SUPER PETROLIERA "SALEM"- Una Frode Colossale

Super petroliera SALEM

Una Frode Colossale

Vista aerea della T/t Sea Sovereign, in seguito South Sun, ed infine T/t SALEM

Esiste un capitolo poco pubblicizzato della Storia Navale che riguarda le navi affondate senza una causa ben precisa e riscontrata: cattivo tempo, collisione, falla, errore di manovra … tolte le quali, rimane soltanto l’intenzionalità:

La nave deve essere affondata!

Queste pratiche criminali sono raccolte in un faldone antico come il mondo e precisamente da quando esistono forme di protezione finanziaria contro la perdita totale di una nave. In questi casi l’osso da spolpare é l’Assicurazione, un Ente che copre finanziariamente i danni al carico e alla nave. Il relativo PREMIO  a carico dell’armatore é obbligatorio per tutte le navi in circolazione sui settemari. (Soltanto le supercargo in circolazione  nel mondo oggi sono: 60.000).

Com’é noto, la categoria d’incidenti “provocati” a cui ci riferiamo, riguarda la TRUFFA concordata tra un armatore disonesto ed un equipaggio consenziente che definire “pirata” sarebbe molto riduttivo, non solo, ma come vedremo in questa sceneggiata compaiono anche altri attori insospettati …

L’obiettivo da raggiungere é sempre lo stesso: entrare in possesso della cifra STIPULATA CON L’ASSICURAZIONE per la perdita della nave.

Il fenomeno riguarda lo shipping internazionale, in particolare quello che si riferisce alle “bandiere ombra”.


Con il termine bandiera di comodo (o anche bandiera ombra o bandiera di convenienza) si indica la bandiera (Insegna) di una nazione che viene issata da una nave di proprietà di cittadini o società di un'altra nazione. In questo modo, il proprietario della nave può spesso evitare il pagamento di tasse e ottenere una registrazione più facile; la nazione che fornisce la bandiera riceve soldi in cambio di questo servizio.

I bassi oneri di registrazione, la bassa tassazione, la libertà dalle leggi sul lavoro e la sicurezza, sono fattori motivanti per molte bandiere di comodo.

Citando The Outlaw Sea di William Langewiesche:

«Nessuno pretende che una nave provenga dal porto dipinto sulla sua poppa, o che ci sia mai almeno passata vicino. Panama è la più grande nazione marittima sulla terra, seguita dalla sanguinosa Liberia, che a malapena esiste. Non c'è bisogno nemmeno di avere una costa. Ci sono navi provenienti da La Paz, nella Bolivia senza sbocco al mare. Ci sono navi che provengono dal deserto della Mongolia. Inoltre, gli stessi registri sono raramente basati nelle nazioni di cui portano il nome: Panamá è considerata una "bandiera" vecchio stile, perché i suoi consolati gestiscono la documentazione e raccolgono le quote di registrazione, ma la "Liberia" è gestita da una società in Virginia, la Cambogia da un'altra nella Corea del Sud e la fiera e indipendente Bahama da un gruppo che opera dalla City di Londra.»

Secondo l'International Transport Workers Federation:

«Le vittime sono più numerose sulle navi con bandiera di comodo. Nel 2001, il 63% di tutte le perdite in termini di tonnellaggio assoluto erano a carico di 13 registri di bandiere di comodo. I primi sei registri in termini di navi perse erano tutti bandiere di comodo: Panama, Cipro, Saint Vincent, Grenadine, Cambogia e Malta.

Questo é il quadro generale. Ora ci occuperemo di un caso “archiviato” da tempo, anche dalle vecchie generazioni… ma noi riteniamo che vada sempre ricordato sia per le dimensioni della nave colata a picco sia per il valore del carico “scomparso”... non in fondo al mare (per fortuna), ma venduto prima che la nave affondasse dolosamente.

Caso “emblematico” di un fenomeno ricorrente per il quale occorre essere sempre vigili. Un tempo si diceva:

“MAI abbassare la guardia!”

T/T SEA SOVEREIGN

Foto della collezione di Micke Asklander

 

Breve storia della nave

La superpetroliera T/T Sea Sovereign, fu ordinata nel 1969 a Stoccolma per la Società Salénrederierna AB e venne costruita presso il Cantiere Kockums di Malmö. Nel 1977 la Salénrederierna vendette la supertank a Pimmerton Shipping Ltd. (Liberia), mentre la South Sun e la gestione delle navi furono assegnate alla Wallem Ship Management Ltd. (Hong Kong). Due anni dopo, la South Sun fu venduta a Oxford Shipping Inc. (USA). La nave fu ribattezzata SALEM, ma rimase sotto bandiera liberiana.

Caratteristiche della nave

Class and type: VLCC

Tonnage: 96,228 GRT

Lunghezza fuori tutta: 316.08 m (1,037.0 ft)

Larghezza: 48.77 m (160.0 ft)

Altezza: 24.50 m (80.4 ft)

Potenza installata: 32,000 hp (24,000 kW)

Turbina: 1 × Stal-Laval steam turbine

Velocità: 16 knots (30 km/h; 18 mph) max

Equipaggio: 25

SALEM was a supertanker which was scuttled off the coast of Guinea on 17 January 1980, after secretly unloading 192,000 tons of oil in Durban, South Africa. The oil was delivered in breach of the South African oil embargo and the ship was scuttled to fraudulently claim Insurance.

T/T SEA SOVEREIGN presso il Cantiere Blohm & Voss, Hamburg, l’1 marzo 1972

© Foto Torkjell Bang Pedersen.

LA TRUFFA

Quattro giorni dopo aver lasciato Mina Al Ahmadi-Kuwait, porto di caricazione, il noleggiatore Mantovani di Genova vendette il carico trasportato dalla SALEM al gruppo SHELL per 56 milioni di dollari. Questo tipo di transazione non è raro.

A metà gennaio la SALEM ormeggiò ad una piattaforma off-shore di Durban (Sudafrica) e scaricò 180.000 tonn. Di crude oil.

Lasciata Durban, la nave fece rotta per un punto al largo della costa del Senegal, uno dei più profondi dell’Oceano Atlantico. Quando la nave si trovò sul posto, il Comandante diede ordine di aprire le valvole di presa/scarico mare (sea-valves) Kingston.

La SALEM si zavorrò fino a colare a picco.

Era il 17 gennaio 1980

MA SUCCESSE L'IMPREVISTO

Un’ora prima che la nave affondasse, una petroliera inglese BP’s British TRIDENT apparve all’orizzonte.

Non era stato lanciato  alcun segnale di soccorso (S.O.S) nell’etere, e l’equipaggio della TRIDENT fu sorpreso nel vedere quella enorme petroliera che stava lentamente affondando mentre il suo equipaggio era da tempo sulle lance di salvataggio. Inoltre furono ancor più sorpresi quando videro che i naufraghi avevano con sé gli effetti personali raccolti in perfetto ordine nelle proprie valigie, non solo, ma avevano anche svaligiato la cambusa di bordo di generi alimentari di ogni tipo, anche di conforto: bottiglie, sigarette, liquori duty-free, ma non ebbero il tempo di salvare i libri di bordo….

L’equipaggio dichiarò ingenuamente:

“ ... che la petroliera affondò rapidamente, dopo diverse esplosioni…”

Ma la vera sorpresa, la più incredibile per il comando della TRIDENT, fu l’assenza completa di tracce del naufragio della nave nella zona, neppure una goccia delle 200.000 tonnellate di carico era stato versato in mare, nonostante la nave fosse esplosa in più riprese (così fu dichiarato dall’equipaggio) e quindi fosse affondata senza rilasciare neppure un pezzo di legno, un salvagente, una boetta… durante l’inabissamento. Neppure una vittima!

Ma la VERITA’ venne a galla ...

La famosa Compagnia di Assicurazioni LLOYD’S di Londra ricevette dall’armatore della nave la richiesta di 56,3 milioni di dollari per la “perdita totale” della SALEM, si trattava della cifra più alta mai ricevuta fino ad allora…

Gli investigatori dei LLOY’S si misero al lavoro e ben presto scoprirono che la SALEM aveva scaricato “segretamente” 192.000 tonnellate presso l'Oil Drilling Platform di Durban (Sudafrica) che era in quel periodo sottoposta a Sanzioni Economiche. (La risoluzione n. 1761 dell'assemblea  generale delle Nazioni Unite fu approvata il 6 novembre 1962 in risposta alle politiche razziste di apartheid istituite dal Governo Sudafricano). Il crude-oil fu quindi sbarcato in questa splendida città dell’emisfero australe:

"in violazione dell’embargo petrolifero sudafricano"

Gli altri attori famosi di cui parlavamo erano: lo Stato Sudafricano e la Compagnia Petrolifera Sudafricana SASOL che acquistò il carico (crude-oil) per 43 milioni di dollari USA.

La truffa “sarebbe” stata più credibile se, una volta “imboscato il carico”, fosse sparita anche la superpetroliera per ATTI DI DIO. E così fu! Sotto questa voce "Atti di Dio" vengono catalogati tutti i disastri navali dovuti ad uragani, cicloni, tempeste ecc…

MA… i fatti andarono diversamente dal previsto; é stata sufficiente la stupidità dell’equipaggio ... ed un po' di sfortuna.

Le sentenze

Dalla rivista SEATRADE WEEK NEWSFRONT del Giugno 1995 Estrapoliamo alcuni dati interessanti:

Com.te della SALEM:   Dimitrios Georgoulis

Direttore di Macchina: Antonis Kalamiropoulos

Capt. d’Armamento:    Nikoleos Mitakis

Marconista:                 Vassilios Evagelides

Fred Soudan:  Il regista dell’intera operazione

Nel 1985, tredici membri dell’equipaggio furono processati in Grecia.

- Otto furono assolti

- Capt. Mitakis fu condannato a 11 anni di carcere per aver scelto ad hoc un equipaggio adatto all'impresa.

- Il Comandante Dimitrios Georgoulis fu condannato a 4 anni di carcere.

- Il Direttore di macchina ed il 1° Macchinista ebbero 3 anni.

- Il marconista Vassilios Evagelides fu condannato a due anni per non aver lanciato l’S.O.S.

- Fred Soudan fu giudicato negli USA da una corte del Texas e fu condannato a 35 anni di carcere. Pare, però, che l'illustre "pirata" abbia scontato soltanto due anni della pena. Complice la moglie, evase dal carcere. A questo punto non é difficile immaginare che la coppia sia stata accolta "trionfalmente" su una di quelle isolette "appartate" del mare Oceano che battono "bandiera ombra".

- Gli investigatori stimarono che “la banda criminale” ricavò dalla frode un profitto di circa 20 milioni di dollari, di cui 4 milioni andarono a Fred Soudan.

Conclusione: Al termine della ricostruzione di questo colossale imbroglio, ho la sensazione d'aver scritto la sceneggiatura di un film d'avventura: INCREDIBILE, MA VERO!

Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi!

Carlo GATTI

Si ringrazia il dott. Cesare Ientile per la segnalazione del caso che fu definito: "La più grande truffa del Secolo".

20 Settembre 2017

 

 

 


IL VIAGGIO DI CIRO

IL VIAGGIO DI CIRO

Ciro abita in Abruzzo. E’ figlio e nipote di pastori. Il suo nome fu scelto dal padre prima che lui nascesse. Suo padre aveva ascoltato la storia di Ciro, imperatore persiano, una notte d’estate, quando è bello incontrare i tra pastori sotto le stelle e raccontare, ascoltare. Il giovane pastore ascoltava il vecchio sardo che, a modo suo, gli raccontava di battaglie e vittorie, di giardini e città, di popoli schiavi e liberati.

Quella notte Pietro decise che se avesse avuto un figlio, l’avrebbe chiamato Ciro.

Gruppo della Maiella-Abruzzo

Ciro abita in un paesino ai piedi della Maiella, vive in una casa modesta con la mamma, la nonna e altri due fratelli. Il padre e il nonno passano mesi sulle montagne ad allevare pecore e capre e scendono solo d'inverno quando buio e freddo costringono al riparo uomini e animali.


Due Pastori della Maiella a braccetto…

Ciro vive bene nel suo ambiente: è un bambino sereno con una grande mancanza e un grande desiderio: è cieco e vuol vedere il mare. Come gli sia nato questo desiderio nessuno sa spiegarlo. Fatto sta che spesso chiede alla mamma: - Mamma, quando andiamo a vedere il mare? .- E la mamma brusca gli risponde : - Ma che vuoi vedere e vedere, cosa credi che sia il mare? Una grande pozzanghera ecco cos’è! Come d’inverno qui davanti a casa, quando si scioglie la neve e non puoi uscire senza bagnarti i piedi.-

Ciro non si fa scoraggiare facilmente, torna alla carica, allora la mamma sbuffa: - Siamo poveri noi, non si può viaggiare. Smettila con questi capricci, va fuori a giocare. -

Ciro ha imparato a rivolgersi alla nonna che lo ascolta un po’ di più. Il bambino ha tanto insistito che la povera donna è contagiata dal desiderio di Ciro e quasi quasi anche lei vorrebbe vedere il grande mare. Lo ha già visto in Tv e le fa anche un po’ paura, ma per amore del nipotino un bel giorno si decide a dire di sì.

- Zitto, Ciro, non insistere più. Ti porterò a vedere il mare, ma non parlarne quando ci sono il nonno e il papà in casa. Ci prendono per matti e poi incominciano a sbraitare quei due.-

- Davvero nonna mi ci porti? – chiede Ciro sorpreso.

- Sì, sì a primavera quando gli uomini vanno al pascolo e le galline fanno più uova. –

- Cosa c’entrano le galline, nonna? –

- C’entrano, c’entrano. Fanno le uova e io posso venderne un po’ e risparmiare qualche soldino. Ma, zitto, ci penso io. E’ un segreto tra noi due. Quando sarò pronta partiremo. -

La nonna ha davvero deciso di portare il bambino a vedere il mare, anche se sa che non lo vedrà. Sa però, che potrà conoscerlo in qualche modo. Ogni giorno la vecchia pensa a racimolare qualche soldo per il viaggio: le uova, una piccola risorsa, ma insufficiente, le verdure dell’orto sì anche quelle possono aiutare, ma ci vorrebbe ci vorrebbe qualcosa di più prezioso.


Ecco, le viene in mente il velo, il velo al tombolo, un regalo di nozze, l’unico pezzo importante del suo guardaroba. Lei l’aveva sempre tenuto da parte, bene incartato nella velina con un bigliettino: “Perché mi accompagni nell’ultimo viaggio” e qualche volta aveva immaginato sé stessa morta, le mani giunte sul rosario e il velo a incorniciarle la testa e il viso. Era orgogliosa di questa sua scelta, ma ora decide di venderlo per realizzare il sogno del nipote.

Un giorno di primavera si prepara di buon mattino con il vestito della domenica, il cesto con le uova e la verdura e una vecchia borsetta al braccio.

- Dove andate, mamma? – chiede la nuora impensierita

- Giù al paese grande. C’è mercato oggi e devo fare commissioni mie - risponde lei senza troppo concedere.

- Ma che novità è questa, avete forse bisogno del dottore e non volete dirlo? -

- Mai stata così bene. Non sono una bambina, so badare a me stessa. -

La nuora alza le spalle: - Buon viaggio allora. -

- Eh viaggio, viaggio, questo non è un viaggio - sospira la vecchia che incomincia a spaventarsi per il viaggio che dovrà affrontare. Ha le idee chiare però. Giunta al paese venderà al miglior prezzo la sua merce, compreso il prezioso velo. Garantirà uova e verdura fresca una volta alla settimana al negozio del centro, una coperta all’uncinetto in lana grezza alla moglie del sindaco che gliela chiede da una vita e poi la cosa più difficile per lei, andrà alla stazione e chiederà qual è il paese di mare più vicino e il costo del biglietto. Deve fare tutto da sola, ha deciso di non confidarsi con nessuno per non essere distolta dal suo progetto.

- Nonna, come è andata? – bisbiglia alla sera Ciro, quando sono in camera da soli.

- Tra un mese potremo partire. Tutto a posto. Ma non ti far scappare neanche una parola, altrimenti siamo rovinati.–

Il bambino si addormenta felice sognando il rumore del treno che lo porterà al mare.

Arriva il grande giorno. E’ l’alba quando la nonna e Ciro vestiti di tutto punto bussano alla camera della mamma.

- Noi partiamo, andiamo a vedere il mare. Non ti preoccupare, per sera saremo di ritorno.-

La povera donna è frastornata, le sembra ancora di dormire, accenna un :- Ma..-

La porta si è già richiusa sulle sue obiezioni.

Ancora prima di arrivare a Francavilla Ciro, affacciato al finestrino, sente un profumo diverso di piante aromatiche e di sale. - Nonna, ecco il mare – grida entusiasta.

- Ancora no, ma ci siamo vicini. - risponde la nonna con lo stesso entusiasmo. Quel bambino la fa tornare indietro nel tempo e scopre voglie assopite, mai realizzate.

Appena usciti dalla stazione la nonna decide di non dirigersi verso il centro. Vuole essere sola con Ciro nel momento che incontreranno il mare. I due camminano a lungo, finché una strada sterrata sulla sinistra appare invitante.

- Di qua, Ciro, di qua. – dice la nonna prendendolo per un braccio.

E là in fondo, attraente, un triangolo verde tra due dune ricoperte di cespugli.

La nonna tace, ma inavvertitamente stringe la mano del bambino, che si mette a correre.

- Eccolo, nonna. Lo sento, lo sento. – grida Ciro leccandosi le labbra, già insaporite di sale.

- Aspettami, Ciro. – e i due per mano corrono verso il mare vicinissimo e vociante.

Al di là delle basse dune il mare appare in tutta la sua immensità.

- Nonna, com’è? – chiede Ciro con un filo di tristezza nella voce.


Parco Nazionale della Val Grande – Abruzzo

- Più grande del pascolo di Valgrande, sai quello che ci metti tutta la mattina per attraversarlo, ma adesso, leviamoci scarpe e calze, se vogliamo conoscerlo meglio.- Esclama la nonna, tornata bambina imprudente.


I due ripongono calze e scarpe sotto un cespuglio e poi per mano si avvicinano al mare.


La spiaggia di Ortona  (Abruzzo) (Foto Rossana)

Prima lentamente gustando la sabbia fresca sotto ai piedi, poi sempre più veloci. Ridono, annusano, sguazzano, gridano, assaggiano, sputano, saltano, spruzzano. E’ un’esplosione di energia gioiosa, di vita.

In quest’eccesso di movimento Ciro perde l’equilibrio e cade in mare. Di colpo la nonna sente tutti i suoi anni, l’ansia, la prudenza.

- Dio mio, Ciro, che ti ho fatto!-

Ma lui ride, ride a crepapelle e tra un colpo di tosse e una risata dice : - Un regalo, un regalo mi hai fatto. Ti voglio bene, nonna.

La nonna lo tira fuori dall’acqua e se lo abbraccia stretto, come non aveva mai fatto prima. Così ora sono bagnati tutt’e due. Per fortuna c’è un gran sole in quel giorno di maggio. I vestiti di Ciro sventolano su un cespuglio, mentre lui in mutande si diverte a fare orme e tracce sulla sabbia e poi a toccarle con le mani, la nonna , strizzata la grande gonna nera, cammina avanti e indietro sulla spiaggia per farsi asciugare gli abiti umidi che ha addosso.

- E’ l’ora di mangiare – chiama dopo un po’, e tira fuori dalla grande borsa: polpettone, frittata, formaggio, pane e frutta. Ciro non è mai stato un gran mangione, ma quel giorno divora tutto, mentre chiacchiera senza pause.

- E’ stato bellissimo. Sentivo il mare che si muoveva intorno alle mie gambe, avanti e indietro, avanti e indietro. E’ tiepido, non è come il fiume. E poi così saporito. E la voce!. Mamma mia quanto parla. Adesso senti nonna, ha cambiato voce, parla più piano.-


Ortona Mare (Abruzzo) – Spiaggia al tramonto

(Foto Rossana)

- Sì, è diminuito il vento – sospira la nonna. Lei si riempie gli occhi dei colori del mare, come vorrebbe che anche Ciro vedesse.

Lui come se avesse letto il suo pensiero le chiede di botto: - Di che colore è il mare, nonna? Anzi, te lo dico io come me l’immagino. Ecco, qui dove fa più caldo deve essere color pomodoro, qui proprio all’inizio dove mi bagna il piede dev’essere… bianco, quasi come il sapone, quando mi lavo le mani, e più avanti, nel mezzo… non lo so, ma lontano lontano dev’essere color melanzana, sai quelle lunghe, lisce che mi fai fritte d’estate-

- Bravo, Ciro, hai indovinato tutto- esclama la nonna commossa – Ora che abbiamo visto il mare possiamo tornare a casa.-

- Ci torneremo?-

- Sì, ogni anno a maggio. – risponde risoluta la nonna.

- E i soldi, nonna, dove li trovi? –

- Ah, questa volta so io dove trovarli. Tuo papà, ogni anno deve regalarti una pecora e se non lo farà, se non capirà, vorrà dire che gliela mangerà il lupo. -  conclude ridendo la nonna.


Il Giglio di mare cresce tra le dune della

spiaggia di Ortona

Nonna e nipotino, infilate calze e scarpe, voltano le spalle al mare portandosi dietro il suo ricordo, che li accompagnerà per un anno.

 

Ada BOTTINI

 

Le foto sono state inviate dal socio Com.te Nunzio CATENA

Rapallo, 8 Settembre 2017


 


NAVI LAPIDARIE

NAVI LAPIDARIE

E "NAVIGAR" ...
M'E' DOLCE IN QUESTO MAR

Fra i grossi “pesi” trasportati dalle navi mercantile ONERARIE che arrivavano e partivano da Ostia, dal Porto di Claudio e poi da quello di Traiano, vi erano i sarcofagi: in alcuni di essi vi erano scolpiti i volti delle persone defunte infatti, furono i romani ad inventare il ritratto. Ma i carichi più pericolosi da trasportare via mare erano le colonne destinate ai Templi sacri delle grandi e ricche città del Mediterraneo romano.

Le navi lapidarie, mediamente lunghe dai 25 ai 40 metri e capaci di un carico utile fra le cento e le trecento tonnellate, erano imbarcazioni appositamente rinforzate per reggere ai pesi immani a cui erano sottoposte.



Ricordiamo che per trasportare l’obelisco egiziano del Vaticano, Come racconta Plinio, Caligola fece costruire nel 37 d.C. una nave gigantesca per l’epoca.


Ivi infatti fu affondata dall’imperatore Claudio e sopra vi fu edificata una triplice torre (il celebre Faro di Ostia Antica) costruita con pietra di Pozzuoli...”.

Era lunga 128 mt. e per tenere bloccato il monolito ci vollero 4 macigni di granito a bordo e una zavorra di 2.800.000 libbre di lenticchia egiziana, che comunque andò a ruba una volta che la nave giunse ad Ostia. Con la sua lunghezza si ricoprì quasi tutto lo spazio del molo sinistro del porto Ostiense. Quella nave lapidaria fu usata solo per quel viaggio e poi fu affondata come base per il celebre Faro di Ostia, la cui posizione topografica é stata finalmente individuata in questi ultimi anni con sistemi di fotogrammetria satellitare.

I numerosi relitti identificati di navi lapidariae hanno permesso di ricostruire anche i criteri di carico, orientati per ragioni di sicurezza ad assicurare il massimo riempimento delle stive. Questa esigenza, dovuta al pericolo di spostamenti del carico in mare, comportava la scelta di effettuare carichi non omogenei (ad esempio solo fusti di colonne), ma diversificati, con blocchi di varia forma che consentissero di occupare per intero il volume delle imbarcazioni.

VENEZIA. Questa stupenda immagine subacquea racconta la ricostruzione delle navi romane grazie alle fotografie in 3D di carichi di marmi naufragati sui fondali del Mediterraneo.

“Le rotte del marmo”

I ricercatori di Ca’ Foscari e IUAV hanno esplorato l’enorme carico lapideo, uno dei più grandi in assoluto del Mediterraneo antico, lasciato in fondo al mare da una nave nei pressi dell’Isola delle Correnti-(Sicilia).
Sotto indagine archeologica, 290 tonnellate di marmo (stando alle stime), proveniente dall'isola di Marmara, antica Proconneso, in Turchia. Le informazioni tratte da questa spedizione si aggiungeranno a quelle già raccolte a Punta Scifo, Calabria, e nel 2014 a Marzamemi e Capo Granitola, in Sicilia. In tutti questi casi si tratta di relitti di navi romane datati preliminarmente al 3° secolo d.C., con carichi di marmi orientali.

Il legno delle navi è andato quasi completamente perduto. Il loro carico, invece, è rimasto sui fondali a ricordare i naufragi. I ricercatori, guidati da Carlo Beltrame, docente di archeologia marittima del dipartimento di Studi Umanistici dell'Università Ca' Foscari Venezia, stanno applicando dei metodi innovativi per ricomporre la disposizione del carico e da questa ricostruire la nave. La prima ricostruzione preliminare in 3D è stata realizzata per il relitto di Marzamemi, mentre per gli altri siti lo studio è in corso.

In aiuto ai ricercatori arriva la fotogrammetria, tecnologia già usata in architettura e nel rilevamento topografico. Il progetto “Le rotte del marmo”, invece, porta la fotogrammetria sperimentale in fondo al Mediterraneo, avvalendosi della consulenza di Francesco Guerra, responsabile del laboratorio di fotogrammetria dell'Università IUAV di Venezia.


I blocchi di pietra diventano immagini tridimensionali mentre i campioni di marmo vengono studiati dal gruppo di Lorenzo Lazzarini, direttore del Laboratorio per l'Analisi dei Materiali Antichi dello IUAV. L'originalità di questa applicazione è stata di recente premiata come miglior paper al ISPRS/CIPA workshop "Underwater 3D recording & modeling" di Sorrento.

Rilievo del carico della navis lapidaria e ipotesi su forma dello scafo e posizione di arenamento (adattamento da immagine Archeogate).Il carico è composto da cinquantanove blocchi disposti su otto file, per un volume totale di cinquantacinque metri cubi: tra i monoliti appena intagliati di forma parallelepipeda o trapezioidale vi sono anche tre podii destinati a sorreggere statue onorarie, forse evergeti;

Evergetismo è un termine coniato dallo storico francese André Boulanger (1923) e deriva dall'espressione greca εεργετέω ("io compio buone azioni"); indica la pratica, diffusa nel mondo classico, di elargire benevolmente doni alla collettività apparentemente in modo disinteressato.

probabilmente vi sono anche dei capitelli, quelli tempo addietro recuperati dai sommozzatori dei Vigili del Fuoco di Mazara ed ora esposti nell'acropoli di Selinunte forse in ragione di una semplicistica sovrapposizione dell'ipotesi sulla destinazione al dato della vicinanza geografica con l'antica colonia magno-greca.


Panoramica sui blocchi della navis lapidaria (foto Archeogate).

L'equipaggio è composto da una decina di uomini. "Li possiamo immaginare in affanno mentre manovrano le vele e i remi-timone per riguadagnare il largo: un vortice, in zona Puzziteddu, deve aver fatto perdere al comandante il governo della nave, che adesso i flutti di libeccio spingono verso la spiaggia del faro. E' alla deriva: prosegue la sua corsa mentre il fondale si fa sempre più basso. D'un tratto si fa troppo basso per il pescaggio dello scafo: l'attrito di una secca sabbiosa ne arresta il convulso tragitto. Gli uomini, scaraventati in mare, riescono a trarsi in salvo perchè l'acqua è alta poco meno di un metro. Il comandante impreca. Gli altri, ammutoliti, osservano dalla spiaggia i frangenti, lo schiaffo del mare. La nave e il suo carico sono oramai perduti...”

Monolite in marmo proconnesio (foto Archeogate).

Il marmo proconnesio (marmor proconnesium in latino) è una varietà di marmo bianco tra le più utilizzate nell’Impero romano.

La varietà presenta un colore bianco, con sfumatura cerulee, uniforme o con venature grigio-bluastre ed ha cristalli grandi.

Le cave si trovavano nell'isola del Proconneso (nome antico in greco Prokonnesos, nel mar di Marmara, dal greco marmaros, "marmo") e dipendevano amministrativamente dalla città antica di Cizico, sulla vicina costa anatolica.

Le prime esportazioni del marmo dalle cave dell'isola, utilizzate localmente già in epoca greca, risalgono alla seconda metà del I Secolo d.C.: tra i più antichi esempi di esportazione sono gli elementi architettonici del restauro del tempio di Venere a Pompei, dopo il terremoto del 62.

Le cave erano di proprietà imperiale e le più importanti si trovavano presso le località di Monastyr, Kavala, e Saraylar. Producevano in serie elementi architettonici, vasche e sculture decorative, e sarcofagi. Nelle cave stesse i manufatti venivano sbozzati secondo le indicazioni dei committenti, per essere poi completati al loro arrivo. Dal IV secolo si svolsero sul posto tutte le fasi della lavorazione e i manufatti erano esportati ad uno stadio di lavorazione quasi completo.


Podio in marmo proconnesio (foto Archeogate).

Il carico di marmo è noto all'accademia degli archeologi dal 1977 ma è difficile pensare che sia sempre stato ignorato dal giorno del naufragio. 1500-1600 anni fa, il sito di arenamento si trovava, verosimilmente, in corrispondenza dell'allora linea di costa. Certo, lo scafo ligneo non deve aver resistito a lungo all'instancabile azione dei flutti, ma il suo pesante carico, di compattissimo marmo, è probabilmente rimasto lì, in quel limbo terri-marino in cui gli oggetti vengono di continuo coperti e scoperti dalle maree. E forse, con quel "Granitolis", l'umanista G. G. Adria, senza andare troppo per il sottile sulle tipologie di marmo, si riferiva al carico (che oggi, grazie ad analisi petrografiche, sappiamo non essere di granito) della navis lapidaria. Oppure - cosa che ci si può attendere da un umanista - il toponimo Capo Granitola ("Caput Granitolis", con "Granitolis" nella sua accezione mineraria in senso lato, ad indicare più che altro le rocce tufacee dell'era quaternaria) è la traduzione di quella locuzione araba "Ras-el-Belat" (capo roccioso) il cui cruento ricordo doveva suonare ancora fastidioso.

Il relitto di Kartibubbo (Sicilia Sud Occidentale) è una specie di mausoleo sottomarino in cui ogni monolite commemora un naufragio, uno scafo ingoiato, “digerito dal grande intestino acquatico e mai restituito”. Un tratto di mare navifago, capace di usare le sue indomabili correnti e i suoi bassi fondali come trappole mortali per i legni in transito. Già in epoca greca, intorno al V secolo a. C., una nave carica di zolfo sarebbe naufragata tra Kartibubbo ed il Puzziteddu; alcune parti della sua chiglia con chiodi di rame ed il carico di anfore frantumate sarebbero state individuate dal professor Gianfranco Purpura. In epoca romana, oltre alla navis lapidaria, qui conclusero il loro tragitto almeno due navi: una probabilmente durante la battaglia delle Egadi (249 a.C.), e l’altra, in età imperiale, nel II-III secolo d.C.- Storie tragiche raccontano i cocci d’anfora ed i pezzi di piombo (coi quali si equilibravano gli scafi ovvero le ancore) che di tanto in tanto il cestello di qualche raccoglitore di ricci riporta in superficie.

Anche in Liguria, nel Golfo di La Spezia, abbiamo la nostra nave lapidaria

Un riferimento importante alla romanità del Promontorio del Caprione ci è stato fornito dal ritrovamento della nave romana affondata alla Caletta, il seno di mare posto fra le punte di Maralunga e Maramozza, (al centro della mappa) detta nel Medioevo Cala Solitana. La nave trasportava tre grandi pezzi di colonne di marmo lunense (rocchi), di cui uno già recuperato ed abbandonato presso il Museo di Luni (vedi foto). Il naufragio sembra occasionale, ma analizzando bene la scogliera esterna del promontorio di Maralunga si scopre uno strano intaglio, assai grande, di decine di metri, molto antico perché dello stesso colore della scogliera, perfettamente piano, che induce a pensare ad un piano di appoggio di grandi pesi. Diviene quindi logico pensare che si sia tentato, in epoca romana, di costruire qualche tempio, dedicato forse alla Venere Ericina, nella splendida natura del promontorio di Maralunga. La nave, lì ormeggiata per il trasbordo dei grandi pesi, sarebbe stata colta da un fortunale e sarebbe finita contro la scogliera.

Ciò che in ogni modo è strano, è che la colonna, offerta dalla Sovrintendenza al Comune di Lerici, sia stata rifiutata dal Sindaco pro-tempore che tenne nascosto il fatto. Forse perché era troppo oneroso fare il relativo basamento, che ovviamente avrebbe dovuto sopportare il peso di tutti e tre i rocchi? Secondo altri si sarebbe dovuto creare un parco archeologico sottomarino, ma nulla è stato fatto di tutto ciò. Secondo altri le colonne non verrebbero mai tirate su, per non far emergere il fatto increscioso dei cercatori di datteri che le avrebbero in parte rovinate. In ogni modo si tratta di una devalorizzazione ignobile, rispetto alla ipotesi di vedere svettare al tramonto del Sole una alta colonna romana, testimone della nostra storia!

La Caletta. Scavo e recupero di relitto di Navis Lapidaria


Documentazione fotografica del recupero


Breve ricostruzione storica

In seguito a segnalazione vennero effettuati nella zona di Lerici - Baia della Caletta, diversi sopralluoghi che hanno permesso di individuare tre corpi lapidei approssimativamente cilindrici, parzialmente ricoperti dal fondale sabbioso ad una profondità di circa 8-9 m.

Tali ricerche, realizzate nel luglio 1990 con l’ausilio del Nucleo Carabinieri Subacquei di Genova e del circolo “Duilio Marcante”, permisero di riconoscere e documentare i tre massicci elementi, misure in centimetri:

n. 1: 210/198 x 380;

n. 2: 195/190 x 495;

n. 3: 185/178 x 260),

ricoperti dalla sabbia per circa un terzo del loro diametro. La loro sovrapposizione grafica permise poi di capire che si trattava di tre rocchi relativi ad un’unica colonna, dal fusto alto oltre 11 m. Le analisi nel contempo effettuate su alcune porzioni prelevate dal manufatto

lapideo, consentirono di stabilire che si trattava di marmo proveniente dalle Alpi Apuane, cioè dalle cave dell’antica Luni.


Negli anni successivi 1990, '91, '92, '93 e '97 sono state effettuate numerose campagne di scavo che hanno permesso anche il recupero di uno dei tre rocchi di colonna, l’elemento n. 2.

Un saggio effettuato nello spazio compreso fra i rocchi n. 2 e n. 1 restituì, ad una profondità corrispondente al piano d’appoggio di questi ultimi, numerosi resti metallici, fra cui chiodi, lunghi fino a 20-23 cm, abbondanti frammenti di lamina plumbea e piccoli chiodini di rame, destinati al fissaggio della lamina. I frammenti ceramici erano tutti relativi ad anforacei, tra i quali prevalevano quelli relativi ad anfore del tipo Dressel 2-4.


Il rocchio di colonna della nave romana affondata si trova ora nel

MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE E ZONA ARCHEOLOGICA DI LUNI

Il territorio comunale è posto ai piedi della Alpi Apuane, nell'estrema propaggine della Riviera di Levante, in prossimità del confine con la regione Toscana.



LUNI – Ricostruzione grafica di come era nell’Epoca Imperiale.

Notare la zona portuale


Questo museo apre le porte di una città: Luni, fondata dai Romani nel II secolo a. C.

Il Museo Archeologico Nazionale di Luni, inaugurato nel 1964, è stato costruito all’interno dell’area dell’antica città di Luna, fondata nel II secolo a.C. come colonia romana e divenuta in seguito il principale porto d’imbarco per il marmo bianco proveniente dalle vicine cave apuane e destinato a Roma. I materiali archeologici in esposizione consentono di seguirne l’evoluzione, dall’impianto della colonia nel 177 a.C. alla fase di massimo splendore raggiunto durante la prima metà del I secolo d.C, passando attraverso la trasformazione in sede episcopale nel V secolo d.C., fino al definitivo abbandono nel 1204.


Anche i Romani guardavano l’orologio! Solo che non era a molla o a pile come i nostri, ma funzionava grazie alla luce del sole. Questa meridiana è stata rinvenuta in una ricca domus della città: nel foro superiore si inseriva l’asta di metallo che, proiettando la propria ombra sulla parte concava, divisa in spicchi da sottili incisioni, indicava l’ora.


Particolare del mosaico di Oceano, la decorazione musiva che ha dato il nome all’intera domus in cui è stato trovato. Nella parte centrale è raffigurato il dio del mare, attorniato da una grande varietà di pesci resi in modo molto realistico. Tra le onde ci sono anche due amorini a cavallo di un delfino: qui ne puoi vedere uno, il solo che si è conservato per intero, mentre regge un tridente nella mano destra.


Incredibile ma vero...

L’anfiteatro, costruito in epoca imperiale, è uno dei monumenti meglio conservati della città: ne resta solo il primo piano, ma probabilmente ce n’erano altri due, per un totale di 7.000 spettatori! Qui si svolgevano i giochi gladiatori, combattimenti tra lottatori dotati di gladius, una spada corta e larga, e tra animali feroci. Si trattava di spettacoli assai violenti, ma che i Romani amavano molto!

Ringraziamo:

La Soprintendenza Archeologica della Liguria ed il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo per averci concesso la pubblicazione di materiale a scopo divulgativo.


Carlo GATTI

Rapallo,  28 settembre 2017


IL CANALE DI GÖTA - SVEZIA

IL CANALE DI GÖTA

SVEZIA


GÖTA KANAL

La rete idrografica della Svezia, così estesa e ramificata, non é molto idonea come reticolo di comunicazione per i frequenti dislivelli; pertanto, specie nella parte settentrionale del paese, le comunicazioni sono state difficili fino all’introduzione della ferrovia.

I grandi laghi invece hanno sempre rappresentato vie di comunicazione di traffico locale, specie quando sono stati congiunti per mezzo di canali o di tronchi fluviali artificialmente sistemati.

Il canale più importante é il Göta Kanal, che unisce GöteborgStoccolma collegando due mari, otto laghi, tre canali e un fiume attraverso un sistema di 66 chiuse. Costruito tra il 1810 ed il 1823, fu inaugurato nel 1832. Rimane tuttora l’opera ingegneristica  più importante della Svezia.

La sua costruzione fu voluta dal re Gustavo Vasa per unire le due maggiori città svedesi senza dovere pagare una tassa che la Danimarca imponeva a tutte le imbarcazioni che passavano lo stretto di Öresund.

La sua lunghezza complessiva é di 560 km, la larghezza é di 28 metri, e la profondità 3,50; lo sviluppo, che é solo parzialmente artificiale, é interrotto, come dicevamo, da 66 chiuse. La sezione che va da Göteborg al lago Vänern, prende il nome di canale di Trollhättan ed é più larga e profonda del resto, tanto da permettere il passaggio di navi di 1350 t. Importante per il traffico della regione del lago Mälaren é il canale Södertälje, che unisce il lago stesso al mar Baltico.

Nel dopoguerra c’è stata la conversione del traffico commerciale in turistico, ma le navi sono rimaste le stesse, naturalmente anch’esse sono state convertite ai nuovi standard moderni.

Le attrazioni turistiche sono numerose e le mostreremo nel percorso fotografico.


Il Göta Kanal si snoda da Sjöstorp (lago Vänern) a Östersjön e ci sono 58 chiuse. I canali artificiali hanno una lunghezza di 190 km, di cui 87 sono stati scavati. Il canale raggiunge la sua massima altezza a Forsvik 91,8 metri.

Le caratteristiche delle navi:

Lunghezza: 30 m

Larghezza:    7 m

Pescaggio:  2,83 m

Altezza: 22 m

Velocità massima: 5 nodi

Durata del viaggio

La compagnia di navigazione Göta Kanal, da maggio a settembre, effettua crociere da Göteborg a Stoccolma e viceversa che durano 4 giorni (3 notti) con le navi storiche Juno del 1874Wilhelm Tham del 1912 e Diana del 1931. La Juno è lunga 31,45 metri, larga 6,68 metri, ha un pescaggio di 2,72 metri e 29 cabine a due posti; le altre hanno misure analoghe.

Il viaggio in una sola direzione dura 6/7 giorni in alta stagione, di cui sono previsti 5 pernottamenti negli alberghi lungo il percorso. LA NAVIGAZIONE E' SOLO DIURNA!

Imbarcazioni private

Anche i privati con le loro barche possono utilizzare il canale: le  cui misure non possono superare:

Lunghezza:88 m, Larghezza:13,2 m, Altezza:27 m, pescaggio 5,4 m

Un po’ di Storia:

Baltzar von Platen (1766-1829)

Tra il 1810 e il 1832 furono scavati 190 chilometri di canali e chiuse, da 58.000 soldati svedesi, scaglionati in diversi periodi, che hanno dedicato 7.000.000 di giorni di lavoro, per 12/g, sotto la direzione del conte Baltzar von Platen, militare di carriera e Consigliere di Stato. Fautore e promotore nonché realizzatore di questa immane opera. Parteciparono alla costruzione del Canale anche 200 disertori russi (1809), e molti tecnici inglesi. L’inaugurazione del primo tratto avvenne nel 1822. B.von Platen rivette il Serafimerorden dal re Karl Johan 14°. B.v.Platen morì 3 anni prima del termine dell’opera. Il suo motto era: “quando dici che non sei all’altezza é perché non ne hai voglia”.

L’inaugurazione avvenne a MEM (M.Baltico) il 26 settembre 1832 alla presenza del re e delle massime autorità. L’avvento della ferrovia, il traffico su gomma, l’aumento del tonnellaggio navale sono le cause principali della conversione del GÖTA canale, fino ad allora soltanto commerciale, in una delle maggiori attrazioni turistiche della Svezia.

ALBUM FOTOGRAFICO

Sette "chiuse"

Pattugliatore Marina Svedese N°91

Pattugliatore Marina Svedese N° 834

Juno

Vaporetti in salita...

WILHELM THAM

GÖTA HOTEL

Castello di Ekenäs

Chiusa

Hiulangaren-Norfdevall

JUNO

SANDÖN

Carlo GATTI

Rapallo, 12 Settembre 2017

 

 


BATTISTA BAVESTRELLO-IL CAMPANARO di RAPALLO

“Personaggi di Rapallo”

Battista Bavestrello

IL CAMPANARO

20 Apr.2017-Sala Consiliare Comune-Rapallo: presentato il 57° Raduno dei Suonatori di Campane. Battista Bavestrello é il secondo da sinistra. Il sindaco in carica, Carlo Bagnasco é il secondo da destra.

COME SI COSTRUISCE UNA CAMPANA?

L'articolazione compiuta del suono delle campane è però tanto complessa quanto la realizzazione della campana stessa. Mediamente occorrono da trenta a novanta giorni per la fabbricazione della campana. Con una sagoma di legno e ferro e con una struttura di mattoni, si dà forma all'"anima", che corrisponde all'interno della campana. Questa si copre con strati di argilla sui quali si applicano le iscrizioni e le figure in cera che formeranno la "falsa campana". Con l'applicazione di un nuovo strato di argilla si ottiene il "mantello". Mediante i carboni ardenti inseriti nell'anima si raggiunge l'essiccazione del mantello nel quale rimangono impresse al negativo le iscrizioni e i fregi (cera persa). A questo punto si solleva il mantello, si elimina la falsa campana e si ricolloca il mantello sull'anima. Il bronzo - ottenuto con il 78% di rame e il 22% di stagno - viene colato a circa 1150° in quello spazio. Si procede così alla ripulitura della campana così realizzata, prima di sottoporla alle verifiche della tonalità. Questo procedimento è affidato a sapienti artigiani depositari di antiche tecniche tramandate di padre in figlio. Le botteghe dei Marinelli ad Agnone (fin dall'anno mille), dei Clocchiatti a Campoformido, dei Picasso ad Avegno, dei Colbachini a Saccolongo e di altri artigiani veterani dell'arte campanaria, restituiscono vitalità ad una memoria pressochè dimenticata. Tradizione che non trova terreno fertile nelle nuove generazioni proiettate verso un futuro che non deve mai trascurare la tradizione.

IL SUONO DELLE CAMPANE

Testo DI F. DE GREGORI - Musica di M. LOCASCIULLI

..............................................................................................

Ho visto uomini discutere su chi doveva sparare per primo

Uomini tirare a sorte il nome dell'assassino

E ho visto uomini in fila indiana nella notte di Natale

Aspettavano fumando il suono delle campane

Il suono delle campane

Aspettavano sognando...

Gli uomini avvertono da sempre il fascino spettacolare sprigionato dalle campane, le cui onde sonore vibrano per le vie dei cieli e della terra da secoli e secoli. Dai rudimentali campanelli dei tempi antichi fino alle enormi fusioni usate come elemento celebrativo, quel suono ha assunto nel tempo un duplice ruolo: religioso e sociale. Lo stesso progresso sociale è scandito dall'evoluzione del loro suono. Nella liturgia cristiana, l’uso delle campane compare nel VI secolo, assumendo un ruolo centrale nelle funzioni e un'importanza architettonica e artistica nelle chiese, nei conventi e nei monasteri. Indicative sono le iscrizioni che appaiono incise nel bronzo delle campane: "Vox mea, vox vitae", "Voco vos ad sacra, venite!" (La mia voce è voce di vita-Vi chiamo agli uffici sacri, venite!)

La campana è uno strumento tanto semplice quanto carico di suggestioni, i suoi rintocchi hanno ispirato grandi compositori con il fascino di quelle note sole e pure, ma la sua forma d’arte è stata capace di suscitare elevati sentimenti e grandi emozioni anche e soprattutto nella gente comune. Da questo mondo popolare provengono i nostri maestri campanari che eseguono concerti secondo i riti e la tradizione locale: ligure, bolognese, ambrosiano e veronese che sono le più radicate nel nostro Paese.

Era l’inverno del 1982 e buona parte degli italiani si riunivano davanti al televisore per seguire in diretta la trasmissione di successo “Portobello”, che era condotta da Enzo Tortora. I rapallesi, in particolare, erano in trepidante attesa della comparsa in scena di Battista Bavestrello, conosciuto in città col nomignolo di “Bacci” il campanaro, il talentuoso musicista autodidatta che era in grado di esibirsi in solitario, in un vero e proprio concerto di dodici campane.


“Bacci” Bavestrello, al centro della foto, con Enzo Tortora durante la trasmissione televisiva Portobello

Maestro, ci parli un po’ di lei.

Sono nato a Rapallo nel 1933, ed ho iniziato a suonare le campane quando avevo poco più di venti anni. Ho fatto a lungo la “gavetta” allenandomi con le vecchie campane della Chiesa di Santa Maria del Campo, dove mio zio s’ingegnava a “suonare a cordette”, creando la giusta atmosfera di gioia e allegria durante le feste.

Quando è nata la sua attività di campanaro-concertista?

Dopo qualche anno, quelle quattro “stanche” campane furono sostituite con dodici nuove provenienti dalla ditta Picasso e, una volta appresa la tecnica del maneggio, imparai quanto di musica mi serviva per esibirmi in concerto ed anche per comporre motivi, attorno ai quali, ancora oggi, lavoro cercando per loro la forma migliore. La tecnica da me usata è quella a campane ferme: “carrilon” oppure “organo di campane a tastiera genovese”.

Prima d’ogni concerto mi alleno quattro ore il giorno per oltre un mese.


Fidenza 1988. Il campanaro rapallese “Bacci” Bavestrello, dedicò il concerto più importante della sua carriera a Papa Wojtyla.

In cinquanta anni di carriera, il mio repertorio musicale, costituito da motivi sacri e profani, è cresciuto notevolmente e lo eseguo a memoria senza spartiti. Di molti brani, come dicevo, sono anche l’autore.

Ho suonato parecchio in giro per l'Italia e amo ricordare non solo la mia partecipazione in TV nel 1982, che lei ha già menzionato e che mi ha dato una certa popolarità, ma soprattutto mi riempie tuttora d’orgoglio il ricordo di quando fui scelto, tra tanti bravi colleghi campanari, per eseguire un concerto durante la visita del Papa Karol Wojtyla a Fidenza nel 1988.

In seguito ho eseguito numerosi altri concerti in molte altre città: Chiavari, Rapallo, Genova, La Spezia, Monreale, Nicolosi, nella Repubblica di San Marino, Firenze, Milano, San Remo, Arenzano, Aosta, Rovigo, Trento, Bolzano, Ventimiglia, Reggio Emilia, Bellaria, Pioltello (MI), Vertemate con Minoprio (CO), Bovisio Masciago, Brianza, Mondovì (CN), Busca (CN) ecc.).  L’ultima esibizione l’ho tenuta recentemente al Conservatorio di Genova con altri cinque colleghi.

Nel 2004 ho recitato come attore, nei panni di un campanaro e in quella di un medico nel film "L'Apprendista",  un cortometraggio scritto e diretto da Giacomo Gatti. 

Può descriverci la tecnica campanaria più diffusa in Liguria?

Tra le varie tecniche campanarie esistenti, una delle più antiche e diffuse in Liguria è senza dubbio quella cosiddetta ”a corde” ed è strutturata in questo modo: una catena (o corda in qualche caso) è fissata con un gancio ad una parete opposta alla campana da collegare; dalla parte opposta, tramite un altro gancio, avvicina il battaglio alla superficie interna della campana, alla metà circa di questa catena è fissata una corda che, sollecitata in senso verticale, avvicina il battaglio alla campana permettendo la percussione e quindi la produzione del suono. Secondo la maggiore o minore forza applicata, il suono sarà più o meno intenso, inoltre se il battaglio, dopo la percussione, tornerà nella posizione di partenza, la vibrazione della campana non cesserà; viceversa, se esso sarà mantenuto nella posizione di percussione, il suono sarà smorzato, ossia la vibrazione della campana si estinguerà molto presto. Grazie a questi accorgimenti, molto più difficili da applicare ad altre tecniche di percussione, il campanaro sarà quindi in grado di esprimere successioni e colori sonori differenti.

In questa istantanea di “Bacci” in concerto, si può notare l’insieme dei collegamenti che uniscono i battagli delle campane alla tastiera genovese.

Perchè lei ha adottato la tecnica a tastiera?

Mediante questa tecnica ho la possibilità di attivare un numero maggiore di note e di eseguire melodie d’ambito più esteso che non nella tecnica “tradizionale”, avendo davanti agli occhi le campane in successione e disposte chiaramente su un piano, anziché sparse nello spazio della cella campanaria. Con questa tecnica, è tuttavia più difficile eseguire accordi composti di più di due suoni o adottare accorgimenti come lo smorzato in velocità.

 

Può descriverci l’impianto?

Al sistema meccanico a “corde” appena descritto, è applicata una tastiera solitamente in ferro ed è fissata al pavimento. Essa presenta un numero variabile di tasti corrispondenti al numero delle campane; soltanto quando queste raggiungono il numero di dodici,  si può parlare di “concerto di campane”. Per allenarmi (senza campane), uso la stessa tastiera, ma ad ogni tasto è applicato un tubo verticale di lunghezza variabile, il quale può essere costruito in legno (xilofono) oppure in metallo (vibrafono).

 

Cosa si prova a suonare in solitudine nella cella campanaria di una chiesa?

Il campanile è il luogo dove l’arte prende forma grazie alle melodie e di conseguenza all’arte del campanaro. Salire verso l’alto è già poesia. Le porte, le rampe di scale, l’orologio, le corde campanarie, sono l’introduzione al concerto e ultima fonte d’ispirazione. Quest’ambiente riveste quindi particolare importanza nell’elaborazione musicale. Appena chiudo la porta d’accesso al campanile,  entro - per così dire - in un altro mondo, fatto oltre che di materia, anche d’odori e di colori unici. Ogni modifica di quest’ambiente da parte dell’uomo porta, a volte, ad una conseguente alterazione dell’aspetto musicale. Il richiamo dell’Angelus al calare del sole, per esempio, subisce con l’automazione le variazioni d'orario del tramonto.

Altri esempi di tali modifiche sono davanti agli occhi e nelle orecchie di tutti: si va dai campanili “virtuali”, in cui le campane registrate altrove sono diffuse con altoparlanti, alle campane automatizzate il cui sistema a telebattente, percuote la campana dall’esterno anziché con il battaglio dall’interno ed è unito, spesso, al sistema motorizzato delle ruote per il suono a distesa, per finire con la soppressione delle rampe d’accesso alla cella.

Siamo giunti al termine di quest’interessante conversazione e mi viene spontanea una domanda: è in pericolo l’antica tradizione campanaria?

Tutto ciò che ha un sapore antico, a mio avviso, è in pericolo. I giovani sono attratti dal moderno e quindi guardano nella direzione opposta alla nostra. Io credo che la nostra tradizione esisterà finché ci saranno buoni parroci che sapranno attrarre bravi giovani con la voglia di sacrificarsi per imparare, dai noi anziani, un’arte che purtroppo è faticosa, povera e in via d’estinzione. Tuttavia, devo dire che il problema mi trova più amareggiato che pessimista, infatti, noi campanari ci sentiamo un po’ abbandonati a noi stessi. Personalmente finché ho potuto ho suonato le campane con tanta fede e passione rimettendoci, il più delle volte, tempo e denaro. Oggi, da pensionato sono costretto a coltivare il mio orto per sopravvivere e, purtroppo, di sera sono stanco e non posso dedicare che pochissimo tempo al mio vibrafono (d’allenamento) che tengo in cantina.

So che il Comune di Rapallo le ha concesso un locale presso l'ex convento delle Clarisse, proprio per tramandare l’insegnamento della musica sul vibrafono ai giovani allievi, affinché l'arte campanaria non si perda. Ma se ho ben capito, lei sta dicendo che intende lasciare la sua attività?

Si! Purtroppo è così! “Picchiare” con i pestelli sulla tastiera delle campane è un esercizio ginnico duro, per il quale occorre molto allenamento da intervallare a molto riposo. Purtroppo la mia modesta economia non mi concede tempo né per l’allenamento né per il riposo. Mi creda, non spetta a me soltanto pensare a come mantenere in vita la tradizione dell’arte campanaria, tuttavia, spero che questo “messaggio” arrivi alle sensibili orecchie di chi ama veramente le nostre tradizioni. Mi creda!  Fin da ragazzo mi porto addosso le nostre tradizioni come una seconda pelle, e qualora fossi un po’ aiutato, potrei ancora lottare per tenerle in vita, almeno fino a quando potrò passare il testimone a qualche giovane di talento e di buona volontà.

GATTI CARLO

Rapallo 25 Settembre 2017

 


CANCARONE E VINO NAVIGATO

CANCARONE E VINO NAVIGATO

Quando nel 1956 feci il mio primo imbarco da mozzo su una piccola vinacciera, sentii che l’equipaggio chiamava sia il vino di bordo sia quello trasportato, con un nome curioso e suggestivo: CANCARONE. Ma nessuno a bordo conosceva l’origine di quel nome che mi ricordava i profumi della darsena e dell’angiporto di Genova. Ero un ragazzo, ma con un ramo di parentela nel basso Piemonte… per cui mi accorsi subito quanto fosse imbevibile quel liquido che non sembrava ricavato dalla fermentazione del mosto d’uva.

Mio cugino Francesco Fidanza dal Venezuela mi telefona: "alcuni gorni fa mi e’ venuto in mente: la parola CANCARONE  che a bordo veniva servito nella classica caraffa di vetro, la raffinatezza era che veniva servito ‘freddo di frigorífero'. Nonostante tutto, si svuotava... e si poteva vedere la macchia rosso scura che lasciava quel liquido chiamato Cancarone. Poi, gli  armatori meno spilorci, il giovedi e la domenica ci donavano il vino in bottiglia (con il tappo di sughero ) che era la versione di LUSSO dello stesso cancarone, in effetti se ne bevevi due gotti, ti veniva il mal di testa..."

L'amico Nunzio C. ricorda che alla fine degli anni '40, prima dell'avvento in Italia della Penna a sfera (la famosa biro), molti marittimi usavano il CANCARONE come inchiostro per scrivere a casa...

“La colpa é del mare mosso e delle vibrazioni del motore – mi spiegavano – che non permettono il deposito delle 300 sostanze di cui é composto il vino”.

Per una volta tanto la famiglia caino di bordo: “il cambusiere”, veniva assolto insieme ai suoi collaboratori della sezione cucina.

 

Tempo addietro trovai persino la definizione di questo strano nome: VINO CANCARONE

 

CANCARONE

Non è un tipo di vino né un nome. Si usa soprattutto in Liguria, la dizione si rifà ad un ​​brano del celebre scrittore sanremese Italo Calvino per indicare un vino scadente, che costa poco e vale meno.

In certi ambienti viene usato anche un altro nome:

TRAGLIA
Qualcosa di scarsa qualità, generalmente riferita a vino o alcolici in generale. In un impeto di internazionalizzazione è stato anche sostituito con l’inglesismo "cancaron".

Espressioni collegate: "E’ una traglia" - "Che vino molto “cancaroni!"

Sono proposte di Max (Kroy), area genovese in particolare di Rapallo.

Nel novembre del 1932, entrò il linea il CONTE DI SAVOIA che fu il primo piroscafo a essere dotato di enormi giroscopi stabilizzatori per diminuire il rollio ed il beccheggio in caso di maltempo. Da quel giorno anche i SOMMELIER DA CANCARUN fecero un salto di qualità...

LA NOVITA’

Dopo tanti anni di oblio, é ritornata di moda un’altra definizione che però certifica un’altra tipologia di vini, questa volta di buona qualità:

 

VINO NAVIGATO

 


Albenga: La sezione di archeologia sottomarina, ospitata nel Palazzo Peloso Cepolla, pregevole edificio del primo Seicento, è sorta nel 1950 in seguito al ritrovamento, sui fondali dell'isola Gallinara, di una nave oneraria degli inizi del 1 sec. a.C. Nel Museo, in corso di risistemazione, sono esposti resti dello scafo, e materiali recuperati durante le varie campagne di scavo, e soprattutto un gran numero di anfore vinarie, collocate secondo la disposizione originaria del carico.

L’interno dell’anfora da vino era impermeabilizzato con pece e resine, da cui il termine "vino resinato", mentre l’imboccatura veniva chiusa con un tappo di sughero spalmato di pece ma anche da appositi tappi di ceramica sigillati con calce o pozzolana.


Portofino/Santa Margherita Ligure. Quelle anfore pescate il 27 maggio 2016, alla fine hanno condotto al vero tesoro: una nave da carico romana del II – I secolo a. C., affondata al largo di Portofino. Le anfore, riportanti i bolli del generale Lucio Domizio Enobarbo indicano con esattezza la loro provenienza, la fornace e lo schiavo che le aveva realizzate. Vista la loro grandezza, da subito si era ipotizzato che facessero parte di un grosso carico di vino di una nave di notevoli dimensioni.

Questi reperti archeologici della nostra regione, dimostrano che la storia del Vino Navigato si perde nella notte dei tempi e ci raccontano di quel vino ligure che viaggiava tra le sponde del Mediterraneo sulle navi onerarie romane e non solo, quando una su tre affondava a causa del Mistral, e le sopravvissute naufragavano prima o poi sulle coste della Riviera a causa del libeccio. Non é quindi un caso, che in seguito a questi naufragi esistano tante anfore recuperate che oggi rivivono nei nostri musei.

Non solo anfore potremmo dire, ma anche qualche segreto che oggi riemerge in forma direi turistica e commerciale.

Ma di cosa si tratta?

Si dice che furono i “marangoni genovesi” (sommozzatori e palombari, provetti nuotatori di superficie e in apnea, famosi fin dal 1300) a localizzare numerosi relitti romani recuperando le anfore che erano rimaste indenni dalle mareggiate. I nostri avi che erano più interessati al contenuto che alle anfore-container dell’epoca, fecero una interessante scoperta: quel vino navigato e invecchiato per un destino avverso… era migliore di quello di terra. Ma come spesso succede in questa terra ligure un po’ arcigna e impregnata dei “si dice…manaman”, certi segreti rimasero sepolti sul bagnasciuga dei porticcioli, forse all’interno di qualche calata privata e protetta, tana e patrimonio di pochi fortunati intenditori! Tuttavia qualche fuga di notizie ci fu nella lunga e variegata storia locale che poi si é tramandata attraverso piccoli cunicoli fino ai giorni nostri!

Ecco, improvvisamente rispuntare i primi esperimenti di vino, (anche champagne pregiato, si dice…), che viene affondato ad oltre 50 metri di profondità per essere conservato, anche un anno intero, in gabbie opportunamente ancorate e accarezzate dall’acqua di mare pulita e mai mossa, con poca luce e tanti profumi sconosciuti tra i mortali che vivono in superficie.

E’ inutile girarci intorno… Oggi il termine Vino Navigato, é abusato e copiato per ovvi scopi pubblicitari e turistici, ma non vanno dimenticati i secoli di fatica, sudore e rischi di navigazione: unici elementi che conferivano, in maniera naturale, un gusto davvero speciale al vino. Sulla scia di quanto detto, il nostro pensiero corre innanzitutto al RICORDO dei nostri Leudi, ai quali abbiamo già dedicato un’ampia rassegna di saggi e articoli sul Sito di Mare Nostrum Rapallo.


L’ultimo Leudo di Sestri Levante: Nuovo Aiuto di Dio

RICORDI di quando il vino era una specie di santo “pellegrino” che viaggiava  via mare in botti di rovere sui Leudi, una tipologia di imbarcazioni in uso in tutto il Mediterraneo fino alla fine del Novecento.

Il LEUDO fa parte della nostra storia e della nostra tradizione. Quest'imbarcazione aveva il compito di trasportare tutti i generi di prima necessità, a partire soprattutto dal vino.

Tradizionali erano gli scambi con l'Isola d'Elba, ma anche con la Sicilia e la Corsica.

L’ultimo Leudo rimasto è il "Nuovo aiuto di Dio" di proprietà del dottor Gian Renzo Traversaro presidente dell'Associazione "Amici del Leudo" che è stato restaurato e ha potuto riprendere il mare nel 2011.

Sul "Nuovo aiuto di Dio" imbarcò Agostino Ghio "Giustinin" (Ancora d'Oro nel 1961) che fu anche timoniere di Guglielmo Marconi sulla celebre Elettra.

Nel 2012 – racconta il dott. Traversaro - in una delle riunioni invernali per le opere da eseguire, mi è balenata un'idea, forse pazza, ma interessante: riprendere i commerci con il Leudo ed in particolare quello del vino con l'Isola d'Elba e l'isola del Giglio”.

Una bella notizia di questi ultimi anni riguarda quindi il ritorno al passato… Da questa antica tradizione, il vino Navigato riprende le vie del mare nostrum a bordo della bombata coperta del primo LEUDO restaurato da appassionati privati.  Ascoltiamone il racconto di un anonimo testimone:

“Quel vino rischiava di non essere prodotto a causa del mancato varo del Leudo Nuovo Aiuto di Dio determinato da problemi tecnici, ma un gesto di solidarietà ed amicizia, tipica delle buone tradizioni marinare, ha salvato la situazione! È stato il Leudo Zigoela, capitanato dal patron della Compagnia delle Vele Latine, Roberto Bertonati, a trasportare il prezioso nettare degli dei. Il ricavato della vendita del vino, apprezzato da consumatori ed esperti, servirà per rimettere in sesto il Nuovo Aiuto di Dio.

Così il 29 settembre 2014 il benemerito Leudo Zigoela è salpato dal golfo di La Spezia alla volta di Vernazza, nelle Cinque Terre, custodendo nel suo ventre il vino della Cantina Sassarini.

 

Dopo aver preso contatti con alcune cantine produttrici dell’Isola d’Elba, abbiamo trovato due bottifici ancora attivi a Marsala che ci hanno fornito le botti per il trasporto. Ad attendere l’arrivo delle botti, non solo presenziava il sindaco Vincenzo Resasco, ma anche i ‘vinacceri’ Andrea e Daniele Ballarini e i rappresentanti dell’ Associazione Amici del Leudo Ugo Rocca e Giordano Veroni. Nel Settembre del 2012, quarantaquattro anni dopo l’ultimo viaggio commerciale che fu appannaggio proprio del Nuovo Aiuto di Dio, è stata riaperta “La Via Dei Leudi”.


Andrea Ballarini, imprenditore, ristoratore e socio degli amici del Leudo ci informa che: i progetti per il Vino Navigato di quest’anno sono ambiziosi. Alla “Stella Maris”, che farà affinamento in botte immersa nelle acque del nostro mare, si affiancheranno due nuovi prodotti che vedranno la luce grazie ad una collaborazione con il Museo di Sestri nella persona del direttore Fabrizio Benente.

STELLA MARIS IL VINO DEL LEUDO “NUOVO AIUTO DI DIO”

L’armatore Gian Renzo Traversaro parlandoci del naufragio del Leudo predecessore il "Nuovo Aiuto di Dio", avvenuto all’altezza delle secche di Vada, ci disse che durante quel triste epilogo, si seppe di anfore e botti di imbarcazioni affondate che avevano perfettamente mantenuto, se non addirittura migliorato il gusto de loro prezioso carico. Nacque un’idea. Ce la può raccontare?

“Certamente! Con un attento studio sulle botti e sui tempi abbiamo voluto creare una cosa unica immergendo in mare per sei mesi una serie di botti in una località segreta a Sestri Levante.

Il legno agendo da membrana osmotica ha poi regalato al vino altre note preziose facendolo acquistare in struttura e sapidità.

Fu scelto un nome speciale: “Stella Maris” un punto cardinale della devozione dei nostri marinai fin dall'antichità; in ebraico antico significa anche “goccia di mare”.

Ma per avere contezza del tempo che passa, andiamo ancora un po’ indietro e leggiamo che nel 1876 Bartolomeo Bregante iniziò a commercializzare il cosiddetto "vino navigato" lungo le rotte del Mediterraneo con una piccola flotta di Leudi.

 


Il Maestro d’Ascia Antonio Muzio detto anche “Tunin Capetta”

Di nuovo messo in secco nel 2013 per lavori all'albero maestro il leudo, costruito dai maestri d'ascia sestresi nel 1923, e' tornato a veleggiare. 'Il nuovo aiuto di Dio' che trasportava vino tra la Sardegna e l’Elba fino alla fine degli anni '50, in estate raggiungerà il porto di Marciana Marina (Elba) seguendo l'antica rotta dei vinacceri.

 

Dimensioni principali del “NUOVO AIUTO DI DIO”

 

Lunghezza fra le Pp. ................................................................ mt. 14,670
Lunghezza fuori tutto ............................................................. mt. 15,320
Larghezza massima fuori Fasciame Ponte Coperta ............ mt. 4,680
Larghezza massima fuori Ossatura Ponte Coperta ............. mt. 4,550
Larghezza massima fuori Fasciame Orlo Impavesata......... mt. 5,300
Altezza P. Coperta dalla L.C. alla Retta Baglio .................. mt. 1,050
Bolzone ..................................................................................... mt. 0,750
Immersione massima dalla L.C. sulla Pp. AV. .................... mt. 0,850
Immersione massima dalla L.C. sulla Pp. AD. .................... mt. 0,930

 

Di ritorno a Sestri, il vino veniva trasportato in botti di legno della capacità di 600/800 litri e veniva caricato sia nelle stive che in coperta.


Prima delle mareggiate invernali i Leudi venivano tirati a riva. Oltre all’equipaggio partecipavano a questa manovra anche i passanti ed i turisti.

 


Unico esemplare esistente di Argano a mano’ per virare il Leudo a riva.

(Museo Marinaro Tommasino-Andreatta. Foto C.Gatti)


I Leudi normalmente trasportavano fino ad un massimo di 300/500 botti che venivano gettate in mare con la stessa tecnica di sempre: spinte verso terra, tra lo stupore dei turisti festanti, da qui venivano rotolate sulla spiaggia per essere caricate e destinate all’imbottigliamento.

Il vino così prodotto e maneggiato in questo microcosmo costiero delle nostre parti, prese il nome di NAVIGATO in quanto assunse caratteristiche importanti nei gusti, dovute alla salsedine ed al "legno" della botte che, assieme ai continui movimenti durante il trasporto, ne definiscono in maniera unica ed antica il sapore. Un prodotto difficile, ma sicuramente unico in tutto.


Quando un Leudo era carico, la linea di galleggiamento era molto bassa.
Il Leudo era una imbarcazione molto stabile ma non era veloce. Era preferibile navigare con il vento a favore perché cambiare il bordo della vela era una manovra complicata.

 

CARLO GATTI

Rapallo, 7 Settembre 2017