ESPERIENZE UNICHE

SCRITTORI IN RIVA AL MARE

ESPERIENZE UNICHE

John Gatti

 


Erano mute usate e strausate, con tagli e buchi sui gomiti, sulle spalle e sulle ginocchia, provocati da decine e decine di entrate e uscite da spaccature e tane.

Da quei buchi, appena s’immergevano, rivoletti d’acqua s’insinuavano come sottili lame di ghiaccio e camminavano lungo la schiena andando a riempire le sacche che si formavano dove la muta non aderiva perfettamente al corpo.

La tortura durava pochi minuti, il tempo necessario al fisico per riscaldare l’acqua con cui veniva a contatto.

«Saltiamo il pezzo fino alla Madonnina.» disse Riccardo dopo aver sputato il boccaglio «Il primo tuffo lo farò io quando arriverò alla chiesa.»

I due amici acconsentirono con un cenno della mano, dopodiché cominciarono a pinneggiare regolarmente uno di fianco all’altro.

L’acqua era limpida e il fatto di non avere il fucile, il portapesci e il pallone segnasub contribuiva ad accrescere il senso di libertà trasmesso normalmente dal mondo sottomarino.

Innumerevoli castagnole sciamavano sopra le secche, aprendosi come pagine di un libro al passaggio dei ragazzi.

A un certo punto Angelo non resistette alla tentazione: fece una capovolta al volo e con poche potenti falcate si andò a posare sopra uno scoglio piatto circondato dalla posidonia. Alcuni metri prima di raggiungere il fondo interruppe ogni movimento, proseguendo a foglia morta. Allargò le gambe e le braccia per rallentare la velocità, andando a posarsi esattamente sul punto scelto.

Dall’alto i due amici seguivano la scena.

L’atterraggio fu morbidissimo, si trovò sdraiato sopra lo scoglio, rivolto verso il mare aperto e circondato da una verde prateria sottomarina che lo nascondeva perfettamente. Davanti a lui il fondale scendeva in picchiata, offrendogli la possibilità di osservare, senza essere visto, da una posizione dominante. Era nel punto ideale per mettere in pratica la tecnica dell’”aspetto”, iniziata nel momento in cui le sue pinne sparivano sott’acqua, quando le vibrazioni provocate dalla discesa verso il fondo si erano propagate, raggiungendo la sensibile linea laterale dei pesci che si trovavano nelle vicinanze; infatti, pochi secondi dopo, i primi saraghi apparvero in lontananza, avvicinandosi a scatti, cercando di soddisfare la loro curiosità.

Improvvisamente i pesci scapparono in tutte le direzioni e per qualche istante lo scenario tornò deserto. Poi, finalmente, apparvero i musi aggressivi di quattro dentici di media taglia, seguiti da altri tre esemplari decisamente più grossi.

Era sempre uno spettacolo mozzafiato vedere quelle maestose creature, dagli splendidi colori, avanzare minacciose ma diffidenti verso una possibile preda.

Tempo scaduto.

Angelo riuscì a prolungare l’apnea quel tanto da vedere i grossi denti, leggermente sporgenti, del pesce più vecchio del gruppo.

Soddisfatto si staccò dal fondo provocando un fuggi fuggi generale e, pinneggiando, raggiunse la superficie.

«Che sballo ragazzi! Quello più grosso sarà pesato almeno cinque chili!»

«Bravo, hai fatto un ottimo “aspetto”» approvò Riccardo

«Se avessi avuto il fucile… forse uno sarei riuscito a stenderlo.»

«Sììì, e se mio nonno avesse avuto cinque palle sarebbe stato un flipper…» lo prese in giro Maurizio.

«Cosa centra? Deficiente! L’hai visto anche tu come si sono avvicinati tranquilli, no?»

«Erano talmente tranquilli che l’ultimo del gruppo si è addormentato a metà strada.»

«Dai Mauri, non farlo arrabbiare.» intervenne Riccardo «Vicini sono arrivati vicini, bisognerebbe sapere se con il fucile puntato nella loro direzione si sarebbero comportati allo stesso modo.»

«Bene, bene, visto che in materia ve la tirate da professori, vorrà dire che ora ci sposteremo un po’ più avanti e mi farete vedere un’azione più brillante della mia.»

«Beh,»  mise le mani avanti Maurizio  «lo sai che nella teoria vi faccio un sedere così, ma per quanto riguarda la pratica sono sicuramente un po’ meno allenato…»

«Ma che risposta è? Sarebbe come dire che sei tutto fumo e niente arrosto!»

«Io invece accetto la sfida»  disse Riccardo con convinzione,  rimettendosi il boccaglio e prendendo a pinneggiare verso ponente.

«Ci scommetto che va sul dito.»

«Sul dito?»

«Sì, è una roccia a forma di pollice che si trova a dodici metri di profondità. Si affaccia da una parete che scende fino a trenta. A volte, stando sdraiati su quello scoglio, si vedono passare dei branchi di ricciole da venti e più chili e, all’alba o al tramonto, è possibile portare a distanza di tiro dei bei dentici.»

Riccardo nel frattempo aveva finito di prepararsi e quando i due amici lo raggiunsero le sue pinne erano già sparite sott’acqua.

La posizione era la stessa che aveva assunto Angelo ma al posto delle posidonie c’era il mare aperto, il trasparente che si tramutava in azzurro per diventare blu, mano a mano che l’occhio cercava di bucarne la profondità.

Ma la sorpresa non arrivò dal blu.

A sinistra, poco sotto al dito, una nube di fango in sospensione tradì la scodata di un pesce.

Con movimenti lentissimi Riccardo si portò sul ciglio dello scoglio per capire cosa stava succedendo.

I due amici, che continuavano a osservare la scena dall’alto, lo videro sporgersi con le mani allungate verso il fondo.

Qualche secondo dopo una nuova nube si sollevò a tre o quattro metri di distanza.

Anche per Riccardo era scaduto il tempo e con qualche colpo di pinna raggiunse Angelo e Maurizio in superficie.

«C’è la lenza madre di un palamito che passa proprio sotto la roccia e, da qualche parte poco più avanti, ci dev’essere un bel pescione con un amo che gli buca la bocca.»

«Ecco cos’era quella nuvoletta che ogni tanto compariva sulla tua sinistra.»

«Già, era la bestia che scodava quando tiravo la lenza.»

«Forza allora»  li incoraggiò Mauri  «andiamo a conoscere lo sfigato che sta soffrendo là sotto.»

«Va bon» disse Angelo «tanto minuto più minuto meno…»

«Cioè?» domandò Riccardo.

«Volevo dire, che se il tesoro è rimasto nascosto per quarant’anni, non penso che qualcuno ce lo porterà via da sotto il naso proprio oggi.»

Riccardo, che fra i tre era quello con l’apnea più lunga, fu il primo a sparire sott’acqua, seguito a breve distanza dagli altri due.

Quando arrivarono sotto al dito videro che la lenza madre del palamito era di diametro generoso, e che i normali terminali di nailon erano stati sostituiti  da cavetti d’acciaio alle cui estremità erano legati grossi ami .

I tre ragazzi seguirono la lenza per qualche metro, fino a quando il primo cavetto sparì dentro un’ampia spaccatura.

Continuarono ad avvicinarsi con cautela, pensando di trovare una grossa murena intanata.

Il braccetto del palamito, teso come la corda di un violino, entrava nella tana sfregando contro le rocce e si perdeva nell’oscurità.

Maurizio e Angelo si fecero da parte lasciando entrare più luce possibile, intanto Riccardo scrutava all’interno cercando di familiarizzare con spuntoni  e ombre.

Dopo qualche istante si girò verso i compagni, unì indice e pollice per comunicare che aveva visto quello che doveva vedere e cominciò la risalita in superficie.

«Che sballo!» esclamò appena le teste dei due amici uscirono dall’acqua.

«Cos’hai visto?» domandò Maurizio.

«Ragazzi…» prese tempo, cercando le parole giuste «è grossa!»

«Cos’è grossa? Una murena?»

«E’ una cernia! E peserà almeno dieci chili!»

«Uhau… e com’è messa?»

«Ha il muso rivolto verso l’ingresso e non può intanarsi meglio perché ha un amo che le buca il labbrone e s’infila dentro la bocca. Il cavetto che lo tiene è molto in forza.»

«Minchia! E ora che facciamo?»

Gli altri due si scambiarono un’occhiata, poi Angelo disse:

«E’ inutile far finta di niente, tanto ti conosco: creatura in difficoltà? Niente paura, arriva Super-Riky a salvarla!»

«Non fare il duro, belinun! So benissimo che anche una carogna come te non riuscirebbe a sparare a bruciapelo a un essere vivente legato e incastrato.»

«Bene, adesso che abbiamo stabilito di dover salvare quella povera cerniotta, resta solo da decidere come farlo, giusto?»

«L’acciaio con il coltello non lo tagliamo di sicuro e d’altra parte lasciare l’amo penzoloni dalla bocca vorrebbe dire condannarla a morte certa.» commentò Maurizio.

«Giusto!» disse Riccardo «Bisogna liberarla per forza.»

«Mi sembra una cosa davvero impossibile.» osservò Angelo.

«Non è detto…» sussurrò Riccardo,  lasciandoli pensierosi mentre tornava sott’acqua.

«Beh, che facciamo?»

«E che vuoi fare? Andiamo giù a guardare la magia del famoso “Mago Richard”.»

Lo trovarono fermo davanti alla spaccatura. Per non disturbare l’azione si spostarono con movimenti rallentati,  mettendosi alle due estremità. Da lì potevano osservare quello che succedeva all’interno della grotta,  senza interferire.

La mano dell’amico avanzava lentamente verso la grossa cernia che lo fissava immobile. Quando le dita arrivarono a dieci centimetri dall’animale, questo iniziò a sbattere da una parte all’altra, cercando di liberarsi dell’amo.

Riccardo rimase fermo ad aspettare che il pesce tornasse calmo, poi portò avanti la mano, fino a toccare la parte inferiore dell’enorme bocca della cernia. Rimase in quella posizione per un tempo che parve lunghissimo.

Finalmente la ritirò piano e si allontanò dall’ingresso della tana. Tutti e tre tornarono in superficie.

«Voglio provare a vedere se apre la bocca.» disse Riccardo.

«Minchia!» esclamò Maurizio «Va a finire che riesci veramente a levargli l’amo.»

I tre amici scesero e risalirono numerose altre volte, ma purtroppo sembrava che il rapporto con il pesce avesse raggiunto una posizione di stallo: la cernia non si agitava più, ma neanche apriva la bocca.

Al quinto tuffo Riccardo fermò la mano a un palmo di distanza dal pesce.

Si fissarono per alcuni secondi,  poi Riky fece uscire alcune bollicine d’aria dalla bocca e, incredibilmente, la grossa cernia si avvicinò fino a toccargli con il labbro inferiore le dita della mano. Trascorse ancora una manciata di secondi e la bocca si aprì lentamente. Sembrava di assistere a una partita di shangai: movimenti millimetrici per non far crollare tutto!

La cavità orale era veramente grande, ci poteva passare tranquillamente un pugno e Riccardo riuscì a far scivolare dentro parte della mano destra.

Nel frattempo Angelo teneva in trazione il palamito facendo in modo che il cavetto restasse in bando.

Un movimento preciso del polso e l’amo uscì dalla bocca della cernia.

Fu un momento incredibile.

Poi, senza fretta, utilizzando le pinne laterali il pesce si spostò indietro, fino a raggiungere il fondo della tana.

I ragazzi si scambiarono un’occhiata felice e tornarono nuovamente su, alla ricerca d’aria fresca.

«Grande! Sei stato grandissimo!» esclamò entusiasta Mauri.

«L’uomo pesce amico dei pesci. Il San Riccardo D’Assisi degli abissi.» rincarò Angelo.

«Che forte! È stata un’esperienza pazzesca!» disse Riky commosso «Penso di aver comunicato telepaticamente con Fred.»

«Fred? E da quando si chiama Fred?»

«Non so… so solo che si chiama Fred.»

«Va bon, dopo quello che hai fatto con quel pesce potresti anche dirmi che ti ha fatto vedere la patente: ci crederei senza battere ciglio. Forza, vai a salutare ancora una volta il nostro amico Fred così poi  riprendiamo  la caccia  al tesoro. »

Pochi respiri profondi e, senza farselo ripetere una seconda volta, iniziò la discesa verso la tana.

«Io questa non me la perdo!»  disse Maurizio seguendo Riccardo.

A Angelo non restò altro da fare che accodarsi ai due amici.

Lo ritrovarono davanti alla spaccatura. Il pesce era a pochi centimetri dalla sua faccia e apriva e chiudeva tranquillamente la bocca.

Maurizio e Angelo  si fermarono sul dito di roccia, mantenendo una certa distanza per non disturbare la scena.

Riccardo avvicinò la mano alla cernia che, invece di fuggire spaventata, si avvicinò ancora di più, incoraggiando il contatto.

Angelo e Maurizio osservavano increduli il loro amico accarezzare Fred.

Visto alla luce, fuori della tana, il pesce appariva in tutta la sua grandezza. I dieci chili stimati erano sicuramente sbagliati per difetto. Diverse cicatrici bianche sulla schiena testimoniavano anni di battaglie per la sopravvivenza, mentre una profonda incisione sul labbrone inferiore, dimostrava che non era la prima volta che si trovava a combattere con una lenza.

Ma erano gli occhi a strizzare il cuore. Due occhi grandi da vitello, fermi eppure attenti, calmi eppure espressivi. Erano gli occhi di un essere vivo che fissavano gli occhi di chi lo aveva salvato. Li fissavano con un calore diverso da quello umano,  ma il messaggio era inequivocabile.

Il tempo passava e Maurizio fu il primo a lasciare il fondo per tornare tra quelli che “contano”, tra la gente che respira, vicino a coloro che hanno dei sentimenti…

Ma era proprio così?

Angelo fu il secondo a uscire dal sogno, il secondo che poco dopo si sarebbe chiesto se quello che aveva visto era successo veramente.

Dalla superficie i due ragazzi continuarono a seguire i movimenti di Riccardo, il quale, a malincuore, dovette arrendersi alla natura: lasciò la posizione vicino al “dito” mantenendo lo sguardo fisso negli occhi della cernia. Saliva lentamente e lentamente il pesce si allontanò dall’ingresso della tana, mettendosi nella classica posizione a candela con il muso rivolto verso l’alto.


I tre amici si guardarono con complicità. Non c’era bisogno di parole. Non avrebbero aggiunto niente di più all’eccezionalità del momento.

 

John GATTI

Rapallo, 17 Gennaio 2019


IL RITORNO

IL RITORNO

.. Il Santa Caterina ritorna !!!

La notizia correva di caruggio in caruggio.su per le erte scale di ardesia delle alte case ammucchiate sul porto…
Il clipper dato per scomparso da più di un mese ritornava..


Tra poco avrebbe doppiato il promontorio e  sarebbe apparso con la sua maestosa velatura all’orizzonte.

“Il Santa Caterina ritorna ! …”: lo udirono le madri, le mogli. le sorelle di coloro che da tre anni erano lontani per mari sconosciuti e in un frusciare dl gonne, ondeggiar di scialli, rumorio di zoccoli e scarpe si ammucchiarono sul molo vicino al faro.

 

“Il Santa Caterina ritorna !... Lo udì la moglie del comandante mentre compilava la lista della spesa della giornata e alla serva che la guardava silenziosa. quasi aspettandosi ordini speciali. disse “Non è venerdì di quaresima e non facciamo sempre zemin di ceci e baccalà al verde " e la serva non riuscendo a trattenersi". Ma io credevo ... ritornando dopo tre anni ... al comandante forse piacerebbe...”  "Zitta, pettegola! Non c’è niente da credere ... o da pensare ... va’ a fare il tuo dovere!”


Stringendo le labbra prese uno scialle dall’armadio sistemò i capelli allo specchio e gli occhi le caddero sulla lettera che sporgeva dalla scatola dei fazzoletti, l'ultima che aveva ricevuto: senza troppi riguardi il marito l'avvisava che sulla nave con lui c’era la figlia di non so quale capo per la quale doveva far preparare la villetta al Boschetto che era un onore per loro ospitarla ...

 

Quella lettera che annunciava un fatto che non era poi tanto insolito (c'erano stati figli e figlie di maraja che dopo alcuni mesi passati da loro, proseguivano per l’Inghilterra dove andavano a studiare ...) le era sembrata tuttavia quasi minacciosa come se questa volta tutto fosse diverso: era una lettera distratta senza affetto (non che il comandante fosse poi troppo espansivo ma tra loro c’erano frasi scherzose e certe allusioni che prendevano il posto di mille romanticherie): più la rileggeva, più i1 suo cuore si stringeva …

 

"il Santa Caterina ritorna!” Lo udì Maddalena con un brivido, mentre appena uscita dal letto dell’amante, si aggiustava i capelli davanti allo specchio ... Senza svegliarlo si vestì  in fretta e scese furtivamente le scale.

 

Era una di quelle giornate di inizio marzo, quando un mare di  ardesia rispecchiava un cielo uguale e l'orizzonte ingialliva dl zolfo sbiadito:colpi di vento marezzavano la superficie delle acque e nell’ aria c'era qualcosa di inquieto come quando d'estate si attende il temporale.

 

All'estremità del molo accanto al faro si stringeva il gruppo grigio marrone nero delle donne: davanti a tutte con la sua cuffia merlettata la moglie del comandante.

Giungevano intanto abbandonando gli attrezzi pescatori e carpentieri, insomma una piccola folla si arrampicava sulla scogliera per scrutare il tratto di mare verso la punta della Chiappa … Il vento si era fermato: i gabbiani silenziosi erano allineati sulle rocce, sui prospetti dell’antico castello.

“Eccola!  “un grido a più voci segnalava l’apparizione della prua che doppiava il promontorio: presto l’intera imbarcazione sarebbe apparsa alla vista … ed ecco che il grido gioioso si smorzò: a poca distanza dalla nave le nubi presero forma di cono,un turbine grigio scuro si alzò tra cielo e mare e ruotando sull’acqua si diresse verso il promontorio …

Le donne caddero in ginocchio: il vascello ora era tutto in vista, ma era chiaro che, salvo un miracoloso evento, il turbine lo avrebbe investito in pieno. E così fu. In  breve le vele divelte, si vide il “Santa Caterina” inclinato di prua a imbarcare acqua: all’unanime grido straziato delle donne risposero i richiami degli uomini che armati velocemente  gozzi e barche, si dirigevano verso il disastro non disperando di riuscire a raccogliere i sopravvissuti.

Sul molo le donne si stringevano e ognuna cercava dentro di sé la forza di accettare la probabile disgrazia anche se,come sempre accade,la speranza non voleva spegnersi.

Maddalena artigliava le dita allo scialle: pallida guardava verso l’orizzonte. No, non poteva credere che il terribile pensiero che, alla notizia del ritorno, la sua mente aveva formulato si fosse concretizzato davanti ai suoi occhi. Si teneva in disparte per evitare le maligne occhiate delle altre. Lì in quell’alveare di case strette tra mare e collina nessuno parlava apertamente, ma tutti sapevano tutto degli altri. Si inginocchiò anche lei a pregareorgo.

Solo la moglie del comandante era in piedi: per lei, visto che appariva chiaro che la nave sarebbe affondata, non poteva esserci alternativa: il comandante avrebbe seguito la sorte del “Santa Caterina”. Conosceva bene l’orgoglio del marito.

Cominciarono a rientrare nel porto le prime imbarcazioni: vivi e morti raccolti insieme, gioia e grida di angoscia si mescolavano. I   morti allineati sul molo venivano pietosamente coperti,l a campana cominciò a suonare lugubri rintocchi…

All’orizzonte ormai del “Santa Caterina” era visibile solo una parte di poppa e il mare a poco a poco avrebbe forse restituito relitti e i corpi che mancavano all’appello: tra di essi anche quello del marito di Maddalena. Solo  meno di un terzo dell’equipaggio era sopravvissuto … da almeno vent’anni il piccolo porto non era stato colpito da una tale disgrazia.

Tutti gli occhi erano tuttavia attratti verso una delle imbarcazioni rientrate. In essa, assieme ai due rematori, c’era una grande cassa di legno arabescato, con un verricello fu issata a riva: galleggiava presso il relitto.

Con i suoi preziosi intarsi suggeriva mondi lontani: gli occhi di tutti fissavano la moglie del comandante che pallida con impassibile volto si avvicinava.

Dalla cassa improvviso uscì un gemito che fece indietreggiare spauriti quelli che la circondavano.

“Aprite!” fu l’ordine secco della donna: apparvero sete multicolori :il lamento veniva da un viluppo dorato; apparve un piccolo volto color avorio antico e due grandi occhi scuri smarriti…

Consapevoli sguardi corsero tra la folla “Ecco un altro di quei foresti che portava il comandante!” Cosa avrebbe fatto ora la scià Eugenia ? ora che il comandante era morto?

La ragazza, ancora quasi una bambina, era stata rivestita pietosamente di panni asciutti: un carrozzino era arrivato per portarla come consuetudine alla villa del Boschetto con la sua preziosa cassa, ma eccola d’improvviso avvicinarsi ad Eugenia tendendo le braccia con una sola incerta parola “Mother!”

Tutti videro il viso della donna arrossire e gli occhi riempirsi di lacrime mentre la prendeva per mano.

“Al Boschetto, scià Eugenia ?” “No, Giuachin, andiamo a casa”

Maddalena, sfuggendo alle parole di condoglianza, desiderava solo un angolo buio dove rifugiarsi :nel tumulto della sua mente vedeva solo visi accusatori e le sembrava di dover subire un orribile castigo, anzi forse lo desiderava  ardentemente in un angolo del suo cuore … sentì una mano sfiorarle il braccio, era Pin, il suo amante, Scosse rabbiosamente il braccio “Via, via! Vattene! mai più,… mai più !”

La vide sparire come una furia su per la salita.

 

di Maria Grazia

Bertora

Rapallo, 31 Gennaio 2019


PITTORI DI MARINA-WILLEM VAN DE VELDE IL VECCHIO E IL GIOVANE

PITTORI DI MARINA

Eco del Golfo Tigullio

LA QUADRERIA DEL MARE

 

WILLEM VAN DE VELDE IL VECCHIO

E

WILLEM VAN DE VELDE IL GIOVANE

Dall’Olanda alla corte di Sua Maestà: i Willem van de Velde

Willem van de Velde padre (noto anche come “il vecchio” 1611-1693) e figlio (noto come “il giovane”, 1633-1707) sono senza ombra di dubbio i pittori di marina seicenteschi più completi e preparati.

Dopo la ben più numerosa “dinastia” marsigliese dei Roux, descritta in questa rubrica su “Il mare” dello scorso febbraio, ci avviciniamo oggi a un altro gruppo famigliare, numericamente più ristretto ma di grande importanza per la storia della pittura in generale e per quella di marina in particolare: i pittori olandesi (omonimi) Willem van de Velde padre e figlio che - nel contesto culturale e storico del XVII secolo - rivestono un’importanza fondamentale che trascende dai già eccellenti aspetti qualitativi della loro attività artistica.

Nativi di Leiden (Leida) in Olanda, Willem van de Velde padre (noto anche come “il vecchio”, 1611-1693) e figlio (noto anche come “il giovane”, 1633-1707) sono senza ombra di dubbio i pittori di marina seicenteschi più completi e preparati e tali da aver saputo “traghettare” questo specifico genere dalle ridondanze barocche verso un più moderno neoclassicismo, che raggiungerà la sua più completa maturità nella pittura di marina britannica del successivo secolo XVIII.

Willem van de Velde padre nacque in una famiglia di comandanti dello shipping mercantile olandese e, anzi, talune biografie riportano che in giovinezza praticò questa professione prima di dedicarsi alla pittura di marina come apprendista nello studio di Simon De Vlieger (1601-1653), artista di quel genere piuttosto rinomato all’epoca, soprattutto a Rotterdam. Analoga fu la scelta artistica del figlio che, anzi, dette avvio ad una fattiva collaborazione con l’Ammiragliato delle “Province Unite” divenendo, al pari del padre, pittore ufficiale della Flotta olandese.


Da sinistra: Willem van de Velde il vecchio (incisione di G. Sibelius, ca. 1689) e Willem van de Velde il giovane (olio su tela di Lodewijk van der Helst, ca, 1665-1670, Rijksmuseum, Amsterdam).

L’attività dei van de Velde si svolse quindi, in particolare ad Amsterdam, in abbinamento con quella della Marina dei Paesi Bassi all’epoca delle guerre anglo-olandesi: tre conflitti che - tra il 1652 e il 1674 - ebbero come protagoniste le sette “Provincie Unite” e la Gran Bretagna per motivi di preminenza marittima e commerciale sulle rotte dell’Europa settentrionale e dell’Oceano Atlantico. Nella fattispecie, Willem van de Velde padre fu presente alla “Battaglia dei quattro giorni” (giugno 1666) e alla “Battaglia di San Giacomo (o “dei due giorni”) del luglio successivo, scontri navali che videro contrapposte le flotte olandese e britannica con la prima vincitrice ai “quattro giorni” e la seconda ai “due giorni”. Ad entrambi gli scontri il pittore partecipò a bordo di una piccola unità a remi, prendendo appunti e realizzando schizzi che avrebbe poi utilizzato per la realizzazione di successive opere pittoriche.

Willem van de Velde il vecchio: “Studio del due ponti olandese De Zeven Provincien” (disegno a matita e inchiostro grigio, ca, 1665-1668, National Maritime Museum, Greenwich via Sotheby’s).

Nel 1672, con un repentino “cambio di campo” in parte dovuto anche al rischio di un attacco francese ai Paesi Bassi, subito dopo lo scoppio della terza guerra anglo-olandese i van de Velde trasferirono la propria attività in… Gran Bretagna, passando al servizio della corte inglese - anche in questo caso come pittori ufficiali di marina - al fine di celebrare, per l’innanzi, le glorie e le vittorie della Royal Navy. Gli attuali canoni etici potrebbero far considerare una mossa del genere un vero e proprio tradimento ma così non era nell’Europa dei secoli XVI e XVII, quando il concetto di “guerra totale” era ben lungi dall’essere acquisito e tra Stati belligeranti rimanevano sempre in essere rapporti artistici, culturali (e talvolta anche politici) che non interrompevano taluni interscambi economici e passaggi di personalità, anche di rilievo, da un Paese all’altro a discapito della nazionalità.

Willem van de Velde il vecchio: “Consiglio di guerra a bordo del De Zeven Provincien, 10 giugno 1666” (olio e inchiostro su tela, 1667, Rijksmuseum, Amsterdam). Da un’osservazione diretta dell’artista nell’imminenza della “Battaglia dei quattro giorni”, vinta dalla flotta olandese su quella britannica.

Willem van de Velde il vecchio: “La flotta olandese in navigazione”, opera probabilmente riferita alla spedizione navale olandese del 1667 verso la Medway e Sheerness. Alcuni lavori dei van de Welde sono esposti anche in musei italiani. Questo inchiostro su pergamena fu acquistato nel 1674 dal cardinale Leopoldo dei Medici e fa oggi parte delle collezioni di palazzo Pitti a Firenze.

Willem van de Velde il giovane: “Resa del tre ponti britannico Prince Royal alla Battaglia dei quattro giorni” (olio su tela, da un disegno a inchiostro su carta di Willem van de Velde il vecchio, ca. 1666-1667, Rijksmuseum, Amsterdam). Si noti, sulla destra, il Prince Royal con le vele “a collo” mentre alcune lance olandesi si avvicinano al suo lato sinistro. Le bandiere bianche dell’unità britannica non sono un’indicazione di resa, ma attestano l’appartenenza della nave al “White Squadron” della Royal Navy, all’epoca divisa in tre gruppi operativi (White, Red e Blue Squadron), contraddistinti per l’appunto da bandiere bianche, rosse e blu.


Willem van de Velde il giovane: “Uno yacht del Servizio di Stato olandese , con navi e chiatte mercantili in calma di vento” (olio su tela, ca. 1660, New York, Newhouse Galleries sino al 1991, ora collezione privata).


Willem van de Velde il giovane: “Il due ponti britannico HMS St. Andrew in navigazione” (olio su tela, 1673, National Maritime Museum, Greenwich). Dopo il passaggio al servizio della Corte inglese i van de Velde si dedicarono alla raffigurazione di unità della Royal Navy: il St. Andrew faceva parte, come indicato dalle bandiere a riva, del “Blue Squadron” della Marina britannica.


In alto - Willem van de Velde il giovane: “Navi olandesi in calma di vento” (olio su tela, 1665, Rijksmuseum, Amsterdam). In basso - Willem van de Velde il giovane: “L’HMS Royal Sovereign spara una cannonata di saluto in calma di vento”, 1701, Weston Park, collezione privata). Cambiano i tempi, i committenti e le Marine di riferimento ma lo stile resta il medesimo… Si notino i colori più vivi del quadro del 1701, indici di un rinnovato stile che influenzerà tutta la pittura di marina settecentesca in Gran Bretagna; il Royal Sovereign e lo “Yacht” in primo piano a sinistra hanno inferita sull’asta di poppa la bandiera del “Red Squadron” della Royal Navy.

I van de Velde furono attivissimi alla corte di Carlo II sino al 1688, quando la “Glorious Revolution” portò sul trono britannico Guglielmo III di Orange che - verosimilmente anche per le sue origini olandesi e senz’altro meno interessato all’arte e alla pittura di marina - privò i due pittori di alcuni privilegi. Cionondimeno, l’attività di Willem van de Velde padre e figlio proseguì senza particolari contraccolpi grazie alle loro eccellenti doti artistiche, sempre più apprezzate dalla committenza pubblica e da quella privata.

Mentre Willem padre si specializzò in grandi “cartoni” disegnati a penna con inchiostro scuro, Willem figlio sviluppò un vero e proprio talento nella realizzazione di olii su tela che, in parte, erano ispirati a precedenti disegni a penna del padre. Le opere di entrambi i pittori, al di là della loro indubbia valenza artistica, permettono di apprezzare nel dettaglio ogni aspetto delle navi dell’epoca, e consentono agli storici navali di acquisire preziose informazioni sull’allestimento, sulle manovre, sulla velatura, sull’armamento e su ogni altro dettaglio delle unità navali seicentesche che, a tutti gli effetti, possono essere considerate le antesignane dei celebri vascelli a due e a tre ponti del Settecento, l’”epoca d’oro” della marina velica sino all’era napoleonica.

Non stupisce quindi che, grazie al trasferimento a Londra dei Van de Velde (e del loro ricchissimo archivio di disegni, appunti e quadri) il maggior depositario di loro opere - più di ottocento! - sia il National Maritime Museum di Greenwich, anche se non pochi cartoni e quadri sono oggi conservati anche al Rijksmuseum di Amsterdam.

Maurizio BRESCIA

Direttore del mensile

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

Rapallo, 23 Gennaio 2019


 

 


PITTORI DI MARINA-"CHARLES PEARS“-La nave da battaglia HMS Howe

PITTORI DI MARINA

Eco del Golfo Tigullio

LA QUADRERIA DEL MARE

CHARLES PEARS

“La nave da battaglia HMS Howe nel Canale di Suez, 1944

Charles Pears (1873-1958) è una figura emblematica nel campo della pittura di marina d’oltremanica a cavallo tra Ottocento e Novecento, avendo incarnato molte “anime” di questo particolare settore artistico in Gran Bretagna e risultando un attento testimone degli sviluppi tecnici, storici, marinareschi ed emozionali tanto nel settore della marina militare quanto in quello della marina mercantile.

Un poster di Charles Pears realizzato nei primi anni Trenta: intitolato “Gibraltar”, propagandava per l’Empire Marketing Board le linee delle Compagnie di navigazione britanniche per il trasporto passeggeri attive all’epoca.

Nativo dello Yorkshire, già nel 1890 era attivo come illustratore navale per la stampa periodica e, dopo il suo trasferimento a Londra nel 1904, differenziò le sue tecniche pittoriche e grafiche dagli acquerelli, agli olii e alle incisioni e fu autore, nel contempo, di alcuni testi di tecnica marinaresca e di navigazione da diporto. Ufficiale dei Royal Marines durante la Grande Guerra, entrò a far parte della Royal Society of Marine Artists e fu ufficialmente inserito nel novero dei “War Artists” britannici, operando in questo ruolo già tra il 1914 e il 1918 come pure all’epoca del secondo conflitto mondiale.

Al di là della già ricordata differenziazione delle tecniche utilizzate e della specializzazione nell’ambito della pittura di marina più strettamente intesa, l’opera di Charles Pears fu anche rivolta alla realizzazione di manifesti pubblicitari per compagnie di navigazione e ferroviarie. In particolare, tra il 1926 e il 1933 collaborò con l’Empire Marketing Board, un ente governativo che, in quegli anni, era preposto alla promozione turistica e commerciale di compagnie di navigazione e di altri soggetti economici del Regno Unito e dell’Impero. A questo periodo va anche fatta risalire una sua vasta produzione di advertisement per importanti società (P & O, White Star, Cunard) del trasporto passeggeri, attività che proseguì anche nel secondo dopoguerra.


Verso la fine della sua carriera Pears si ritirò in Cornovaglia, ma sino a dopo la metà degli anni Cinquanta continuò a dare vita ad una vasta produzione avente per soggetto ciò che maggiormente lo appassionava, ossia le navi militari e mercantili e l’ambiente marinaresco più largamente inteso, con tutte le sue opere sempre contraddistinte da una particolare ma efficace rappresentazione del mare nei suoi vari stati, delle onde e dell’ambiente oceanico.

L’olio su tela che qui presentiamo, oggi conservato al National Maritime Museum di Greenwich, è contraddistinto dalla firma “Chas Pears”, un’abbreviazione del nome proprio presente in moltissime opere di questo autore; l’opera raffigura la nave da battaglia HMS Howe, mimetizzata, nel 1944 (e fu verosimilmente realizzata in quell’anno) durante il passaggio del Canale di Suez. È possibile datare l’evento con una certa precisione, in quanto l’unità operò sempre nell’Atlantico e nel Mediterraneo sino a quando, tra il gennaio e l’aprile del 1944, fu sottoposta ad un ciclo di lavori di raddobbo nell’arsenale di Devonport al cui termine raggiunse Scapa Flow. L’Howe lasciò questa base nelle Isole Orcadi il 1° luglio 1944 diretta a Ceylon, con l’attraversamento del Mediterraneo, ed è quindi verosimile che il suo transito nel canale di Suez verso il Mar Rosso sia avvenuto tra il 10 e il 15 di quel mese.

Un’incisione di Charles Pears risalente al 1917 e raffigurante una nave trasporto truppe in Atlantico (National Gallery of Victoria, Melbourne)

La nave da battaglia Howe faceva parte della classe “King George V”, cinque unità (King George V, Anson, Duke of York, Prince of Wales e, per l’appunto, Howe) entrate in servizio tra il 1940 e il 1942; con un dislocamento a pieno carico superiore alle 45.000 tonnellate, erano armate con dieci cannoni da 356/45 su due torri quadruple e una binata. Il Prince of Wales, veterano dello scontro con la corazzata Bismarck durante il quale l’unità tedesca affondò l’incrociatore da battaglia Hood, andò a sua volta perduto (insieme all’incrociatore da battaglia Repulse) a dicembre 1941 nello stretto di Malacca, pochi giorni dopo l’inizio delle operazioni militari giapponesi che avrebbero portato alla caduta di Singapore. Le altre quattro unità furono attive nei più importanti settori operativi nel corso della seconda guerra mondiale e vennero tutte radiate nel 1957, quando ormai la nave da battaglia era stata soppiantata dalla portaerei nel ruolo di capital ship delle moderne flotte militari.


Una rara immagine, da una diapositiva a colori originale di fonte statunitense, raffigurante la nave da battaglia HMS King George V nel 1941

Maurizio BRESCIA

Direttore del mensile        

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

Rapallo, 17 Gennaio 2019


PITTORI DI MARINA-EX VOTO A RAPALLO E NEL MEDITERRANEO

PITTORI DI MARINA

Eco del golfo Tigullio

LA QUADRERIA DEL MARE

 

"EX-VOTO A RAPALLO E NEL

MEDITERRANEO"

 

In concomitanza con le celebrazioni in onore di N.S. di Montallegro, in programma all’inizio del prossimo mese di luglio, oggi l’attenzione di questa nostra rubrica non può non essere rivolta ai numerosi “ex-voto”, soprattutto di ambito marittimo e navale, conservati all’interno del celebre Santuario che sovrasta Rapallo.

Quella dell’”ex-voto” è una tradizione che affonda le sue radici nell’antichità. In ambito archeologico sono noti e documentati numerosi elementi riconducibili a questa categoria: già nell’era fenicio-punica, e poi in quelle ellenico-classica e romana non mancano esempi di statuette e monili offerti - anche allora “per grazia ricevuta” - ad una certa qual divinità, tradizione poi proseguita e accresciuta con l’avvento della cristianità dall’epoca medievale sino ai giorni nostri.

Il Santuario di Montallegro e la sua ricchissima galleria di “ex-voto” marinari rappresentano quindi il punto di partenza di un percorso che parte dal Tigullio e dal Golfo Ligure per poi “espandersi” non soltanto nel Mediterraneo ma anche negli Oceani e nei mari più esotici e lontani.

La costruzione del Santuario di Montallegro trae origine da motivazioni non soltanto devozionali che - all’epoca della Controriforma - portarono alla realizzazione di numerosi luoghi di culto, soprattutto nell’Europa meridionale e mediterranea. Tuttavia, questo particolare Santuario acquisì sin da subito una particolarissima e ulteriore valenza che ne fece l’ideale punto di riferimento morale e spirituale per tanti marinai di Rapallo impegnati sui mari del globo: prima sui “barchi” a vela, poi sui “vapori” ed oggi su unità moderne e tecnologicamente avanzate.

Da questa religiosità popolare e allo stesso tempo artistica è nata la grande quadreria di “ex-voto” marinari, che - a partire dai secoli passati - è stata arricchita nel tempo da opere che, tutte, accomunano il ringraziamento e l’affetto che tanti rapallesi hanno voluto testimoniare alla Madonna di Montallegro. Ciò ha portato alla creazione di autentiche opere d’arte che venivano commissionate ai più quotati pittori di marina in attività, soprattutto in ambito ottocentesco.

Angelo Arpe, Domenico Gavarrone e Antonio Luzzo, beneficiano oggi di una fama a livello nazionale e internazionale: del tutto meritata poiché le loro opere (comprese quelle esposte al Santuario di N.S. di Montallegro) si confrontano - in parecchi casi su un piano vincente - con quelle di accreditate scuole pittoriche, come il “circolo” francese della famiglia Roux (già approfondito in questa rubrica su “Il mare” dello scorso mese di marzo) ed anche con non pochi quadri a soggetto navale di noti artisti britannici dell’Ottocento e del primo Novecento.

Tuttavia, l’appassionato di cose di mare (come pure il semplice visitatore della quadreria di Montallegro) non potranno non rilevare come - tra i numerosi “ex-voto” del Santuario - ve ne siano alcuni che, ancorché diversi da quelli più “classici” per tipologia, stile pittorico e caratteristiche morfologiche, riconducono a importanti eventi della storia navale del nostro paese, dai primi anni dell’Unità d’Italia sino alla seconda guerra mondiale.

Infine, a Montallegro sono custoditi alcuni ex voto che si discostano dall’iconografia più “tradizionale” di questo settore (anche perché realizzati su base fotografica anziché pittorica) ma che, proprio perché riferiti a particolari e significativi eventi della storia navale del nostro paese, ci permettono non soltanto di rivisitare importanti vicende, affondamenti e battaglie in cui si trovarono coinvolte famose navi della Regia Marina, ma di evidenziare - una volta di più - la devozione e la riconoscenza di tanti rapallesi che su di esse furono imbarcati.

Altri “ex-voto” di non secondaria importanza sono costituiti da modelli di navi di ogni foggia e dimensione e dalle più disparate caratteristiche qualitative: molti santuari liguri conservano, spesso appesi al soffitto di navate e cappelle, modelli di galere e velieri di grandi dimensioni e di ottima fattura che - in aggiunta alla tradizionale valenza religiosa - sono anche importanti elementi documentali sulle tecniche costruttive, le alberature, le attrezzature e i dettagli di navi del passato.

Queste forme alternative di “ex-voto” sono diffuse non soltanto in Italia ma anche in tutte le nazioni rivierasche cristiane della costa settentrionale del Mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia passando per l’Italia, la costa orientale dell’Adriatico e l’Isola di Malta: testimonianze non certo mute, anzi, ricche di significati religiosi, e talvolta personali ed addirittura allegorici, ma sempre denominatore comune di un “sentire” intimo e mai venuto a mancare che accomuna la gente di mare di ogni tempo e paese.

 

ALBUM FOTOGRAFICO

 

1

Al Santuario di Montallegro a Rapallo è conservato questo ex-voto di Domenico Gavarrone risalente al 1849, donato all’istituzione religiosa “per grazia ricevuta” dal capitano Filippo Campodonico, raffigurante il brigantno Granduca Leopoldo che scampa al naufragio.

 

2

 

Santuario N.S. di Montallegro (Rapallo),

Battaglia di Lissa, 20 luglio 1866.

Piccolo acquerello su carta di donatore ignoto - probabilmente ricavato da una litografia contemporanea dell’evento - in cui il primo, sfortunato, scontro tra la Marina italiana e l’Imperial Regia Marina austro-ungarica è raffigurato secondo il gusto delle stampe popolari dell’epoca. Interessante la presenza, in basso a sinistra, dell’ “ariete corazzato” Affondatore, nave di bandiera dell’ammiraglio Persano durante la battaglia navale.

3

Santuario N.S. del Boschetto, Camogli-Genova

Un “ex-voto” particolare, dovuto all’abile mano dello ship painter genovese Giuseppe Roberto, attivo nel capoluogo ligure nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Questo quadro del piroscafo Antonio al traverso del promontorio di Portofino nacque - verosimilmente - come uno ship portrait tradizionale e la rappresentazione religiosa venne inserita in alto a sinistra solo in un secondo tempo, come ringraziamento “cumulativo” per dodici anni di servizio prestati a bordo della nave dal capitano P. Massa.

 

4

Santuario N.S. di Montallegro (Rapallo)

Affondamento del R. Ct. Antoniotto Usodimare, 8 giugno 1942

Questo disegno a china con fotografia, di donatore ignoto, ci riconduce ad un particolare, tragico, episodio della guerra navale nel Mediterraneo del giugno 1942, quando il cacciatorpediniere Antoniotto Usodimare fu silurato e affondato per errore dal sommergibile Alagi, anch’esso italiano. Tra i sopravvissuti all’affondamento vi fu uno sconosciuto marinaio di Rapallo che volle testimoniare la sua riconoscenza con queste semplici parole: “Quando - – quando torno, sempre guardo al tuo monte con grande amore, o Madre Celeste”.

5

Santuario N.S. della Misericordia (Savona)

Modello di nave a palo (ossia con tre alberi a vele quadre ed uno più a poppa, con vele auriche) appeso nel cielo della navata sinistra del più importate santuario savonese, anch’esso ricco di “ex-voto” marinari.

6

Un antico “ex-voto” francese (1741)

Conservato a La Rochelle, sulla costa dell’Atlantico, quindi in un ambiente etno-geografico che si discosta da quello tradizionale del Mar Mediterraneo. L’opera è di autore ignoto e, abbastanza curiosamente, in luogo della tradizionale icona della Madonna compare quella del Cristo. Con ogni probabilità, l’”ex-voto” è riferito ad un incidente occorso durante la manovra di una delle vele, dato che gli sguardi degli uomini dell’equipaggio sono rivolti verso l’alto.

7

Nella chiesa parrocchiale di Zabbar (Isola di Malta) è conservato questo “ex-voto” tardo-seicentesco, commissionato ad un pittore locale dall’equipaggio di un vascello dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, attaccato da imbarcazioni ottomane e dal fuoco di postazioni di artiglieria costiera durante un raid sulle coste di un’isola dell’Egeo in mano ottomana.

 

8

Santuario di Maria SS. della Libera (Rodi Garganico, Foggia)

Anche l’Italia meridionale è ricca di “ex-voto” nei numerosi santuari che popolano le coste tirreniche, ioniche, adriatiche e siciliane. Nel Santuario di Maria SS. della Libera è esposto questo “ex-voto” relativo allo scampato naufragio (27 gennaio 18590) dell’equipaggio di un piccolo “due alberi” da cabotaggio costiero, dalle linee prodiere e poppiere tipiche delle imbarcazioni da carico adriatiche.

9

Santuario di Maria SS. della Libera (Rodi Garganico, Foggia)

Ancora un “x-voto”, di gusto e realizzazione sicuramente “popolari”, per un altro scampato naufragio occorso il 17 febbraio 1875.

 

 

Maurizio BRESCIA

Direttore del mensile               

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

Rapallo, 30 Gennaio 2019

 


PITTORI DI MARINA - LA DINASTIA MARSIGLIESE DEI ROUX

PITTORI DI MARINA

Eco del golfo Tigullio

 

LA QUADRERIA DEL MARE

La “dinastia” marsigliese dei

ROUX

La famiglia francese, a partire dalla metà del secolo XVIII, si specializzò nella realizzazione di testi e tavole a soggetto idrografico e cartografico soprattutto grazie all’attività del capostipite Joseph Roux, fornitore della Marina francese e della Royal Navy britannica.

Ange-Joseph Antoine Roux (1725-1793) – La fregata britannica Camilla, Norfolk, Mariners’ Museum.

Nell’ambito artistico della pittura, e di quella di marina in particolare, non si riscontrano molti casi di “dinastie” famigliari ove più artisti si tramandano - di padre in figlio - i segreti di un’arte e, soprattutto, la passione per soggetti peculiari e comunque “difficili” quali sono, per l’appunto, le opere pittoriche riferite alle navi, alla loro storia e alle loro caratteristiche tecniche.

Un’eccezione è costituita dai pittori olandesi Willem van de Velde padre e figlio che, per tutto il Seicento, seppero imprimere alla pittura di marina (fiamminga prima e britannica poi) una nuova vitalità che influenzò questo specifico settore artistico per tutto il secolo successivo.

L’esempio “dinastico” quantitativamente (ma in non pochi casi anche qualitativamente) più rilevante è costituito dalla famiglia marsigliese Roux che, dalla metà del Settecento sin verso la fine dell’Ottocento, costituì non soltanto una scuola pittorica di rilevanza europea ma che - grazie ad alcuni dei suoi più importanti esponenti - seppe anche indicare alla pittura di marina una nuova via verso la modernità e nuove forme didascaliche e artistiche.

La famiglia Roux di Marsiglia, a partire dalla metà del secolo XVIII, si specializzò nella realizzazione di testi e tavole a soggetto idrografico e cartografico soprattutto grazie all’attività del capostipite Joseph Roux (1725-1793), fornitore tanto della Marina francese quanto della Royal Navy britannica. Il figlio Ange-Joseph Antoine (1765-1823) si dedicò invece alla pittura di marina dando vita al nuovo genere dello ship portrait, ossia la raffigurazione dettagliata e precisa di una nave a vela, spesso richiesta dal comandante o dall’armatore in un’epoca in cui la fotografia non aveva fatto ancora la sua comparsa nell’ambito mediatico e documentale nell’importante ruolo che oggi tutti le riconoscono.

Mathieu (detto Antoine) Roux (1799-1872) - Il brigantino a palo italiano Mortola (circa 1865), Norfolk, Mariners’ Museum.


Mathieu (detto Antoine) Roux (1799-1872) - Il brigantino francese Dauphin (1825), Norfolk, Mariners’ Museum.

Il figlio di Ange-Joseph Antoine (Mathieu, 1799-1872, che spesso firmava le sue opere “Antoine Roux” creando talvolta anche ai giorni nostri, taluni problemi nell’attribuzione della “paternità” di alcune specifiche tele), indirizzo anch’egli la sua attività artistica verso gli ship portraits. Parimenti, il fratello François Joseph Frédéric (1805-1870) già da adolescente si era evidenziato per il suo talento nel campo della pittura di marina, aprendo nel 1835 uno studio nella citta portuale di Le Havre dove diede vita a un fiorente commercio di opere a stampa a soggetto idrografico e di quadri di marina tanto di ambito militare quanto mercantile.

Un altro figlio di Ange-Joseph Antoine (François Geoffroi, 1811-1882) seppe infine infondere nuova linfa all’arte dello ship portrait realizzando non soltanto viste laterali dei soggetti ritratti (quale in effetti è la principale caratteristica di questo specifico genere), ma anche vedute prospettiche di navi a vela che si evidenziano per l’ottima resa artistica e, nel contempo per i dettagli - precisi e realistici - della velatura, delle manovre fisse e correnti, dello scafo e di numerosi altri elementi dell’allestimento. Non a caso, di François Geoffroi Roux fu detto che era “… un profondo conoscitore delle navi a vela del suo tempo, tanto dal punto di vista progettuale e costruttivo quanto da quello di un esperto marinaio”.

François Geoffroi Roux (1811-1882) - il brigantino a palo francese Parnasse (1841), Salem, Peabody Museum. Un nuovo modo di intendere lo ship portrait, con una vista prospettica e dinamica dell’unità raffigurata.

Non ultimo, va ricordato che l’arte dello ship portrait (sviluppata dai principali membri della famiglia Roux, suoi più autentici precursori) influenzò in misura considerevole due importanti pittori italiani particolarmente dediti all’attenta e precisa raffigurazione artistica di navi a vela ed anche ”vapori”, attivi attorno alla seconda metà dell’Ottocento: Domenico Gavarrone e Angelo Arpe dei quali non mancheremo, in qualche prossima puntata di questa serie, di descrivere alcune delle opere più note e artisticamente rilevanti.

Maurizio BRESCIA

Direttore del Mensile

Rivista fondata nel 1992 da Erminio Bagnasco

Rapallo, 10 gennaio 2019


PITTORI DI MARINA - JOHN EVERETT-"CONVOGLIO IN ATLANTICO,1918"

PITTORI DI MARINA

Eco del golfo Tigullio

LA QUADRERIA DE “IL MARE”

JOHN  EVERETT

“Convoglio in Atlantico, 1918


Nell’ambito della pittura di marina, l’artista britannico John Everett (1876-1949, familiarmente noto anche come Herbert John Everett) è considerato, forse a torto, una figura “minore”. Tuttavia, molti suoi quadri sono direttamente collegati a questo genere artistico e, recentemente, nel 2017 un inventario del Ministero della Cultura inglese ha anzi appurato che nei musei e nelle gallerie d’arte d’oltremanica le opere da lui realizzate sono numericamente superiori a quelle di qualsiasi altro artista, con una particolare prevalenza - per l’appunto - di quadri a soggetto marittimo e navale.

Nato a Dorchester, nel 1896 Everett si trasferì a Londra dopo la morte del padre, frequentando la “Slade School of Fine Art”; ben presto i suoi quadri a olio e ad acquerello iniziarono ad essere apprezzati e, insieme ad una visione moderna e innovativa del paesaggismo (influenzata dalle ultime correnti impressionistiche), Everett si accostò a correnti vicine alle avanguardie culturali e artistiche che permeavano gli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del secolo XX. Di questa sua rinnovata vena artistica sono testimoni molte opere realizzate nel corso del primo conflitto mondiale, in buona parte raffiguranti navi inglesi e statunitensi mimetizzate con le prime tecniche di camouflage realizzate nel corso della Grande Guerra

Lo sviluppo delle prime mimetizzazioni navali è dovuto ad un altro pittore di marina britannico, Norman Wilkinson (1878-1971, la cui attività non mancheremo di approfondire in una delle prossime puntate), che, tra il 1916 e il 1918 collaborò con l’Ammiragliato della Royal Navy al fine di sviluppare una serie di schemi mimetici aventi la funzione di contribuire a rendere meno riconoscibili e individuabili unità militari o mercantili in navigazione. Nella fattispecie, Wilkinson realizzò un gran numero di schemi detti alterativi che - con l’uso di pannelli, bande e poligoni di vari colori - tendevano a “spezzare” le linee costruttive e la silhouette stessa di una nave, rendendone difficile l’apprezzamento delle dimensioni e degli elementi del moto soprattutto nei confronti degli operatori delle centrali di tiro telemetriche delle unità nemiche.

Everett, pur non partecipando direttamente a questi studi, contribuì a pubblicizzare e rendere noti i primi camouflage navali anche da un punto di vista propagandistico, realizzando durante la guerra numerosi quadri che presentano non comuni caratteristiche di “modernità” nei tratti e nella concezione, potendo essere verosimilmente avvicinati alle correnti pittoriche dadaiste e futuriste che permeavano la vita culturale dell’Europa nei primi due decenni di inizio secolo.


Un altro olio su tela di John Everett risalente al 1918, raffigurante unità militari e mercantili in navigazione sul Tamigi con, sullo sfondo a sinistra il “Royal Naval Hospital” di Greenwich (g.c. National Maritime Museum, Greenwich)

Ne è la prova l’olio su tela che qui presentiamo (conservato al National Maritime Museum di Greenwich), che raffigura un convoglio di navi statunitensi facenti parte di un convoglio di mercantili in navigazione in Atlantico nel 1918, ove sono evidenti la modernità e l’innovazione dello stile, ma per il quale non può sfuggire ad un osservatore attento anche la natura pratica degli schemi mimetici applicati alle navi. Immaginandoci difatti nei panni, ad esempio, del comandante di un sommergibile nemico impegnato ad osservare il convoglio al periscopio, appare evidente la difficoltà di poter effettuare con precisione e certezza il lancio di un siluro, grazie anche all’evidente difficoltà nel “visualizzare” i bersagli causata dall’applicazione di queste colorazioni che, tecnicamente, erano definite “dazzle” (ossia alterative).

Anche nel corso della seconda guerra mondiale fu ampio e diversificato lo studio e l’impiego di colorazioni mimetiche navali di vario tipo: in Gran Bretagna Norman Wilkinson fu nuovamente molto attivo in questo settore, mentre la Marina degli Stati Uniti si avvalse della collaborazione di un altro pittore di marina (Everett L. Warner, 1877-1963) che, in collaborazione con gli Enti tecnici dell’US Navy, affrontò il problema della mimetizzazioni delle unità militari con un approccio ancor più sistematico e scientifico.


Il lato diritto del “liner” britannico Mauretania sul finire del 1917: il transatlantico, all’epoca utilizzato come trasporto truppe, era stato mimetizzato con un impressionante schema a bande e rombi a toni di grigio, blu, bianco e azzurro (coll. M. Brescia).

Maurizio BRESCIA

Direttore del Mensile

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

Rapallo, 3 gennaio 2019


L'IMBARCO DEL PILOTA

 

L’IMBARCO DEL PILOTA

di John Gatti

 


Mi è stata fatta una domanda pratica sulla delicata operazione d’imbarco che vede coinvolti Pilota, Pilotino, pilotina e nave:

“Perchè, una volta che il Pilota passa dalla grisella (nel caso del pilotaggio, indica le scale metalliche sulla pilotina che permettono al Pilota di passare sulla biscaglina) alla biscaglina (scala fatta di cime e gradini di legno usata dal Pilota per salire sulla nave ) il motoscafo si allontana velocemente, invece di restare in zona fino a quando il Pilota non raggiunge in sicurezza la coperta della nave?”

In fondo all’articolo racconto l’avventura di un collega caduto in mare mentre imbarcava su di una portacontenitori.


Premessa.

La fase d’imbarco/sbarco del Pilota è delicata e presenta rischi, spesso aggravati dalle avverse condizioni meteomarine.

Il trasferimento dalla pilotina alla biscaglina prevede un gesto atletico che richiede una coordinazione particolare: si deve tenere conto del movimento della nave, del rollio e del beccheggio della pilotina  ( movimenti oscillatori trasversali e longitudinali provocati dal mare ), dell’onda che solleva e fa scendere l’imbarcazione di diversi metri e dei colpi di mare che possono investire il Pilota. Questa operazione, per essere svolta con disinvoltura, richiede esperienza e il momento giusto è quello in cui la pilotina raggiunge il punto più alto rispetto al Ponte di Coperta della nave. In quel preciso istante è importante agguantare la biscaglina con una mano mentre con l’altra si resta, ancora per un attimo, ancorati alla grisella della pilotina, questo fino a quando l’imbarcazione inizierà la discesa allontanandosi dalle gambe del Pilota.


Il passaggio dalla grisella alla biscaglina.

Per rendere più sicura la fase d’imbarco, vanno analizzati numerosi elementi: Primo fra tutti “la pilotina”. Il porto di Genova si estende per più di 20 chilometri di costa e presenta caratteristiche orografiche e variazioni meteorologiche stagionali che richiedono imbarcazioni di volta in volta diverse fra loro. Da maggio a settembre aumenta il numero delle navi che scalano il nostro porto (soprattutto traghetti e passeggeri), il traffico diportistico diventa una presenza spesso impegnativa e le condizioni meteomarine sono generalmente buone; per questo periodo dell’anno ci vogliono pilotine veloci, che consumano poco (quindi leggere) e, soprattutto, che fanno poca onda durante gli spostamenti all’interno del porto. È ovvio che l’utilizzo di questo tipo d’imbarcazioni in condizioni di mare mosso non sará l’ideale; le chiamiamo, infatti, “barche da tempo buono”. D’inverno preferiamo usare pilotine più pesanti, costruite per tagliare le onde e per essere più stabili sotto le navi. Ovviamente aumentano i consumi, si riducono le prestazioni e un’onda fastidiosa le accompagna negli spostamenti.

 





La seconda riflessione riguarda la preparazione all’imbarco: ridosso della nave e il lato di approntamento della biscaglina. Per questo punto vi rimando alla lettura dell’articolo “L’Atterraggio“.

Al terzo posto inserirei l’abbigliamento che, per quanto sembri scontato, di fatto si traduce in scuole di pensiero che variano da Corporazione a Corporazione e da Pilota a Pilota: c’è chi è meno agile e preferisce coprirsi bene, perché sa di avere poche possibilità di sfuggire agli spruzzi e alle onde, e chi invece predilige un abbigliamento leggero che favorisce la mobilità; chi usa i guanti per ripararsi dal freddo e proteggere le mani e chi invece si sente più sicuro con una presa diretta sui cavi della biscaglina; chi usa il giubbotto con il salvagente incorporato e chi preferisce quello separato. Personalmente penso che ognuno debba attrezzarsi come meglio crede, adattando l’equipaggiamento al proprio fisico e a ciò che lo fa sentire più tranquillo. Vedo, come utili accessori, un buon coltello affilato, una luce stroboscopica sulla giacca, un fischietto e una torcia, oltre a scarpe impermeabili, traspiranti e con suola antiscivolo.

Giacche tecniche.

Un altro aspetto, non meno influente dei precedenti, riguarda l’abilità e l’esperienza del Pilotino alla guida dell’imbarcazione. L’occhio, i riflessi, la padronanza del mezzo, il senso marinaro, la capacità di valutazione, ma anche lo stile, la confidenza e la temerarietà, cambiano il modo di affrontare il lavoro.

 

Vediamo ora di rispondere alla domanda “pilotina sempre sotto o pilotina staccata?”

- Quando ci si arrampica sulla biscaglina ci sono diversi pericoli da considerare: la pilotina, per effetto dell’onda che sale, può arrivare a schiacciare le gambe del pilota in arrampicata. Quindi, in presenza di mare mosso, è meglio che si stacchi dalla murata il prima possibile, restando comunque nei pressi per prestare assistenza in caso di necessità;

- con tempo buono, se per qualche motivo il pilota molla la presa e cade, si possono verificare due situazioni: potrebbe finire sulla pilotina (e se i gradini saliti fossero ancora pochi probabilmente sarebbe l’opzione migliore), oppure potrebbe finire in mare (da sette o otto metri di altezza sarebbe augurabile non avere l’imbarcazione sotto), e qui si andrebbe incontro alla pericolosa possibilità di venire risucchiati dall’elica.

Una biscaglina particolarmente lunga.

La costruzione, la certificazione e l’utilizzo delle biscagline è indicata nella Convenzione Internazionale sulla Salvaguardia della Vita Umana in Mare SOLAS 1974.

Oltre a prevederne la modalità di costruzione, la norma indica che questo tipo di scala debba essere utilizzato a una distanza minima di 1,5 mt. E una massima di 9 mt. dalla superficie dell’acqua. Qualora l’altezza del Ponte d Coperta sia superiore a quanto disposto, la biscaglina deve essere collegata allo scalandrone e prende il nome di “combinata”.


In conclusione, sta all’esperienza, all’occhio e al buon senso del Pilotino scegliere il comportamento più sicuro da tenere durante le varie fasi d’imbarco e di sbarco; valutazioni che devono tenere conto delle condizioni del mare, della pilotina che si sta usando, dell’altezza della murata, del fatto che si utilizzi la biscaglina o la combinata e, non ultimo, dell’agilità e delle caratteristiche della persona che sta imbarcando. Il Pilota, da parte sua, deve elaborare continuamente tutte le variabili, aspettando il momento giusto per passare da una scala all’altra mantenendo la situazione sotto controllo.

Per spiegare meglio quanto sopra descritto, vi racconto un’avventura a lieto fine accaduta a un collega qualche anno fa…

“Era una tarda mattinata invernale e un vento teso da Sud-Est alzava onde di qualche metro che la pilotina, una Nelson inglese “da tempo cattivo”, tagliava senza particolari problemi.

Una nave portacontenitori, la Gulf Spirit, procedeva verso il punto stabilito per l’imbarco del pilota, il quale, nel frattempo, costretto al silenzio dal rumore dei motori, ne approfittava per accendere il VHF portatile, chiudere la giacca e indossare guanti e berretto.

Il vento che soffiava dai quadranti meridionali aveva alzato di qualche grado la temperatura, ma era pieno inverno e lo ricordava lasciando strisce di sale sulle frustate del mare.

Un’ampia accostata intorno alla poppa della nave e la pilotina si ritrovò sul lato sottovento.

Era parzialmente scarica e mostrava una fiancata particolarmente alta. A metà biscaglina un’apertura consentiva l’entrata a scafo. Il motoscafo si affiancò in velocità, con il Pilota arrampicato sulle griselle e pronto per il trasbordo.

Un’onda sollevò l’imbarcazione, portandola diversi metri al di sopra del livello medio del mare. Lì si fermò un attimo e il Pilota ne approfittò per balzare da una scaletta all’altra. Subito dopo il motoscafo ricadde assecondando le onde, mentre il Pilota era impegnato in una rapida arrampicata per allontanare le gambe dalla pilotina che stava già risalendo velocemente lungo la fiancata.

A questo punto l’imprevisto: una rollata portò la biscaglina a immergersi e una bitta poppiera del motoscafo l’agganciò, tirandosela dietro. Ignaro di quanto accaduto, il timoniere aumentò la velocità. Fu un attimo! la scaletta di legno e cime si tese come una fionda, si allargò dalla fiancata e catapultò il Pilota al di là dell’imbarcazione stessa.

L’acqua gelida lo attanagliò, lasciandolo senza fiato a scalciare mentre lottava per tornare in superficie. La bocca spalancata a cercare l’aria. Di fronte lo scafo nero della Gulf Spirit.

La corrente e le onde lo attirarono contro lo scafo per poi spingerlo verso la poppa. Ci volle un attimo per capire che la grossa elica, uscendo a tratti dall’acqua per effetto del beccheggio, lo stava risucchiando inesorabilmente. A questo punto il collega cercò di artigliare la parete di ferro, ma non c’erano appigli e le mani scivolavano sui “denti di cane” (taglienti conchiglie a forma di vulcano che crescono sull’opera viva).

Poco dopo il Pilota sparì sott’acqua.

L’impotenza faceva crescere il panico, mentre avvertiva distintamente le falciate delle pale e le vibrazioni del motore.

Per fortuna l’ufficiale di guardia alla biscaglina, resosi conto del pericolo, allertò il Ponte di Comando e la macchina venne fermata appena in tempo.

Il Pilota continuò l’avventura subacquea, finendo incastrato fra l’elica e il timone, respirando nei momenti in cui la trappola riaffiorava tra le onde.

Dopo alcuni minuti di lotta disperata riuscì a sfilarsi riemergendo, miracolosamente illeso, dal lato opposto della nave.

Mi fermo qui. Avrei potuto scrivere un testo molto più approfondito, parlare delle griselle con la passerella, di chi imbarca dalla coperta della pilotina, dei diversi sistemi di propulsione, di FLIR, di equipaggiamenti, di ausili tecnologici, ecc., ma il fatto è, probabilmente, che sarebbe stato un argomento scontato al 90% per i professionisti e ostico per i profani. Non è detto che in futuro non ci torni su.

 

JOHN GATTI

Rapallo, 10 gennaio 2019


CHE FELICITA' (Poesia)

 

 

CHE FELICITA’

27 dicembre 2007

 

Questo giorno è un regalo

inaspettato

un giorno da cartolina.

Invece è tutto vero

e magico

come a teatro.

Gli attori sono

i colori delle case

i versanti ondulati

verdi rossicci dei monti

Caravaggio, bianco

lassù tra le querce

Montallegro giallo rosa

con la mia Regina

l'azzurro liquido del mare

che parlotta sui fianchi

dei panfili ancorati

e la zampata quieta

dei monti lontani

che riposa sul mare.

E io

io dentro allo spettacolo

non spettatrice

attrice penso, parlo

scrivo la mia felicità

per esserci.

 

ADA BOTTINI


Rapallo, 31 Gennaio 2019



AMO GENNAIO (Poesia)

 

AMO  GENNAIO


Amo gennaio, frizzante e sereno

dona ai meriggi speranze di luce,

ma ancora sonnecchia al mattino.

Incipria di giallo la verde mimosa

riveste il mare di un abito d’oro.

A sera

pennella il ponente con tocchi di rosa

nel fiume

ai germani rinnova l’ardore.

 

 

Ada BOTTINI

 

Rapallo, 23 Gennaio 2019