza gli eventuali nuovi territori.
La bolla di Alessandro VI è quindi un documento più importante del trattato di Alcaçovas, poiché, essendo scritta dopo la scoperta dell'America, riguarda per la prima volta dei territori planetari, per quanto solo alcuni decenni dopo ci si convincerà dell'esistenza di un nuovo continente. La bolla, d'altra parte, non perderà valore neppure dopo tale acquisizione geografica, benché i successivi trattati di Tordesillas (1494) e soprattutto di Saragozza (1529) costituiranno delle notevoli precisazioni che i portoghesi vorranno fare a loro vantaggio. Saranno piuttosto le nuove potenze europee capitalistiche: Olanda, Inghilterra e Francia, a rendere inutile una qualunque mediazione pontificia.
TRATTATO DI RORDESILLAS
La divisione del nuovo mondo tra spagnoli (a sinistra del meridiano) e portoghese (a destra del meridiano)
Il TRATTATO DI TORDESILLAS fu firmato il 7 giugno 1494 tra i re Cattolici di Spagna e Giovanni II di Portogallo, sotto l'egida del papa Alessandro VI, quindi confermato dal papa Giulio II, fissava una linea di delimitazione circa a 2000 km a Ovest delle isole del Capoverde: i territori situati all'Est di questa linea, conosciuti e sconosciuti, sono attribuiti al Portogallo, quelli dell'Est alla Spagna. Chiamato anche “trattato di ripartizione del mondo”, veniva a regolare, dopo i trattati di Alcoçavas (1479) e di Tolède (1480), la rivalità dei due paesi impegnati “nelle grandi scoperte”.
Versione portoghese del trattato di Tordesillas, folio 1 recto, Biblioteca Nazionale di Lisbona.
Certo è che la chiesa non avrebbe mai prodotto questo documento se il colonialismo portoghese (già sotto la sua "protezione") non avesse avuto concorrenti di sorta: il documento infatti ha lo scopo di dirimere una controversia territoriale emersa tra i due principali paesi colonialisti di quel periodo, che la storia ha voluto fossero cattolici. Esso ha pure lo scopo d'impedire che altri Stati cattolici vogliano diventare colonialisti nelle stesse terre già occupate. La spartizione viene assicurata dalla chiesa non solo sulle terre già scoperte ma anche su quelle da scoprire.
Come disse il gesuita Giovanni Botero, teorico della "ragion di stato", la chiesa romana si sentiva in dovere di riconoscere i possessi coloniali mondiali alle due nazioni europee che più avevano lottato contro ebrei e musulmani, cioè che più avevano manifestato il proprio integralismo politico-religioso.
Se il contenzioso fosse sorto tra un Portogallo cattolico e una Germania protestante, probabilmente non ci sarebbe stata alcuna mediazione pontificia, non foss'altro perché non ne sarebbe stata riconosciuta l'universalità da entrambe le parti. Se invece il contenzioso avesse coinvolto altri Paesi europei di religione cattolica, quest'ultimi, disposti certo a riconoscere l'universalità etico-religiosa della chiesa romana, non altrettanta disponibilità avrebbero manifestato per la pretesa universalità politico-giurisdizionale. E la chiesa post-medievale, dal canto suo, non sarebbe stata in grado di rivendicarla. Gli stessi sovrani iberico-lusitani gliela riconoscevano più che altro in maniera formale, in quanto, sul piano pratico, era la chiesa che doveva adattarsi alla forza delle loro armi. Già ai tempi di Sisto IV, che cercò d'imporre alla Castiglia vescovi di sua nomina, Isabella vi si oppose energicamente, anche se poi accetterà la proposta dello stesso papa di ripristinare l'antico tribunale dell'Inquisizione, gestito dalla corona (1481).
Qui appare evidente che la Spagna intendeva servirsi della mediazione pontificia per darsi una patente di legalità nel caso in cui l'opposizione del Portogallo alla “bolla” avesse dovuto costringerla a dichiarargli guerra.
La storia comunque ha voluto che a legittimare il moderno colonialismo internazionale non fosse un'istituzione laica ma religiosa. Questo a prescindere dal fatto che le successive legittimazioni (laiche o a-cattoliche) conterranno aspetti colonialistici assai più anti-democratici del contenuto complessivo della bolla in oggetto.
Quadro storico
L'Inter Coetera venne scritta in un momento di grave crisi morale per la chiesa di Roma. Le uniche vere preoccupazioni dei pontefici parevano essere quelle di proteggere i loro parenti e di abbellire Roma con edifici prestigiosi.
Sul piano politico invece la situazione sembrava offrire alla chiesa una qualche possibilità di rivalsa, almeno nell'ambito dello Stato pontificio, dopo i 70 anni della cosiddetta "cattività avignonese" e dopo la nascita e lo sviluppo del movimento conciliarista (che negava al papato la priorità sul concilio, trovando, in questo, molti appoggi da parte dei governi laici).
Con grande tempismo politico, la chiesa di Roma seppe approfittare della richiesta bizantina di aiuti militari contro l'invasore ottomano, per imporre alla chiesa ortodossa, nel concilio di Ferrara-Firenze (1438-39), il riconoscimento della giurisdizione universale del pontefice. Il fenomeno conciliarista occidentale sembrava aver perso, d'improvviso, una qualunque giustificazione d'esistere.
Con la fine del "piccolo scisma d'occidente" (1439-49), che fu praticamente l'ultimo tentativo del conciliarismo d'imporsi restando nell'ambito del cattolicesimo, la Curia romana riprenderà totalmente il controllo della chiesa. Centralismo, fiscalismo e mondanità saranno poi le cause che scateneranno la Riforma protestante.
Tuttavia, il decreto d'unione non venne accettato dalle comunità ortodosse, che alla delegazione, rientrata a Costantinopoli, fecero sapere di preferire la dominazione turca a quella latina. Né il papato riuscì a organizzare una potente crociata antislamica, per imporre il decreto, agli ortodossi, con la forza. Ormai i tempi non invitavano più gli occidentali a impegnarsi in crociate neo-medievali. Senza considerare che nei confronti del mondo bizantino, l'occidente cattolico non ha mai nutrito alcuna simpatia.
Questo, benché, proprio a seguito di quel concilio, i teologi, i filosofi e i maestri di greco della delegazione che decisero di restare in Italia, contribuirono non poco allo sviluppo dell'Umanesimo e del neo-platonismo, nonché alla diffusione della lingua greca e a un rinnovato interesse per le tradizioni bizantine. Tanto per fare un esempio, un'opera fondamentale come quella del Valla sulla falsa Donazione di Costantino (1440) sarebbe stata impossibile con i soli strumenti della filologia.
Inoltre, le possibilità di fare affari, per i mercanti, si stavano lentamente spostando verso le nuove rotte coloniali portoghesi o verso il Mare del Nord, dove dominavano le città della Lega Anseatica. In fondo l'obiettivo principale delle crociate medievali (e cioè quello di aprirsi uno spazio autonomo nel mercato mediterraneo, per commerciare in tutta Europa i prodotti orientali), i mercanti l'avevano raggiunto da un pezzo.
E' vero che la parte del leone, in quell'impresa bisecolare che costò immani sacrifici, l'aveva praticamente fatta Venezia (che costringerà Genova a rivolgersi verso il Mediterraneo occidentale e i traffici ispano-portoghesi); ed è anche vero che proprio a seguito della spinta ottomana, Venezia era stata costretta a rivolgersi verso i porti del Nordafrica, della Siria, dell'Egitto. Ma è anche vero che, nel complesso, la borghesia occidentale (si pensi anche a quella, sempre più legata alla manifattura, di paesi come Olanda, Inghilterra e Francia) stava vivendo un momento di crescente benessere. Per cui il papato non poteva più contare sulle stesse motivazioni sociali che nei secoli precedenti avevano spinto migliaia di persone a combattere per la "giusta causa" del colonialismo.
Probabilmente, se dopo la caduta di Costantinopoli (1453), gli spagnoli non avessero avuto il coraggio di attraversare l'Atlantico (emulando, in questo, il coraggio portoghese di scendere sotto l'equatore), la borghesia occidentale (Venezia esclusa) non avrebbe potuto disinteressarsi, con così relativa facilità, dei traffici mediterranei (lo dimostra la discesa di Carlo VIII in Italia, ma gli stessi aragonesi nel Mediterraneo svolgeranno sempre una politica antiveneziana). D'altra parte fu anche l'atteggiamento monopolistico di Venezia (che a questi traffici non vorrà rinunciare neppure dopo il 1453) a indurre le borghesie degli altri paesi a cercare nuovi sbocchi per le loro merci e soprattutto altre fonti (meno costose) per le loro materie prime.
Il papato, quindi, in questa seconda metà del XV sec., deve tener testa a tre avversari di tutto rispetto: 1) la crescente laicizzazione dei costumi e dei valori (soprattutto nell'area di cultura umanistica e rinascimentale: fenomeno, allora, tipico degli intellettuali); 2) l'emancipazione socio-economica della borghesia, che vuole rinnovare profondamente la struttura e l'ideologia della chiesa cattolica (da qui prenderà le mosse il movimento riformistico); 3) l'affermata autonomia politica dei sovrani cattolici, che vogliono agire senza dover rendere conto ad alcun contropotere, senza cioè dover temere che l'arma della scomunica possa bloccare ogni loro iniziativa.
Il papato è ancora potente economicamente, anche se politicamente il suo potere lo esercita soprattutto, in maniera diretta, senza la mediazione del sovrano cattolico, nell'ambito del proprio Stato. Illusosi di aver superato la minaccia del movimento conciliarista, e relativamente soddisfatto della fine dell'impero bizantino, il papato non sospetta neanche lontanamente che tutte le idee conciliariste ed ereticali verranno riprese, di lì a poco, dalla grande Riforma protestante, e che in Europa orientale la Russia degli zar si farà carico di proseguire il conciliarismo della chiesa bizantina.
Alessandro VI (1492-1503)
Papa Alessandro VI rappresenta un esempio davvero illustre (ma i suoi successori, Giulio II e Leone X, non gli furono da meno) del livello di corruzione morale e di prepotenza politica della chiesa romana di quel periodo.
Di origine spagnola, Rodrigo Borgia venne nominato cardinale a soli 25 anni; salì al soglio pontificio per simonia; ebbe cinque figli, tra i quali Cesare e Lucrezia, dei quali erano noti la spregiudicatezza morale e politica; fece di tutto, senza però riuscirvi, a ricavare in Romagna un dominio per il figlio Cesare; dilapidò il patrimonio della chiesa per arricchire i propri familiari, anzi, fu il primo a trasformare la corte pontificia in reggia principesca, strutturata in modo tale da mettere in risalto la venerazione rituale riservata alla dinastia; fu responsabile della morte per impiccagione e rogo del predicatore domenicano Girolamo Savonarola, al quale aveva offerto la porpora cardinalizia pur di farlo tacere. In conflitto con gli aragonesi per i diritti su alcuni feudi nel regno napoletano, preferì prendere le loro difese (perché li considerava più deboli) contro i francesi che con Carlo VIII erano scesi in Italia per occuparla. Si sospetta infine che sia stato avvelenato.
Questo, in sintesi, l'identikit dell'autore della bolla che stiamo per prendere in esame.
Il testo
Il testo, che è il primo di una serie di quattro bolle, dedicate tutte al medesimo argomento: Inter coetera, del giorno dopo, Dudum Siquidem (26.09.1493) e Eximiae devotionis (16.11.1501), esordisce affermando due cose: 1) "la fede cattolica" (e non ortodossa, benché anche questa pretenda di far parte della "religione cristiana") va diffusa in ogni luogo; 2) "i popoli barbari" (cioè non-europei o comunque tutti coloro che non appartenevano a una delle tre religioni monoteistiche: cristiani, ebrei e islamici. "Barbaro" infatti è un epiteto pesante, che la chiesa cattolica riferiva soprattutto ai popoli "pagani", "politeisti" o "idolatri"): questi popoli vanno "vinti" (sottinteso: militarmente) e poi "condotti alla fede" (spada e croce sono indissolubili).
Il testo poi prosegue elencando i fatti e i motivi dai quali la chiesa di Roma può, secondo ragione, far dipendere la concessione del riconoscimento giuridico delle nuove proprietà spagnole in America (che ancora si pensava fosse la Cina).
1) Imparzialità assoluta del pontefice, eletto "col favore della clemenza divina (senza nostro merito)". Questa frase di Alessandro VI, che appare più volte, può essere stata ispirata da due diverse preoccupazioni, non antitetiche ma complementari: anzitutto quella di delegittimare una delle accuse più gravi che a quel tempo gli intellettuali progressisti gli muovevano (e per la quale il Savonarola verrà giustiziato nel 1498): l'accusa di simonia. In questo senso la sottolineatura del pontefice potrebbe anche stare a significare che, essendo la cathedra Petri un'istituzione divina, che prescinde dalla personalità o dalle caratteristiche soggettive di chi la occupa, ogni sovrano, di conseguenza, era tenuto ad accettare la bolla senza discuterla, proprio perché scritta da colui che, attraverso Pietro, rappresentava la volontà di Dio.
Il secondo motivo della precisazione può essere stato invece più etico e meno politico, anche se ugualmente importante. Probabilmente Alessandro VI -essendo di origine spagnola- aveva bisogno di difendersi in anticipo dall'inevitabile insinuazione d'aver compiuto un favoritismo nei confronti dei "Re Cattolici" (titolo, questo, ch'egli conferirà ai sovrani di Spagna nel 1494).
2) Spontanea iniziativa del gesto ecclesiale: la concessione del riconoscimento giuridico viene fatta -dice il papa- "per nostra pura liberalità", "non dietro richiesta", "a titolo di favore". Qui si possono precisare alcune cose: anzitutto, secondo il diritto ecclesiastico allora vigente, tutta la terra (come pianeta) apparteneva al Cristo e, quindi, essendone il vicario, al papa, il quale così poteva concederla in usufrutto ai sovrani di religione cattolica; in secondo luogo, una terra non posseduta da un sovrano cattolico veniva considerata "senza proprietario", anche se essa era rivendicata da un proprietario non-cattolico; in terzo luogo, il principio della "donazione delle terre scoperte" tutti i pontefici precedenti ad Alessandro VI l'avevano applicato alle conquiste dei portoghesi.
3) Il "favore" di cui parla il pontefice non va inteso in senso giuridico ma morale. La concessione veniva fatta riconoscendo ai sovrani cattolici (in particolare Alessandro VI si riferisce a Isabella di Castiglia) i sacrifici ("fatiche, spese, pericoli") sostenuti contro i saraceni. Questo è dunque, per la chiesa, un modo di ricompensare (senza obblighi legali) quella nazione che più si era impegnata, per la fede religiosa, sul piano militare, politico ed economico. La "conquista" del Nuovo Mondo non era che il premio per la "riconquista" cattolica della Spagna.
Alessandro VI, in particolare, afferma che se la Spagna era arrivata "seconda" sulle stesse terre che i lusitani avevano scoperto o conquistato per altre vie (si ricordi che l'America corrispondeva alla Cina), ciò non doveva penalizzarla nella spartizione delle colonie, poiché il ritardo era dovuto a un fattore contingente assai importante: la Riconquista.
4) D'altra parte - dice ancora il pontefice - i sovrani spagnoli non solo hanno desiderio di diffondere la fede cattolica, ma hanno anche l'esigenza di doverlo fare in modo legittimo. Il "santo e lodevole proposito" di evangelizzare tutta la terra (questa espressione viene ripetuta più volte nel testo) è, secondo la chiesa, il motivo principale che giustifica il colonialismo ispano-portoghese. Non c'è ragione, quindi, di non concedere in dono e "in perpetuo", cioè anche agli eredi e successori dei sovrani spagnoli (a prescindere cioè dal tipo o dalla qualità dell'evangelizzazione), il favore in oggetto.
5) Anche il giudizio su Colombo è estremamente positivo. Benché l'avesse conosciuto solo attraverso la Lettera a Santàngel, Alessandro VI lo chiama "nostro diletto figlio": forse per suggerire l'idea, conoscendo la "religiosità" del genovese, che il colonialismo era nato sotto buoni auspici e che avrebbe continuato a dare buoni frutti se l'interesse della corona di fosse strettamente unito a quello dell'altare. O forse il pontefice voleva far leva sull'origine italiana di Colombo per dimostrare che indirettamente la chiesa di Roma aveva concorso alla scoperta dell'America.
Non dobbiamo infatti dimenticare che questa bolla non è solo un documento con cui si concede il favore del riconoscimento giuridico della conquista, ma è anche un documento con cui, in cambio del favore, si chiede un compenso relativo agli interessi della chiesa.
L'interesse della chiesa
Alessandro VI non si era servito solo della Lettera a Santàngel, per scrivere la bolla, ma anche di altre fonti non citate. Nella Lettera infatti non era stato detto che gli indigeni fossero vegetariani. In ogni caso, ch'essi siano così o anche "numerosi", "pacifici" e "ignudi", ciò per Alessandro VI non rappresenta più di una mera curiosità folclorica.
La vera caratteristica che gli preme sottolineare è che il loro "monoteismo" primitivo, ingenuo, istintivo, va perfezionato col cattolicesimo, che, unico al mondo, è in grado di "educare ai buoni costumi". Qui il pontefice dà per scontato che le conversioni degli indigeni siano già relativamente facili.
Il pontefice ricorda anche la guarnigione lasciata da Colombo a Navedad, ad Haiti, e senza volerlo si contraddice laddove afferma, dopo aver parlato di "indios pacifici", che la "torre ben munita" doveva essere difesa dai cristiani contro gli indios.
In effetti, al pontefice non interessava approfondire il discorso sulle civiltà indigene: gli bastava credere (in fede o per convenienza non importa) in ciò che Colombo aveva scritto circa la scoperta di "oro, spezie e moltissime altre cose preziose". Anche per lui era del tutto normale unire profitto e fede.
La chiesa giustificava il profitto in nome della fede; la Spagna lo giustificava servendosi della fede: la differenza era minima. In fondo la chiesa di Roma aveva le stesse esigenze della Spagna: recuperare nel Nuovo Mondo ciò che non poteva più sperare di ottenere (o addirittura di conservare) in Europa, soprattutto sul piano politico ed economico. La Spagna voleva diventare una grande potenza europea restando sostanzialmente feudale, mentre molte altre nazioni stavano diventando borghesi: e ciò la costringerà a cercare uno sbocco "salvifico" nel Nuovo Mondo. La chiesa, che non poteva più contare sulle proprie forze, cercava di ridiventare una grande potenza appoggiandosi al colonialismo della Spagna. Questa si limitava a usare la fede come uno strumento ideologico al servizio della conquista militare e politica; quella invece credeva che la fede, come ideale religioso, potesse sopravvivere politicamente soltanto su nuove basi economiche.
Il papa concesse il favore tracciando una linea retta (raya) dall'Artico all'Antartico, cento leghe a ovest delle isole di Capo Verde (al largo dell'attuale Senegal), assegnando al Portogallo tutte le nuove scoperte a oriente di quella linea, e alla Spagna tutte quelle a "occidente e mezzogiorno".
In cambio di questo favore, il papa chiederà ai Re Cattolici: 1) che istruiscano per l'America dei missionari qualificati, capaci di evangelizzare nel miglior modo possibile; 2) che vietino a chiunque di recarsi nelle Indie "per commercio o altre ragioni" (ad es. per scopi missionari), "senza speciale permesso vostro", altrimenti il soggetto subirà la scomunica latae sententiae, cioè immediata.
La chiesa, insomma, convinta che il sovrano spagnolo non voglia aver a che fare con possibili recriminazioni da parte di altre potenze commerciali e marittime europee, chiede anche che non vi siano, sul nuovo terreno missionario, rivali nella predicazione.
A dir il vero, appena tre anni dopo la pubblicazione della bolla, Enrico VII, re d'Inghilterra, violò la raya cogliendo come pretesto il fatto che nel divieto del papa si erano citati l'ovest e il sud ma non il nord. Convinto che Colombo avesse scoperto un'isola e non le Indie, e che queste potessero essere scoperte con una rotta più settentrionale di quella di Colombo, il re favorì la spedizione del veneziano Giovanni Caboto, che partì da Bristol giungendo in Labrador, Terranova e Nuova Scozia. Anche Caboto sarà però convinto d'aver scoperto una parte dei domini del Gran Khan. Probabilmente non scoppiò una guerra, in quell'occasione, solo perché il successore di Enrico VII, Enrico VIII, si disinteressò dell'America, vedendo che non si realizzavano i profitti previsti. Tuttavia i commerci continuarono, anche se i mercanti inglesi, con capitale a rischio, per un certo periodo di tempo non poterono colonizzare o lasciare depositi stabili nelle colonie.
Piuttosto fu il Portogallo che non soddisfatto della bolla del pontefice, pretese, col trattato di Tordesillas, di spostare la raya di altre 170 leghe a ovest: cosa che poi lo porterà ad annettersi il Brasile.
Grazie dunque ai sovrani cattolici, il papato poté approfittare della situazione per far valere la propria autorità morale e giuridica, mostrando, in particolare, che senza la sua mediazione legittimante, non sarebbe stato possibile proseguire in modo "corretto" la gestione politica ed economica delle colonie acquisite. Il pontefice, tuttavia, doveva essere ben consapevole che se il Portogallo non avesse accettato le proposte indicate in questo documento, una guerra contro la Spagna sarebbe stata inevitabile, poiché egli non avrebbe avuto la forza d'impedirla. La guerra poi scoppierà un secolo dopo e porterà il Portogallo a una disastrosa rovina.
1502 - PLANISFERO DI CANTINO CON IL MERIDIANO DI TORDESILLAS
Il più antico ed importante reperto pervenutoci dall’epoca delle Scoperte Geografiche é la Carta del mondo di Alberto CANTINO, un diplomatico italiano residente a Lisbona che la ottenne nel 1502 dal Duca di Ferrara. Fu interamente copiata senza autorizzazione. Essa comprende le ultime informazioni geografiche basate su quattro serie di viaggi:
Cristoforo Colombo ai Caraibi, Pedro Álvarez Cabral in Brasile, Vasco de Gama seguito da Cabral in Africa Orientale e India, e i fratelli portoghesi Gaspar e Miguel Corte-Real (1450-1501..) in Groenlandia e Terranova. Eccetto C. Colombo, tutti gli altri navigarono sotto la bandiera portoghese.
Contesto: Scoperta dell’America
Trattato: Bilaterale di TORDESILLAS (Spagna) firmato il 7 giugno 1494
Mediatore: Papa Alessandro VI
Firmatari: Ferdinando II d’Aragona, Isabella di Castiglia, Giovanni di Trastàmare, Giovanni II del Portogallo.
Lingue: Spagnolo – Portoghese.
Il caso delle isole Molucche
Spagna e Portogallo continuarono a rivendicare le isole asiatiche delle Molucche sotto la propria rispettiva sfera d'influenza. Le isole ricoprivano una grande importanza nel commercio delle spezie. Questa contesa si risolse nel 1529 con il trattato di Saragozza.
Carlo GATTI
Bibliografia:
- Enrico Gavalotti – Homolaicus – Sezione Storia – Modena
- STORIA in rete
- Tordesillas.webarchive
Rapallo, 8.4.2015
ENRICO MILLO, UN EROE CHIAVARESE
ENRICO MILLO
UN EROE CHIAVARESE
Enrico Millo di Casalgiate (Chiavari, 12 fe bbraio 1865 - Roma, 14 giugno 1930) è stato un politico e militare italiano.
D'Annunzio e l'ammiraglio Millo a bordo dell'Indomito
MILLO (Millo di Casalgiate), Enrico. – Nacque a Chiavari il 12 febbr. 1865 da Gustavo conte di Casalgiate e da Luigia Anguissola di Altoè. Allievo della Regia Scuola di marina di Napoli dal 5 nov. 1879, proseguì il suo iter formativo presso la Regia Accademia navale di Livorno nel 1882.
In quegli anni eseguì le prescritte campagne addestrative a bordo della pirofregata “Vittorio Emanuele”, del trasporto “Città di Napoli” e della goletta scuola «Chioggia». Il 1° ag. 1884 divenne guardiamarina del corpo dello stato maggiore generale e un mese dopo si imbarcò sull’incrociatore “Amerigo Vespucci”, sul quale rimase per otto mesi, per poi passare sull’ariete corazzato “Affondatore” e, nel dicembre del 1885, sulla pirofregata corazzata “Ancona”.
Il 31 dic. 1885 al M. fu riconosciuto, per decreto reale, il diritto di portare il titolo di nobile dei conti di Casalgiate. Promosso sottotenente di vascello il 1° nov. 1886, l’anno successivo fu destinato a bordo dei trasporti “Città di Napoli”, “Conte di Cavour” ed “Europa”, con i quali ebbe modo di operare nel Mar Rosso; per tale attività gli fu computata la partecipazione alla campagna d’Africa del 1887. Dopo altri imbarchi, il M. divenne tenente di vascello il 1° nov. 1889. Il 15 ott. 1896 sposò Clelia Ranieri Tenti. Il 15 dic. 1898 fu nominato cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia e il 1° sett. 1900, dopo quasi sedici anni di continui imbarchi, ebbe il suo primo incarico a terra in qualità di capo sezione al ministero della Marina a Roma; il 1° genn. 1901 fu promosso capitano di corvetta.
Nel numero del giugno 1901 del periodico Rivista marittima pubblicò un interessante articolo intitolato Manovra delle artiglierie. Energia idraulica od elettrica? nel quale egli sosteneva l’impiego di quest’ultima.
Il 16 genn. 1903 il M. tornò a navigare, dapprima come comandante della torpediniera “118 S” e poi sul caccia «Fulmine». Il 6 nov. 1904 fu destinato di nuovo al ministero della Marina, dove, il 16 luglio 1905, ebbe il grado di capitano di fregata. Dopo aver servito brevemente sulla vecchia corazzata “Lepanto” come sottocapo di stato maggiore della divisione, dal 16 apr. 1906 fino al 14 nov. 1907 fu comandante in seconda della nave da battaglia “Benedetto Brin”, per poi svolgere per circa sette mesi la funzione di capo divisione al ministero della Marina.
Nominato comandante del trasporto “Volta”, il Millo ebbe modo di segnalarsi durante i soccorsi alle popolazioni sinistrate dal terremoto che il 28 dic. 1908 aveva colpito Messina e altri centri vicini, meritando una medaglia di bronzo.
Il 24 genn. 1909 divenne cavaliere dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro e il 26 giugno successivo ebbe il comando della cannoniera “Volturno” con la quale svolse una crociera nel Mar Rosso e nell’oceano Indiano, salpando da Venezia il 1° luglio.
Durante la navigazione egli cannoneggiò la popolazione del villaggio di Borch in Somalia, che si era mostrata ostile agli Italiani; appoggiò l’opera dei connazionali residenti in quell’area; fece eseguire rilievi topografici della foce dei fiumi Giuba e Scebeli; disincagliò un piroscafo britannico che si era arenato a Nimu; soccorse la popolazione di Zanzibar durante un’epidemia di vaiolo ottenendo un’alta decorazione dal suo sultano; fece costruire un pontile a Mogadiscio e infine, dopo aver riorganizzato il servizio delle comunicazioni via etere dell’intera colonia, sovrintese all’installazione di una potente stazione radiotelegrafica in quest’ultima località.
Mentre stava operando nelle acque dell’oceano Indiano, il 1° febbr. 1910 il M. fu promosso capitano di vascello e il successivo 6 novembre divenne ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia. Lasciato il comando della “Volturno” il 22 novembre, egli rimpatriò e, per l’attività svolta durante la permanenza in Africa, il 26 genn. 1911 fu nominato commendatore dello stesso Ordine. Destinato per la terza volta al ministero della Marina, questa volta come capodivisione, vi rimase fino al 26 sett. 1911 nell’imminenza della guerra italo-turca, allorché fu destinato sull’incrociatore corazzato “Vettor Pisani” come comandante e capo di stato maggiore dell’Ispettorato siluranti.
Incr. Corazzato Vettor Pisani
Torpediniera d’altomare SPICA. Anno 1905
Rivestendo quest’ultimo incarico egli pianificò, impiegando cinque torpediniere, la violazione dello stretto dei Dardanelli, avvenuta nella notte fra il 18 e il 19 luglio 1912, alla quale prese parte personalmente imbarcandosi sulla “Spica”. L’azione, che aveva come scopo principale l’attacco alle grandi navi da guerra ottomane che si trovavano nello stretto, non conseguì i risultati sperati in quanto le torpediniere furono scoperte dalle sentinelle avversarie prima che potessero lanciare i loro siluri e costrette a ripiegare a causa dell’intenso tiro delle batterie sistemate lungo le sponde dello stretto.
Il Millo venne comunque ricompensato per questa impresa, con la concessione della medaglia d’oro al valore militare, la promozione a contrammiraglio per merito di guerra e inoltre, per l’impegno dimostrato già in precedenza come capo di stato maggiore dell’Ispettorato siluranti, ottenne la commenda dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro.
Terminato il conflitto italo-turco, il 21 ott. 1912 divenne direttore generale degli ufficiali e del servizio militare e scientifico al ministero della Marina e un paio di mesi dopo ufficiale dell’Ordine mauriziano. Fu ministro della Marina dal 29 luglio 1913 al 13 ag. 1914 e in tale veste si impegnò per mantenere alta l’efficienza della forza armata dopo il massiccio impiego che ne era stato fatto nel corso della guerra contro l’Impero ottomano; il 3 sett. 1913 fu nominato senatore.
Il 28 dicembre successivo ottenne il titolo di cavaliere di gran croce decorato del gran cordone della Corona d’Italia e il 21 maggio 1914 quello di grande ufficiale dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, entrambi per motu proprio del re Vittorio Emanuele III.
Dal 16 sett. 1914 al 16 apr. 1915 fu comandante della Regia Accademia navale di Livorno. Poco prima dell’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra egli tornò a navigare ottenendo dapprima il comando della divisione navale speciale e poi quello della divisione esploratori.
Svolgendo quest’ultimo incarico fu elogiato dal viceammiraglio Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, comandante in capo dell’armata navale: il 1° e il 7 giugno 1915 per le missioni offensive condotte in Adriatico e il 13 ag. 1915 per come aveva organizzato la temporanea occupazione dell’isola di Pelagosa.
R.N.Conte di Cavour
R.N. Conte di Cavour
Il 10 ott. 1915 ottenne il comando della Ia divisione della Ia squadra, navigando sulla moderna corazzata “Conte di Cavour” e meritandosi un nuovo elogio dal comandante in capo dell’armata navale per come si era adoperato per organizzare la base passeggera di Valona;
il 17 maggio 1916 divenne responsabile della II divisione imbarcandosi dapprima sulla nave da battaglia “Vittorio Emanuele” e poi sulla “Regina Elena”. Svolgendo tale incarico il Millo, il 1° giugno 1916, fu promosso viceammiraglio e il 29 dicembre successivo, con motu proprio del sovrano, divenne commendatore dell’Ordine militare di Savoia per l’attività svolta durante il conflitto. Il 14 febbraio 1917 fu nominato comandante in capo del dipartimento marittimo di Napoli e, terminata la guerra, rivestì la delicata carica di comandante in capo militare marittimo della Dalmazia e delle isole Curzolane dal 15 nov. 1918 al 22 dic. 1920, periodo nel quale ebbe serrati contatti con G. D’Annunzio in seguito all’occupazione di Fiume.
Dal 6 apr. 1921 al 4 dic. 1922 fu presidente del Consiglio superiore di Marina, ottenendo in questo periodo il titolo di cavaliere di gran croce dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro. Collocato in posizione ausiliaria a sua domanda per anzianità di servizio, fu iscritto nella riserva navale dal 1° genn. 1923 e lo stesso giorno divenne commissario del governo per il porto di Napoli, di cui ben conosceva i problemi per avervi prestato servizio nell’ultima parte del conflitto da poco concluso.
Il 1° dic. 1923 fu promosso viceammiraglio di squadra, grado poi convertito in quello di viceammiraglio d’armata. Il 15 genn. 1926 fu richiamato temporaneamente in servizio e destinato presso l’amministrazione centrale della Marina mercantile, e il 30 luglio successivo divenne ammiraglio d’armata.
Il Millo morì a Roma il 14 giugno 1930.
Enrico MILLO Capitano di Vascello
Medaglia d'oro al Valor Militare
Con perfetti criteri militari preparò una spedizione di torpediniere allo scopo di silurare possibilmente la flotta nemica. Assunto personalmente il comando della squadriglia, diresse la difficile impresa conducendola di notte con eroico ardire per ben 15 miglia sotto l'intenso fuoco delle numerose artiglierie costiere fino a riconoscere la piena efficienza delle navi nemiche. Ricondusse la squadriglia completa al largo, manovrando con mirabile calma e perizia marinaresca sempre sotto il fuoco nemico. Dardanelli, 18 - 19 luglio 1912
• Medaglia d'Argento Benemerenze Terremotati (terremoto 1908);
• Commendatore dell'Ordine Militare di Savoia (1915-1918).
Campagne Militari (sopra e sotto)
Benemerenze - Elogi - Decorazioni
Imbarchi
Carlo GATTI
Rapallo, 8 Aprile 2015
Si ringrazia:
- l'Associazione IL SESTANTE di Chiavari
- Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari