STORIA TRISTE DI UN VECCHIO SIGNORE E DUE GABBIANI

Storia triste 
di un vecchio signore e due gabbiani


Un vecchio signore irlandese da giovane aveva generato due figli maschi belli come fiori, forti come la roccia, coraggiosi come solo certi uomini sanno esserlo.

Tutti in Irlanda amano e odiano il mare: lo amano da giovani, lo odiano da vecchi, perché ha procurato loro troppi dolori.

I due ragazzi, naturalmente, lo amarono sin dall'infanzia e, appena poterono, divennero due marinai.

Un brutto giorno il mare fu più forte di loro e li inghiottì. Qualcuno dice che

quando il battello affondò con tutti i suoi marinai, un volo improvviso di gabbiani si alzò dal luogo del naufragio.

Il padre invecchiò rapidamente: dolore ed età avevano lasciato profondi segni sul suo viso.


Il vecchio era solito passare il tempo sul molo, guardando il mare, combattuto tra l'ammirazione e l'odio che questo elemento della natura suscitava in lui.

Un giorno due gabbiani si staccarono dallo stormo, che volava alto, e si accoccolarono sull'onda davanti a lui. Pareva che lo guardassero. Poi volarono sul molo e di nuovo si accoccolarono sul selciato al suo fianco.

Era un comportamento innaturale per i gabbiani e il vecchio lo capì. Comprese di aver ritrovato i suoi figli.

Quando i due gabbiani si alzarono in volo, anche il vecchio volò in mare e non fece più ritorno.

Ada BOTTINI

Rapallo, 14 giugno 2016

 

 

 


SAN FRUTTUOSO DI CAMOGLI: terra di eroine

SAN FRUTTUOSO DI CAMOGLI: terra d’eroine

 


 

Almeno una volta, ogni inverno, amo tornare a S. Fruttuoso di Camogli; lo faccio ormai da tanti anni.

Scelgo, per evitare il domenicale frastuono, una luminosa mattinata di giorno feriale; frequentemente, in quella stagione, il sole, pur alto, non riesce a scaldare l’aria resa tersa dalla tramontana. M’imbarco a Camogli assieme alle derrate e alla posta per San Fruttuoso, spesse volte unico passeggero e, ogni qualvolta il battello, doppiata Punta Torretta, mi rivela quel paesaggio, m’emoziono come fossi un turista che, per la prima volta, lo scopre.

Non posso fare a meno di pensare a cosa ha scritto, di questo posto, il poeta genovese Nicolò Bacigalupo:

 

Comme un datao de mâ ti pai serroù

Nell’enorme muagion de Portofin

Che zu a picco o pâ stato scopellòu

Dai Ciclopi in scë un mâ sempre turchin.

Libera traduzione: Come un dattero di mare sembri chiuso nell’enorme muraglione di Portofino che giù a picco sembra scalpellato dai Ciclopi su di un mare sempre turchino.

 

Imbottito come un baleniere mi piace sostare, allungandomi sulla sassosa, piccola spiaggia che separa gli archi dell’antica Abbazia dal mare; supino, su quel morbido pendio, avverto pienamente di appartenere a questa terra, lambito dal mare e immerso nei pini come sono. Alle spalle mi protegge la solida costruzione in pietra mentre, dalle finestrelle del “Giovanni”, già trapela la fragranza della cucina che sta preparando il pesce, che a mezzogiorno gusterò.

Ecco, so già che quest'immersione nella ligusticità mi appagherà poi per mesi e mesi; l’annuale ritorno in quest’utero verde, perché questo ho scoperto essere per me questa baia, m’infonde pace e serenità.

Tutt’attorno, un luminoso silenzio; non c’è anima viva. Hanno già ripulito dagli affronti abbandonati durante l’invasione dell’ultima domenica, così da levare ogni traccia di questa settimanale profanazione.

 

 

In direzione dell’orizzonte, dopo l’insenatura del Cristo, scorgo ogni tanto riaffiorare neri luccichii; sono i sub che silenziosamente si esercitano e, dolcemente, la mente si apre alla fantasia.

Questa zona, oggi Parco del Promontorio di Portofino, così come la vicina Cala dell’Oro e l’altra, quella della Chiappa, si vuole che ai primordi fosse popolata da mostri antropofagi; a me invece piace pensarli quando, in epoca successiva, erano luoghi di caccia con il falco da parte d’insigni cavalieri, rampolli delle famiglie patrizie locali, accompagnati da orgogliose dame.

 


 

Nel 1104 i Consoli del Comune di Genova stabilirono che i rapaci, colà magistralmente addestrati, appartenessero all’Abate reggente quel Monastero e non potessero essere diversamente utilizzati, se non per l’uso per il quale erano stati ammaestrati.

La mitologia, spesso frammista a qualche verità storica, ci ha lasciato detto che Ercole, figlio di Giove e di Alcinea, quando tornò dalla Spagna, una volta trionfalmente attraversata la Francia, fondò Montecarlo ma, quando arrivò qui, venne fermato dai Liguri; dopo di lui, negli anni, vi giunsero i Fenici e poi gli Etruschi, i Greci, i Cartaginesi e gli onnipresenti Romani.

Il primitivo monastero sorse, per opera di Prospero, vescovo di Taragona, nel 711, ma fu poi distrutto dai saraceni.

Carlo Magno, prima, (801) e Papa Leone III dopo (812), edificarono in zona una “statio” per segnalare, con fumi di giorno o fuochi di notte, alle altre due stazioni, quella di levante posta su Capo Manara e quella di ponente, sistemata sul Capo di Faro, lo stesso sul quale in seguito edificheranno la Lanterna di Genova, eventuali avvistamenti di predatori.

Proprio al traverso di San Fruttuoso, in mare aperto, nel 1431 si combattè una battaglia fra la flotta veneta e quella genovese, secondo l’uso dell’epoca di affrontare a viso aperto il concorrente commerciale e non, come oggi, a colpi di dossier occulti.

Pietro Loredano, il comandante veneziano, impose ai genovesi una tale cocente sconfitta da lasciare, nei perdenti, un doloroso duraturo ricordo; l’unica consolazione, per lenirne le ferite, fu che lo stesso vincitore riconobbe l’eroismo dei vinti, tanto che Francesco Spinola d'Ottobone, nell’occasione duce dei genovesi ma caduto anch’esso prigioniero dei veneziani, fu, alla fine, affrancato senza che gli fosse imposta l’onta di toglierli la spada e i suoi marinai furono sciolti dalle catene alle quali erano già stati vincolati, e tutto senza chiedere il pagamento d'alcun riscatto. Quest’ultimo gesto, se ben conosco i miei conterranei, fu certamente il più apprezzato.

 

Nel 1550 Papa Giulio III, con proprio “breve”, cocesse in <jus patronato > l’Abbazia di Capodimonte, questo era il vecchio toponimo del luogo, al Principe Andrea Doria, che la scelse come sacrario delle tombe della propria famiglia.

Questa preziosa scheggia di Liguria diede alla marineria uomini e soprattutto donne coraggiose e intrepide; per tutte valga l’episodio, che costì è ricordato con una lapide e con un ingrandimento di una litografia, appesa davanti al banco del bar attraverso il quale si deve passare, perché è contemporaneamente mescita ma anche strada pubblica, se si vuol raggiungere la Chiesa oggi restaurata e l’attuale Museo, entrambi gestiti dal Fondo Italiano per l’Ambiente.

 


 

E’ l’alba del 24 Aprile 1855. La pirofregata inglese <Croesus>, nave a propulsione a vapore, al comando del Signor Hall, salpa dal porto di Genova per portare in Crimea, dove si sta combattendo, 400 uomini freschi dell’Armata Sarda e 25 muli completamente equipaggiati, nonché le relative vettovaglie ed attrezzature; al traino, secondo la moda del tempo, ha la nave appoggio <Pedestrian >, carica di munizioni e ulteriori provviste a sostegno di chi, laggiù, combatte. Dopo due ore di navigazione il piccolo convoglio si trova proprio al traverso del promontorio di Portofino; in quello stesso istante si sente il lancinante segnale di <fuoco a bordo >. Il Comandante, resosi conto che è proprio la sala macchine a bruciare e, giudicando ormai impossibile spegnerla, ordina di tagliare immediatamente il cavo del traino per evitare che le munizioni al seguito possano scoppiare e, mentre dà ordine di approntare le scialuppe, cerca di individuare un arenile sul quale potervi indirizzare la prua così che, spiaggiando la nave anche se in fiamme, ne avrebbe potuto evitare l’affondamento.

Chi conosce la zona sa che non ce né e, le uniche due eventualmente adatte allo scopo, seppur nascoste alla vista perché al fondo di cale strettissime e schermate dai capi, sono quella dell’Oro, ormai lasciata a poppa del battello e, lì vicino, quella di San Fruttuoso. Per fortuna il comandante Hall vede spuntare, dietro Punta Torretta, la grigia cupola a spicchi dell’Abbazia e, facendo d’ogni necessità virtù, ordina di mettere al massimo le caldaie e, urlando nel megafono, <avanti tutta >, avventa la nave in quella direzione a lui sconosciuta ma che ritiene, viste le costruzioni, possa essere abitata e quindi dotata di un qualche approdo; non c’era altra scelta.

L’improvvisa messa in pressione delle caldaie, se dà un forte abbrivio alla pirofregata, mai nome raggruppò in sé due infausti segnali così apertamente premonitori, di contro n’accelera la paventata fine; uno scoppio, la cui ridondante eco rimbalza risalendo lugubre fra i valloni e i dirupi del Promontorio, sconquassa la nave. La ciminiera scoppia ripiovendo in mille frammenti incandescenti; la coperta, con le parti di legno ormai in fiamme, si squarcia aprendosi come una rossa gola di drago fiammeggiante e tutto il cielo si riempie di particelle incandescenti impazzite che, frammiste all’acre e irrespirabile fumo d'olio e pittura che bruciano, paiono lapilli di un’eruzione.

E’ facile immaginare cosa successe a bordo dove, pochi marinai di mestiere, avrebbero dovuto infondere calma ed ordine ad una quantità di giovani fanti, equipaggiati ancora con le pesanti divise di panno invernale che, non essendo marittimi, in un primo tempo si saranno sicuramente paralizzati dalla paura trasformatasi poi in panico all’udire il grido <al fuoco, al fuoco >.

Non c’è nulla di peggio, in un’emergenza in mare, che il farsi prendere dal panico; purtroppo invece è ciò che quasi sempre succede, causa prima delle tragedie che leggiamo sui quotidiani. Le urla di terrore e d’implorazione, frammiste a quelle dei primi ustionati e dei feriti, si sovrapposero agli ordini di servizio, alimentando il caos. La vista della vicina costa e il mare non agitato, anziché rincuorare i sopravvissuti, suscitò l’ingannevole stimolo a tentare di raggiungerla a tutti i costi; iniziano ad accalcarsi, schiacciandosi gli uni sugli altri, premuti anche da quelli più dietro che, ancora su per le scalette d’uscita dai boccaporti, non vogliono restare ultimi ad abbandonare la nave. S’ignorano e si calpestano pure i feriti e gli ustionati; tutto avviene sotto una pioggia di fuoco e in ambiente reso invivibile dalle strutture ormai surriscaldate e con le zone di calpestio, incandescenti.

Allertati da questa scena apocalittica, i pochi abitanti presenti in San Fruttuoso, gli uomini validi erano ancora a pesca, si attivano alla meglio; come capita spesso, sono le donne le prime ad intuire d’istinto il da farsi, così come s’allarmano le leonesse se ai loro piccoli si avvicina un qualche vecchio leone.

Le uniche due donne valide, le sorelle Maria e Caterina Avegno, la prima intenta ad allattare l’ultimo nato e l’altra a confezionare il <frugale pasto >, si precipitano alla spiaggetta, capiscono subito la situazione e varano la loro barchetta per raggiungere quell’inferno. Da esperte rematrici, così come la dura vita del borgo imponeva, corrono a portare soccorso.

Mentre armeggiava, Maria avrà certamente pensato a suo figlio Paolo, appena scampato ad un naufragio in terra di Spagna, e da quel ricordo avrà trovato nuova motivazione leonina mentre, davanti a loro, imponente e dominante appare l’alta prua squarciata e in fiamme della fregata, quasi sanguinolenta fauce d’orca fiocinata a morte sulla spiaggia. Tutte le braccia di quegli sventurati, troppo giovani per morire così ingloriosamente, si tendono verso la fragile barchetta governata dalle due ardimentose; molti ne salvano ma, più il tempo passa e più il panico strizza il cervello a quelli che ancora attendono soccorso. Non appena vedono alla loro portata quel fuscello, ritenendolo l’unica salvezza, tutti assieme irresponsabilmente, vi si aggrappano, appesantiti pure dalle spesse divise ormai pregne d’acqua, lottando e sgomitandosi sino a far capovolgere violentemente quel guscio.

Caterina, più fortunata, è notata da un bravo marinaio che, sapendo nuotare, la trae in salvo ma di Maria e del suo corpo trascinato sul fondo da quegli esagitati, non se ne saprà più nulla, almeno per quel giorno. Particolare toccante: tutta la rapida sequenza è seguita dal marito Giovanni Oneto che, sebbene avanti negli anni, anch’egli con un’altra barca, si sta prodigando. Soltanto la mattina del 29 Aprile, cinque giorni dopo, il mare, fedele al suo mesto ed immutabile rituale, restituirà il corpo della sfortunata che, inizialmente, pareva voler trattenere tutto per se. Il bilancio della tragedia si chiuse con 24 marinai morti.

 


 

San Fruttuoso (Camogli). Abbazia. Tomba di Maria Avegno e Militi Italici Ignoti

 

Le sarà accordato l’onore, per concessione dei Principi Doria, di essere tumulata fra loro nell’Abbazia, così come un’apposita lapide, oggi traslata nell’atrio del Museo Marinaro di Camogli, ricorda e, vicino le sarà posto uno dei pochi pezzi recuperati dal rogo. Il Comandante Hall, come vuole un’antica tradizione marinara, scenderà per ultimo dai resti di quello che sino a poco prima era stato il suo vascello; finalmente, solo quando sopraggiunge la notte, tutti i sopravvissuti sono in salvo.

Passeranno però altre notti con la baia sempre sinistramente arrossata dai tizzoni che ancora ardono qua e là, sulle ultime parti vive dello scafo; questo lento consumarsi, sembra voler perdurare per rischiarare il più a lungo possibile il mare, così da facilitare l’improbabile “ritorno” di Maria.

 


La Regina Vittoria conferì alla memoria di Maria la Victoria Cross, la più alta onorificenza militare britannica. Il Console inglese Brown consegnò 10 sterline alla superstite Caterina e 50 sterline alla famiglia di Maria Avegno.

Dobbiamo riportare, per completezza di cronaca che, alla famiglia dell’eroina, il Governo di Sua Maestà Britannica elargì una bella somma cui si aggiunse una pensione annuale, assegnatale dal Ministero dell’Interno Italiano mentre, Sua Maestà il Re conferiva, ad entrambe le sorelle, la medaglia d’oro; anche la Francia, alleata, fece pervenire al vedovo un discreto aiuto.

Oggi, di quel gesto, resta la testimonianza ufficiale anche a Genova, nell’atrio del Palazzo Comunale, immortalato in una lapide e pure il Comune di Camogli, competente per territorio, ha apposto l’epitaffio cui si è accennato, concedendo pure alle due eroine un <Distintivo d’onore in oro >.


 

Sono ancora coricato sulla spiaggia a guardare quel mare calmo e lucido, e m'é difficile immaginare una così violenta tragedia in un luogo che, invece, sembra creato apposta per fantasticare dolci sogni, avvolti come si è, nell’armonia dei suoi colori contrastanti.

Quel tragico rogo purpureo ritorna inconsciamente nella tavolozza d’Ubaldo Merello, il pittore che più di tutti ha intriso d’amore le sue vedute degli scorci di questi luoghi “reconditi e di divina bellezza”

Per dire delle mie sensazioni, basta la poesia d’Adriano Sansa, genovese per scelta, là dove nella sua <Un mattino di sole a Dicembre > scrive:

…Se quando sarà sera sentiremo

la voce che ci chiede spiegazione

di questa breve sosta consumata

contemplandoci vivi,non sapremo

dire se non che il sole qualche volta

martella duramente, ma quest’oggi

è stato dolce senza una ragione.

 

 

Renzo BAGNASCO

 

Rapallo 14 giugno 2016

 


CANALE DI PANAMA - RADDOPPIA ...

CANALE DI PANAMA – RADDOPPIA ...

Il CORRIERE DELLA SERA - Milano, 26 giugno 2016 - 15:09

Intitola oggi:

Festa a Panama per il nuovo Canale - Un gioiello del «Made in Italy»

Una nave cinese inaugura la terza corsia destinata ai moderni giganti del mare Opera monumentale da 5,25 miliardi di dollari, che sfida la crisi dei commerci.

La prima nave ad imboccare il nuovo Canale di Panama, dal lato Atlantico, è stata una portacontainer cinese, 300 metri di lunghezza, battente bandiera delle Isole Marshall. La “Cosco Shipping Panama, ribattezzata così per l’occasione, ha varcato all’alba di oggi, domenica 26 giugno, le nuove chiuse di Agua Clara per poi attraversare il lago artificiale Gatún e presentarsi puntuale all’appuntamento del pomeriggio, dopo otto ore di viaggio, davanti alla tribuna d’onore montata accanto alle chiuse gemelle di Cocoli, sul versante Pacifico. Ad accogliere il moderno mercantile, avanguardia di quelli che verranno, il presidente della Repubblica centroamericana, Juan Carlos Varela, e un drappello di capi di Stato e ministri stranieri. “Abbiamo costruito la nuova via del commercio mondiale”, commenta Pietro Salini, della Salini-Impregilo e “guida” del consorzio responsabile dei lavori.

Informiamo i nostri followers che su questo stesso sito (Mare Nostrum Rapallo), nella Sezione STORIA NAVALE, il 19.04.2012 abbiamo redatto un saggio sul CANALE DI PANAMA. Lo trovate al LINK:

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=214:canale-di-panama&catid=36:storia&Itemid=163

Con questo aggiornamento ci proponiamo di sottolineare il nuovo assetto del CANALE che, dopo i lavori di ampliamento, ha reso agibile il passaggio anche alle nuove navi che appartengono, com’é noto, alla categoria del GIGANTISMO NAVALE, argomento più volte affrontato sul nostro sito.

 

Nome del progetto:

Ampliamento del Canale di Panama - Terzo set di chiuse

Paese: Panama

Cliente: Autoridad del Canal de Panama - ACP

Valore: 3.356 milioni di euro - quota parte 1.288 milioni di euro

Inizio lavori: agosto 2009

Durata prevista: 65 mesi

Il progetto prevedeva la realizzazione di un nuovo Canale che – a complemento dell’esistente – da oggi consente il transito di navi di maggiori dimensioni, incrementando il traffico commerciale in risposta agli sviluppi ed alla continua espansione del mercato dei trasporti marittimi.

DATI PRINCIPALI:

C’é subito da rilevare che l’opera ingegnieristica é tra le più ambiziose mai realizzate al mondo e parla italiano al 50%! Le PARATOIE sono state costruite dalla ditta CIMOLAI che ha battuto sul filo di lana la concorrenza USA. Aggiungiamo il software operativo e molti materiali speciali. La SALINI-IMPREGILO é stata la “guida operativa” al 48% di un progetto che cambierà il commercio mondiale.

ELENCHIAMO LE PRINCIPALI DIFFERENZE TRA LE NAVI COSIDETTE PANAMAX, CHE TRANSITAVANO PER IL CANALE DI PANAMA PRIMA DELL’AMPLIAMENTO, E LE NAVI POST PANAMAX, DI GRANDI DIMENSIONI, ATTUALMENTE IN CIRCOLAZIONI SUGLI OCEANI.

La realizzazione del Terzo Set di Chiuse del Canale permette oggi il passaggio di navi di maggiore tonnellaggio denominate Post Panamax, con una capacità: ......................12.600 TEUs;

lunghezza max: ............... 366 metri;

larghezza max: ...................49 metri;

pescaggio max ................... 15 metri.

Con il vecchio sistema di chiuse, il passaggio di navi tipo Panamax consentiva i le seguenti misure (ben inferiori):

capacità: .......................... 5.000 TEUs;

lunghezza max: ................... 294 metri;

larghezza max: ...................... 32 metri;

pescaggio max: ...................... 12 metri.

In particolare  é stata realizzata la costruzione di due chiuse a salto triplo: una chiusa a salto triplo sul lato Atlantico ed una sul lato Pacifico.
Queste chiuse permetteranno il sollevamento delle navi dal livello degli Oceani al Lago Gatun (intermedio rispetto ai due Oceani) e viceversa,  in un tempo inferiore a due ore.
Ognuna delle tre camere che costituiscono ciascuna chiusa:

larghezza: ........................... 55 metri;

lunghezza: ........................ 427 metri;

profondità: ...................23 a 33 metri;

Sono dotate di sistemi di paratie scorrevoli, in senso orizzontale, che consentono di superare il dislivello esistente di circa 27 metri tra gli oceani ed il lago Gatun.

Le Paratoie (Lock Gates).

Il funzionamento efficiente e sicuro delle Chiuse è regolato da Paratoie tipo: “Porte a Scorrimento Orizzontale” che, parimenti alle Porte tipo “Vinciane” delle chiuse esistenti, sono di provata tecnologia ed applicazione  in installazioni di questo tipo. Queste Paratoie, azionate da argani elettrici, impiegano circa 3-4 minuti per realizzare la chiusura/apertura delle Chiuse. Le dimensioni di queste Paratoie:

altezza: ..........................23-33 metri;

larghezza: .......................... 10 metri;

lunghezza: ......................... 58 metri.

Impatto ambientale: il riutilizzo dell’acqua attraverso il  sistema di Water Saving Basins.

Gli studi effettuati hanno permesso di realizzare una strategia di sviluppo del progetto ambientalmente e socialmente sostenibile al fine di mitigare tutti gli impatti sul territorio, sull’ambiente e sulla popolazione.
Una particolare attenzione è stata attribuita sin dalla fase progettuale alla riduzione del consumo di acqua del lago Gatun durante le fasi di transito.
A tal fine è stato studiato un nuovo sistema – definito Water Saving Basins – che consente attraverso l’introduzione di Bacini ausiliari  il recupero ed il riutilizzo parziale dell’acqua del lago Gatun. In questo modo si ha un risparmio di acqua pari al 60% ed il transito che richiederebbe l’utilizzo di circa 500 milioni di litri di acqua si realizzerà con circa 200 milioni di litri.

 

PRINCIPALI DATI TECNICI DELL’AMPLIAMENTO:

Dragaggi: ............................7.100.000 m³

Scavi:................................74.000.000 m³

Reinterri:...........................18.000.000 m³

Calcestruzzi:....................... 5.000.000 m³

Cemento: ...........................1.600.000 ton

Acciaio di Armatura:............... 290.000 ton

Acciaio per paratoie e valvole:... 71.000 ton

Edifici (96 unità):..................... 40.000  m²

Dal SECOLO XIX riportiamo il seguente commento di A.Q.

Viene rilevato da più parti che se si saprà cogliere questa

opportunità del Nuovo Canale di Panama che coincide con

quello di Suez, il Mediterraneo può Rrtornare ad essere

il centro di molte rotte navali. Oggi nel Mare Nostrum

Transita il 19% del traffico mondiale in volume ed il 25%

per le rotte. L’Italia é Terza in Europa per traffico merci

con 473 milioni di tonnellate e prima nei Paesi UE nel corto

raggio.

In vent’anni il numero dei container movimentati nei 30

Porti maggiori é cresciuto del 425% con un tasso medio

del 21% annuo. Ma servono novità sia nelle Autorità

Portuali sia nelle infrastrutture: i principali Porti italiani

soffrono ancora troppo la concorrenza nel Mediterraneo.

 

ALBUM FOTOGRAFICO

PROVE DI TRANSITO DEL CANALE della bulk

carrier BAROQUE

 


La nave ha salpato, si avvicina nell’attesa che il pilota

del Canale di Panama salga a bordo.


In navigazione verso le nuove chiuse. Nel centro della

foto si vede a destra il nuovo passaggio, a sinistra il

vecchio.

Panama Canal Authority

9.6.2016 - La Bulk carrier BAROQUE (Post-Panamax) all’interno delle nuove chiuse del lato Atlantico del Canale di Panama.

REUTERS/Carlos Jasso


Il rimorchiatore di prora é il Cerro Santiago, uno tra i tanti fatti costruire dal Panama Canal Authority in previsione dell’uso delle nuove chiuse (new locks).

REUTERS/Carlos Jasso

Come si può notare da questa foto, si tratta sempre di manovre di precisione.


Il rimorchiatore di prora é di ultimo tipo. E’ collegato alla nave con due cavi, uno per lato. Notare che entrambi i cavi passano nello stesso passacavi centrale del RR e sono incappellati alla bitta a doppia croce sulla poppa. I due cavi formano la cosiddetta “briglia” che permette di tenere la nave nel centro della chiusa.

REUTERS/Carlos Jasso

In questa successiva immagine si nota chiaramente la briglia in tensione del Rimorchiatore.


In questa immagine panoramica si vede chiaramente sulla destra la Torre di Controllo del Panama Canal Authority

Lato Atlantico del Canale di Panama. La prima nave a transitare sta per affrontare la prima chiusa. Sulla destra della foto s’intravede il vecchio passaggio.


La B/c BAROQUE tra breve metterà la prora nel centro del lago Gatun


Ecco come si presenta la porta galleggiante della chiusa in fase di chiusura.

REUTERS/Carlos Jasso

Gli operatori della Torre di Controllo del traffico del Canale di Panama.

CARLO GATTI

NUNZIO CATENA

Rapallo, 30 giugno 2016

 

 


L'ULTIMO CORDAIO

L’ULTIMO CORDAIO

San Fruttuoso di Camogli

In tutte le città marinare del nostro Paese, così come in tanti piccoli borghi antichi che si affacciano sul mare, ci sono vicoli, strade, quartieri dedicati ai cordai. Sono le tracce di una millenaria attività legata alla pesca in tutte le sue forme, alla cantieristica e quindi alla navigazione.

La canapa coltivata un tempo nella Pianura Padana, approdava nel grande porto di Genova e non solo, per essere trasformata in sagole, gomene e grossi cavi d’ormeggio per le navi in transito. Oggi l’antico artigiano-CORDAIO si é fatto industriale.

Di quel vecchio canapo che s’impregnava di mare e triplicava il suo peso, rimangono alcuni reperti soltanto nei musei marinari. Le tappe successive ci parlano di cavi sintetici colorati, e cavi misti che sono solitamente costituiti da fibre vegetali e fibre sintetiche o da fibre vegetali e fili d'acciaio che, opportunamente intrecciati fra loro, formano un complesso caratterizzato da notevoli doti di resistenza, elasticità e maneggevolezza molto tenaci fin nei piccoli calibri, per arrivare all’ultimo tipo: il DYNEEMA, quasi senza peso e con un carico di rottura simile a quello dell’acciaio.

Il mondo corre veloce e ogni giorno si scrolla di dosso antichi mestieri, tanti artigiani insieme ai loro attrezzi dai nomi dialettali impronunciabili.

Patrimoni ormai in disarmo di cultura locale che vengono salvati ogni giorno in umide cantine interrate che, simili a ospiti inutili ed indesiderati, ringraziano e tolgono il disturbo...

Chi resta é conscio di tradire la propria storia e si consola dicendo: “Guai a chi me li tocca!!!”

Molti sono quelli che rinunciano a questa sfida impari contro la modernità, altri invece non mollano “o mestê” imparato con tanto sudore e gran sacrificio fino a considerarlo un patrimonio familiare da tramandare ai giovani.

“Sarebbe come tradire la mia famiglia che mi ha insegnato prima a parlare e poi a tenere in mano questi antichi attrezzi che ci hanno dato da mangiare per secoli”.


Questa lucida fierezza la vediamo scolpita sul viso bruciato dal sole di Marietto Scevola, l’ultimo cordaio nativo e residente a San Fruttuoso di Capodimonte (Camogli) che ci spiega:

“Le corde oggi sono realizzate con fibra di cocco ed altro materiale molto più moderno, ma un tempo mio padre e, prima ancora mio nonno, le producevano con una lavorazione più lunga e complessa, con la lisca, erba spontanea del monte di Portofino che veniva raccolta dai contadini e portata a San Fruttuoso proprio per la produzione di corde.

Un tempo trasportavamo con i gozzi le corde finite  a Camogli, dove le cooperative di pescatori, dopo averle srotolate sul molo, intrecciano le reti da pesca”.

Ci parli un po’ della LISCA.


La lisca é un’erba diffusa sul Promontorio di Portofino. Si presenta in cespugli molto densi. Ha foglie lunghe circa un metro. Fornisce un materiale fibroso ricavato dalle foglie che serve per fare cordami, legacci, stuoie o tessuti grossolani. Oggi la lisca é considerata specie protetta, quindi non più utilizzabile.

Oggi le antiche corde in fibra vegetale sono sostituite da quelle sintetiche, più facili da realizzare ma di simile resistenza; così il mestiere del cordaio tradizionale o cordaiolo è scomparso, mentre sino a metà del ‘900 era un lavoro svolto in quasi tutti i borghi del levante. Delle tante corderie industriali ne rimane invece solo una a Rossiglione, nell'entroterra di Genova.

I cordaioli erano attivi a Camogli, S. Margherita Ligure, Rapallo, Chiavari, Lavagna e Sestri Levante, nonché in numerose frazioni dell'entroterra. A parte qualche cordaiolo della zona del Promontorio di Portofino che riusciva a sfruttare la lisca.

Fin dai tempi antichi,
le corde di lisca erano fatte, come dicevo, dai miei avi-cordai, una specie vegetale di cui si sfruttavano le foglie lunghe e tenaci. Oggi la lisca sopravvive in ottima salute e in numerosi esemplari all'interno del Parco Regionale di Portofino”.

Quali prodotti si lavoravano con la lisca?

“Con essa si realizzavano corde molto resistenti alla salsedine, leggere, ma capaci di assorbire acqua e affondare, note un tempo come "cavi d'erba". A S. Fruttuoso di Camogli, sino ai primi anni '60 si producevano numerose corde di lisca. La richiesta di questi cordami proveniva essenzialmente da pescatori della Riviera Ligure di Levante. La lisca forniva una corda particolarmente morbida e maneggevole, impiegata dai pescatori a bordo dei gozzi per salpare il Tartanone o Ganglo. Con quest'attrezzo veniva effettuata un tipo di pesca a strascico con una sorta di sciabica recuperata da una barca adeguatamente ancorata. La rete veniva tirata a bordo e quindi le corde dovevano essere il più possibile morbide e maneggevoli per non stancare e rovinare le mani. La lisca si prestava bene a questo scopo e veniva usata inoltre per realizzare le reti della Tonnarella di Camogli. A S. Fruttuoso di Camogli tre famiglie erano impegnate contemporaneamente nell'attività di pesca e in quella di raccolta della LISCA, mentre un'altra famiglia si occupava della costruzione di cordami. Le vecchie attrezzature sino a qualche tempo fa venivano ancora utilizzate per la preparazione dei cavi della Tonnarella, lavorando la fibra di cocco proveniente dall'India. La lisca è infatti una specie tutelata in tutta l'area del Parco Regionale di Portofino.

ALBUM FOTOGRAFICO

Intreccio dei "Cavi" della Tonnara

Le grosse corde (dette cavi), da cui è costituita la Tonnarella di Camogli, vengono intrecciate ogni anno a San Fruttuoso di Capodimonte con particolari attrezzi.


Marietto Scevola ci mostra la PIGNA di legno che separa ordinatamente i quattro legnoli, pronti a diventare un’unica cima quando il FERRETTO, con la sua testina rotante inizierà a girare velocemente.


L’instancabile Franca Chiaschetti é l’addetta ai cavi.






MARE NOSTRUM RAPALLO RINGRAZIA SENTITAMENTE i responsabili del sito Camogli & Dintorni per averci concesso la pubblicazione delle fotografie apparse in questo articolo dedicato alle nostre tradizioni locali.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 25 giugno 2016