INVERNO IN RIVIERA (Poesia)

SCRITTORI IN RIVA AL MARE

 

INVERNO IN RIVIERA

 

 

Nell’ardesia

di cielo e mare

opaca bruma

chiude

l’orizzonte della mente

–lapide di granito

la memoria

soffoca l’anima -

Poi

una mattina

un presagio di sereno :

l’azzurro

si apre vivido,

nei colori,

nella seta cangiante

dell’onda

e

dal muro,

improvviso,

il miracolo della mimosa.

 

Maria Grazia BERTORA

(febbraio 2014)

Inserita nella plaquette dell’Associazione “Il gatto certosino”:

Tra gli ulivi e le mimose … il mare

Rapallo, 17 Gennaio 2019


DA QUALCHE PARTE (poesia)

SCRITTORI IN RIVA AL MARE

 

DA QUALCHE PARTE


 

C’è da qualche parte

la casa che mi aspetta

Si erge rossa

di mattoni vecchi

abbracciata
a una pergola di vite

Respira il salso

Non si è mai stancata

di scrutare il mare

di condividerne

le metamorfosi

impetuose
rilassanti…

Con un occhio

cura la baia

che resti libero il posto

dove dondolerà pigro

il mio guscio di vela

Mi chiama
tra i suoi limoni

e le sue erbe profumate

Devo solo

chiudere gli occhi

seguire il vento

e raggiungerla



Marinella GAGLIARDI


Rapallo, 17 Gennaio 2019


CAMALLI E CARAVANA

 

CAMALLI E CARAVANA


Statua simbolo dei CARAVANA


Caravana al lavoro

I porti si guardano da una parte all’altra degli oceani, si scambiano le navi che raccontano storie sempre nuove ma anche quelle antiche affinché non siano dimenticate.

Già! Forse tocca proprio a noi, anziani cantastorie dei porti, rinverdire qualche ricordo dei CARAVANA che a metà degli Anni ’60, (noi c’eravamo…) erano ancora in auge e calcavano, magari da pensionati, le calate del porto con il loro incedere pesante, robusto ma benevolo.


Un caravana…

Forse non tutti sanno, che i camalli, ovvero gli scaricatori del porto di Genova, della Compagnia dei Caravana, (progenitrice dell’attuale Compagnia Unica del porto), scioltasi nell’immediato dopoguerra provenivano, fin dal XIV secolo, in gran parte dalla Bergamasca, in particolare dalle valli Brembana, Brembilla ed Imagna, dove pare vivessero uomini fortissimi e giganteschi.

In un antico statuto della Repubblica di Genova, l’origine lombarda viene menzionata come conditio sine qua non per far parte della Compagnia:

“Niuno presumi di venir ammesso nella Caravana, se non sia di Bergamo. Mani grandi et anco gambi forti, per niuna ragione sentir la fatica ammesso”.

Ci eravamo già dedicati ai CARAVANA sul sito di Mare Nostrum Rapallo, avevamo trattato alcuni interessanti aspetti storici e legislativi; col presente articolo vorremmo approfondirne invece alcuni aspetti che oggi destano ancora stupore e qualche “curiosità” che vi elenchiamo.

1-CURIOSITA’

CAMALLO - SABIR

Prima di pronunciare la parola CAMALLO occorre sapere qualcosa sulla sua origine e provenienza. Il camallo, termine genovese camallu, derivato dall'arabo ammāl 'portatore', è lo scaricatore o facchino che operava sulle navi nel porto di Genova.

Per il trasporto su carrello il termine è rebellâ, appunto da rebellö, carretto con ruote.

I termini camallo e rebellö hanno assunto nel tempo anche una valenza metaforica per intendere persone dai modi non propriamente fini, o trasandate nel vestire o nel parlare.

Genova, scalo di prima grandezza, è stata la porta d’ingresso degli arabismi nella nostra lingua e soprattutto nel dialetto zeneize SABIR che girava il Mediterraneo in lungo e in largo e fu parlata come lingua franca per secoli fino all’imporsi della lingua inglese; parlato a bordo delle navi, in banchina e nei mercati, in tutti i contatti tra le categorie imprenditoriali e naturalmente tra gli equipaggi  in mare. Parole dialettali genovesi e veneziane che diventarono la lingua fu un idioma pidgin “di servizio” parlato in tutti i porti del Mediterraneo tra l'epoca delle Crociate e tutto il XIX secolo. La più diffusa e persistente era costituita principalmente da un lessico al 65-70% italiano (con forti influenze venete e liguri) e per un 10% spagnolo, con parole di altre lingue mediterranee, come arabo, catalano, greco, occitano, siciliano, e turco.

Sebbene il lavoro di scaricatore di porto abbia assunto con l'industrializzazione connotati differenti, il termine CAMALLO mantiene una sua forte valenza nella città degli affari, che rimane tuttora un cardine, ovvero la memoria storica di una categoria radicata nel porto e dotata anche di una sua connotazione politica nella vita della città portuale e non solo.

PICCOLO GLOSSARIO ITALIANO – GENOVESE


Uncino


 

Scaricare: scaregâ
Schiena:
schenn-a
Bicibiti:
bacchette
Uomo  con molta forza:
forsa da  beu
Sbucciatura:
sgarbeleuia
Bernoccolo:
borlo
Trasportare a spalla:
camallâ
Forza:
forsa
Conoscere:
conosce
Antico:
antigo

2-CURIOSITA’

Come abbiamo già visto, dal medioevo (XIV Secolo) fino intorno al 1870, i “camalli” non erano genovesi bensì BERGAMASCHI, in quanto gli scaricatori genovesi precedenti, si erano consorziati in organizzazioni molto potenti che influenzavano non solo la vita del porto ma anche quella politica della città con conseguenti danni all'attività commerciale del porto stesso. Fu deciso e scelto di rivolgersi a dei "foresti" e la scelta cadde sui bergamaschi.

 


Lo scösalin da camallo

Il termine scösâ significa in genovese grembiule. Con l'espressione scösalin da camallo si intendeva identificare il gonnello blu indossato dai camalli sin dal medioevo, di tela di jeans, tessuto tipicamente genovese.

O scöselin era portato dai caravana e non dai camalli. I caravana erano i facchini ammessi dalla dogana ad operare negli appositi siti "franchi" ove la merce sostava in franchigia daziaria e poteva essere sottoposta a modifiche di imballaggio ecc., vedi merci preziose o soggette a particolari imposte come il caffè. Difficilmente nei depositi franchi si camallava come normalmente in altre zone del porto e per altre merci in transito normale.

3-CURIOSITA’

Religiosità


I camalli del porto di Genova furono tra i primi a realizzare dei crocifissi artistici di notevoli dimensioni formando delle CASACCE. Ancora oggi il termine camallo viene usato nell'ambiente delle CONFRATERNITE liguri per indicare la persona che trasporta il crocifisso. Il primo Cristo di notevoli dimensioni, circa 160 kg, venne realizzato proprio in uno degli oratori del porto di Genova. Famoso e antico è il cosiddetto Cristo delle Fucine del XVII secolo del ancora conservato nell'oratorio della marina di Genova.

4-CURIOSITA’…biblica… Riportiamo alcune opinioni di studiosi della materia.

Caso celeberrimo di ipotetica polisemia è quello del cammello che passa per la cruna dell'ago (Mc 10,25; Mt 19,24; Lc 18,25). L'immagine è ovviamente bizzarra. Qualche studioso ha ipotizzato che 'cruna dell'ago' fosse una piccola porta nelle mura di Gerusalemme: in tal caso la parabola sarebbe sicuramente più azzeccata.
Cercando la soluzione a livello linguistico, la parola aramaica
gamal può indicare, polisemicamente, sia il 'cammello' che una 'corda'. L'ipotetico traduttore greco avrebbe in tal caso optato per il senso sbagliato: l'immagine di una corda che passa (o meglio, non passa) per la cruna di un ago è sicuramente più simmetrica della lettura tradizionale proposta.

La citazione biblica del cammello, del ricco e della cruna dell'ago soffre di un divertente errore di traduzione dei Vangeli. In pratica, per colpa di una lettura sbagliata nella prima versione in ebraico di Matteo, la parola gomena (gamta) si è trasformata in un improbabile cammello (gamal). Oltre ad essere più "logica" (una gomena è pur sempre un cavo, ma di spessore molto più grande di quello del filo che passa usualmente nella cruna dell'ago), la parabola era anche ben contestualizzata, dato che si rivolgeva ai pescatori del lago di Tiberiade, avvezzi come tutti i marinai all'uso anche delle gomene. L'equivoco permane anche nella versione greca dei Vangeli, con la "grossa fune", "kamilos" (da cui forse il genovese camallo, colui che muove appunto le funi e le gomene portuali), che suona alquanto simile a cammello, cioè "kamelos".

5-CURIOSITA’

Quando i camalli diventarono attori del cinema…

Il mito di Maciste che rifondò l’Italia unita

Quando Bartolomeo Pagano passava nei caruggi, la gente si appiattiva spalle al muro per lasciarlo passare. Alto 1 e 90 per 120 chili di muscoli, il gigante sorrideva a tutti. Era scaricatore per la Compagnia della Carovana al porto di Genova. Sollevava sacchi di grano argentino, casse di coloniali, e caffè; al tocco si sfamava nell’osteria della Nina con tre piatti di minestrone accomodato con il pesto e un chilo e mezzo di pane, con cui faceva la scarpetta. Per digerire pugnava con l’altro gigante del porto, tale Franchino, così per gioco”.


Bartolomeo PAGANO, il famoso “MACISTE” reso celebre dalle sue apparizioni cinematografiche nei film muti di inizio Novecento.


…. Uno dei tanti maciste dell’epoca …

Vorrei…essere…Maciste...

 

Maciste non è un vero personaggio mitologico: non nasce né sui libri, né sui fumetti. È una creatura dello schermo. Per risalire alle sue origini, però, non bisogna fermarsi alle avventure in technicolor che lo vedono muscoloso protagonista nel fortunato filone dedicato agli "uomini forti" degli anni Sessanta. Il primo, vero Maciste fu, cme abbiamo visto, Bartolomeo Pagano, camallo del porto di Genova chiamato dal regista Pastrone a interpretare un simpatico e fortissimo schiavo numida in Cabiria (1914), kolossal storico che conquistò le platee di tutto il mondo. Il successo personale di Pagano fu tale che si decise di dedicare al suo personaggio un intero ciclo di film: Maciste avrebbe regnato per più di dieci anni come campione di incassi e di consensi del cinema italiano.

6-CURIOSITA’

La Compagnia dei Caravana, come abbiamo visto, è stata un'antica corporazione di lavoratori del porto di Genova che fu sostituita, nell'immediato secondo dopoguerra, dalla COMPAGNAIA UNICA DEL PORTO DI GENOVA.

Per i bestemmiatori multe salate:

All'interno della Compagnia vigeva un regolamento molto rigido che veniva applicato partendo dal presupposto che le virtù morali e sociali della Compagnia dovessero essere un caposaldo alla base dell'attività comune. Pesanti multe venivano ad esempio inflitte a coloro che si lasciavano andare a bestemmie contro la Madonna o che non partecipavano alle Messe sociali celebrate nella cappella votiva della corporazione, all'interno della chiesa di Nostra Signora del Carmine.

Gli statuti della Compagnia dei Caravana che, almeno inizialmente, comprendeva solo una parte dei lavoratori impegnati nei diversi pontili, ovvero quelli di Banchi, Pedaggio e Calcina - vennero firmati l'11 giugno 1340. Con essi il Comune concedeva ai soci della corporazione il diritto esclusivo allo scarico e al carico delle merci transitanti per la Dogana di Genova.

Alla Compagnia, in base a uno statuto entrato in vigore quasi centocinquant'anni dopo, nel 1487, e abolito solo a metà Ottocento, potevano appartenere solo soci provenienti dalle vallate situate intorno a Bergamo.

L'appartenenza al sodalizio avveniva per successione, a condizione che i figli nascessero nelle zone di origine dei padri e l'usanza di garantire ai figli il diritto di subentrare ai padri è in vigore nell'ambito della moderna Compagnia Unica dei Lavoratori delle Merci Varie del Porto.

Nella sostanza, lo scopo di questa regola era quello di assicurare che i cosiddetti portuali - tutti giovani di aspetto robusto e disposti ad un lavoro estremamente duro - fossero estranei, in quanto foresti, ad ogni tipo di lotta di parte tesa al predominio su quella che era un'attività centrale per la vita economica cittadina.

Per spiegare cosa fu la compagnia dei “CARAVANA” e chi erano i “giganti” che vi lavoravano, vi proponiamo questo bellissimo articolo del Corriere della Sera del novembre 1932. Un quadro d’epoca ripreso dal vivo con i suoi personaggi ancora in piena attività. Leggerlo sarà davvero un bellissimo viaggio nel tempo.

Ringrazio a nome di Mare Nostrum Rapallo e dei suoi lettori, il cultore e divulgatore che ha messo a disposizione questo “capolavoro” di altri tempi…

Di Cesare Meano - 1932

Genova, Novembre.

In questo mondo marino, che ha per confini muraglie, cancelli, tettoie, casermoni, torri» e, per foreste, le alberature delle navi, per fiumi le strisce di mare luccicanti fra carena e carena, per nuvole il fumo nero che il vento strappa alla bocca dei camini, i giorni nascono, passano e muoiono al grido delle sirene. Anche da terra si odono, dalla città, che contrappone a esse le sue campane. E ai primi segni dell’alba non si capisce se siano le sirene a risvegliare le campane, 0 queste a risvegliare quelle. E’ un coro improvviso, enorme, che sembra sorgere d’ogni intorno, vicino e lontano, mentre sulle montagne, alle spalle della città, appaiono le prime incerte dorature del sole, e il mare si stria d’argento e trema. La Lanterna si spegne. Si spengono le luci rosse dei semafori, i lumi delle banchine e delle strade, delle navi e delle case. La luce del sole scende dalla montagna, come una lentissima fiumana color di miele, che trabocchi dalle valli di là: scende e raggiunge il mare, lo illumina. Tra il mare e la montagna, — tutta la bellezza e la forza del mondo, — ricomincia la vita di Genova e del suo porto, dopo la sosta notturna.

I lavoratori del porto

I cancelli si sono aperti. Le gru hanno ripreso il loro moto sonnolento, ai qua e di là, come palmizi in un vento rallentato. Sugli specchi dell’acqua riappaiono i rimorchiatori, i battelli, le barche tentennanti sulle zampe di grillo dei remi Lungo i binari interminabili le locomotive avanzano speronando le nuvole del loro stesso vapore: cortei di carri-piatti, di carrozzoni, di carri-botte. E un esercito si incammina in ordine sparso, sfociando dai cancelli e dai porticati: dilaga, si disperde, scompare, riappare più lontano, popola i magazzini e le calate, le boe.

Migliaia di uomini: la popolazione di questo mondo che allinea, dinanzi al mare aperto, i suoi quattro bacini, i suoi cinque moli, i suoi tredici ponti e le sue venti calate. L’esercito dei lavoratori del porto: facchini, cassai, barilai, imballatori, pesatori, calafati, puntellatori, demolitori, carpentieri, carenanti, ormeggiatori, manovratori, barcaiuoli: decine e decine di categorie. E chi osservi la loro vita e il loro lavoro, o consulti i quadri e gli statuti delle loro organizzazioni, li vede veramente inquadrati in un esercito esemplare, cui non mancano neppure l’antica gloria, la nobiltà conquistata in secoli di disciplina, di fatica, d’eroismo, la ricchezza che deriva ai popoli privilegiati dal patrimonio delle loro tradizioni. La nuova odierna potenza, per i lavoratori di questo porto, è fiorita su un saldo tronco secolare; i gagliardetti dell’Italia rinata si sono issati sulle aste che ressero i gonfaloni di ieri.

Le compagnie

In numerose Compagnie, al comando di consoli e di vice-consoli, questi lavoratori sono costituiti, e il Sindacato Interprovinciale dei Lavoratori del Porto li tutela e li domina. Ogni Compagnia, però, ha i suoi statuti e le sue consuetudini, difesi e rispettati con incrollabile fede. In alcune di esse si riscontrano quasi i caratteri di confraternite religiose; in tutte un soldatesco senso di disciplina e di dovere, insieme con quell’orgoglio che negli eserciti si chiama «spirito di corpo » e che è custode incorruttibile delle tradizioni più alte. Ecco la congrega dei facchini del Deposito Franco, i caravana: unica Compagnia che, per antico diritto, goda larghi privilegi ed eccezionale autonomia; ecco la Corporazione dei Calafati, i cui « capitoli » datano dal 1370; ecco la Corporazione dei Barcaiuoli, menzionati nella storia fin dal secolo XV; e le altre Compagnie meno antiche, e le altre ancora che si vanno formando sul modello di quelle. La milizia del lavoro ha qui la sua aristocrazia, i seggi dei suoi anziani, i custodi del suo tempio.

La compagnia dei « caravana »

La Compagnia più antica e gloriosa è quella dei caravana. Nel recinto del Deposito Franco s’incontrano i suoi duecentosettanta affiliati. Dai magazzini ai carri della ferrovia, con passo lungo e immutabile, vanno sotto il peso di sacchi e cassoni, senza curvarsi e senza tentennare. Deposto il peso alzano il capo e lo scuotono, come per cacciare un pensiero, poi ritornano indietro, sollevano un nuovo peso, alti, diritti, impassibili. Intorno alla cintura, fino quasi ai ginocchi, portano un gonnellino azzurro, e d’estate un mantelletto bianco, la capota, che copre spalle e nuca. Cosi da più di sei secoli. Il gonnellino è l’uniforme del caravana, che non ne conosce l’origine né la ragione, ma con orgoglio lo veste, non appena gli sia concesso l’onore, non facilmente conquistabile, di appartenere alla Compagnia. Anche i loro capi portano il gonnellino; nessuno pensa ad esimersene. Il console e 1 capisquadra vestono panni borghesi e, tra la giacca e i calzoni, ecco il bizzarro indumento (il console, Angelo Caprile, detto Cirillo, porta anche gli occhiali cerchiati di tartaruga: e il gonnellino). Ma chi sono questi caravana, il cui nome, per tutto il porto e la città, suscita simpatia e ammirazione? Udendoli chiamarsi l’un l’altro, non si chiarirebbe certo il mistero. Minosse, Cerbero, Caronte, Gerion: i caravana si chiamano cosi; e anche peggio. Una tradizione fra le tante: quella dei soprannomi. La «Caravana» vive ancora oggi, esattamente, come viveva nei suoi primi tempi. Immutabile ha varcato i sei secoli della sua storia, ha superato difficoltà e avversità, ha resistito a controversie e a crisi; riconosciuta e protetta da re, pontefici, ministri, dogi, è arrivata a essere quale è oggi, la più genuinamente antica delle Compagnie, e, nello stesso tempo, la più giovanilmente viva.

Chi erano i « caravana »

Nella sua sede si custodiscono i tre codici di pergamena che recano il testo delle sue leggi. « A nome di Dio e de la Madona Sancta Maria e de tuli li Sancii e le Sancte e de tuta la Corte Celestia, amen » : in data 1340, cosi si preludiava a < li statuti e le ordination facto per tuli li lavoratori… et ordenà per lo prior, in lo dì de la lesta de messer Sancto Barnaba, in la aesua di Messer Sancto Lorenzo di Genua… ». Fui da allora s’imponevano ai cara – vana le leggi che permisero a essi di guadagnarsi fama di lavoratori incomparabili e di virtuosissimi cittadini. Vietati il turpiloquio e la bestemmia, severamente inibiti l’uso delle armi e la consuetudine delle spese superflue, limitato ai giorni di Natale e di Pasqua il gioco dei dadi e alla domenica quello delle carte, disciplinati tutti i rapporti fra di essi, tanto da eleggere a giudici d’ogni questione, anche privata o amichevole, i capi della congrega, la Compagnia si elevava senz’altro a prototipo di tutte le altre organizzazioni congeneri. Le leggi del 1340 ne partano come d’una confraternita preesistente. Non si sa quindi e quali tempi risalga la sua origine, ma si può senza errore reputarla uno dei più antichi esempi storici di organismo sindacale dotato di leggi intese a instaurare i principi della previdenza e del mutuo soccorso. Oggi, come sei secoli or sono, i caravana affidano ai loro capi il denaro guadagnato, poi lo spartiscono. Nulla chiedono e nulla possono accettare oltre al compenso stabilito. A una parete della sede sociale è affissa una lapide vecchia di tre secoli: « Si avertisca non prendere premio o recognitione di sorte alcuna… », che sarebbe come dire: « Sono proibite le mance ». Nel recinto del Deposito Franco, dove essi prestano servizio con diritto di assoluta esclusività, i distributori di vino e di vivande sono gestiti in forma sociale. Dopo trent’anni di servizio i caravana diventano pensionati della Compagnia stessa, e così le loro vedove. Fino all’ultimo respiro i compagni vegliano e proteggono il caravana vinto dalla vecchiaia o dai mali; poi lo accompagnano alla tomba in forma solenne. Ma c’è pure chi lascia la « Caravana » senza gloria e senza premio, quando la sua umana debolezza l’abbia fatto incorrere nei peccati che la congrega condanna. E c’è chi bussa alla sua porta e non riesce a entrarvi, o per deficienza fisica, e il caso è raro, o per deficienza fisica e, il caso è raro, o per deficienza morale, e il caso, data la severità delle inflessibili leggi, è più frequente. Oggi, come sei secoli or sono, bisogna che il caravana porti il suo gonnellino come si porta un blasone, e, quando, lontano dal lavoro, abbia dimesso la visibile insegna, possa vincere ogni diffidenza e conquistare ogni amicizia, solo col dire: « Sonn-u carav-vana». Lungo il tempo le glorie si allineano. I caravana appaiono al pensiero contro un fondo di bandiere, di armi, di templi e di luci trionfali, come in un’allegoria. Nella chiesa di Santa Maria del Carmine essi si adunano, dai secoli più lontani, per rendere a Dio il dovuto. Le processioni di Genova conoscono il loro incesso imperatorio, nelle pieghe di tuniche variopinte, sotto il peso dei simulacri e degli stendardi, (li eventi della Patria li trovarono sempre all’erta. Nel 1746, contro gli Austriaci invasori, furono i caravana a trascinare i cannoni genovesi su per l’erta di Pietra Minuta. Nel 1812 e nel 1815, per due volte portarono attraverso la città il Pontefice Pio VII, che li rimeritò con larghe indulgenze. Nel 1848 ebbero affidata la custodia del tesoro della Banca Nazionale. Nell’ultima guerra furono mobilitati in centocinquanta, e rimasero sul campo in tredici.

Quelli di Bergamo

Un lungo periodo della storia di questa Compagnia (che diligentemente è stata rievocata di sui codici dal capitano Giorgio Ricci, dal dottor Annibale Ghibellini e da altri ancora) è occupato dal nome di Bergamo. Per oltre un secolo e mezzo la « Caravana » fu tutta composta di bergamaschi, e altri che non fosse di Bergamo o del circondario non aveva diritto d’appartenervi, tanto che i componenti mandavano a Bergamo le mogli incinte, affinchè generassero autentici bergamaschi. Discordi sono i pareri sulla ragione di questo fatto. La Compagnia, in base alle più recenti ricerche del Ghibellini, risulterebbe in origine prettamente genovese. Verso il 1450 cominciò l’infiltrazione bergamasca forse da parte di qualche brigata di mercanti.

Nel 1576, quasi tutti i caravana erano oriundi di Bergamo, o figli di bergamaschi; nel 1695 fu emanato il decreto che prescriveva per tutti i soci della Compagnia, senza eccezione, l’origine bergamasca. Secondo alcuni, questa legge sarebbe stata pretesa dagli stessi caravana di Bergamo, a compenso della pietosa opera da essi prestata durante una pestilenza, nel soccorrere i malati e nel seppellire i morti. Secondo altri sarebbe stata originata dal desiderio di evitare che tale organizzazione di uomini eccezionalmente forti e audaci potesse parteggiare per l’una o per l’altra delle fazioni nelle quali la cittadinanza era divisa, come facilmente sarebbe accaduto se non si fosse trattato di foresti, per nulla interessati nelle faccende della patria d’elezione. Comunque, dal 1695 al 1848, negli annali della «Caravana» si susseguono nomi di bergamaschi e di paesi del Bergamasco: da Brembilla e da Dossena, da Almenno e da Zogno, da San Pietro d’Orzio e da Rigosa, i caravana arrivavano a Genova. L’onore della Compagnia era affidato alle salde braccia e ai nobili cuori lombardi.

La fine di un curioso ostracismo

Ma i genovesi brontolavano, anzi mugugnavano. Tornasse a loro e ai loro figli la confraternita ch’era orgoglio del loro porto: non erano stati essi, forse, a crearne la prima compagine? non erano braccia genovesi quelle che avevano portato la terra sulla montagna arida, per farvi allignare le sementi, e avevano trasportato la tribuna del coro di San Matteo» con tutti i suoi mosaici e i suoi altorilievi, per più di venti metri? Nel 1848 il mugugno fu ascoltato, e la legge venne abrogata. Le porte della «Caravana» si riaprirono anche ai genovesi. L’ultimo caravana bergamasco morì nel 1914, e si chiamava Andrea Ghisalberti, detto Diego. Ora, nei ranghi, non vi sono più che alcuni figli di bergamaschi. E più nessuno mugugna, né a Genova né a Bergamo: tutti amici e camerati. Non dimentichiamo, però, le altre glorie della Compagnia, più modeste di quelle elencate, eppure giustamente care al cuore dei caravana. Nella loro sede, alle cui muraglie pendono lucide stadere, come panoplie d’armi in un (museo guerresco, c’è un quadro che il caravana non manca di presentarvi. Una ghirlanda di ritratti contornati e legati da fregi floreali. Un vescovo e alcuni signori con barba e occhiali, dal nobile aspetto.

Chi sono? La guida vi addita le parole che accompagnano ogni ritratto: l’avvocato commendator tal dei tali, « figlio di caravana » ; il professor tal altro, « figlio di caravana; monsignor vescovo così e così, « figlio di caravana ». Non senza stupore si guarda il volto compiaciuto di chi ci sta accanto. Ecco una specie di gloria che non ci aspettavamo. E che diremo, dunque, del console di «Caravana» Gian Giacomo Casareto, detto Gerion, che professava filosofia e lettere? e del carbonaio Gian Battista Vigo, lavoratore del porto anche lui ch’ebbe dal Comune una tomba gratuita e onorifica, in riconoscimento dei suoi meriti poetici. I caravana, i carnali e tutti gli altri, affratellati dal lavoro e dalla fede, si direbbe che giochino con la gloria come giocano coi quintali. Ha avuto i suoi predecessori in fatto di strane fortune, quel carnaio dei Magazzini Generali, che una ventina d’anni addietro lasciò il porto e si fece africano, con l’aiuto del sole e dell’olio di cocco, per proteggere l’innocente Cabiria nel corso delle sue dannunziane avventure; e ora torna à ritrovare i suoi compagni, a rivedere le calate e i moli, salutato a gran voce : « Ohè, Maciste!>>.

La gloria quotidiana

Ma il caravana pensa assai poco alle glorie che furono e a quelle che, forse, verranno. Altre ne trova e ne gode, più immediate e più quotidiane, mentre lavora a denti stretti, misurando il tempo sul ritmo del suo passo» che va e viene. Se no sorprendete qualcuno, durante il riposo, disposto a darvi udienza, e gli domandate quale sia stata la più grande impresa sua e dei suoi compagni, egli non ricorderà i cannoni di due secoli or sono, né il Pontefice portato dai suoi vecchi, né il vescovo generato da un suo predecessore. Sorriderà coi suoi denti bianchi nel viso di bronzo e, dopo avere lui poco pensato, vi racconterà di quella notte, quando cento caravana dovettero in dieci ore caricare sui treni quattromila tonnellate di grano. Le macchine insaccatrici lavoravano. I carri merci aspettavano. Avanti, caravana: quarantamila sacchi d’un quintale! quattrocento sacchi per ogni uomo; dieci ore di tempo; quattrocento passeggiate di venticinque o trenta passi, con cento chili sulle spalle, nello spazio di dieci ore; per ogni ora quaranta quintali; sempre avanti, caravana; per ogni passeggiata ottanta secondi, poi un bicchiere di vino mentre i treni partivano e il sole, salutato dalle sirene, sorgeva. C’è un altro faro, ai piedi della Lanterna, di fronte al mare burrascoso del mondo.

Carlo GATTI

Rapallo, 22 Gennaio 2019

 


LA FATA DELLE BARCHE. FAVOLA DI CAPODANNO

LA FATA DELLE BARCHE

Favola di Capodanno

di Carlo Lucardi


-Anche quest’anno Camilla non è venuta a casa per Natale, Laura - sussurrò il maresciallo Della Rosa - è rimasta in Indonesia a studiare i rinoceronti in estinzione,

-Non te la prendere, Ciro!-

-Ah! Io non me la prendo!- sospirò lui

Della Rosa Ciro e la dolce Laura erano a casa loro, in Riviera. Natale era passato e mancava qualche manciata di ore alla fine dell’anno.

-Tu lo sapevi, Ciro, che ogni barca viene assistita dalla fata delle barche? –

-Cosa c’entra questo con Camilla, Laura mia?-

-Così. Lo dicevo per distrarti un pochino, perché vedo che patisci…-

-Io non patisco, Laura- sospirò lui- ci rimango semplicemente male!-

-E dai…-

-Cos’è questa storia delle barche?-

-E’ una leggenda che sto leggendo, un’antica leggenda Vichinga, attribuita a Olaf il Rosso, raccolta in questa antologia!-

Mostrò il libro. Era di  uno di quegli autori nordici  molto bravi che hanno i nomi con le O tagliate da una  / e i circoletti sulle A.

-E’ una bella storia, è quasi commovente-

La dolce Laura era facile alle commozioni.

-E’ una delicata leggenda dei Vichinghi, grandi costruttori di barche e grandi navigatori dell’oceano. Dice che ogni barca ricorda gli alberi con cui è stata fatta, e che gli alberi della foresta ricordano lei. Così Rhaphalaf, la fata degli alberi, accorre a consolare la barca quando fa naufragio e il mare la inghiotte. L’accompagna sul fondo gelido e rimane con lei per consolarla! Non è una storia commovente?-

-La fata Rhaphapa… cosa ci trase con noi, scusami tanto! Laura mia, la fata Camilla mi ci vorrebbe a me, altro che Raphalà e Raphaquà, insomma, ecco!-

Il cuore partenopeo del maresciallo si squagliava sempre nel periodo di Natale, quando la sua bambina non veniva a casa.

-Scusa., Ciro, era per distrarti un po’. Non lo dico più, promesso…-

-Per carità, scusami tu, Laura. E già che ci sei, per favore, non parlarmi di barche!-

Laura ridacchiò.

-Non ti pare- proseguì il maresciallo- che ne abbiamo avuto abbastanza, di barche rotte? Io ne ho fin sopra ai capelli, Laura mia!-

Il mare pareva una tavola da biliardo, in quegli ultimi giorni dell’anno. Come un drago sornione, in agguato, non pareva neanche parente di quello che era stato in quel giorno spaventoso…

-Ne abbiamo avuto assai di guai! Un battaglione di fate ci vorrebbe, per consolarle tutte!-

Un mare spaventoso, sollevato da un vento che non si era mai visto a memoria d’uomo, aveva sfondato la diga del porto e in un pomeriggio di tregenda aveva seminato la distruzione.

La diga del porto era crollata sotto il peso di un’onda di dieci metri e la tempesta di mare ci s’era infilata dentro come un mostruoso clistere.

-Tutte le barche nel porto hanno rotto gli ormeggi, Laura, e da allora è cominciata questa disgrazia!-

La forza del mare aveva fatto schizzare via le barche come tappi di sughero e le aveva cacciate fuori dal porto a fracassarsi sugli scogli della passeggiata, spiaggiate, squartate, semi-sommerse. Barche che poi erano yacht e mega-yacht, del peso di decine di tonnellate!

-Una catastrofe, Laura mia, per i ricchi proprietari e soprattutto  per quelli che ci lavoravano sopra, che ricchi non sono!-

Così era cominciato anche il calvario delle forze dell’ordine, costrette a sorvegliare i relitti h-24, per scoprire ladri e sciacalli. Certo, l’integrazione dei comandi permetteva di avere un certo ricambio, ma anche nelle migliori famiglie ci sono dei fetentoni.

E in ogni anno ci sono delle nottate no, nelle quali nessuno vorrebbe lavorare

La notte di Capodanno sopra tutte le altre. Tutti volevano evitare di lavorare la notte di Capodanno, in primis  lavativi e fancazzisti.

Perciò quell’anno Della Rosa temeva fortemente che la temuta notte di Capodanno,che sarebbe toccata al Comando centrale, rimbalzasse invece nelle mutande a uno dei suoi.

Per distrarsi guardò il lungomare, con le barche contorte, accavallate come pesci morti.

Della Rosa era nato a Napoli e come tutti i nati sul mare nutriva sentimenti speciali  per i natanti.

Quelle barche ferite, squarciate e semi-affondate gli mettevano tristezza.

Gli parevano dei cadaveri col costato aperto, che mostravano  il cuore alla voracità del mare, il grande predatore.

Lo rattristavano ancor di più i turisti che facevano del catastro-turismo, anzi, del catastro-turismo-proletario, nel senso che partivano da centinaia di chilometri per farsi un selfie davanti alle barche semi sommerse, inneggiando alla giustizia proletaria.

Organizzavano veri e propri pellegrinaggi mordi-e-fuggi per inneggiare alla rovina dei barco-capitalisti.

Sorridevano, i vittoriosi  radical-chic, con radical-orgoglio, davanti alle barche ferite a morte,  soprattutto al “Falco di mare”, il ketch del notissimo plutocrate Trash Vermer, produttore di fictions, che giaceva lì, semiaffondata, al centro del Golfo.

La carena del “Falco di mare”, squarciata dalle onde, mostrava all’esterno  specchi e arredi, preziosi legni, modanature.

“Ci vorrebbe proprio la fata delle barche, quella Rhaphaciccia” pensò mentre ci passava davanti con l’auto  “che l’andasse a consolare il povero Falco di mare in queste notti fredde, quando il mare ci sciaguatta dentro e la dilania  sempre di più!”

Quando pensava al freddo del mare gli venivano in mente i calamari, le bianche creature delle profondità, che salivano di notte in superficie per cacciare i pesci coi loro vischiosi  tentacoli e risucchiarli vivi verso il dente crudele.

Bisogna dire che sotto la dura scorza Della Rosa aveva un cuore di poeta, partenopeo e un po’ piagnucolone.

Le barche a vela gli facevano più pena di quelle a motore, i cosiddetti “ferri da stiro “, perché secondo lui avevano più anima.

E il Falco di mare era stato una magnifica barca a vela.

-Sarà una scemenza, quella della fata- sogghignò passando davanti al macello della passeggiata- ma se la fata Rhaphaciccia ci fosse per  davvero, le chiederei di far sparire  ‘sta fetenzia di anarco-chic, che gode della disgrazia di quel meraviglioso veliero!-

-Che desolazione! Che triste Natale e Capodanno, senza Camilla e cò ‘sta canaglia in circolazione! Che poi di notte, magari va a  bordo, a prendersi qualche “ricordino!” del grande Trash Vermer!-

Entrò in caserma dove l’aspettava Cajazzo.

-Buon giorno, maresciallo!-

L’appuntato Cajazzo lo guardava con la faccia sconsolata.

Lui capì al volo.

-Non dirmi che è successo, Cajazzo!-

-Ebbene si, maresciallo. Il capitano Trombetti ha telefonato or ora per dare la notizia!-

Il nuovo capitano era un giovane  di quelli che ragionano per schemi e diagrammi e spaccano il capello in quattro, ma ancora una volta non era stato capace di imporsi ai suoi.

-Mannaggia  Cajazzo! mi vuoi forse dire che ci affibbiano Capodanno?-

Cajazzo abbassò gli occhi:

-Eh, si, purtroppo, maresciallo. Il carabiniere che doveva fare la guardia a Capodanno si è ammalato. D’influenza!-

-Ma che, ma quale?-

-Suina!-

-Suino?-

-No, suina, nel senso dell’influenza, maresciallo!-

Della Rosa s’incazzò per bene.

-Dobbiamo sempre cavargliele noi le castagne dal fuoco, a quelli? Noi siamo in sei, e loro sono uno più di mille!-

-Siamo troppo buoni, maresciallo!-

-Cajazzo, se non la finisci di dire stupidaggini  ti arresto!-

Privilegio del comando delegato, disgrazia italica! Della Rosa doveva scegliere fra i suoi cinque a chi far fare la guardia alle barche, la notte di Capodanno!

Il guaio era che aveva chiesto molto ai suoi, negli ultimi tempi, e non sapeva proprio a chi inviare quell’ignobile ordine di servizio.

Si chiuse nel suo ufficio, sbatté la porta e tirò una raffica di moccoli.

-Bel guadagno! Bella forza!- esclamò rivolto idealmente al capitano Trombetti- A comandare così sono capaci tutti!-

Tirò le somme della vicenda e realizzò che l’unico a poter fare la notte a Capodanno era il giovane Efisio Orrù, la cui fidanzata però era già partita col treno da Muro Lucano (PZ)  per trascorrere con il Capodanno col suo Efisio.

-Mannaggia a’ stratosfera. Glielo devo dire proprio io, a Orrù? E come faccio?-

Ammenoché… ammenoché… un pensiero diabolico gli si affacciò alla mente. Lo ricacciò subito indietro come un pensiero-carogna, ma si rese conto che poteva essere una soluzione geniale.

Anzi, LA soluzione geniale.

Due piccioni con una fava, la gratitudine eterna di Orrù e uno schiaffetto a quel capitano un po’ troppo paraculo.

Il tutto nasceva dal fatto che Capodanno per lui era sempre una festa imbarazzante.

Laura lo trascorreva invariabilmente con alcune colleghe dell’ospedale, accompagnate da tre dottori supponenti, Sfaccenda Clericetti e Cacamazzi, dei quali Silvio Cacamazzi, buro-dottore amministrativo, era tanto spocchioso che il suo amico Giulio Baldi l’aveva battezzato il dottor Spok.

Sarebbe stata una noia mortale, e una scarogna sicura, cominciare l’anno proprio col dottor Spok-

-Quindi…quindi…-

“Perché no?” pensò “Potrei mandare Laura a passare il Capodanno con le amiche e i dottori!”

Due piccioni con una fava.

Avrebbe evitato la trappola di Capodanno che cominciava appena le signore si appartavano a parlare di pettegolezzi, cucina e bambini.

Cioè quasi subito.

I dottori Sfaccenda, Clericetti e Spok allora iniziavano ad avvolgerlo  in discorsi vischiosi, come i calamari del fondale, cercando di risucchiarlo nell’abisso della noia!

E lui, Della Rosa, si sentiva preciso al “Falco di mare” circondato da bianchi  calamari.

Inoltre come partenopeo era superstizioso, e di conseguenza convinto che cominciare l’anno con quelli lì portasse una sfiga mortale. Infatti si cacciava sempre in tasca un corno rosso e non smetteva di stringerlo per tutta la notte!

Per cui prese il telefono:

-Ciro, cosa succede?

-Un’indagine improvvisa, Laura mia. Una ribalderia. Scusami con le tue amiche, con Spok, cioè Cacamazzi e gli altri… ma il dovere mi chiama fuori a Capodanno, quest’anno!-

Lei rise apertamente nel telefono, un riso con lo sbuffo che gli rintronò l’orecchio:

-Ma dai, furbacchione.  Dì che l’hai studiata per evitare la serata con Cacamazzi!-

Lui arrossì:

-Beh, in un certo senso hai ragione. Non è proprio questione di vita o di  morte, ma qualcosa d’ importante ci trase  per davvero! Hai presente Orrù, quel carabiniere coi baffi da sergente Garcia?-

Raccontò in toni lacrimevoli del viaggio della bella di Orrù da Muro Lucano alla Riviera.

-Ma che belle cosa che fai, Ciro- disse la generosa emiliana- Ti ammiro-

-Per carità…ma no, che dici?- si schermì Della Rosa

-Sono fiera del mio maresiallone. Dirò a tutti che l’eroico Della Rosa deve sorvegliare la fata Rhaphalaf che consola le barche.

Va bene,  Ciro caro?-

-E dai, Laura, non scherzare! Non ti secca, per davvero?-

-Che cosa? Avere un marito che è quasi un eroe? Certo che non mi secca!-

Clic..

***

La sera di Capodanno  Ciro s’intabarrò ben bene e si recò sul lungomare con la sua Panda personale, insospettabile per qualunque mariuolo, perché  era color verde diarrea, del tutto privo di marzialità.

-Etcì!-

L’unico problema era quel raffreddore coi fiocchi che stava dilagando verso le vie aeree. Si sentiva i brividi dappertutto, e aveva già  consumato i due fazzoletti puliti che si era portato dietro.

Quasi subito si era reso conto subito di aver avuto un’idea balorda… almeno in rapporto alla esecuzione pratica dell’appostamento.

Da anni non faceva più guardie notturne e si era dimenticato di quanto fossero nere e fredde le notti d’inverno passate in un abitacolo di macchina!

-Che stupido che sono stato a non pensarci!- si disse- Comincerò l’anno con la bronchite! Etcì!…Mannaggia a ‘sto moccolo che mi cola dal naso!-

Il sedile dell’auto era troppo stretto, il naso e le orecchie troppo freddi, ma soprattutto non si ricordava di aver mai avuto le palpebre così pesanti.

-E’ questo moccio, che mi sale dal naso agli occhi- gemette- mi lacrimano tanto che li chiudo, ma se li chiudo finisco per addormentarmi!-

Per star più sveglio inforcò il suo binocolo night vision, ricordo della guerra del Golfo.

La luce verdolina  faceva scoprire cose impensabili come coppie infrattate  dietro le cabine o gatti che cacciavano topi sugli scogli.

C’era perfino una vecchia donna seduta sullo scoglio, una barbona, probabilmente. Lui conosceva tutti gli homeless di riviera, comunitari e non, ma quando lei si girò, non la riconobbe.

Era una nuova.

Prima  di voltarsi di nuovo a guardare il mare gli parve pure che sorridesse, con la bocca sdentata.

-Cos’hai da ridere- mormorò lui- col freddo che fa?-

Lei parve vacillare e quasi cadde, ma restò impigliata con la casacca unta alla griglia di recinzione e annaspò un poco senza riuscire a districarsi dalle maglie della rete .

Della Rosa vide tutto e scese dall’auto.

-Aspetta un attimo, ti aiuto a liberarti!-

In due salti fu presso di lei e la aiutò a togliersi d’impiccio.

Mannaggia, quant’era brutta, e  magra, e  puzzava di vino e di capra!

-Come state? Vi sentite male?-

-No, no…- si schermì lei .

Era tutta gelata, e ossuta. Praticamente  era un sacchetto d’ossa che camminava.

-Siete sicura?-

Lei annuì senza parlare.

Il maresciallo pensò generosamente che sarebbe stato meglio portarla al ricovero dei vecchi, per farla dormire al caldo.

-Vuoi venire al ricovero, per stanotte?-

-No!-

Si liberò dal suo braccio e se n’andò confabulando per la sua strada.

-Vattene via allora, vecchia matta, etcì.  E mannaggia  ai fazzoletti zuppi-

Quando rientrò nell’auto si ricordò di avere un pacchetto di fazzolettini di carta nel cassettino. Si chinò a prenderli e proprio mentre si soffiava il moccio iniziarono le sarabande dei botti di Capodanno.

Era passata da un pezzo la mezzanotte quando la sarabanda di luci si smorzò, e lui potè di nuovo inforcare il night vision.

Guardò il mare e rimase di stucco.

A tutta prima non riuscì a distinguere bene, poi si accorse che vicino al Falco di mare c’era qualcuno!

Subito sembrava un sacco nero di vele rimasto in coperta, ma dopo un po’ comparve un braccio e poi una testa col cappuccio, pure lui nero.

Si mosse ancora e s’infilò  con una certa fatica nello squarcio della barca!

La procedura prevedeva che lui chiamasse la volante e restasse lì a tracciare il malvivente, ma lui sapeva che prima che arrivassero gli altri il malvivente si sarebbe dileguato nella confusione della festa.

Vide l’ombra nera sparire nella barca dilaniata e aspettò paziente che uscisse di nuovo,  ma proprio mentre la testa del ladro ricompariva, sfortuna volle che un fascio di fari allo iodio saettasse  sulla Panda .

La luce fortissima lo accecò e per lunghi minuti non vide più nulla.

-Maledizione ai tuoi fari!- sbottò rivolto all’automobilista.

Quando potè di nuovo distinguere le cose, vide che il tipo si allontanava dalla barca, dal lato opposto a lui, verso la riva est del golfo. Non faceva alcun rumore, pareva addirittura che volasse sull’acqua.

-Che strano! Che mezzo usa?  Va troppo veloce per remare, e non si sente nessun rumore di motore, nel sottofondo dei fuochi!-

Corrugò le sopracciglia.

-Sarà mica la Fata Rhaphaciccia?-

A dire il vero c’era ancora parecchio fracasso per le feste di piazza quindi un rumor di motore poteva essere coperto dallo schiamazzo,  ma Della Rosa pur aguzzando l’orecchio non sentì  nulla.

Si rese conto che quel tipo lì non faceva proprio NESSUN RUMORE.

Restò a guardare quella strana figura che pareva volare sul pelo dell’acqua. Vedeva solo la testa, perché il resto era nascosto dietro lo scafo del “Falco di mare”.

-Va verso levante-  esclamò- Bene, è l’ora che mi muova,  se lo voglio pizzicare!-

A levante c’era solo l’approdo del Castello, ghiaia e scogli, abbastanza in ombra da non dare nell’occhio.

-E se fosse davvero la fata Rhaphaciccia?-

Sogghignò per fugare le ombre della superstizione e avviò la Panda sulle strade della movida che costeggiavano il borgo, fino a piazzarsi sul lato orientale della magnifica semiluna di mare. Le feste di piazza erano dappertutto, birra e vino, musica, canti stonati, schiamazzi.

Sull’approdo del Castello, di quell’ombra che aveva visto volare sull’acqua  non c’era più traccia.

Non aveva previsto che il tipo potesse approfittare della gazzarra per non essere individuato e dileguarsi a terra, confuso tra la folla.

Non c’era più niente, sulla spiaggia dell’approdo, solo la risacca che bagnava i ciottoli e portava bolle di schiuma a terra. Ma sulla sabbietta della risacca, nitida, c’era un’orma che i binocoli del maresciallo individuarono subito!

-Ecco qua dove sei sceso, furfante!  Eccoti qui, calamaro!-

Sulla strada fremevano le attese di un concerto. Un gruppo di giovani con bottiglie e bicchieri in mano attendeva le nuove meraviglie musicali.

Della Rosa rifletté.

Il misterioso ladro non poteva essere andato via in macchina, perché le auto erano tutte bloccate dalla piazza piena di gente.

Doveva per forza aver lasciato lì almeno il canotto o il gommone che l’aveva portato.

Cercando sulla sabbia con gli infrarossi vide infine un segno di trascinamento di qualcosa di liscio e largo.

-Un gommone. E’ certamente un gommone. Non può averlo già portato via!-

Dietro lo scoglio infatti scoprì  un gommone nero con motore elettrico Intex ultimo modello.

-Ecco come faceva per spostarsi senza rumore! Ha approfittato del rumore della festa per coprire anche lo sciaguattare del gommone! Chissà cos’è andato a rubare, sulla barca!-

Dentro il gommone c’era una grossa sacca nera.

Della Rosa quando la vide si prese un grosso spavento.

Era una sacca di plastica di quelle che i militari americani usavano per chiuderci le salme. Le aveva viste bene durante la guerra del Golfo!

-Oh, no! Questa poi non me l’aspettavo…- bisbigliò- Mannaggia, speriamo che non ci sia dentro quello che penso!-

Si guardò bene in giro ed estrasse la Beretta dalla fondina. Controllò il caricatore e tolse la sicura.

Si acquattò alla meglio dietro gli scogli e con mano incerta agguantò la cerniera della sacca, poi la tirò di lato per aprire di colpo la zip.

Appena l’ebbe fatto si ritrasse inorridito perché dalla sacca erano usciti dei capelli biondi, bagnati; un’abbondante capigliatura  bionda!

Non ebbe il coraggio di fare altro e si ritirò dietro la roccia, in attesa.

“Devo chiamare rinforzi” pensò “devo chiamare la Volante”

Sapeva che quello era il suo dovere, ma qualcosa lo tratteneva. Erano quei capelli biondi che fuoriuscivano dalla sacca.

“Una prostituta, o una drogata. Morta a Capodanno per soddisfare le perversioni di qualcuno. Forse l’ha ammazzata sulla barca, a mezzanotte!”

La cosa  gli fece saltare la mosca al naso .

-Voglio prenderlo, quel dannato assassino. Lo aspetterò qui finché non torna-

“Non può essere andato via” rifletté “dovrà per forza tornare per far sparire il cadavere!”

La festa proseguiva. La  gente era sempre più eccitata ed ebbra.

D’improvviso il fiume di persone si spostò alla piazzetta più ad occidente, dove i musici attesi avevano  cominciato a scaldare gli strumenti per lo spettacolo clou.

Fu proprio allora che lo sentì tornare giù per la scaletta di cemento. Faceva  un sacco di rumore, come uno che non ha un pensiero al mondo.

Fischiettava!

Doveva essere stato sempre lì vicino, probabilmente si era messo in mostra per bene, aveva comprato birra e dolcetti per costruirsi un alibi! Aveva cantato canzoni…

“Sto fetente…” pensò Della Rosa.

L’assassino scese sulla spiaggia e si mise ad urinare contro lo scoglio dietro il quale stava acquattato Della Rosa. Continuava a fischiettare il motivetto della canzone di piazza.

-Ti faccio fischiettare io quando t’acchiappo- sussurrò Della Rosa -fetuso, assassino di donne!-

Il tipo raccattò con calma la muta che aveva lasciato sul  gommone e il cappuccio nero che l’aveva reso invisibile. Poi si avvicinò alla sacca e fece per mettersela in spalla.

Allora Della Rosa saltò fuori con la Beretta spianata:

-Fermo, carabinieri! Mani in alto! Sei in arresto!  Non fare scherzi, hai una la pistola puntata addosso!-

Lui lo guardò in faccia, stralunato, e nell’istante successivo accaddero due cose:

1) Della Rosa lo riconobbe :

-Ma voi…siete…-

2) L’altro semplicemente venne meno e cadde a terra come un sacco.

Il maresciallo gli sollevò le gambe per farlo rinvenire e lo prese anche a schiaffi. Quando infine si riebbe lo ammanettò alla ringhiera della scaletta di cemento.

-Dove sono, chi è lei?-

Della Rosa lo ignorò e prese in mano il cellulare per fare il numero dell’emergenza.

-No, aspetti, non telefoni. Aspetti . Mi può dire chi è?  Posso pagare!-

-Pure tentata corruzione di pubblico ufficiale, sei in grossi guai assassino!-

-Assassino? Ma no, ha capito male. Posso spiegarle tutto! Lei chi è, mi scusi?-

Della Rosa faceva fatica a credere che quello lì fosse davvero il  gran personaggio pubblico, brillante e sciupafemmine  che si vedeva in TV in mezzo a stuoli di belle donne.

Era una mezzasega, e tremava dalla fifa.

-Sono Della Rosa, maresciallo della stazione dei carabinieri, di Riviera, signor Trash Vermer!-

-Mi ha riconosciuto?-

Era compiaciuto di essere stato riconosciuto!

-E’ in arresto per assassino. Se ne stia buono lì. Ora chiamo la pattuglia, che venga a prenderla. Purtroppo ha il diritto di stare in silenzio, e io, mannaggia, ho il dovere di rispettarla!-

Trash Vermer  provò a ridacchiare :

-Ma no, aspetti, lei non immagina!-

-Ho visto che cosa c’è dentro quel borsone, Vermer!-

-Ah, ha visto Kate. Bene! Le piace?-

“Chist’è pazzo!” pensò il maresciallo.

Si disse che trattandosi di vip, e molto ricco, avrebbe fatto bene ad affidarlo al più presto al capitano. Era meglio evitare che la rabbia che quello gli faceva salire dalla pancia, aggravata dall’indifferenza con cui parlava della vittima, gli facesse commettere qualche abuso.

-Sta zitto, balordo!- disse

Poi si ricordò che gli dava del lei:

-Non aggravi la sua posizione, Vermer! Mi dia i documenti!-

-Non ho documenti, li ho lasciati  a Milano!-

“Sta fetenzìa!” pensò Della Rosa “Credono di poter fare tutto quel che vogliono grazie ai quattrini!”

Prese di nuovo il telefono.

-Aspetti maresciallo, no, non telefoni!-

Quasi lo implorava, ora.

-Ancora? Cosa devo aspettare? Lei è un assassino preso in fragrante!-

-Aspetti, le dico, prima di chiamare!-

Della Rosa gli sussurrò in napoletano:

-Statti cittu, strunzo:  aje voglia ‘e mettere rumma, non sarai mai babbà!-

-Come dice?-

-Niente di importante!-

-No, fermo, non telefoni. Non è come pensa, c’è un equivoco!-

-E Kate allora? E’ anche lei un equivoco?-

-Ecco, è proprio così, maresciallo. E’ Kate l’equivoco. Mi avvicini la sacca, prego!-

La sacca era molto leggera-

-Ci hai messo dentro solo la testa, fetente? Il corpo l’hai lasciato sulla barca, ai calamari?-

Trash Vermer incredibilmente rise, mentre con la mano libera dalle manette apriva la zip della sacca.

-Ecco Kate, maresciallo, la mia Kate!-

“Chist’è pazzo, completamente pazzo!”

-Ecco Kate- disse lui- la mia principessa, la mia Musa! Solo con lei… solo con lei io riesco… solo con lei, capisce?-

Fece il gesto dello stantuffo, e quasi piangeva di gioia.

Della Rosa per  poco cadde dallo scoglio.

Kate era una bambola gonfiabile ultimo modello, made in PRC, molto somigliante, con una gran capigliatura di lunghi capelli, probabilmente naturali.

S’infuriò:

-Ti venga un colpo, deficiente!…E…e …etcì! Mannaggia, a te, te ne vengano due, uno per te e uno per lei!…E …e… etcì!-

Dopo l’adrenalina gli era tornato il raffreddore, e si sentiva  di nuovo uno straccio umido da lavandaia, partecipe di un’umanità di calamari .

Quel pazzo sussurrava ancora al pupazzo:

-La mia Kate, come mi sei mancata, cara!-

Le lisciava i capelli con la mano libera, cercava di sbaciucchiarla

-L’avevo lasciata a bordo, maresciallo. Le barche erano sotto sequestro, non avevo più potuto riprenderla…capirà. In questi mesi mi pareva d’impazzire, senza di lei. Avevo paura che il mare se la portasse via-

-Non potevi mandare qualcuno a prenderla, co…quaglione?-

-Ma no, la mia Kate? Nessuno sa di lei. Solo io e lei, solo con lei, vede, posso, riesco a… Della Rosa, la prego, non telefoni…-

Il maresciallo era rimasto di stucco. Pensare che i giornali descrivevano Trash Vermer come un solidissimo “ tombeur de femme!”

Restò per un poco col dito sul telefono, poi decise di chiudere la comunicazione.

Controllò il contenuto della sacca. Non c’era altro, neanche una cosa che facesse sospettare un trucco.

Un buco nell’acqua, niente di fatto, niente che potesse uscire dai limiti di un articolo di gossip, e niente che lui potesse raccontare senza far la figura del pirla!

“E ora?”  pensò “Che faccio? Telefono a “Scandali al sole?

Ma no. Per quello stronzo?  Che si tenga pure la sua Kate e se ne vada all’inferno!”

Si accorse all’improvviso che le lacrime che gli salivano agli occhi non erano tutte causate dal raffreddore. Si sentiva umiliato, Della Rosa, e triste, preciso a quando passava Capodanno a subire il dottor Spok.

-Va bene, gua…quaglione, il resto me lo spiegherai in caserma dopodomani. Ti aspetto in caserma alle dieci. Bonanotte!-

Gli diede l’indirizzo e il telefono e cominciò a salire le scale…

ma quando era già a metà Vermer strillò:

-Aspetti!-

Si era già tutto ringalluzzito.

-Era proprio necessario farmi prendere tutto quello spavento? Per poco non  morivo! Ne parlerò coi miei avvocati!-

Ciro aveva già il piede sullo scalino superiore, ma dopo queste frasi si bloccò e ridiscese con calma sulla spiaggetta.

-Non ti muovere!- disse, e tornò a mettergli le manette.

Prese il cellulare e chiamò:

– Signor capitano-

-Dica, Della Rosa!-

Trombetti  gradiva sempre essere informato in tempo reale.

-Capitano, ho beccato un ladro che rubava sul Falco di mare, lo Yacht, sa… è senza documenti!-

-Ah…-

-L’ho preso in fragrante mentre saliva sulla barca, una di quelle sottoposte a sequestro. Ha della refurtiva. Volete occuparvene voi o volete che io…-

-No…me ne occupo io, li mando subito!-

-Bene. Allora aspetto la Volante. Rimango qui finché non è arrivata! Buon anno, capitano Trombetti-

-Anche a lei, Della Rosa! Tanti auguri!-

“Ora troverai chi t’interroga per bene e ti fa passare il Capodanno in Caserma, calamaro del mio…” pensò “e son quasi sicuro che Trombetti lo zelante tratterrà la refurtiva  nei corpi di reato per un bel pezzo!”

Quando arrivò la Volante, Della Rosa tornò a fare la guardia sul lungomare.

C’era poca gente sulla passeggiata, soprattutto ragazzotti ubriachi e pulzelle. E lì accanto era tornata la barbona di prima, accasciata sullo scoglio con delle coperte sbrindellate. Canticchiava e gesticolava rivolta al mare.

“Speriamo che non scenda sugli scogli, e non si rompa qualche osso” pensò  “Non vorrei proprio che la notte finisse con un’altra fetenzìa: per stanotte  ne ho avuto abbastanza, di matti!”

-Chista è peggio di quell’altro, mi sa- sussurrò-  Mi toccherà davvero arrestarla, perché se finisce in mare ci scappa un cadavere vero, questa volta! –

Era sorto il giorno, e la vecchietta non era caduta.

Finalmente però era arrivato il suo cambio.

La vecchia confabulò ancora un poco e ridacchiò rivolta verso di lui.

-Che hai da ridere, vecchia cornacchia?- sibilò Della Rosa

Aveva le traveggole? La vecchiaccia gli aveva fatto L’OCCHIOLINO!

No! Questa poi! Doveva pure subire  l’adescamento di una  barbona!

-Chissà che catastrofe sarà, quest’annata, se comincia così!-

Loro due se ne andarono più o meno assieme, una di qua,  lui agli antipodi.

-Vecchiaccia zozza!- disse

Ingranò la prima.

-Se almeno la fata delle barche fosse stata qui avrei potuto chiederle di far tornare Camilla… almeno per Capodanno!-

Mentre si immetteva nello scarsissimo traffico gli squillò il cellulare:

-Pronto!-

-Papà!-

-Camilla, Camillina! Dove sei?-

-Sono all’aeroporto. Sono venuta per passare assieme almeno Capodanno. Puoi mica venirmi a prendere?  Ho molti bagagli!-

-Se, posso, se posso?- urlò lui-  Certo che posso, mannaggia atomica!-

Mancò poco che uscisse di strada per la felicità.

Dietro di lui la vecchia rivolse un’ultima occhiata al Falco di mare, lo consolò ancora e infine si allontanò.

-A stasera, Falco!- disse.

Era ormai sorto il giorno.

Fine

Capodanno 2019, Carlo Giuseppe Lucardi.

Rapallo, 8 Gennaio 2019


LO YAWL DI MUSSOLINI SI AUTOAFFONDO’ A RAPALLO NEL 1943

 

LO YAWL DI MUSSOLINI

SI AUTOAFFONDO’ A RAPALLO NEL 1943

 

Yacht di 23,70 metri di lunghezza e 4,70 di larghezza, e 40,70 tonn. di stazza. Fu costruito nel 1912 in Germania con legno di teak stagionato e mogano, alberi e bompresso in pitch pine e scafo foderato in rame. La sua linea era e resta elegante e decisa, con un lungo slancio di poppa a cui se ne contrappone uno di prua corto e arrotondato, in onore dell’architettura nautica dell’epoca. Accogliente e raffinata dentro, agile e possente fuori.

Lo “YAWL” KONIGIN II fu costruito nel 1912 dai cantieri tedeschi Abeking & Rasmussen per i Barone Von Dazur.

Dopo aver passato la prima guerra mondiale nel porto della Maddalena, il gerarca fascista Alessandro Parisi Nobile, fedele amico del Duce, lo acquistò nel 1935 e lo ribattezzò FIAMMA NERA e lo donò a Mussolini. Il Duce, come si sa, era un aviatore e tante altre cose, ma non era un uomo di mare con progetti croceristici e lo utilizzò per i suoi incontri più o meno segreti con la sua amante storica Claretta Petacci senza mai allontanarsi troppo dalla costa.



Momenti di relax prima della tempesta...

Alla vigilia della caduta del regime, in quel demoniaco passaggio storico, Fiamma Nera fu affondata dal suo armatore davanti a Rapallo per impedire che finisse nelle mani dei tedeschi o degli americani, ma con l’intento e la speranza fondata di recuperarlo a “tempesta” passata.

Si tratta in fondo di usare le stesse parole: tempesta (bellica), Yacht affondato, relitto e recupero che oggi, a distanza di 75 anni, usiamo per decifrare la recente “apocalisse” che ha colpito la nostra città tra il 28 e il 29 ottobre 2018.

Nel 1943 fu un affondamento astutamente programmato e scientificamente realizzato. Questa fu l’unica e sostanziale differenza tra quel naufragio volutamente provocato e la tempesta naturale che ha colpito, come mai era successo prima, la nostra città.

La scaltra iniziativa del Conte Sereni funzionò e lo YAWL fu recuperato nell’immediato dopoguerra, quindi restaurato e rinominato SERENELLA. Nel 1956 fu comprato dal Principe Cremisi che lo ribattezzò ESTRELA DE GUARUJA’.

Per completare la sua storia possiamo solo aggiungere che l’imbarcazione rimase fino al ‘62 ormeggiata a Fiumicino ed impiegata come nave-scuola dal Circolo della Vela di Roma. Negli anni '70 fu acquistata dall'ingegner Fonsi che la portò a navigare in Adriatico. Nel 2002 ricomparve in precarie condizioni a Viareggio dove tornò agli antichi splendori e fu anche attrezzata della più moderna strumentazione grazie a un progetto di tre amici: Augusto Gori, Carlo Meccheri di Pietrasanta e Giorgio Mazzoni. Nello stesso anno prese parte alle Vele d’Epoca di Imperia e venne noleggiata dal Cts Ambiente per una campagna di monitoraggio delfini nel Mare Tirreno, sino all’ultimo restauro (2006-2010) a Fiumicino.

Qualcuno si chiederà: “chissà se il FIAMMA NERA fu testimone di successivi incontri amorosi di celebri coppie sulle orme nostalgiche del Duce e della Petacci”?

Si parla di un matrimonio mancato: George Clooney e Elisabetta Canalis avrebbero voluto sposarsi sulla barca del Duce, ma sono voci di corridoio che nessuno ha mai confermato.

Il KONIGIN II sta oggi vivendo il suo ennesimo restyling guardando ad una nuova vita con il supporto del prestigioso Duck Design e dell’antico Cantiere tedesco che lo costruì nel 1912.

ALCUNI RICORDI DEL COMANDANTE

NUNZIO CATENA

ORTONA

Zì Tumassin ripreso mentre cuce una vela a bordo dell’ESTRELA


l'Ingegnere ci teneva moltissimo a conservare sia il look che le tradizioni di quella barca famosa. Aveva alle dipendenze "Zì Tumassin" (di 'Pizzicarello', nomignolo), un anziano ma esperto marinaio in pensione che la curava come fosse, e di fatto lo era, una sua creatura.

Ricordo che a bordo della ESTRELA, una troupe della RAI aveva girato anche un filmato pubblicitario per il celebre Carosello con la cantante 'Giovanna' in auge a quel tempo.

 


Questa foto, con lo scafo bianco, é stata scattata nel porticciolo turistico di Ortona.

La ESTRELA, aveva uno scafo dalle linee meravigliose, ed anche gli interni erano molto raffinati: bellissima la coperta sgombra e con pochissima sovrastruttura. Se devo essere sincero, non mi piace armata con la vela MARCONI all'albero di maestra, molto più bella si presentava con le vele auriche, ma era più impegnativa da governare; quello fu forse il motivo per cui  la cambiarono.
Quando arrivò dal Mar Tirreno da noi in Adriatico, aveva il bompresso e la polena sfasciati completamente, perché durante il trasferimento, a causa della nebbia, erano andati a sbattere contro una scogliera a picco, per fortuna non ebbero danni allo scafo e poterono proseguire il viaggio senza interventi esterni.

Carlo GATTI

Rapallo, 4 Gennaio 2019