Il piroscafo Oria in navigazione

 

IL NAUFRAGIO DEL PIROSCAFO

ORIA

12 febbraio 1944

4163 Vittime

La tomba dimenticata

 

Il piroscafo ORIA all’ormeggio

Pochi sanno del naufragio del piroscafo norvegese Oria e dei 4200 militari italiani prigionieri dei nazisti che vi hanno perso la vita nel lontano 12 febbraio 1944. Si tratta di uno dei peggiori disastri navali della storia dell’umanità, il peggiore del Mediterraneo. La nave s’inabissò presso l’isolotto di Patroclo, presso Capo Sounion, a 25 miglia da Atene.

Nave

Armatore

Costrut.

Varo

Stazza l.

Lunghez.

Larg.

Veloc.

ORIA

Feanley & Eger Oslo

Osbourne Graham&co Oslo

1920

2127

86,9 mt

13,3

10 n.

L’Oria fu costruito nel 1920 nei cantieri Osbourne, Graham & Co di Oslo. Era un piroscafo da carico di bandiera norvegese, della stazza di 2127 tsl, di proprietà della compagnia di navigazione Fearnley & Eger di Oslo . All’inizio della seconda guerra mondiale fece parte di alcuni convogli inviati in Nord Africa. Poco dopo l’occupazione tedesca della Norvegia , avvenuta nel giugno del 1940, il piroscafo fu internato a Casablanca . L’anno successivo la nave fu requisita dalla Francia di Vichy, ribattezzata Sainte Julienne fu noleggiata dalla Société Nationale d’Affrètements di Rouen; quindi fu inviata in Mediterraneo. Nel novembre del 1942 fu restituita al suo primo proprietario che la rinominò Oria; dopodiché fu assegnata alla Mittelmeer Reederei di Amburgo (Sotto il comando del Terzo Reich).

*(Il termine governo di Vichy indica il nome con cui è noto il governo francese formatosi durante l’occupazione tedesca nella seconda guerra mondiale).

Il naufragio

Nell’autunno del 1943 , dopo la resa delle truppe italiane in Grecia, i tedeschi dovettero trasferire circa 17.000 prigionieri italiani via mare . Per questi trasporti decisero di usare vecchie carrette del mare che venivano stipate di prigionieri oltre ogni limite, nella violazione delle più ovvie norme di sicurezza della navigazione. Secondo molti sedicenti marinai, per lo più stranieri, questi viaggi dovevano durare pochi giorni essendo il Mediterraneo un specie di lago pacifico al confronto dei più famosi oceani. Sottovalutare i pericoli meteo-marini di certi tratti di mare Mediterraneo é l’errore fatale compiuto dall’uomo di mare fin dagli albori della navigazione e la presenza di migliaia e migliaia di relitti riversi nei nostri fondali sono ancora lì a testimoniare quella bugia che é destinata a sopravvivere in eterno. Nella realtà della Seconda guerra mondiale, molte di queste navi furono silurate da sottomarini Alleati , mitragliate dalle rispettive Aviazioni oppure, come nel caso della ORIA, affondarono alla prima burrasca seria perché viaggiavano con la “marca del bordo libero” affondata di chissà centimetri o metri procurando la morte di migliaia di prigionieri considerati ‘carne da macello’. Questa purtroppo é la verità.

Capo Sounion e sullo sfondo l’Isola di Patroclo

 

L’Oria fu tra le navi scelte per il trasporto dei prigionieri italiani. L’11 febbraio del 1944 partì da Rodi diretta al Pireo con a bordo 4046 prigionieri (43 ufficiali, 118 sottufficiali, 3885 soldati), 90 militari tedeschi e l’equipaggio norvegese, ma l’indomani, colta da una tempesta , affondò presso Capo Sounion . Alcuni rimorchiatori accorsi il giorno seguente, non poterono salvare che 21 italiani, 6 tedeschi ed un greco. Tutti gli altri persero la vita.

 

In questa immagine tratta da Google Earth, si rileva l’esatta posizione del relitto del piroscafo ORIA, inabissatosi sulla sponda orientale dell’Isola di Patroclo, presso lo scoglio della Medina, su fondali variabili da 5 a 30 metri.

 

Tutto tace nelle profondità degli abissi da ben 69 anni, così come i 4200 soldati italiani.

Ricostruzione del naufragio

 

Il piroscafo, con a bordo i nostri soldati che si erano rifiutati di aderire al nazifascismo, salpò dall’isola di Rodi (Grecia) alle ore 17.40, l’11 febbraio 1944. La nave era una vera e propria “carretta” di 87 metri di lunghezza e 24 anni di età. Caricata di soldati, di bidoni d’olio minerale e gomme di camion, era diretta al Pireo, dove i nostri soldati sarebbero stati smistati come forza lavoro verso le industrie belliche germaniche oppure nei lager del Terzo Reich.

 

Purtroppo, nella notte successiva alla partenza, una violenta tempesta investì il piroscafo che iniziò a sbandare e ad imbarcare acqua per mancanza di bordo libero. Dei 4.200 soldati italiani solo 37 riuscirono a salvarsi nell’attesa dei soccorsi che giunsero con due giorni di ritardo a causa delle pessime condizioni meteo. Anche il comandante norvegese Bjarne Rasmussen e il primo ufficiale di macchina furono salvati insieme a 6 tedeschi, un greco e 5 uomini dell’equipaggio.

 

Su quella vecchia carretta che si spostava in Mediterraneo nella totale mancanza di sicurezza nautica, i militari italiani non erano trattati come prigionieri di guerra, secondo la Convenzione di Ginevra, ma come traditori.

 

Il loro sacrificio fu ignorato per decenni, anche in patria, da tutti i governi che nel frattempo si sono dichiarati “democratici”…. e questa fu l’omissione più grave che può solo sintetizzarsi con la parola: VERGOGNA!!!

 

Eppure gli “addetti ai lavori” conoscevano i fatti, persino nei dettagli. Ci sono le testimonianze dei sopravvissuti, come quella del sergente di artiglieria Giuseppe Guarisco , che il 27 ottobre 1946 redasse di proprio pugno per la Direzione generale del ministero un resoconto lucido del naufragio:

 

“Dopo l’urto della nave contro lo scoglio” – scrive Guarisco – “venni gettato per terra e quando potei rialzarmi un’ondata fortissima mi spinse in un localetto situato a prua della nave, sullo stesso piano della coperta, la cui porta si chiuse. In detto locale c’era ancora la luce accesa e vidi che vi erano altri sei militari. Dopo poco la luce si spense e l’acqua iniziò ad entrare con maggior violenza. Salimmo in una specie di armadio per restare all’asciutto, di tanto in tanto mettevo un piede in basso per vedere il livello dell’acqua. Passammo la notte pregando col terrore che tutto s’inabissasse in fondo al mare.

 

All’indomani, nel silenzio spettrale della tragedia, i sette riuscirono a smontare il vetro dell’oblò,
ma non ad uscire da quell’anfratto, perché il buco era troppo stretto. Le ore passavano ma nessuno veniva in nostro soccorso (…). Uno di noi, sfruttando il momento che la porta rimaneva aperta, si gettò oltre essa per trovare qualche via d’uscita e dopo un’attesa che ci parve eterna lo vedemmo chiamarci al di sopra del finestrino. Ci disse allora che era passato attraverso uno squarcio appena sott’acqua. Un altro compagno, pur essendo stato da me dissuaso, volle tentare l’uscita ma non lo rivedemmo più. I naufraghi rimasero due giorni e mezzo rinchiusi là dentro prima dell’arrivo dei soccorsi dal Pireo.

 

Quello che era riuscito ad uscire ci disse che dove eravamo noi, all’estremità della prua, era l’unica parte della nave rimasta fuori dall’acqua e che intorno non si vedeva nessuno all’infuori degli aerei che continuavano a incrociarsi nel cielo e ai quali faceva segnali. Poco dopo si accostò una barca con due marinai; essi dissero che erano italiani, dell’equipaggio di un rimorchiatore requisito dai tedeschi. Ci dissero di stare calmi che presto ci avrebbero liberati. Ma sopraggiunse l’oscurità e dovemmo passare un’altra nottata più tremenda forse della prima.”

 

Una luce di verità emerge finalmente dagli abissi.

Reperti sul relitto dell’Oria

 

La tragedia dell’Oria fu omessa dalla storiografia ufficiale, fu ignorata dai libri di scuola, ma fu dimenticata persino da quei pochi superstiti che, avendola vissuta fino in fondo, avrebbero dovuto tramandarla ai posteri insieme al ricordo delle vittime ed al recupero delle loro spoglie.

 

Nel 1955 il relitto fu smembrato dai palombari greci con l’intento di recuperare tutto il possibile, soprattutto il ferro. Da quel momento il mare cominciò a restituire i resti di circa 250 naufraghi. Spinti sulla costa dalla corrente, i resti di quei poveri militari italiani furono pietosamente raccolti e poi sepolti in fosse comuni. Successivamente furono traslati verso piccoli cimiteri dei paesi della costa pugliese e, successivamente, nel Sacrario dei caduti d’Oltremare di Bari. Mancano all’appello ancora migliaia d’altri nostri connazionali che sono ancora sepolti negli abissi silenziosi di un mare amico, ma straniero.

Quei caduti italiani nell’Egeo, ritrovati attraverso il web

 

Sono trascorsi 69 anni dalla tragedia e i parenti delle giovani vittime hanno istituito delle ‘pagine internet’ per raccogliere le voci dei figli e dei nipoti dei nostri militari che sono ancora “imprigionati” tra le lamiere di quel relitto norvegese. Nelle loro ultime ore di vita, quando l’acqua di mare ormai invadeva lo spazio vitale nelle stive inghiottendo le ultime bolle d’aria esistenti, i nostri ragazzi incisero i loro nomi e la data del naufragio sui bidoni di olio che viaggiavano con loro sull’Oria, a testimonianza che quella sarebbe stata la loro tomba, la fine dei loro sogni.

 

Oggi, i parenti delle vittime sono determinati a riportare alla luce quelle lamiere ormai contorte, tagliate e distrutte dalle mareggiate perché sentono il dovere di dare una degna sepoltura a quei giovani eroi salvandoli almeno dal peggiore dei mali: l’oblio.

 

Riportiamo lo scritto di Giulia Floris che ben sintetizza il “work in progress” di tanti figli e soprattutto nipoti di quei poveri soldati inabissatisi …

Altri reperti sul rellitto

 

Quasi 70 anni dopo, le loro storie sono ritornate a galla, grazie alle ricerche dei loro discendenti, spesso nipoti che di quei nonni portano i nomi e che, cercando di saperne di più sui loro antenati, si sono ritrovati in Rete, mettendo insieme i frammenti di una storia per tanti versi mai raccontata.

Nasce così un vero e proprio gruppo di ricerca, nel quale ognuno mette a disposizione le proprie competenze: c’è chi è appassionato di storia e sa cercare negli archivi, chi crea un sito per condividere le informazioni, chi è esperto di immersioni, come anche Ghirardelli. Nel corso di queste ricerche arriva l’incontro sul web con un sub greco, Aristotelis Zervoudis, che racconta di un relitto ritrovato al largo dell’isola di Patroclo (chiamata un tempo ‘Gaiduronisi’, Isola dei Somarelli). Così, nel settembre 2008, Ghirardelli si mette in viaggio insieme a un altro membro del coordinamento dei parenti anche lui sub esperto, e vede coi suoi occhi le ossa dei militari e le gavette degli italiani ancora nel fondale. Nel corso di diversi viaggi, Ghirardelli incontra anche testimoni ancora in vita, che videro coi loro occhi il naufragio in cui morirono migliaia di italiani e solo poche decine si salvarono.

 

Nel frattempo le ricerche negli archivi della marina di un altro familiare portano a un’altra svolta. La scoperta dell’elenco dei passeggeri del piroscafo Oria, partito da Rodi l’11 febbraio del ’44 e naufragato al largo di capo Sunion, proprio nei pressi dell’isola di Patroclo. Nell’elenco figurano i nomi del nonno di Ghirardelli e di altri antenati. Così finalmente Michele ha un luogo e un nome, per quel che è capitato a suo nonno”.

Una vicenda, quella dell’Oria, nota anche alla Storia con la S maiuscola, come conferma il professor Pasquale Iuso, docente di Storia contemporanea dell’Università di Teramo, autore di alcune pubblicazioni sui militari italiani nell’Egeo. “L’episodio è tragicamente vero – spiega – In tutte le isole dell’Egeo c’erano quasi 100mila militari italiani e a tutti venne offerta la possibilità di unirsi alle forze collaborazioniste della RSI e con i tedeschi. Chi si rifiutava di collaborare diventava internato militare.

 

Altri casi di navi cariche di militari italiani, affondate dagli alleati o per cause naturali – continua – sono il Donizetti (i cui caduti furono 1584), il Petrella (2646 morti) e la nave Sinfra, in cui morirono oltre 1850 italiani. Ma quello dell’Oria è stato senz’altro il più grande naufragio di militari italiani”.

 

Ma per un’ottantina di persone identificate tra i caduti e tra alcuni di coloro che sopravvissero, restano ancora migliaia di nomi: dispersi per la loro famiglia e dimenticati dalla Storia. La speranza di dare un volto e una storia a ciascun nome della lista passa per una mailing list, un gruppo facebook e un sito web.”

 

Dal sito di BETASOM estrapoliamo l’interessante punto di vista del noto storico Francesco Mattesini:

 

“Sull’affondamento del piroscafo norvegese ORIA, si hanno due versioni, la prima é precisa e attendibile, la seconda nettamente errata.

“1^ versione. La nave era stata internata dai francesi e, dopo l’invasione del sud della Francia nel novembre 1942, era stata catturata a Marsiglia dai tedeschi, che l’avevano presa al loro servizio.

L’ORIA partì alle ore 17.40 dell’11 febbraio 1944 da Rodi, diretto al Pireo, dopo aver imbarcato 4.200 prigionieri di Guerra italiani, 30 guardie e 60 soldati tedeschi. L’indomani, il 12.2., a causa di una tempesta, affondò capovolgendosi. Si salvarono soltanto 49 prigionieri, 6 soldati e 5 uomini dell’equipaggio, incluso il comandante (capitano Bearne Rasmussen) e il primo ufficiale di macchina.

 

2^ versione. (assolutamente inesatta)

 

Sarebbe stato affondato dal sommergibile olandese DOLFIJN, che attaccò il piroscafo alle 08.18 del 31 gennaio 1944, colpendolo con 3 siluri. Il Piroscafo affondò a ovest di Stampalia, a 10-20 miglia da Rodi.

 

La prima versione è convalidata dai norvegesi, riportando anche l’elenco dei caduti dell’equipaggio. Quindi l’ORIA affondò a causa del ‘mare grosso’ e non per attacco di sommergibili.

 

Questo ridimensiona l’episodio ma non certamente l’elevato numero di caduti italiani, che fu per noi una vera tragedia.

 

Riferimento: http://www.warsailor…t/norfleeto.htm

 

L’attaco del DOLPIJN é una possibilità, ma non può essere confermata, perché la nave-bersaglio non é stata identificata con certezza. In ogni caso, i 3 siluri non hanno mai colpito il bersaglio”.

 

Il 2 febbraio del 1943 il Dolfijn aveva affondato il sommergibile Malachite, fuori di Capo Spartivento (Cagliari).

 

Interessante é la seguente testimonianza:

 

“Carissimi amici di “Betasom”, mi chiamo Guido Ferretti sono nato e vivo a Milano e sono figlio di Carlo Alberto Ferretti del 331 reggimento di fanteria della divisione Brennero aggregato nel 1942 come truppa di occupazione alla divisione Regina a Rodi. Questo eroico reggimento, al comando del Capitano Venturini, fu il primo ad opporre resistenza alle truppe tedesche della Sturmdivision Rhodos equipaggiata con i temibili carri “Tigre”, ma dopo tre giorni di combattimenti furono costretti alla resa…per mio padre ebbe cosi inizio la “prigionia” prima nei campi dei Tedeschi ed in seguito nei campi “Inglesi” e fu proprio in questo periodo che ebbe luogo la tragedia “mai ricordata” delle navi Donizetti, Petrella ed Oria…..tragedia per la quale mio padre, oggi 86enne, ed altri reduci di allora stanno cercando di portare alla ribalta della opinione pubblica per ricordare quei martiri, si parla di 17.000 vittime, caduti per la Patria, messi nel dimenticatoio e catalogati con un semplice “dispersi”…Uno fra tutti questi reduci il Sig. Carnevali intimo amico di mio padre ha fatto di questa vicenda una vera “crociata” recandosi decine e decine di volte a Rodi per dare un nome a tutti questi caduti e per rendere a loro tutti gli onori delle armi!!! è riuscito anni or sono, tramite il cappellano militare del 331 regimento Don Giuseppe della Vedova, a mettersi in contatto con il frate di Rodi Don Cesare Andolfi, il quale fu l’unico ad entrare in possesso delle liste dei prigionieri Italiani imbarcati anzi stivati come sardine in queste carrette del mare e lasciati annegare come topi, silurati come nel caso del Donizetti e del Petrella dagli “Inglesi” che erano perfettamente al corrente che erano ‘trasporti’ carichi di inermi prigionieri Italiani!!!! Ora la cosa più disdicevole di questa immane tragedia è che lo Stato Italiano ha sempre voluto dimenticare tutto questo ed è veramente assurdo che la TV di stato Greca lo scorso anno ha invitato il Sig. Carnevali mio padre, ed un altro reduce di Rodi ad una trasmissione televisiva per ricordare tutto questo, e non dimentichiamoci che per i Greci non eravamo come oggi graditi turisti, ma truppe di occupazione, mentre lo Stato Italiano nega persino a questi reduci la possibilità di deporre un monumento pagato da loro nel parco di Bresso, a ricordo di quei figli morti per l’Italia…è una vergogna!!!!

 

Amici di “Betasom” aiutate se potete questi reduci, oggi tutti di 86 anni, perchè il tempo per loro ormai è tiranno, alla fine cercano solo un Comune che gli conceda 10 metri quadrati in un parco per porre il loro monumento ai caduti e sarebbe l’unico monumento in Italia a ricordo dei 17.000 naufraghi….sono lieto a chi lo desidera di inviare gratuitamente una copia del libro scritto da Carnevali (non a scopo di lucro 100 copie stampate e pagate da lui per i reduci ed i conoscenti) che si intitola 17.000+1 dove 17.000 sono le giovani vittime di questa tragedia e l’1 rappresenta il Sig,Carnevali che racconta tutta la verità su questa triste vicenda o se volete una copia del CD dell’intervista fatta a Rodi per la TV nell’agosto 2007.

 

Ringrazio lo staff di Betasom per questa opportunità e porgo a tutti i miei più cordiali saluti.”

 

Guido Ferretti

 

Dal sito DODECANESO: il sito italiano sulla storia antica e moderna delle isole dell’Egeo, riportiamo:

AGGIORNAMENTO DEL GENNAIO 2011

Gli oltre 4.000 militari italiani deceduti ora non sono più anonimi. dopo un oblio durato decenni la tragedia dell’Oria viene finalmente alla luce grazie all’impegno di alcuni subacquei greci coordinati da Aristotelis Zervoudis. Essi compiono numerose immersioni sul sito dell’affondamento documentando l’entità della tragedia, l’impatto emotivo ed umano di quello che vedono è così forte che li spinge a coinvolgere la comunità locale indagando presso gli anziani dell’isola. Riescono così ad identificare il luogo della pietosa sepoltura dei corpi spiggiati dopo l’affondamento e decidono di costurire un monumento sulla spiaggia del naufragio. Tutta la comunità locale partecipa a quest’iniziativa ed il sindaco decide di mettere a disposizione dei fondi. Contemporaneamente alcuni parenti dei militari italiani deceduti nel naufragio, riesce a   rintracciare la lista di tutti i militari imbarcati dopo lunghe e difficili ricerche. Questa lista è uno dei misteri dell’Oria, ritenuta inesistente era in realtà scomparsa nei polverosi archivi italiani, ne vennero trovati indizi negli archivi della Marina mentre alcuni sostenevano che una copia fosse stata custodita presso i francescani di Rodi. Finalmente la sig.ra Barbara Antonini, il cui nonno era scomparso nel naufragio, riuscì a rintracciare la lista presso la Croce Rossa. Grazie alla sua determinazione ed al supporto fornito dal coordinamento  dei parenti, molte famiglie dei dispersi in Egeo (circa 15.000 militari) potranno almeno cercare il nome del proprio congiunto e se lo scopriranno in questa lista sapranno almeno dove poter depositare un fiore. Il sito Dodecaneso divulga pubblica per la prima volta, con l’autorizzazione delle famiglie, la lista completa degli imbarcati sull’Oria, si tratta di un documento di eccezionale importanza storica oltrechè umana.

Si ringrazia sentitamente i dirigenti del sito www.piroscafooria.it per le ricerche storiche effettuate che hanno permesso di arrivare alla conoscenza di fatti importantissimi della nostra storia.

Ufficio Storico della Marina.

 

 

Ai numerosi visitatori che richiedono informazioni sui naufraghi della Seconda guerra mondiale, consiglio la seguente prassi da seguire.

 

 

Di norma, i dati relativi a specifiche navigazioni e campagne di unità della Regia Marina, della Marina Militare e navi da carico militarizzati sono conservati all’UFFICIO STORICO DELLA MARINA MILITARE (USMM);

 

 

Per i contatti, vedi il link che segue:

 

http://www.marina.difesa.it/storiacultura/ufficiostorico/Pagine/default.aspx

L’Ufficio Storico non effettua ricerche “per conto terzi”, ed è quindi necessario recarsi a Roma nella sua sede, su appuntamento. Tuttavia il servizio è efficiente perché, segnalando in anticipo qual è l’ambito della ricerca, gli addetti fanno trovare al ricercatore i faldoni già pronti nella sala consultazione, avendoli reperiti nell’archivio sotterraneo in precedenza.

 

 

Converrà, in sede di contatto con l’USMM, specificare in modo approfondito di cosa si necessita, onde verificare se hanno ciò che occorre, vale a dire una valutazione preventiva del materiale disponibile, soprattutto per evitare un viaggio a vuoto a Roma.

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 27 Aprile 2013