SCIOPERO !!!
SCIOPERO !!!
GENOVA - I transatlantici VULCANIA (sn) e SATURNIA (ds), con le insegne della Società ITALIA, sono ormeggiati a Ponte dei Mille.
La M/n VULCANIA in navigazione
Committente: Cosulich Line, Trieste.
Cantiere: Cantiere Navale Triestino (Cantieri Riuniti dell’Adriatico) di Monfalcone, Co. 161
Impostato: 30 gennaio 1926.
Varato: 18 dicembre 1926.
Viaggio inaugurale: 19 dicembre 1928.
Data fine: affondata nella baia di Kaohsiung il 20 luglio 1974.
Dati tecnici.
Lunghezza: 192,05 mt.
Larghezza: 24,31 mt.
Immersione: 7,46 mt.
Stazza lorda: 24.469 tsl.
Propulsione: due Diesel 8 cilindri Burmeister & Wain - CRDA (Fabbrica Macchine Sant'Andrea, Trieste); 24000 hp; due eliche.
Velocità di servizio: 19,25 nodi.
Velocità massima alle prove: 21,07 nodi.
Capacità d’imbarco: 1.665 passeggeri in quattro classi.
Prima classe: 370 passeggeri.
Seconda classe: 412 passeggeri.
Classe Turistica: 319 passeggeri.
Terza classe: 564 passeggeri.
Equipaggio: 510 persone.
LA M/N VULCANIA IN VERSIONE MILITARIZZATA/Nave ospedale
Nel 1942-’43, in accordo con le forze alleate iniziò il servizio di rimpatrio di civili internati (specialmente donne e bambini) e di soldati italiani feriti dall’Africa Orientale Italiana, con la protezione della Croce Rossa Internazionale.
Nel 1941 la guerra ormai rese il normale servizio di linea pericoloso ed inaffidabile e il Vulcania così come il Saturnia fu trasformato in modo da sostenere il nuovo servizio di trasporto truppe ed armi. Fu infatti requisito nel 1941 dallo Stato Italiano per svolgere i suoi nuovi servizi verso il nord Africa. Tra il 1942 e il 1943 l’Italia in accordo con gli alleati adibì il Vulcania al rimpatrio di civili e soldati feriti dall’africa orientale, e anch’esso prese parte allo stesso convoglio della nave gemella Saturnia.
I due transatlantici furono molto fortunati in quanto riuscirono entrambi a scampare al bombardamento di Trieste che come già detto affondò numerose navi nel porto. Ma la frenesia della guerra era ancora nel vivo e il Vulcania fu ancora una volta modificato e requisito dalla US Navy nel 1943 che non solo lo utilizzò per il trasporto di soldati tra l’America e l’Europa ma lo equipaggiò anche di armi di difesa antisommergibili e antiaerei. Fu inoltre noleggiato nel 1946 dalla compagnia America Export Line per il trasporto merci sulla rotta New York - Napoli - Alessandria d'Egitto, per poi tornare in mani italiane.
Alla fine del 1946 il Vulcania giunse a Genova dove la Società Italia lo fece ristrutturare totalmente e riallestire per tornare al servizio di trasporto di passeggeri. Il transatlantico riprese la navigazione nel luglio 1947 e dopo alcuni viaggi verso il sud America con partenza da Genova, il Vulcania tornò a prestare servizio sulla linea verso New York. Dopo numerosi viaggi il 5 aprile 1965 il transatlantico intraprese il suo ultimo viaggio sotto il nome di Vulcania in quanto al suo rientro in Italia fu venduto alla compagnia Siosa Grimaldi Line che lo rinominò Caribia. Il nuovo Caribia navigò fino al 1973 quando ormai vecchio e tecnologicamente obsoleto e superato fu radiato. Lo scafo fu trainato a Barcellona il 18 settembre 1973 da dove ebbe inizio il suo ultimo viaggio. Sempre a rimorchio, infatti, la nave fu portata a Kaoshiung, città dell’isola di Taiwan dove fu demolita definitivamente nel 1974.
Una bella fotografia della Vulcania vista dal ponte Lido di Prima classe dell'Andrea Doria nel 1954.
UNA SOSTA IMPREVISTA
Il 16 gennaio 1963 la nave passeggeri “VULCANIA”, a causa della fitta nebbia, incaglia nel Canale della Giudecca a Venezia. Dopo circa 12 ore viene disincagliata da 4 rimorchiatori; non subisce danni, ormeggia e prosegue il viaggio, con molti scali, diretta a New York.
Arriva la “calda” estate del 1963. Lo scrivente é tuttora imbarcato sulla M/n VULCANIA in placida navigazione da Halifax (Canada) verso New York.
Improvvisamente quell’incanto s’interrompe! Via etere giunge a bordo uno “strano” telegramma: GIOVANNI HA PRESO LA LAUREA.
Il destinatario é un garzone di cucina (noto per essere un rappresentante sindacale).
L’implacabile e velocissima “radio-caruggio di bordo” sparge la notizia:
Quel telegramma é il segnale (convenzionale) che prelude alla dichiarazione di sciopero dell’equipaggio durante la sosta della nave a New York.
Cappella di bordo, é in corso la celebrazione della Messa domenicale. Da sinistra in prima fila: Allievo Ufficiale (A) Carlo Gatti, il 1° Ufficiale Claudio Cosulich, il Commissario Governativo, il Comandante Giovanni Peranovich e il Direttore di macchina.
Di quei giorni ricordo ancora l’incredulità e la profonda delusione dei Comandanti in 1a ed in 2a della VULCANIA, entrambi originari di Lussimpiccolo (l’isola che nel 1947 passò alla Jugoslavia) i quali erano noti per il loro autoritarismo e senso della disciplina. Ero molto giovane e non saprei dire fino a che punto fosse esatta quella valutazione; ricordo che entrambi questi valenti uomini di mare avevano un piglio molto militaresco e, per dovere di cronaca, aggiungo che erano considerati, da tutti gli ufficiali di bordo, dei “veri marinai” con un passato bellico di tutto rispetto.
I due Allievi di coperta De Privitellio e Gatti all’arrivo al pier 84 di New York
MANOVRA DI PARTENZA
DA NEW YORK
Sta per iniziare il viaggio di rientro in Italia
Il Comandante ordina via interfonico: “equipaggio ai posti di manovra”. Quando gli Ufficiali di Coperta giungono a prora e a poppa per iniziare la manovra di disormeggio, i posti sono presidiati non solo dai marinai solitamente addetti a quella mansione, ma anche da camerieri, cuochi, infermieri ecc…
Il Comandante ordina al 1° Ufficiale di prora di rimanere su due cavi alla lunga, un traversino e uno spring. Il 1° ufficiale ripete l’ordine al nostromo che lo trasmette ai marinai; questi rispondono incrociando beffardamente le braccia. Stessa scena a poppa.
Gli ufficiali responsabili della manovra chiamano il Ponte di Comando:
“PONTE DA PRORA” – “PONTE DA POPPA”
“L’equipaggio non risponde agli ordini”
Un silenzio irreale inonda la nave da prora a poppa attraversando tutti i locali e i ponti dall’alto verso il basso. I passeggeri consapevoli dell’anomala situazione, osservano in trepidante attesa lo svolgersi di una manovra che non inizia mai, lo scenario é disegnato da sottili fili in tensione che minacciano lo strappo da un istante all’altro …
Poi tutto prosegue come durante un’esercitazione di routine che termina quando il Comandante comunica: “Esercitazione terminata, tornate ai vostri posti!”
Questa, al contrario, non é una esercitazione, ma una manovra vera che abortisce con il secco RIFIUTO dell’equipaggio di eseguire gli ordini del Comando di bordo. L’insubordinazione é fin troppo evidente e documentata, ma é disciplinata, composta e comunque rispettosa verso gli ufficiali coinvolti nel fallimento della manovra. Nessuno dimostra alcun imbarazzo nel recitare il proprio copione. Anche il Comandante afferra immediatamente l’inutilità di quella sceneggiata e non ripete l’ordine una seconda volta per non esasperare gli animi e volgere in dramma una commedia già andata in scena altre volte…come vedremo!
Dal Ponte di Comando giunge l’ordine perentorio:
"Manovra terminata! I capi servizio si rechino sul Ponte di Comando!”
Ricordo le lamentele coperte da ingiurie da parte dei passeggeri verso l’equipaggio ed anche le discussioni tra gli stessi marinai che non sembravano tutti d’accordo sull’esito di quel viaggio interrotto, senza preavviso, in quel modo anomalo per quei tempi. Ma il fatto che più mi sorprese fu che i marinai CAPI STIVA, pur essendo tutti di Lussimpiccolo e uomini di fiducia del Comandante, furono i più convinti e decisi tra gli scioperanti…
Credo che per il Comandante, vicinissimo ormai alla pensione, quello fu il giorno più triste della sua carriera: la delusione fu MASSIMA, si sentiva tradito… non tanto dai sindacati di terra ma dai suoi uomini che l’avevano sempre fedelmente seguito.
Non ricordo esattamente quanto durò lo sciopero, credo qualche giorno, perché l’America di quegli Anni non era terra di rivolte col “marchio comunista” che era detestato e contrastato aspramente… da tutti gli strati sociali USA.
Le parti trovarono ben presto un accordo provvisorio per cambiare “teatro” e per proseguire le lotte sindacali in Italia dove la sensibilità verso le tematiche sindacali legate ai Lavoratori sul Mare, era senza dubbio molto sentita.
In quei primi Anni ‘60 le navi passeggeri di Linea della FINMARE erano molto “amate” perché erano legate alla nostra emigrazione che si svolgeva ancora nei due flussi di andata e ritorno con le Americhe, e lo erano soprattutto lungo le coste italiane da dove provenivano tradizionalmente gli equipaggi imbarcati, per cui le “agitazioni sindacali” avevano una forte “cassa di risonanza” sia nel mondo marittimo statale che in quello privato.
UN PO’ DI STORIA….
Genova. Lo sciopero del ’59. Tutti fermi al primo approdo!
È una delle pagine memorabili della storia sindacale dei lavoratori del mare. Lo sciopero iniziato l’8 giugno 1959 durò quaranta giorni e coinvolse 118 equipaggi in tutto il mondo. A Genova i pensionati oggi raccontano quella storia nelle scuole ai giovani studenti.
Lo sciopero dei marittimi italiani più lungo e grande della storia durò quaranta giorni e arrivò, al suo culmine, a coinvolgere 118 navi ferme nei porti di mezzo mondo. L’ordine di incrociare le braccia partì da Genova in gran segreto la sera del 18 maggio 1959. I militanti della Film Cgil, l’allora federazione dei marittimi del capoluogo ligure, lo ricevettero in codice, lo stesso che veniva usato nella Resistenza. Il linguaggio cifrato era noto agli uomini degli equipaggi che avevano militato nella lotta armata al nazifascismo, ma sconosciuto agli armatori che non riuscirono a intercettarlo e ad attuare così le contromosse.
Quella primavera del 1959 stava lasciando lentamente il posto a un’estate che si annunciava rovente. A bordo delle navi le condizioni dei marittimi erano durissime, con turni massacranti di quattordici, e a volte anche diciotto ore al giorno, pessimo vitto, alloggi fatiscenti, nessuno straordinario riconosciuto. L’ultimo contratto del settore risaliva al 1931. I grandi armatori di allora – Costa, Lauro, Fassio – in mare erano veri e propri dominus assoluti, e si sentivano ben rappresentati dal governo in carica guidato da Antonio Segni, espressione della destra democristiana e futuro presidente della Repubblica.
Per gli appassionati di storia sindacale, riporto un DOCUMENTO significativo di quel periodo di lotte che modificarono i rapporti tra gli armatori e le varie categorie della “gente di mare” imbarcata, per cui nacquero i contratti di lavoro che avevano il diritto di essere appesi e consultati nelle salette di tutti le categorie: Ufficiali, Sottoufficiali e Comuni delle varie sezioni, Coperta, Macchina e Camera.
Il 1959 vide le navi passeggeri di bandiera italiana impegnate in prima linea nella lotta aspra contro gli Armamenti Statali e Privati che precedette e mise le fondamenta per le ulteriori rivendicazioni sindacali e relativi scioperi di cui é oggetto la mia testimonianza sopra riportata.
Di quell’anno 1959, così raccontavano a bordo della VULCANIA nel 1963:
“… gli equipaggi delle navi italiane furono abbandonati a sé stessi per 40 giorni, sopravvissero trovando ospitalità presso lontani parenti immigrati e amici degli amici… ma soprattutto trovarono cibo, assistenza, solidarietà e conforto spirituale presso i conventi francescani e benedettini delle grandi città dell’Argentina e Brasile…!” Quel fatto memorabile é riportato anche nello scritto che segue.
da Storia. R. Minotauro. Il compagno genovese Giordano Bruschi, racconta di sé, del Compagno Segretario Generale della Film Cgil Renzo CIARDINI e dello sciopero dei Lavoratori del Mare del 1959.
GIORDANO BRUSCHI già Segretario nazionale FILM CGIL
Questa è una storia che mi ha sempre visto a fianco al compagno ricordato in tutti gli interventi di oggi: Ciardini. Chiederei alla Fondazione di Vittorio di fare la ricerca su quello che ha significato, tra gli anni quarantacinque e cinquanta, l’attività dei Consigli di Gestione nel nostro paese. Renzo Ciardini nel 1946 venne a Genova dalla sua Livorno e diventò il coordinatore regionale dei Consigli di Gestione: a Milano c’era l’ingegner Leonardi e a Napoli protagonista dei Consigli di gestione un certo Giorgio Napolitano, diventato poi Presidente della Repubblica. Ci fu un tentativo nel dopoguerra di fare assumere alla classe operaia un ruolo nazionale, un ruolo dirigente come lo fu politicamente nella Resistenza. La resistenza è stata un fatto nuovo perché l’immensa partecipazione popolare ha tolto alle vecchie classi dirigenti l’esclusività delle scelte politiche e nel dopoguerra, il mio incontro con Ciardini fu proprio alla San Giorgio una delle grandi fabbriche genovesi.
Era il 1947 quando egli venne a costituire il Consiglio di gestione di una fabbrica che doveva essere riconvertita da produzione bellica a produzione di pace; la stessa sorte che toccò all’ILVA e all’Ansaldo. Ciardini mi chiese di entrare nel Consiglio di gestione della San Giorgio. Fu la nostra prima collaborazione. Io vi entrai all’età di 24 anni; i nostri ispiratori e maestri furono due personaggi della Cgil Vittorio Foa e Bruno Trentin. C’è sempre stato questo filo di continuità che noi applicammo nella vertenza della San Giorgio a cui ci tocco’ di partecipare. Lui venne a fare una assemblea, era un ironico toscano, quando raccontava di Borgo Cappuccini del filone anarchico. I livornesi sanno di cosa si tratta. Venne in questa assemblea a fare una proposta: frigoriferi e lavatrici al posto dei cannoni. Genova dovrebbe ricordare queste vicende e i personaggi come Franco Antolini, che era il dirigente ispiratore dei consigli di gestione, un grande economista, consigliere comunale e provinciale scomparso purtroppo il 4 luglio 1959 nel pieno della lotta dei marittimi. Genova ha avuto un gruppo dirigente politico di stampo burocratico ma anche una serie di compagni che hanno anticipato i tempi.
Questo discorso serve a capire perché nel 1959 i marittimi ebbero questa capacità di ribellione per le ingiustizie subite, che era contemporaneamente accompagnato da una proposta nuova. Vorrei che si ripubblicasse un libro scritto da Renzo Ciardini: “Un sindacato di classe dei lavoratori del mare italiani”; si tratta della relazione del congresso costitutivo del 3 aprile 1959 con una impostazione di una politica sindacale unitaria della Cgil Porti, flotta e cantieri questa è stata la costante della nostra azione, non la difesa della categoria ma una visione generale di un settore fondamentale, Genova sa quanto patisce oggi la mancanza di una politica economica di questo tipo. L’esperienza dei consigli di gestione è stata determinante per tutta una serie di compagni dell’Ansaldo, dell’Ansaldo San Giorgio perché ci siamo formati con questa idea che noi dovevamo esprimere sia le rivendicazioni immediate dei lavoratori ma anche le prospettive di un’altra società.
C’è insomma un periodo di storia che andrebbe ancora approfondito. Ciardini nel 1958 si ricordava di me, delle lotte della san Giorgio. Quando Di Vittorio, che era il più ostile nella Cgil alla fondazione del sindacato dei marittimi della Cgil (aveva una passione storica per Capitan Giulietti in quanto erano stati insieme nel sindacalismo nazionalista con Corridoni nel 1910 – 1915) Di Vittorio aveva questa ossessione dell’unità e diceva che la Film è l’unica categoria italiana non ancora divisa, potrebbe essere il nucleo di una nuova unità sindacale. Ma poi Rinaldo Scheda, Fernando Santi, Brodolini, che furono gli amici che ci aiutarono moltissimo nel primo congresso, lo convinsero che dopo la morte di Giulietti, nel marasma, il disastro, l’abbandono dei lavoratori, la Cgil doveva innalzare la sua bandiera anche sulle navi. Ciardini mi disse “abbiamo fatto tante cose insieme, vuoi tentate l’avventura dei marittimi?”.
Allora eravamo molto obbedienti, venivamo tutti da militanza di partito, non era facile però per un metalmeccanico come me, ma anche come Ciardini, entrare in una categoria assolutamente nuova, diversa come quella dei marittimi. Le vertenze sindacali possono nascere anche in modo strani. In quel periodo facevamo i viaggi a Roma. Non usava l’aereo per i dirigenti sindacali. Andavamo in macchina; Ciardini era un bravo guidatore e ricordo che mi pose, andando al Direttivo della Cgil, se con la mia esperienza di lotte sindacali potevo affrontare due problemi cruciali: primo, lo sciopero all’estero, io non ci avevo mai pensato; nessuno di noi aveva mai pensato ad una iniziativa del genere. Fermare le navi nei porti stranieri?
Lungo i tornanti del Bracco, in quel famoso viaggio in macchina, arrivammo ad una soluzione: io mi ricordo sempre delle mie esperienze della Resistenza, rammentavo i famosi me
ssaggi in codice. A bordo c’era la censura e l’autoritarismo. Sulle navi c’era la galera perché il comandante poteva mettere in galera il marittimo disubbidiente. Dico questo per ricordare il clima in cui eravamo. Il comandante aveva il diritto di leggere prima tutte le lettere, la Corrispondenza che arrivavano ai lavoratori. Abbiamo così ripetuto la storia dello sbarco in Normandia, cioè ci inventavamo i messaggi, esempio “Giovanni ha vinto il concorso”. Il comandante si complimentava con il marittimo, bravo hai trovato il posto di lavoro per tuo figlio e invece era l’ordine di sciopero; perché il “fermi al primo approdo” era quello.
Oggi anche Antonio Gibelli dalle pagine del Secolo XIX racconta molto bene quei fatti: come è possibile che contemporaneamente in tutti i porti del mondo da New York a Dakar le navi si fermassero? Abbiamo messo sulle spalle di quei lavoratori un peso enorme: hanno dovuto combattere con i consoli, con gli ambasciatori, con la polizia. Pensare ad uno sciopero della Bianca C. di 5 giorni nel Porto di Barcellona con il Presidente Segni che telefonava a Francisco Franco e diceva “tagliate i cavi”, questo sciopero non s’ha da fare, era come un novello Don Rodrigo italiano.
È stata, ed è la cronaca che lo dice, una cronaca eccezionale. La seconda cosa che mi chiese Renzo fu: “se vogliamo vincere la battaglia dobbiamo colpire Costa. Devi trovare il modo di fermare le navi di Costa”. Non ce l’avremmo fatta se non ci avesse aiutato Angelo Costa. L’unica cosa che mi sono sentito di fare è stata la comunicazione. Ho stampato un giornaletto, famoso, era il “lavoratore del mare” fondato da Giuseppe Giulietti. Sul giornale c’era una parte dedicata a una inchiesta: l’inchiesta di una nave di Costa, vecchia senza più ammortamenti la Anna C., e il giornale diceva ai marittimi perché bisognava fare il contratto per avere migliori condizioni di lavoro. Angelo Costa si arrabbiò Moltissimo e fece una cosa che forse oggi non ripeterebbe più: prese il giornale della Film Cgil ne ristampò 6 mila copie e lo inviò non solo sui bordi ma lo mandò anche nelle case tra i famigliari dei marittimi perché c’era il convincimento, c’è ancora oggi in qualche grande imprenditore, io sono il Dio, ti do il lavoro e tu devi fare quello che dico io; allora c’era questa concezione paternalistica dell’aiuto che il padrone dava al lavoratore, il quale doveva ringraziare il proprio datore di lavoro.
Quello che non eravamo riusciti a fare e cioè dare il giornale a tutti i marittimi, lo fece l’armatore. E poi mi domandò una volta: “ma perché hanno scioperato proprio le navi?”. Sulla Federico C. avevamo 10 iscritti su 290 marittimi non avevamo un iscritto sulla Bianca C. e nemmeno sulla Anna C. Ma se lei fa di queste diffusioni straordinarie, probabilmente i lavoratori capiscono da che parte bisogna muoversi. Da allora il binomio Ciardini-Costa ha funzionato. Costa voleva raggiungere un raccordo e i Fassio e i Lauro erano i più oltranzisti. Eravamo a metà di luglio, era una estate torrida. Eravamo al 37esimo giorno di sciopero e Ciardini convocò, il direttivo: bisognava trovare una mediazione, un compromesso. Non potevamo andare ad oltranza.
Convenimmo che non era fondamentale, anche se ci aspiravamo molto, l’aumento salariale. Quello che contava era la prosecuzione della lotta nei nuovi rapporti di forza e allora la cosa che sorprese Costa, sorprese anche i Ministri. Ciardini si rese disponibile a firmare un contratto solo con una clausola che non ci sarebbero state rappresaglie sindacali. Lauro Achille disse subito di no, però Costa alla fine lo convinse. Gli stava più a cuore il livello salariale. Scalfari sull’Espresso disse che la vertenza si era rivelata una catastrofe per i lavoratori: fu ottenuto solo l’1% in più dopo 40 giorni di sciopero.
Però la verità venne subito a galla. All’arrivo a Genova la famiglia Costa prese una posizione dura cancellando, licenziando 115 marittimi della Anna C., la nave che si era fermata in Spagna a Las Palmas, Costa si giustificava con le motivazioni di oggi. Si trattava di contratti a viaggio. È finito il viaggio, non c’è rappresaglia sindacale, tutto va secondo le regole normali. Angelo Costa accettò di ascoltarci. Per noi era una cosa tremenda perché aver fatto uno sciopero di quel genere e trovarsi sulle spalle questi licenziamenti significava la sconfitta vera della vertenza. Il fatto quale era? C’era la precarietà. Nei marittimi come succede oggi in tante categorie di lavoratori, c’era la precarietà: ecco l’attualità della vertenza di allora, dei valori che oggi la Cgil con Epifani sa difendere. Insomma andammo da Costa con la documentazione: questi marittimi infatti da 10/15 anni si imbarcano sempre sulle sue navi. Ci fu un conflitto in famiglia. La domanda che facemmo a Costa era questa: “Peppino Di Vittorio ci ha raccontato che quando lei firma un accordo, lo rispetta sempre perché è un uomo corretto e leale” e lui rispose immediatamente “io sono sempre lo stesso uomo descritto da Giuseppe Di Vittorio”.
Alla vigilia del ferragosto del 1959 c’era Graziella Torrini la segretaria del sindacato che riceve una telefonata “Giordano, c’è Angelo Costa al telefono”. Ci comunicò che aveva deciso di reintegrare i marittimi cancellati dal turno e di riscriverli a turno. Ecco la svolta di quella vertenza, la vittoria del sindacato, il cambiamento dei rapporti che c’erano tra il padrone del vapore, come li descriveva Scalfari, e i disperati dei porti, come li descriveva Vittorio Emiliani. Costa chiese un incontro con Ciardini. E da allora per 17 anni c’è sempre stato un patto di consultazione, ognuno difendendo le proprie posizioni però nel rispetto reciproco e questo è stato il grande cambiamento.
Ci abbiamo messo 17 anni; però il programma del Congresso Cgil del ’59 l’abbiamo realizzato. Abbiamo realizzato la riconversione, non abbiamo avuto timore di mettere ai voti il disarmo della Michelangelo, l’ho fatta io l’assemblea a Gibilterra conclusa con 665 voti a favore, 5 contrari, 6 astenuti. Avevamo trovato una soluzione generale complessiva e cioè la continuità del rapporto di lavoro, la conquista storica con la quale cessava ufficialmente la precarietà e i lavoratori anche durante il periodo di attesa imbarco i lavoratori percepivano il salario. Oggi possono sembrare utopie, sogni.
Abbiamo ottenuto l’ordinazione di 65 navi ai cantieri. Fu la grande operazione di una riconversione mai più verificatasi. Pensate, alle navi container, ai traghetti e all’attività delle crociere. Avevamo indicato una nuova prospettiva nazionale di prosperità per il porto e per le città marinare. Poi le cose sono andate come sono andate, perché le aziende pubbliche, la Finmare l’Iri non sono state in grado di realizzare quello che i marittimi, con quella nostra vertenza, avevano creato. Quella con Ciardini era una grande squadra. A me piace tanto la canzone che parla dei mediani, perché ci sono nelle squadre le punte che fanno goal però se non gli passano i palloni buoni. Noi a Ciardini abbiamo passato tanti palloni buoni.
Ricordo i marittimi Sironi e Carotenuto, che vanno a Karadu davanti all’ambasciatore e ascoltano gli articoli del codice della navigazione che proibisce lo sciopero. Questi operai dal taschino tirano fuori
la Costituzione della Repubblica Italiana e all’ambasciatore leggono l’articolo 39 che garantisce il diritto di sciopero. Questi sono stati alcuni degli straordinari protagonisti di quelle lotte; così a New York i compagni del Vulcania, del Giulio Cesare riuscirono ad arrivare sino ad a Eisenhower Presidente degli Stati Uniti. La Società Italia aveva mandato a New York un vecchio rottame fascista per chiedere dopo 29 giorni, l’applicazione della legge per l’immigrazione che stabiliva che le navi andavano allontanate. I compagni, i fratelli di Brooklyn ottennero un decreto speciale per salvaguardare il diritto di sciopero dei marittimi italiani. Sono cose che ai giovani andrebbero raccontate. A Dakar c’erano due navi. Il Conte Grande e Conte Biancamano. Noi li tenevamo sorretti da continue telefonate, ma erano soli laggiù. Eppure hanno resistito per 40 giorni. Pensate a cosa è stata questa battaglia, il valore che ha ancora oggi. Così come sono ancora attuali le nostre proposte: abbiamo detto nel ’59 di seguire anche per Genova l’esempio di Rotterdam, di Anversa per l’autofinanziamento dei porti attraverso le entrate fiscali che derivano dal traffico marittimo. Purtroppo siamo ancora dopo cinquanta anni ai tentativi di ottenere questo riconoscimento. Ringrazio profondamente la Fondazione Di Vittorio, i relatori che ci hanno reso più meriti di quelli che forse meritiamo. Mi auguro che a questa iniziativa ne seguano altre. Questi valori di lotta di cinquanta anni fa sono attuali. Non è retorica: veramente questi compagni marittimi, questa squadra di mediani, ha realizzato un pezzo di storia del nostro Paese.
Carlo GATTI
Rapallo, 27 Febbraio 2020
AQUILEIA ROMANA - 2a Parte - IL PORTO
LA STORIA DEL PORTO DI AQUILEIA
Emporio Cosmopolita dell'Impero Romano
AQUILEIA Romana rivestiva una posizione geografica assolutamente strategica nella difesa dell’Impero che era già all’epoca della sua fondazione minacciata ad Est da popolazioni barbariche che minacciavano i suoi confini.
Situata nell’attuale Friuli-Venezia Giulia, Aquileia è stata per molti secoli centro nevralgico dell'Impero Romano nel mediterraneo, centro politico-amministrativo e capitale della X Regione augustea, Venetia et Histria, nonché prospero scalo e ricco emporio di merci in transito. Aquileia può essere considerata uno dei più importanti siti archeologici dell’Italia Settentrionale, dal 1998 é patrimonio mondiale UNESCO.
Porto di Aquileia
A partire dal periodo immediatamente successivo alla fondazione della colonia romana nel 181 a. C. Aquileia svolse un ruolo fondamentale nei commerci marittimi dell’area del nord Adriatico.
Tuttavia, per due secoli circa, i rapporti commerciali coinvolsero soltanto la via marittima e una limitata parte dell’entroterra della città, in seguito i romani capirono ed attuarono un sistema viario di cui riportiamo qui sotto una cartina esplicativa di quanto l’Impero fosse strategicamente preparato a dominare vaste zone con la propria presenza e rapida mobilità.
Aquileia divenne quindi il CENTRO del sistema viario della regione per la sua posizione all’incrocio di più strade, tra cui le maggiori erano la via Postumia, la via Iulia Augusta e la via Gemina; era inoltre il punto di partenza delle strade che si diramavano verso il bacino danubiano e la via dell’ambra che giungeva dal mar Baltico.
RACCORDO CON NOME
LA VIA ANNIA
1. 1.PADOVA …………………………………….. La strada da Patavium a Bononia (Bologna).
2. 2.PADOVA …………………………………….. La Padova a Vicenza (Vicetia)
3. 3.PADOVA ………………………………………VIA AURELIA
4. 4.(Tra San Bruson e Marghera)…………………VIA POPOLLIA
5. 5.ALTINO ………………………………………. VIA CLAUDIA AUGUSTA
6. 6.CONCORDIA SAGITTARIA………..Bruson-Marghera nel punto mansio Maio Meduaco ad XII
7. 7.CONCORDIA SAGITTARIA………. Da Iulia Concordia-Aguntum e Vipiteno e Virinum
8. 8.AQUILEIA ………………………………….. Da Aquileia ad Aguntum (Lienz) e Vipitenum
9.AQUILEIA ………………………………….. Da Aquileia a Santico e Virunum (Klangefurt10.AQUILEIA ………………………………… La strada da Aquileia a Iulia Emona (Lubiana)
10.AQUILEIA…………………………………. Da Aquileia a Pola (via Flavia da Trieste a Pola)
Da Aquileia a Tarsatica (Fiume)
IL PORTO DI AQUILEIA: DATI ANTICHI E RITROVAMENTI RECENT!
NORD
SUD
Fig. I. Pianta generale di Aquileia con posizionamento dei siti citati nel testo (da BERTACCHI 1980a): I. banchina portuale (loc. Santo Stefano), 2. ponti; 3. scavo in concessione alla EFR; 4. decumano; 5. circo; 6. foro; 7. saggio 1989 nel Campo sportivo a cura della Soprintendenza; 8. porticato; 9. porto canale (scavo Brusin); 10. muro di controsponda del porto; 11. magazzini; 12. mura post-attilane; I3. teatro; I4. fiume Natissa; 15. terme; I6. anfiteatro; 17. horrea; I 8. mercati tardo-antichi; I 9. banchina del fondo Pasqualis (scavo Soprintendenza); 20. complesso basilicale.
PORTO FLUVIALE
Il bacino del porto era formato dalla confluenza di due corsi d’acqua, che si univano nella zona dell'attuale frazione di Monastero; è stato possibile stabilire ciò grazie al ritrovamento nella zona settentrionale di due ponti che segnalano il passaggio di due distinti corsi d'acqua destinati a confluire più a sud. Uno di questi era un fiume di risorgiva chiamato Roggia della Pila, l’altro aveva una portata maggiore perché riceveva le acque del Natisone e del Torre. Attualmente il Natisone non attraversa più la città, poiché confluisce nell'Isonzo; invece ciò che rimane del vecchio corso d'acqua è il fiume Natissa.
La rete di canali artificiali unita ai corsi fluviali presenti rese facile nell'antichità il collegamento con il mare e probabilmente consentì la circumnavigazione della città. Infatti su quasi tutti i lati sono state ritrovate delle strutture portuali collegate fra di loro; è incerta solamente la presenza di un percorso verso ovest.
Porto Fluviale, area archeologica di Aquileia. Foto di © Gianluca Baronchelli
Oggi il Natissa scorre placido e silenzioso, ma una volta era il ben più imponente fiume Natisone. Fu l’imperatore romano Giuliano a deviarne il corso. Il largo bacino del fiume, ampio circa 50 metri, destò l’interesse degli antichi romani che lo trasformarono in un approdo strategico di notevole rilevanza economica e militare per i loro traffici mercantili nel Mediterraneo e per lo spostamento delle proprie milizie attraverso l’Adriatico, visto il suo vicino sbocco al mare.
L’attuale livello dell’acqua si trova ad un livello più basso, ciò permette passeggiate lunghe e tranquille lungo gli antichi argini della Via Sacra ottenuta sullo sbancamento dell’alveo del fiume stesso.
Lo scenario ereditato dall’antichità permette al visitatore di immergersi in questa atmosfera ed immaginare lo svolgersi del lavoro portuale tra navi, banchine e magazzini: grano, olio, anfore e tessuti provenienti da ogni parte del mondo osservando in particolare le banchine con tutti i loro accessori, (anelli, bitte, scalette, iscrizioni su pietra ancora intatte) elementi che parlano della tecnica di un tempo che ha fatto da maestra alla tecnologia ancora oggi utilizzata nei porti moderni.
La cosiddetta banchina occidentale, in pietra d’Istria, é considerata la più importante perché conduce al Foro della città. Percorrendo questo tratto portuale ci s’imbatte nella zona che fu del mercato pubblico e in quei particolari edifici in mattone che erano utilizzati come magazzini per lo stivaggio delle merci in arrivo, in transito o in partenza. In questa direzione si giunge alla Basilica medievale.
Aquileia - La via Sacra
La VIA SACRA altro non é che un viale alberato lungo il fiume che é percorribile a piedi, una passeggiata archeologica posta nell’alveo del fiume e lunga circa un chilometro, che è stata creata con la terra di risulta degli scavi e lungo la quale sono stati collocati resti architettonici e monumentali provenienti dagli scavi delle mura e del foro.
Il viale ricalca l’andamento dell’antico corso d'acqua formato dalla confluenza del Natiso cum Turro, che in questo tratto aveva un letto largo m. 48. È oggi visibile il lato occidentale delle banchine del porto, con strutture che misurano 380 m di lunghezza.
Il molo è disegnato da due banchine, poste ad altezze diverse per ovviare ai dislivelli delle maree. La banchina superiore conserva la propria architettura d'ormeggio orizzontale e sporgente, quella inferiore evidenzia ormeggi verticali e incassati nei blocchi che rinforzavano la sponda.
Le strutture sono in pietra d'Istria, resistente all'azione corrosiva delle acque salmastre.
Sono ben visibili i magazzini di stoccaggio delle merci e il tratto iniziale delle strade lastricate perpendicolari alla riva che permettevano di trasportare i prodotti dalle banchine al Foro poco distante, dove venivano venduti.
Le strutture portuali mostrano anche tracce di difese militari, si suppone a motivo dell’invasione di Aquileia da parte di Massimino il Trace nel 238 d.C., mentre ulteriori cambiamenti risalgono all’assedio di Giuliano l’Apostata nel 361 d.C.
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Resti delle mura e dei magazzini sulla Via Sacra
Ecco come ci viene storicamente descritto l’evoluzione costruttiva in due fasi storiche diverse:
“Il porto fluviale fu completamente ristrutturato all’inizio del I secolo d.C., con un nuovo complesso di banchine e un lungo edificio retrostante, che si apriva verso il fiume. Tre rampe, oblique rispetto al prospetto delle banchine, consentivano il collegamento con la viabilità urbana. Ulteriori trasformazioni risalgono all’età di Costantino il Grande, pochi anni prima che alle banchine si sovrapponessero le nuove mura di cinta, decretando, assieme al restringimento dell’alveo, la progressiva defunzionalizzazione del porto”.
PORTO FLUVIALE Descrizione Tecnica
Banchine: erano costituite da un poderoso sistema di lastroni verticali di calcare sormontati da blocchi parallelepipedi a incastro, che costituivano il piano di carico e scarico superiore. A poco meno di due metri dalla sommità della banchina correva un largo marciapiede, che doveva servire alle attività di carico per imbarcazioni di piccola stazza. Dal livello inferiore si staccavano le rampe che si congiungevano alle strade urbane, in corrispondenza delle quali vi erano due ampi piani inclinati che permettevano di accedere ai retrostanti magazzini.
Una curiosità: sulla superficie dei marciapiedi, sono incisi talvolta dei piccoli schemi per il gioco, utilizzati dai marinai e degli addetti alle attività portuali come passatempo.
Anelli di ormeggio: ancora oggi possiamo notare sulle banchine, a distanze regolari, alcuni blocchi parallelepipedi sporgenti, in alcuni casi con l’estremità arrotondata, caratterizzati da un foro passante verticale. Secondo gli studiosi poteva trattarsi di anelli d’ormeggio per le imbarcazioni oppure di fori per l’inserimento di gru lignee per il carico e lo scarico delle merci. Sul piano di carico inferiore, esistevano invece dei blocchi con foro passante orizzontale, più piccoli dei precedenti, utilizzati per fissare le cime d’ormeggio dei navigli.
Resti delle mura: sopra le banchine si possono facilmente riconoscere i resti di una grossa struttura, spessa quasi tre metri sovrappostasi in età tardo-antica (IV secolo) alle strutture portuali. Il fiume, o ciò che rimaneva di esso, forniva così un ulteriore presidio alle difese murate, che erano dotate anche di torri. In una fase ancora successiva (V secolo?) fu costruita un’altra linea di mura di cinta a potenziamento della precedente, ancora più avanzata in ciò che rimaneva dell’alveo fluviale.
Le tre foto sopra mostrano una banchina lunga ed ampia molto ben conservata che ci offre una eloquente descrizione della portualità romana di quel tempo. Al porto fluviale lungo le sponde del Natissa confluivano le acque del fiume Torre e Natisone, con la banchina a doppio livello per essere usata da imbarcazioni di stazza diversa e per contenere il flusso delle maree. Largo 48 metri e lungo circa 350 era costruito con grandi blocchi di pietra d’Istria squadrati, con anelli per l’ormeggio delle navi.
Resti di magazzini: alle spalle della banchina portuale, si sviluppava un lunghissimo edificio, di cui restano i muri perimetrali in laterizio dei lati lunghi. In rapporto alla lunghezza, che superava addirittura i trecento metri, la larghezza era assai limitata, non più di tredici metri. Il complesso, costruito all’inizio del I secolo d.C. demolendo in parte le retrostanti mura di cinta repubblicane, serviva probabilmente come magazzino per lo stoccaggio delle merci, forse con annessi ambienti riservati ad uffici. Vi si accedeva da almeno due ingressi dotati di gradinata. È probabile che le rampe di collegamento con la città passassero sotto l’edificio. In tarda età costantiniana, gli spazi del grande edificio furono ulteriormente ampliati: ne sono testimonianza le fondazioni di pilastri che tuttora si possono riconoscere all’interno e all’esterno del perimetro originario.
Giungeva ad Aquileia ogni tipo di materiale e di viveri: legna, marmi, metalli, vino, olio, lana, spezie, bestiame e addirittura schiavi. Grazie all’edificazione del porto e alla sua posizione strategica, Aquileia si confermò come uno dei più grandi centri nevralgici dell’Impero Romano. Il ferro, che veniva importato dalle miniere del Norico, veniva poi lavorato ulteriormente nelle officine della città; la stessa cosa accadeva per il vetro che era poi esportato fin nelle regioni danubiane. Vi erano inoltre industrie che si occupavano della trasformazione del legname, proveniente dalle più diverse regioni dell’impero.
Un altro importante prodotto era la lana, che giungeva dai grandi pascoli dell’Istria interna e prima di essere esportata veniva lavorata nei vestiarii della città; sempre riguardo all’industria tessile, vi erano anche famose tintorie.
L’archeologo Giovanni Brusin
Grazie a studi recenti gli archeologi sono venuti a conoscenza del fatto che questo primo porto era più a occidente rispetto a quello attualmente visibile: ciò è dovuto allo spostamento del fiume verso est.
Il porto, scoperto nella parte orientale della città, ha un bacino che dista dal mare circa 10 chilometri; sono state ritrovate e scavate entrambe le sponde, ma quella occidentale, la più vicina alla città, ha rivelato di essere quella meglio attrezzata e perciò è quella ancora oggi visibile.
Aquileia - Porto fluviale
Il porto fluviale è stato scavato per la prima volta verso la fine dell’Ottocento da Enrico Maionica, poi l’opera è stata portata avanti da Giovanni Brusin negli anni Trenta.
La sistemazione del porto monumentale risale probabilmente alla fine del I secolo d. C. Giovanni Brusin l'aveva ipotizzato studiando i moduli dei mattoni, riferibili all'età di Claudio per la struttura e anche per la fama di questo imperatore in campo di impianti portuali (Porto di Claudio a Roma). Inoltre si può anche osservare che la parte settentrionale (abitata) fu abbandonata verso la fine del I secolo a. C. con l’inizio della grande impresa edilizia. Ancora non si sa se la costruzione della banchina orientale fu contemporanea a quella occidentale. Sono in corso studi e convegni per dare risposte a questo ed altri importanti quesiti. Ma si sa, l’archeologia non ha premura!
Porto fluviale - Banchina occidentale
La banchina della sponda occidentale del porto è lunga 380 metri ed è costituita da lastre verticali in pietra d’Istria. Vi è un primo piano di carico sovrapposto a questi lastroni e composto da blocchi con grandi anelli di ormeggio a foro passante verticale che abbiamo visto nella foto; il secondo piano di carico, che si trova circa 2 metri più in basso, è costituito da un marciapiede lastricato largo circa 2 metri e fornito anch’esso di anelli di ormeggio a foro passante orizzontale. Il fatto di avere due diversi piani di carico rendeva possibile sia che fossero accolte imbarcazioni di stazza grande o piccola, ma é più probabile che il porto venisse utilizzato anche nei periodi di bassa marea.
“Dalla banchina partono tre vie di accesso alla città che conducono ognuna ad un diverso decumano: l’accesso posto più a sud è costituito da una gradinata, mentre gli altri due sono strade lastricate in pendio (questo perché l'angolazione delle vie con la linea del porto non permettesse la salita dell'acqua in caso di piena del fiume); queste ultime due strade sono dotate di coppie di rampe perpendicolari che conducono ai magazzini”.
Aquileia - La riva orientale del porto
La riva orientale è stata scavata per un breve periodo negli anni Trenta e ne sono stati riportati alla luce poco più di 150 metri, anche perché ad un certo punto la struttura sembra interrompersi brutalmente. La banchina è molto stretta e composta da parallelepipedi di pietra, vi si notano solo quattro scalinate inserite nel muro e alcune pietre di ormeggio; dietro sono situati degli edifici, possibili magazzini o uffici.
Analizzando le diversità di struttura tra le due banchine, Brusin è giunto alla conclusione che quella occidentale sia anteriore; bisogna anche notare che la banchina orientale si trovava in una zona suburbana, mentre quella occidentale era più vicina al foro e al centro della città così da necessitare forse di un aspetto monumentale. Il porto ha subito nel tempo diverse modifiche che dimostrano la vitalità del centro e anche i molti sforzi per adeguarsi agli avvenimenti storici del tempo.
Le prime opere di difesa, che sono state realizzate sulla banchina occidentale, risalgono quasi sicuramente al 238, anno del bellum aquileiese, e riflettono la crisi politica e militare del tempo; in seguito queste strutture hanno anche influito sulla costruzione dei magazzini retrostanti.
Probabilmente nel 361, quando la città si schierò con Costanzo II e fu assediata da Giuliano l’Apostata, il fiume fu deviato per motivi strategici e di conseguenza la portata d’acqua diminuì. Queste opere provocarono poi un’alluvione, che fu la causa dell’abbandono del quartiere orientale. In epoca tardo-antica, verso la fine del IV secolo, furono realizzate altre opere difensive e di queste mura è stato ritrovato il lato orientale sulla banchina; si pensa che queste fortificazioni siano state costruite in grande fretta, anche perché i materiali utilizzati sono stati quelli recuperati da altre strutture (trabeazioni marmoree, iscrizioni votive e onorarie, colonne, ...).
L’intero porto fluviale, anche in seguito alle numerose invasioni barbariche (quella di Alarico nel 410, di Attila nel 452, di Teodorico nel 489 e infine dei Longobardi nel 568) e alle lotte dei pretendenti per il trono di Roma, fu così trasformato in una pura opera difensiva.
Aquileia - Scavi al porto
Analizzando il periodo che va dal IV al VI secolo d. C., si può osservare che Aquileia era il porto principale dell'alto Adriatico all'inizio, mentre sembra essere del tutto scomparso alla fine di quest'epoca.
Sono molte le testimonianze letterarie riguardanti il IV secolo e tutte tendono a sottolineare la grande vitalità di Aquileia, soprattutto per il suo ruolo commerciale: punto di partenza dei grandi itinerari marittimi e centro di esportazione di molti prodotti. Erano molto importanti e frequenti i rapporti con l'oriente, anche perché nella città vi erano comunità orientali molto dinamiche che erano ancora presenti nel V secolo.
Tuttavia già verso la fine del IV secolo il ruolo di Aquileia sembra essere cambiato: alcune grandi importazioni, come quelle di grano, scompaiono dalla città in favore di altri centri; continua invece il commercio di beni di lusso. Altri elementi che testimoniano l'evoluzione funzionale del porto di Aquileia sono episodi militari che caratterizzano la storia della città: infatti questa struttura assume uno scopo difensivo a scapito delle attività portuali poiché viene riempita progressivamente con le mura.
A partire dal VI secolo Aquileia e il suo porto cominciano a non essere più citati nelle opere letterarie, perché Grado, Venezia e Ravenna assunsero probabilmente sempre più importanza come scali marittimi.
A sud della città antica, nel tratto in cui il fiume Natissa scorre da est verso ovest, è stato ritrovato un complesso che è stato riconosciuto come il mercato pubblico; studiando il materiale usato e la sua struttura, si pensa che sia stato attivo per moltissimo tempo, dall’inizio dell’età imperiale fino a quella tardo-antica.
Ecco com'era l'antica Aquileia
FORO
Bibliografia:
Aquileia e il suo territorio agli albori del II Secolo a.C. Maselli Scotti
Studio Archeo Antico - Carre- Maselli - Scotti
Aquileia sulle tracce dell'Impero
Aquileia Porto fluviale.webarchive
Aquileia Romano Impero
Dalla via Annia verso le altre direzioni
Strutture portuali- "Antichità Altoadriatiche" Maselli Scotti, P.Ventura
Carlo GATTI
Rapallo, 18 Febbraio 2020
AQUILEIA ROMANA -1a Parte
AQUILEIA ROMANA – STORIA – FORO ROMANO – BASILICA – MOSAICI - MUSEO
Aquileia può essere considerata uno dei più importanti siti archeologici dell’Italia Settentrionale, dal 1998 patrimonio mondiale UNESCO.
Importante città militare di frontiera fin dall’epoca repubblicana, divenne una delle capitali dell’Impero romano sotto Massimiano. Nel 148 a.C. da Aquileia ebbe inizio la costruzione della via Postumia che congiungeva l'Adriatico con il Tirreno presso Genova. La strada era una via consolare romana fatta costruire dal console romano Postumio Albino nei territori della Gallia Cisalpina, l'odierna Pianura Padana, per scopi prevalentemente militari.
Nel 452 d.C. fu infine distrutta dalle orde degli Unni di Attila, non tornando mai più agli antichi splendori.
IMPERIUM
Aquileia romana, situata nell’attuale Friuli-Venezia Giulia, è stata per molti anni centro nevralgico dell'Impero Romano nel mediterraneo, centro politico-amministrativo e capitale della X Regione augustea, Venetia et Histria. Aquileia fu fondata nel 181 a.C. nei pressi del fiume Natisa, come colonia da parte dei triumviri romani Lucio Acidino, Publio Scipione e Gaio Flaminio che erano incaricati di sbarrare la strada ai barbari confinati, (Carni e Istri) che minacciavano i confini orientali d’Italia. Al seguito dei triumviri si spostarono circa 3.500 fanti come coloni con le loro famiglie.
Provenivano dal Sannio e con le loro famiglie raggiungevano circa 20.000 persone.
CAPITOLIUM
UN PO’ DI STORIA
Nell’89 a. C. la colonia di Aquileia divenne municipio, si espanse notevolmente e si chiuse entro massicce cinte murarie diventando sempre più ricca e sicura.
Per la verità, la sua rilevanza politica va attribuita alla costruzione del porto fluviale, con il quale la città acquistò importanza come emporio commerciale diventando “oggetto del desiderio” da parte dei popoli barbari che si ammassavano alle frontiere (limes) per entrarne in possesso.
Lo stesso imperatore Augusto si recava spesso ad Aquileia con la moglie Livia che amava bere il vino Pucino che aveva la fama di garante di longevità. Secondo Plinio, l’imperatrice ne beveva tutti i giorni e proprio per questo motivo sarebbe vissuta fino ad 87 anni (età straordinaria per l’epoca).
Aquileia conobbe anche anni difficili. Il periodo compreso tra il 165 ed il 189 d. C. fu contrassegnato da una violenta pestilenza che in tutto l’Impero portò alla morte 5 milioni di persone (cifra discordante e mai confermata). Con ogni probabilità la pestilenza venne portata dai legionari romani che per ragioni militari orbitavano intorno a quella regione.
Nella primavera del 168 d.C., nel pieno della pestilenza, Marco Aurelio e suo fratello Lucio Vero decisero di invadere Carnuntum (si trova a circa 40 km da nell’odierna Vienna). Aquileia divenne fondamentale nella vicenda, poiché era tappa intermedia della spedizione romana.
Durante l’inverno successivo, Marco Aurelio, ritiratosi temporaneamente dal fronte di battaglia, decise di ritirarsi ad Aquileia. Qualche settimana dopo fu però costretto ad abbandonare la zona insieme a suo fratello d’adozione Lucio Vero e alla sua scorta personale a causa dell’aumento dell’epidemia di peste. La morte per Vero giunse poco dopo la fine delle ostilità, agli inizi del 169, secondo alcune fonti a seguito di un ictus, a non molta distanza da Aquileia, nei pressi di Altino. Autori moderni sostengono invece che il decesso fu forse causato dalla stessa peste, mentre era impegnato in nuove manovre militari lungo il fronte settentrionale.
Aquileia, come si é visto, fu più volte soggetta a tentativi di conquista. Fu costretta infatti a difendersi dagli attacchi dei Marcomanni e dei Quadi, entrambi respinti con successo.
Aquileia fu anche teatro di una battaglia tra romani…
Massimino il Trace, sceso dalla Pannonia, tentò di assediarla, poiché infuriato per l’elezione del tredicenne Gordiano a imperatore. Nella primavera del 238 d. C., Massimino tentò di sostare ad Aquileia con il suo esercito per riposare e fare approvvigionamenti. La città, però, era fedele a Roma e alle disposizioni del suo Senato, quindi chiuse le porte, negando sostegno a Massimino. L’invasore cercò a quel punto di conquistare la città. Sebbene il numero degli invasori fosse superiore a quello degli aquileiesi, l’assedio risultò difficile e di lunga durata a causa della penuria dei viveri, che causò l’ostilità delle truppe. Protagonista della difesa di Aquileia fu il senatore Rutilio Pudente Crispino che, incaricato dal Senato, arringò la popolazione di Aquileia contro Massimino. La resistenza della città durò fino a quando le truppe di Massimino, stanche dal protrarsi della battaglia, non si ribellarono, uccidendo il loro comandante e suo figlio Massimo.
Con l’imperatore Massimiano, eletto nel 286 d. C. come Augusto d’Occidente, furono edificate imponenti strutture e la città fu dotata di una flotta.
Gli anni immediatamente successivi alle opere di Massimiano furono caratterizzati da una profonda crisi sociale ed economica, che prestò il fianco di Roma ai colpi dei popoli barbari invasori. Ciò nonostante, la città, ancora sede di edifici ed istituzioni importanti, nell’anno 395, che combaciò con la morte di Teodosio I, figurava ancora tra le città più importanti d’Italia e di tutto l’impero.
Aquileia subì un gravissimo colpo nel 452 d. C.. Le truppe di Attila penetrarono nella città in seguito al crollo accidentale di un muro della fortificazione difensiva, devastandola. Alcune fonti sostengono che massacrò buona parte della popolazione, altre sono concordi nell’affermare che ne fece schiava una larga parte. Da questo momento in poi Aquileia smise di essere roccaforte a protezione dell’Italia settentrionale, nella sua parte orientale, venendo così sostituita da Verona sull’Adige. Dopo l’assedio di Attila nel 452, Aquileia tornò a fiorire grazie all’appoggio di Carlo Magno, il quale permise il ritorno del Patriarca Massenzio e restituì la città ai primitivi fasti.
Lasciamo momentaneamente la storia per addentraci nella AQUILEIA sito UNESCO dal 1998 per l’importanza della sua area archeologica e la bellezza dei mosaici pavimentali che custodisce. I primi scavi risalgono a 1934; vennero in seguito ripresi nel 1979 e sono tuttora in corso.
Aquileia - Arte romana
IL FORO ROMANO - ANFITEATRO – LE GRANDI TERME
Anche Aquileia, come la totalità delle importanti città romane, disponeva di un FORO, la piazza principale della città che si trovava all’incrocio tra il decumano massimo e il cardo massimo.
La sua pavimentazione risale al I secolo a. C. (età repubblicana), mentre gli edifici e le decorazioni sono attribuibili all’epoca imperiale. La lunghezza del Foro è di 115 metri ed è largo 57 metri, ornato ai lati lunghi da due file di portico-colonnato. Sotto ai portici c’erano negozi e botteghe (tabernae) e, con ogni probabilità, su uno dei lati del Foro doveva trovarsi la Zecca imperiale (istituita con la tetrarchia di Diocleziano). A sud del Foro vi era la Basilica con gli uffici amministrativi e giuridici del senato cittadino. A nord, invece, c’erano la curia e il macellum (il mercato). Purtroppo del porticato sono rimasti quattro basamenti in mattoni. Sul lastricato si è riusciti a reperire la parte finale di un’iscrizione di cui restano gli incavi per le lettere bronzee.
Aquileia - Foro romano
Aquileia sfruttò moltissimo la pietra proveniente dall’Istria e con essa costruì quasi tutta la città imperiale, ad eccezione di alcuni monumenti, per i quali si avvalse invece del marmo. L’artigianato locale era specializzato nella lavorazione di pietre dure da ornamento, nella scultura figurata e ornamentale in marmo e in pietra, nell’arte del mosaico.
Oltre all’oreficeria, anche l’ambra che giungeva dalle lontane spiagge del mar Baltico veniva lavorata nelle officine locali. Sempre per quanto riguarda l’industria artigianale, vi erano anche fabbriche di vasi, lucerne ed anfore in terracotta.
Area dove alcuni studiosi ipotizzano sia sorto il Palazzo imperiale di Massimiano, a fianco dell'attuale basilica di Santa Maria Assunta.
C’è innanzitutto la Basilica forense, la cui costruzione fu opera di un Aratrius, (esponente della borghesia della città) di cui ci resta un’iscrizione. Una sua parente (forse la figlia) nota col nome di Aratria Galla lastricò a sue spese il primo decumano meridionale. A sud del Foro sorgeva la Basilica civile. Sede del tribunale, luogo di riunione degli organi di governo e punto d’incontro dei più importanti uomini d’affari, questa Basilica aveva due absidi sui lati brevi, ed il suo interno era diviso in tre navate che arrivavano anche sui lati corti. La pavimentazione era in marmo per quanto riguarda la zona centrale, mentre quella del deambulatorio in pietra d’Istria.
Particolarmente suggestive sono anche le domus romane. Negli anni ’70 gli scavi al nord del Foro hanno rivelato l’esistenza di tre livelli di abitazioni romane, con annessi mosaici. Per questi mosaici venivano usate diverse pietre colorate, formando così dei bellissimi mosaici policromi. L’alabastro, l’agata e l’onice sono solo alcune delle pietre utilizzate dai Romani per comporre le loro trame. In particolare erano apprezzati i toni turchini, gialli, rossi e verdi, ottenuti con le paste vitree opache e semitrasparenti. Il mosaico tipico di Aquileia era il vermiculatum, che era caratterizzato da piccole tessere che, disposte in maniera asimmetrica, seguivano il contorno delle immagini. Le tessere impiegate, di forma e colori diversi, potevano avere dimensioni che variano dai 4 mm fino ad un solo millimetro.
Aquileia possedeva anche un anfiteatro. Utilizzato per gli spettacoli venatori e dei gladiatori, l’anfiteatro misurava 148 x 112 metri. Le ricerche e i nuovi scavi del 2015 hanno rivelato l’esistenza di una platea (larga circa 4 metri), che aveva il compito di sorreggere la serie di pilastri all’esterno della facciata. L’anfiteatro di Aquileia, inoltre, possedeva una galleria esterna molto più grande di quanto si credeva in precedenza rispetto ai recenti studi. All’inizio dell’età tardoantica cominciò il processo di spoliazione dei marmi dell’anfiteatro, che proseguì purtroppo nel corso dei secoli successivi. L’anfiteatro, infatti, costituì una comoda cava di marmi per la costruzione di nuovi edifici.
Grazie alle indagini commissionate dalla Fondazione Aquileia all’Università di Padova è stato scoperto recentemente anche il teatro di Aquileia. È stato ritrovato un tratto di muro curvilineo, dal quale si dirama una serie di strutture radiali secondo il caratteristico impianto di molti edifici di spettacolo di età romana. Secondo gli studiosi non ci sono dubbi: è una porzione del teatro della città friulana. Questo ritrovamento ci conferma ancora una volta che Aquileia fosse una città ricca, amante dell’arte e dello spettacolo.
Le Grandi Terme furono scoperte all’inizio del ‘900 e solo una parte di esse è stata riportata alla luce. Ad oggi sono emersi il settore del calidarium (a parte delle terme romane destinata ai bagni in acqua calda e ai bagni di vapore), del frigidarium (dove potevano essere presi bagni in acqua fredda) e le palestre, decorate con magnifici mosaici, in parte conservati nel Museo Archeologico Nazionale. Le terme si estendevano per più di 20.000 metri quadrati ed erano ornate con colonne in marmi policromi, pavimenti in mosaico, capitelli figurati e trabeazioni in marmo con decorazioni floreali. Grazie un’incisione, si è potuto risalire al nome originale delle Grandi Terme: Terme Felici Costantiniane. Furono dedicate quindi all’imperatore Costantino, nel IV sec. d. C., ma probabilmente furono erette in precedenza, intorno alla seconda metà del II sec. d. C..
LA BASILICA PATRIARCALE
Santa Maria Assunta
Di particolare rilevanza artistica e culturale è la Basilica Patriarcale leggermente decentrata rispetto al nucleo principale di Aquileia: sorge a lato della via Sacra, affacciando su piazza del Capitolo, assieme al battistero e all’imponente campanile.
Il nucleo più antico è formato dalla Aule Paleocristiane, fondate nel IV sec d.C. dal vescovo Teodoro con l’appoggio dell'imperatore Costantino e testimonianza indelebile del ruolo decisivo svolto dalla città nella diffusione della religione cristiana del primo Medioevo.
Magnifici i mosaici pavimentali che si ammirano all'interno e all'esterno della basilica, dalla quale si può accedere alla Cripta degli affreschi, decorata con affreschi di gusto bizantino.
I danni causati dal terremoto del 988 costrinsero l’allora patriarca Poppone ad attuare, nel 1031, un radicale restauro in forme romaniche, con influenze carolinge-ottoniane, che culminò con la costruzione del grande Palazzo Patriarcale (oggi distrutto) e dell'imponente campanile alto oltre 70 metri che domina la campagna friulana.
Dopo un ulteriore restauro a seguito del terremoto del 1348, l'ultimo grande intervento nella Basilica venne effettuato nel Cinquecento, quando artigiani e carpentieri veneziani furono chiamati per realizzare l'imponente soffitto ligneo che ancora oggi si può osservare.
L’edificio è rettangolare, di circa 90 metri per 66, ed è costituito da due spazi allungati separati da un cortile centrale. Probabilmente la copertura del magazzino era sorretta da robusti pilastri, disposti in relazione con i rinforzi delle pareti esterne per conseguire un corretto sistema statico.
Questo edificio sottolinea anche le grandi capacità dei costruttori romani verso la fine del III secolo d. C. poiché, oltre alle caratteristiche già riportate, possedeva anche spessi muri perimetrali che raggiungevano i 2 metri e profonde fondamenta, almeno a 5 metri sottoterra.
I MOSAICI
Il buon pastore
Aquileia - Pavimento della basilica - 1a metà del IV secolo
Aquileia - Uno splendido mosaico
Interno della Basilica con vista del pavimento a mosaico
Storie di Giona
SEPOLCRETO ROMANO
Museo archeologico di Aquileia
Colonna Traiana ci racconta…
Colonna Traiana - Classiarii che salpano dal porto di Brindisi, secondo porto della costa italico-adriatica. n.59: secondo porto della costa italico-adriatica.
n.63: quarta tappa, forse Aquileia (?). La marcia continuerà fino al Danubio, percorrendo la vias Gemina fino a Singidunum.
Rilievo scultoreo di Mitra (culto di legionari romani), oggi conservato presso il Museo archeologico nazionale di Aquileia.
Statua di Augusto (che utilizzò Aquileia quale quartier generale per le campagne militari degli anni 13-9 a,C.) (Museo archeologico cittadino).
Busto bronzeo forse di Massimino il Trace, il quale trovò la morte presso la città di Aquileia (Museo archeologico cittadino).
Statua priva di testa appartenente ad ammiraglio romano (presso il Museo archeologico di Aquileia).
Carlo GATTI
Rapallo, giovedì 13 Febbraio 2020
L'ABC DELLE MANOVRE PARTE DALLE ELICHE
Cresce sempre il numero delle persone che ogni giorno pone domande tecniche sulla manovra delle navi.
L'argomento è molto vasto e, disquisendo, è facile uscire dai binari della pratica per ritrovarsi immersi in passaggi teorici più interessanti per gli ingegneri che per la gente di mare.
Questo articolo, dove i concetti presenti sono appena accennati, è aiutato nella sua comprensione da un esempio pratico.
Buona lettura.
P.S.:
Mi è stato detto che molti non sanno dell'esistenza di un sito che, oltre a proporre video interessanti, raccoglie gli articoli che inviamo. Quindi, se volete approfondire gli argomenti, potete visitare:
www.standbyengine.com
L’ABC DELLE MANOVRE PARTE DALLE ELICHE
di John GATTI
Tornando con il pensiero indietro negli anni, mi rendo conto che, trovandomi a dover sostenere esami di manovra, il primo argomento trattato ha sempre riguardato le eliche.
Niente di complicato, anche se, per trasferire la teoria dei libri ai pensieri e alle azioni, il passo non è proprio dei più corti…
Per far capire meglio cosa intendo, accennerò brevemente alle differenti caratteristiche tra le eliche a passo fisso e quelle a passo variabile, per poi – con un esempio – incastrare queste poche informazioni tra i ragionamenti sviluppati per portare una nave in banchina.
Cominciamo.
La particolare forma dell’elica, collegata a un albero motore, fa sì che la rotazione di quest’ultimo si trasformi in movimento della nave.
Abbiamo quindi l’elica che, spingendo una certa quantità d’acqua, genera un movimento che viene trasmesso alla nave.
Cerchiamo di capire meglio come funziona il processo.
Prima di tutto dobbiamo sapere che il passo dell’elica è la distanza teoricamente percorsa non considerando la cedevolezza del fluido, perciò corrisponde alla distanza che l’elica percorrerebbe se si muovesse all’interno di un corpo solido.
Solitamente, per rendere meglio l’idea, si suggerisce di immaginare il movimento di una vite che penetra in un pezzo di legno.
Siccome in realtà l’elica si muove in una sostanza cedevole, avremo che lo spostamento della nave, dopo un giro di elica, non sarà uguale al passo ma a una frazione di esso detta avanzo. La differenza tra passo e avanzo è detta regresso.
Quindi, il regresso è uguale alla velocità della massa d’acqua spinta dall’elica in senso contrario al moto. Se il regresso fosse nullo, non ci sarebbe la corrente respinta dall’elica.
Le eliche a passo fisso sono quelle a cui non può essere cambiato il passo. In questo caso le pale sono fissate al mozzo e non è possibile agire sul loro orientamento. In pratica, per invertire il senso di moto della nave, dobbiamo disaccoppiare l’asse dal motore, fermare quest’ultimo, riavviarlo al contrario e riaccoppiare l’asse. Non intendendo addentrarmi ulteriormente nella teoria, possiamo dire che questo sistema ha, rispetto all’elica a passo variabile, alcuni difetti e alcuni pregi, tra i primi possiamo citare: a) essendo l’elica legata agli avviamenti del motore, c’è sempre la possibilità che questi falliscano; b) quando si perde il governo è necessario intervenire con un nuovo avviamento; c) alcune navi sono dotate di un “Molto Adagio” piuttosto potente e, quindi, difficile da controllare quando servono piccoli spostamenti della nave o quando si vuole utilizzare lo spring, per esempio in partenza, per allargare la poppa dalla banchina. Per quanto riguarda invece i difetti: a) quando si ferma la macchina, l’elica non gira, eliminando così un grande pericolo per i cavi in acqua che altrimenti potrebbero venire risucchiati e per l’incolumità degli ormeggiatori che operano con la barca nei pressi della poppa; b) a marcia indietro è più efficace rispetto al passo variabile; c) ad ogni avviamento sviluppa subito una buona potenza.
- Quando possiamo cambiare l’orientamento delle pale per mezzo di servomeccanismi, abbiamo le eliche a passo variabile.
- In altre parole, le pale delle eliche possono essere ruotate attorno al loro asse longitudinale modificandone il passo. Quindi, per variare la velocità, o per invertire il moto, è sufficiente cambiare l’orientamento delle pale rispetto al mozzo. Vantaggi: a) non avremo avviamenti del motore per l’inversione di marcia; b) potremo regolare la velocità facilmente (caratteristica particolarmente utile in manovra). Svantaggi: a) essendo l’elica sempre in movimento, il rischio che i cavi vengano risucchiati durante la manovra è elevato; b) l’effetto dovuto alla rotazione delle pale è solitamente accentuato; c) se si diminuisce troppo velocemente il passo si tende a perdere il governo; d) si riscontra una certa difficoltà a trovare il “passozero”, ovvero a individuare la posizione del passo esattamente neutra;
- e) la resa a marcia indietro è inferiore a quella offerta dal sistema a passo fisso.
Bene! Adesso vediamo, con un esempio, come dobbiamo trasferire queste importanti nozioni teoriche all’interno di una situazione pratica.
Immaginiamo di essere sul ponte di comando di una nave lunga cento metri, con un pescaggio di otto metri, elica a passo variabile con effetto destrorso, senza thrusters, assenza di vento e di corrente, ormeggio finale con la dritta in banchina.
Quali valutazioni devo fare, basandomi sulle mie conoscenze teoriche?
- una nave di queste dimensioni, in condizioni di tempo buono, solitamente si manovra senza l’ausilio di rimorchiatori;
- otto metri di pescaggio sono tanti: questo vuol dire “nave pesante” che, generalmente, conserva per molto tempo il suo movimento inerziale;
- elica a passo variabile con effetto destrorso: cosa ci fa pensare questa informazione in questa situazione? Innanzitutto che dobbiamo prestare particolare attenzione all’abbrivo, perché le eliche a passo variabile non esprimono la stessa potenza a marcia indietro delle eliche a passo fisso. È quindi una manovra che, nella fase finale, va impostata a una velocità minima di governo. Dobbiamo, inoltre, regolare la diminuzione di velocità per tempo, perché una variazione del passo troppo repentina mi farebbe perdere il governo.
- effetto destrorso e fianco di dritta in banchina: situazione molto delicata! Nella fase finale, quasi certamente, dovremo usare la macchina per fermare in posizione questa nave che – non dimentichiamolo – è molto pesante e difficile da controllare. Per riuscire ad arrestare la nave dovremo usare una generosa potenza di macchina che genererà un importante effetto destrorso. In poche parole, la prua della nave accosterà in maniera decisa verso la banchina e lo farà con un abbrivo residuo;
- uso dell’ancora: tutti i pericoli/problemi sopraesposti portano a cercare una soluzione che, escludendo l’uso del rimorchiatore, ci permetta di gestire la manovra in sicurezza. L’uso dell’ancora di sinistra a dragare può risolvere i nostri problemi.
Quali sarebbero state le differenze più importanti se la nave in questione fosse stata dotata di elica a passo fisso?
In questo esempio è tutto teso a massimizzare gli effetti: nave pesante, senza bow thruster e lato di ormeggio non favorevole all’effetto dell’elica. Premesso che in tutte e due le condizioni conviene mantenere una cauta velocità di sicurezza, avremo che con il passo fisso potremo permetterci una certa velocità per poi fermare la macchina contando di mantenere (generalmente) un buon governo. Correggeremo eventuali abbattute con il timone e opportuni “colpetti” di macchina. Con il passo variabile dovremo programmare per tempo la diminuzione della velocità perché, in caso contrario, per non perdere il governo arriveremmo troppo veloci a destinazione con una nave che diventerebbe difficile da manovrare e da fermare.
Dovremo avere l’accortezza di arrivare vicino all’ormeggio con il minimo avanti per mantenere la direzione e con l’ancora di sinistra a dragare per evitare l’inevitabile caduta della prora in banchina nel momento in cui daremo indietro la macchina.
Ci fermiamo qui.
Ovviamente questo articolo è volontariamente sintetico e poco approfondito. Sicuramente lo affronteremo nuovamente attaccandolo su aspetti differenti.
Rapallo, Martedì 11 Febbraio 2020
VISITA AL MUSEO STORICO NAVALE - VENEZIA
VENEZIA
Museo Storico Navale
Come é strutturato il Museo
42 sale distribuite su cinque piani. Il Museo comprende anche il "padiglione delle Navi" nell'antica officina dei remi dell'arsenale e la chiesa di S.Biagio, antico luogo di culto della marineria veneta e poi austriaca, infine adibita alle funzioni religiose del personale della Marina Militare.
Piano terra, primo e secondo piano
La SMS Viribus Unitis fu una corazzata della Imperiale e Regia Marina austro-ungarica, nonché nave ammiraglia e fiore all'occhiello della flotta. La classe Tegetthoff fu impiegata di rado nel corso della Prima guerra mondiale, la Viribus Unitis fu affondata il 1º novembre 1918 nel porto di Pola in seguito all'incursione di una piccola unità d'assalto italiana, in quella che fu poi ribattezzata IMPRESA DI POLA.
All'esterno, a ridosso dell'edificio presso l'ingresso, dal 1961 sono collocate due ancore di due corazzate austro-ungariche della Prima guerra mondiale, una della SMS Viribus Unitis e l'altra della SMS Teghtthoff, (vedi la prima foto in alto) le cui gemelle sono poste all'ingresso di Palazzo Marina a Roma. I primi tre livelli sono dedicati alle imprese, alle attrezzature e ai personaggi della Marina di Venezia e della Marina italiana, con alcune testimonianze delle altre Repubbliche marinare al secondo piano. Sempre al secondo livello, è presente una sala dedicata al Bucintoro, l'antica imbarcazione da cerimonia del doge.
Terzo piano
(foto Carlo Gatti)
In queste sale sono esposti modelli di imbarcazioni tipiche della laguna di Venezia, imbarcazioni da pesca e varie gondole, tra cui quella donata da Peggy Guggenheim al museo dopo la sua morte.
Quarto piano
(foto Carlo Gatti)
Fa parte di questo piano la "Sala svedese" dedicata ai rapporti industriali e militari tra la Marina italiana e quella svedese, evidenziando l'aiuto che le nostre industrie hanno pdato alla formazione della marina e dell'aviazione del paese scandinavo. In una sala attigua é molto rilevante una ricca collezione di conchiglie donata da Roberta di Camerino (celebre stilista veneziana 1920-2010).
Padiglione delle navi
In particolari occasioni viene aperto al pubblico e sono esposte navi veneziane civili e militari ed una parte della Sala Macchine del panfilo ELETTRA (la Nave-esperimenti di G.Marconi)
Vi è conservata la campana della R. N. coloniale ERITREA
Chiesa di San Biagio
La chiesa ancora oggi appartiene alla Marina Militare e da sempre, gli equipaggi delle navi di stanza a Venezia, qui "prendevano messa" prima di uscire in mare. Anche il giovane allievo Guglielmo Teghetoff vi si recava la domenica, durante gli anni in cui fu allievo del vicino Collegio Navale (accademia) situato allora nell'ex convento di Sant'Anna a Castello, tra il 1840 ed il 1845. Nella chiesa è conservato il corpo dell’ammiraglio Angelo Emo, ed è esposto un dipinto olio su tela del pittore Giuseppe Frascaroli, che ritrae Santa Barbara, patrona dei marinai.
Modelli, dipinti, cimeli e molto altro narrano la storia della Marina Militare veneziana ed italiana, offrendone un quadro completo ed appassionante. Ne fanno da cornice e contenitore il cosiddetto “granaio”, edificio principale del sistema museale, la chiesa di San Biagio e l’attiguo Padiglione delle Navi, situato nell’antica Officina dei remi dell’Arsenale.
L’edificio fu realizzato alla metà del Cinquecento per la funzione di officina e deposito dei remi. Poco dopo la sua realizzazione, nel 1577, venne adattato temporaneamente a sede del Maggior Consiglio, il principale organo di governo della città, a seguito del rovinoso incendio che rese inagibile Palazzo Ducale per molto tempo. Le sale mantennero sostanzialmente la funzione di falegnameria specializzata per i remi, affiancata da un’officina febbrile e da spazi di deposito, fino alla metà dell’Ottocento. A seguito degli interventi di riordino dell’Arsenale avviati dopo il 1866, anno in cui Venezia fu annessa al Regno d’Italia, i locali furono destinati a magazzini e officine del Genio. In quel periodo vi fu un intervento di restauro delle coperture, con l’introduzione di un interessante sistema bidirezionale di tiranti in ferro che integravano le incavallature lignee del tetto. Dal 1980 gli spazi delle officine dei remi hanno assunto la denominazione di Padiglione delle Navi. Essi ospitano imbarcazioni di grande rilievo storico e costituiscono un ampliamento della sede principale del museo.
(foto di Carlo Gatti)
(foto di Carlo Gatti)
Vista laterale del modello del Bucintoro
Il Bucintoro era la galea di stato dei dogi di Venezia, sulla quale si imbarcavano ogni anno nel giorno dell’Ascensione per celebrare il rito veneziano dello sposalizio con il mare.
Origine del nome
Il nome bucintoro, come testimonia anche il Sanudo, deriva dal veneziano buzino d'oro (burcio d’oro), latinizzato nel Medioevo, come bucentaurus, nome di un'ipotetica creatura mitologica simile al centauro ma con corpo bovino. Questo ha portato qualcuno a sostenere che il nome derivasse da una testa bovina utilizzata come polena della galea, ma l'ipotesi è erronea: il nome bucentaurus non esiste nella mitologia greca, e la polena dei Bucintori (come appare nei dipinti che li raffigurano) è Venezia sotto forma di Giustizia.
Sembra comunque che qualsiasi grande e sontuosa galea veneziana fosse chiamata con il nome Bucintoro. DuCange cita dalla cronaca del doge Andrea Dandolo (morto nel 1354):
Storia e caratteristiche
Il Bucintoro aveva sede nell’Arsenale di Venezia, dapprima in un bacino, come attestato dalla pianta di Jacopo de Barbari del 1500, in seguito in un apposito scalo coperto, detto Casa del Bucintoro, dove la nave era conservata all'asciutto e priva degli addobbi. Prima di essere utilizzato il Bucintoro veniva accuratamente calafatato, per ripristinare l'impermeabilità dello scafo, e riaddobbato. Ai remi erano per esclusivo privilegio gli operai dell'Arsenale, detti Arsenalotti, mentre il comando spettava all’Ammiraglio dell’Arsenale, coadiuvato da prua dall’Ammiraglio del Lido, che verificava la rotta, e da poppa dall’Ammiraglio di Malamocco che sovrintendeva al timone.
Modello in scala ridotta di una galea dei Cavalieri di Malta
Ricostruzione di una galea sottile veneziana
(foto di Carlo Gatti)
Qualche antico fucile
- Due Tromboni a focile del XV Secolo
- Cannoncino ad avancarica a percussione del XVIII Secolo
Frammento della poppa della corazzata austriaca Wien recuperato dopo la Prima guerra mondiale ed ora esposto al Museo storico navale di Venezia
Coppia di MAS in esercitazione (1918)
La sera del 10 dicembre 1917 Luigi Rizzo partì al comando di un'unità MAS composta da due motoscafi, il MAS 9 e il MAS 13 per attaccare i due navigli austriaci ancorati nel Vallone di Muggia.
I due MAS, trainati da altrettante torpediniere da Venezia fino al mezzo del golfo di Trieste, partirono con i loro motori elettrici fino alla diga nord della baia. Rizzo verificò che l'incursione non fosse stata notata prima di dare l'ordine di tagliare le ostruzioni che impedivano l'accesso alla baia. Dopo due ore era stato tagliato anche l'ultimo dei cavi d'acciaio messi a diversi livelli sotto la superficie dell'acqua e i due MAS entrarono dal varco creato. Il MAS 9 puntò sulla SMS Wien, il MAS 13 sulla SMS Budapest. A 50 metri dalla sagoma della Wien Rizzo ordinò, senza essere stato notato dalle sentinelle austriache, il lancio dei siluri. Contemporaneamente furono lanciati anche i siluri sulla Budapest dal MAS 13 ma al contrario dei siluri del MAS 9 che centrarono in pieno la Wien, quelli del MAS 13 mancarono il bersaglio ed esplosero sulla banchina.
Siluro a lenta corsa italiano esposto all'ingresso del museo
La Motosilurante MS 473 fu costruita dai Cantieri Riuniti dell’Adriatico a Monfalcone nel 1942, con la denominazione di MS 31, nell'agosto dello stesso anno prese parte alla grande battaglia aeronavale di Mezzo agosto, durante la quale nella notte del 13 agosto, al comando de Tenente di Vascello Calvani, affondò, con un siluro, il piroscafo britannico Glenorchy di 8982 tonnellate.
(foto di Carlo Gatti)
Armi navali
(foto di Carlo Gatti)
RUDOLF CLAUDUS
Pittore di marina
RUDOLF CLAUDUS, 1893-1964
Il 23 aprile 1893, Odenburg ora Sopron vicino Vienna, diede i natali a Rudolf Claudus. Non sono molte le notizie sulla sua infanzia: il padre era un ufficiale dell'esercito; importante per la sua vita fu la figura dello zio, l'ammiraglio Sternek della marina imperiale austro-ungarica.
Da ragazzo era evidente il lui l’attitudine al disegno che lo portò a frequentare gli studi di alcuni pittori dai quali apprese i rudimenti del mestiere. La sua vocazione era l’arte marinista che corrispondeva al suo amore per il mare. Alla fine della prima guerra mondiale fu a Pola – Istria ed entrò in amicizia con gli ufficiali della Marina italiana: iniziò così un lungo periodo di collaborazione con la Marina italiana di cui divenne in pratica il pittore ufficiale. In circa mezzo secolo di sodalizio ha realizzato centinaia di opere destinate ad ornare le sale di navi e Circoli, stanze di rappresentanza dei palazzi della Marina e per essere donate alle Autorità in occasioni di manifestazioni ufficiali.
AMERIGO VESPUCCI
Il Regio Esploratore VENEZIA
Il Regio incrociatore GIUSEPPE GARIBALDI
La Regia corazzata Giulio Cesare a Punta Stilo
La Regia nave da battaglia DUILIO in navigazione
Ad esclusivo scopo divulgativo, come da Statuto della nostra Associazione, ci siamo concessi la "libera scelta" di pubblicare alcune foto a dir poco splendide del BUCINTORO per la gioia dei nostri associati che sono infermi e MAI potranno visitare questo magnifico edificio che ci racconta e celebra la nostra storia di Repubbliche Marinare Italiane e non solo!
Ringrazio pertanto tutti coloro che gentilmente non si opporranno alla loro pubblicazione.
Carlo GATTI
Rapallo, 4 febbraio 2020