L’AGONIA DELLA LOCARNO

di  Emilio CARTA

Rapallo. Sono ancora tanti i “rapallini” che ricordano il 5 gennaio 1961. «Quel “maledetto” cinque gennaio millenovecentosessantuno – precisano marinai e pescatori del borgo – quando, a causa di una fortissima libecciata, quel piccolo mercantile di 3.897 tonnellate, il Locarno, come una balena ferita a morte, si incagliò sulla scogliera del litorale rapallese».

A provocare tanto sconquasso non c’era il mitico comandante Achab ma, più prosaicamente, un capitano di lungo corso, il quarantenne Vittorio Sallustro da Torre del Greco, che rivisse chissà quante volte, come in un incubo, quella notte di tregenda. A bordo, con lui, c’erano ventidue uomini di equipaggio, molti dei quali genovesi, ed un abissino.

L’ennesima tragedia del mare, che per fortuna non fece vittime, portò il nome della cittadina rapallese sulle prime pagine e sugli schermi di mezzo mondo e venne accompagnata da una serie di iniziative umanitarie e promozionali che oggi, probabilmente – non dimentichiamo che all’epoca correva l’anno 1961 – farebbero sorridere.

«Riuscii a filmare i momenti più drammatici della nave in preda alla tempesta con una piccola cinepresa ad otto millimetri – racconta il rapallese Mauro Mancini – Ricordo come fosse oggi che qualche settimana più tardi, i negozi di souvenirs avevano già in vendita le cartoline illustrate che mostravano il Locarno in mille pose, come una fotomodella, con la prua che sbatteva sulla scogliera del lungomare Vittorio Veneto».

«Fu ancor più simpatica l’iniziativa dei vigili urbani rapallesi – aggiunge Mancini – I “cantunè” offrirono all’equipaggio i pandolci e lo spumante che avevano avuto in dono dagli automobilisti rapallesi per la caratteristica “Befana dei vigili”, un’usanza che in quegli anni si ripeteva un po’ dappertutto».

Il cargo, battente bandiera panamense, era giunto nel porto di Genova il 20 dicembre proveniente da Lubecca e, dopo aver ormeggiato al molo Rubattino, sotto l’occhio vigile della Lanterna, aveva scaricato seimila tonnellate di lingotti di ferro.

Per l’equipaggio, insomma, era stato un Natale sereno, con la veglia di mezzanotte in cattedrale ed i piedi ben piantati sotto la tavola, come tradizione vuole, per tutte le feste comandate.

Il cinque gennaio la nave aveva però lasciato molo Rubattino ed era ripartita con le stive vuote ma con i gavoni di prua e di poppa pieni d’acqua per zavorrare e stabilizzare il mercantile, diretto verso Follonica, in Toscana, per caricare minerale ferroso da trasferire in Germania.

Ma a quell’approdo il Locarno non arrivò mai perché la sua odissea, iniziata davanti al Monte di Portofino, si concluse proprio nelle acque del golfo Tigullio.

Alle dieci del mattino, infatti, il cargo venne avvistato al traverso di Santa Margherita Ligure, a circa un miglio dalla terraferma, dando l’impressione di essere in difficoltà.

Alle sedici il mercantile, lungo centoquattordici metri ed appartenente alla società marittima genovese “San Rocco”, arrivò davanti a Rapallo, all’altezza dell’Excel-sior Palace Hotel. Era ormai in uno stato di ingovernabilità che agli occhi esperti dei marinai – che da terra ne seguivano “a vista” la navigazione – appariva sempre più chiaro.

Il mare lo spingeva alla deriva e, per di più, a causa della forza del mare e del vento, le ancore aravano il fondo sabbioso, senza frenare a sufficienza quella folle corsa verso gli scogli, mentre da bordo gli uomini erano in trepida attesa dell’arrivo dei rimorchiatori.

Alle sedici e trenta il cargo era ormai a meno di trenta metri dal castello sul mare, mentre mezz’ora più tardi la nave si spostò leggermente verso ponente, a nemmeno cinquanta metri dalla balaustra in ferro della passeggiata a mare.

La situazione a quel punto precipitò e la lenta agonia della nave giunse al culmine: la distanza dagli scogli diminuiva progressivamente a venti metri, poi a dieci, a sette, a cinque. Il mercantile infine si coricò leggermente sul fondo sabbioso arenandosi con la prua – alta fuori dell’onda quanto una casa di tre piani – sui macigni posti a protezione del lungomare.

«Fu una scena infernale alla quale assistettero migliaia di persone assiepate sull’asfalto della passeggiata a mare – ricordava anni dopo il rapallese Andrea Pietracaprina – Intanto, a bordo del Locarno, gli uomini d’equipaggio, flagellati dal vento e dalle onde che spazzavano il ponte, apparivano e scomparivano da una parte all’altra della coperta, riconoscibili solo dal luccichio degli impermeabili, per cercare di porre rimedio ad una situazione che appariva ormai senza speranza».

Alcuni rimorchiatori, provenienti dallo spezzino e da Genova non riuscirono ad agganciare lo scafo prima che la situazione precipitasse definitivamente e, per il Locarno, fu la fine.

Alle diciannove e venti i vigili del fuoco genovesi, alla luce di potenti fari, provarono con successo a sparare una sagola a bordo: ad essa, avvolto in un sacchetto di plastica, venne legato un messaggio con la richiesta di conoscere le condizioni dell’equipaggio. Da bordo utilizzando lo stesso mezzo, il comandante rispose che non vi erano feriti.

«Era impossibile comunicare “a vista” anche se vi provarono ripetutamente con i megafoni – raccontava alcuni anni dopo il barcaiolo rapallese Vittorio Pietracaprina – Il frastuono delle onde e del vento, unito allo sfregamento delle lamiere della nave sugli scogli rendeva vano ogni tentativo. Rammento che prima del lancio della sagola a bordo, un radiotelegrafista, da terra, utilizzò il clacson di un’auto appositamente posizionata a poca distanza dal moletto normalmente riservato ai battelli turistici. Cercò di comunicare con l’ufficiale marconista di bordo attraverso l’alfabeto morse e a bordo ricevettero il messaggio anche se nessuno fu in grado di rispondere».

La buona sorte, infine, aprì la propria bisaccia: il Locarno virò di circa novanta gradi distendendosi in senso longitudinale lungo l’asse della passeggiata a mare, con la prua rivolta in direzione levante. La fiancata andò provvidenzialmente  a toccare il moletto d’ormeggio dei “primeri” ed alle quattro del mattino l’equipaggio potè finalmente scendere a terra con l’ausilio di una biscaglina.

A terra li attendevano coperte ed un pasto caldo. Mentre i Vigili del fuoco riponevano cavi e fari, utilizzati sino a qual momento per illuminare a giorno la scena, sulla torretta del castello si spegneva anche la grande stella cometa natalizia.

I tecnici si ponevano intanto i primi interrogativi sulle cause che avevano provocato l’incaglio della nave. Il comandante aveva escluso, infatti, qualsiasi avaria alle caldaie o alla macchina del timone. Priva di carico, e quindi meno resistente alla forza del vento e del mare, la nave, in preda al maltempo, probabilmente non era più riuscita a governare ed aveva cominciato ad andare inesorabilmente alla deriva.

A terra, ovviamente, iniziava il business “made anni Sessanta”, mentre il pittore Nerone Uselli, spalle alle nave, in sommo disprezzo per tutto ciò che era acqua, dipingeva  in un celebre quadro l’apocalittica scena.

All’epoca, chi scrive, frequentava la scuola media statale ricavata nell’ex “casa del fascio” di piazzale Alfieri diretta dalla preside di allora, la professoressa Jolanda Macchiavello.

Confesso che quella mattina di gennaio, uscito di casa e raggiunto ancora insonnolito il lungomare – con i calzoni corti, beninteso, e la pesante cartella di cuoio che mi segava le dita – restai come folgorato da quella nave immane e nerastra, alta quanto una casa di almeno tre piani, che mi si ergeva davanti. Pareva impossibile che un oggetto galleggiante, di tale portata, potesse mai affondare. Eppure era lì, come una sirena ammaliatrice. Ed io, novello e incantato Ulisse, subii il suo irresistibile richiamo: pochi anni dopo mi trovai infatti su un cargo analogo di nome African Monarch e anch’esso battente bandiera di comodo, ma liberiana.

Tito Sansa, all’epoca inviato speciale del settimanale Oggi, in una sua corrispondenza ironica e graffiante, ma soprattutto precisa, da vero lupo di mare, offrì agli affamati lettori uno spaccato da manuale di quell’inconsueto naufragio da salotto definendo quello svoltosi sul lungomare di Rapallo come uno dei più strani drammi del mare dei nostri tempi.

“Tutto è finito bene per le persone, ma ci sono stati anche molti brividi. Un naufragio come questo non s’era mai visto. Di solito le navi vanno a picco nell’oceano in tempesta o si sfracellano su uno scoglio o si incagliano in una rada deserta.

Questo invece è stato un naufragio “fatto in casa”. Se Vittorio Sallustro, il capitano del cargo Locarno, avesse potuto scegliere su un portolano una località per mandare a secco durante una tempesta, col minor danno possibile, la sua nave, difficilmente avrebbe potuto trovare di meglio: si è infilato, infatti, nel punto più stretto al fondo del golfo del Tigullio, arenandosi su un morbido letto di sabbia, proprio di fronte alla “passeggiata”, di una delle più celebri località balneari del mondo.

Ora la nave è incagliata, con le sentine, le stive e la sala macchine allagate, l’elica storta, il timone spezzato. Dalle falle nella chiglia esce e si spande sul mare la nafta, lo scafo emerge tutto, inclinato di quindici gradi su un fianco, pronto a rovesciarsi alla prima forte mareggiata. Ma dieci metri più in là c’è la passeggiata con le palme e le panchine sulle quali, di questa stagione, anziani villeggianti si intiepidiscono le ossa al sole; trenta metri più in là c’è la sfilata degli alberghi. Per i naufraghi ci sono tutte le comodità: lo scalandrone cade proprio al pelo di un moletto, fanno quattro passi e sono all’albergo, camere accoglienti e polli allo spiedo attendono l’equipaggio.

Anche i villeggianti sono soddisfatti. “Che carino è stato il capitano a naufragare qui” dicevano nei giorni scorsi le signore, in gran parte milanesi, fuggite dalle nebbie e dal gelo lombardi. Al riparo, dietro le vetrate dei caffè del lungomare battuto dalle onde, esse avevano assistito con un brivido sottile alle diverse fasi del naufragio, come al cinema; felici che qualcosa di imprevisto movimentasse le tediose giornate di vacanza.

 

IL COMANDANTE AL TIMONE

 

Soltanto ad un certo momento, quando videro lo scafo, enorme sull’acqua, avventarsi con la prora più alta delle case verso gli scogli come se volesse salire sulla terra ed abbattersi sugli edifici, le signore ebbero la sensazione che si trattasse di un naufragio vero e proprio e non di uno spettacolo.

E, lasciato il tè a metà, richiamati i figlioli che stavano con il naso appiccicato alle vetrate, se n’andarono di fretta.

A bordo del Locarno, quel pomeriggio di martedì 3 gennaio, era tutt’altra cosa. Nessuno – almeno così dicono – aveva paura, ma tutti si rendevano conto che le loro vite erano appese ad un filo. Sballottato come un guscio di noce nella rapida di un fiume, il “cargo” andava alla deriva ed ogni minuto che passava la terra appariva più vicina. I campanili e le case sulle colline si muovevano ad una velocità impressionante, ora a sinistra, ora a dritta, poi a prora, poi a poppa, e così via. Era una girandola vorticosa, come se il capitano fosse impazzito e si divertisse a spaventare i suoi uomini.

Ma il capitano non era impazzito. Ritto in plancia, grondante acqua e sudore, capitan Sallustro urlava ordini nel portavoce e, manovrando la barra, cercava disperatamente di mettere la nave alla cappa, cioè con la prora controvento. Impazzito era invece il Tigullio: dal cielo di piombo l’acqua scendeva a secchie rovesce e dal largo battevano contro lo scafo raffiche rabbiose a 70-80 all’ora, ora di libeccio, ora di scirocco, improvvise e a turbine, sicché era difficile affrontarle.

Il mare – ha raccontato un marinaio di coperta – sembrava una padella di frittura, verde e schiumosa; muraglie d’acqua mugghiante, simili a draghi, si abbattevano sulle fiancate e le facevano risuonare come mille tamburi, inondavano la coperta, la spazzavano sommergendola in tutta la sua larghezza, ripiombavano muggendo in mare. E allora il Locarno, che era piombato al fondo di un abisso, risaliva su una vetta e aveva tutt’intorno abissi e seracchi biancoverdi in movimento.

Era quasi impossibile reggersi in piedi: ogni volta che la nave beccheggiava e sprofondava, si piegavano le gambe, quando risaliva sulle creste i piedi brancolavano nel vuoto. Nella sala macchine i fuochisti guardavano preoccupati il clinometro e dalle oscillazioni della lancetta apprendevano che poggiavano i piedi su un ripido pendio. Gli altri, che erano ai posti di manovra in coperta, legati e fradici fino alla pelle, si raccomandavano l’anima a Dio. E l’unica donna a bordo della nave – la moglie del comandante che era salita per un viaggio di piacere – più morta che viva domandava al mozzo diciottenne che l’assisteva in cabina: «Dio mio, ma è questa la vita di mio marito? E’ questo il mare?». «Non lo so signora – rispondeva il ragazzo senza ombra di umorismo – sono al mio primo imbarco».

GOVERNO RELATIVO

 

La danza del Locarno era cominciata appena fuori di Genova. Era ancora notte quando la nave (3.897 tonnellate di stazza, 114 metri di lunghezza, ventidue uomini di equipaggio, tutti italiani, salvo un abissino), mollati gli ormeggi al molo Rubattino, fu presa a rimorchio e condotta fuori del porto. Vi era arrivata un paio di settimane prima, il 22 dicembre, da Lubecca in Germania, con un carico di minerale ferroso. Il viaggio era stato burrascoso, con una tempesta nello Skagerrak,  nebbia nella Manica, una seconda tempesta nel golfo di Biscaglia, una terza tra il golfo di Valencia ed il golfo del Lione, proprio al traverso delle Baleari. Ma il cargo, seppure anziano di trentun anni e ansimante alla velocità di quattro-cinque nodi, se l’era cavata decentemente, senza danni, e gli uomini avevano potuto passare il Natale ed il Capodanno a terra.

Martedì mattina, dunque, il Locarno esce da Genova. E’ diretto a Follonica, in Toscana, per caricare dell’altro minerale da trasportare a Rotterdam, in Olanda. La nave è vuota e alta sul mare, nonostante che i doppi fondi siano regolarmente zavorrati con acqua, e il vento di libeccio la investe in pieno e la fa scarrocciare. Tutti però sono tranquilli a bordo. Che cosa è una bufera in casa nostra in confronto a quelle dell’Atlantico? E’ questione di poche ore, pensano tutti; Follonica è vicina, ci si arriverà prima di sera.

Senonché, man mano che la nave avanza, il tempo peggiora. Il mare è a “forza sei”, Radio Malta dà il gale warning, l’avviso di tempesta  “forza sette-otto” su tutto il Me-diterraneo. Le condizioni di governo della nave cominciano a farsi difficili. In tal caso vi sono due soluzioni: o buttarsi al largo, af-frontando la tempesta, o cercare riparo vicino alla costa. Il capitano del Locarno preferisce questa seconda manovra, fidandosi so-prattutto dei bollettini meteorologici che danno showers costanti di libeccio con tendenza a tramutarsi in ponente.

Giunto all’altezza di Capo Portofino, pertanto, capitan Sallustro vira di bordo e si ripara nella rada di Santa Margherita, in relativa bonaccia, dove getta l’ancora. Sono le dieci del mattino e tutto va bene: le macchine sono ferme, le caldaie sotto pressione, la nave è alla cappa in un posto tranquillo. Senonché il tempo cambia e il libeccio, anziché volgere in ponente, gira in scirocco. Raffiche violente si abbattono ora contro il cargo e le ondate lo scuotono tutto. L’ancora ormai non tiene più, ara sul fondo, e la nave scarroccia, tendendo verso la scogliera di Santa Margherita.

Il capitano allora dà attraverso il portavoce il “posto di manovra”. E’ mezzogiorno, ma è buio e sembra notte. Tutti e otto i forni delle caldaie sono accesi. Si salpa l’ancora ed il comandante urla l’ordine “avanti a tutta forza”. Prende  lui stesso la barra del timone e affronta lo scirocco. Ma l’impeto del vento e del mare è tale che le macchine non reggono la forza del mare. I 2.700 cavalli  vapore  non riescono ad imprimere al Locarno una spinta sufficiente ad avanzare.

La nave è sempre traversata al mare e passa dalla situazione di “governo relativo” a quella di “non governo”. Il timone cioè è inutile e inerte, mancando della spinta che dovrebbe far avanzare la nave. Ormai, è chiaro, non c’è nulla da fare, la nave sta pericolosamente avanzando verso terra, si cominciano a vedere distintamente gli uomini e le case sulla riva di Rapallo.

Allora il comandante urla «Fuori un’ancora!». «Fuori la seconda ancora!». Sono momenti drammatici, perché le catene si sono bloccate nei gavoni e sembra che non vogliano saperne di uscire.

Ma alfine le ancore vengono gettate, con sei lunghezze di catena. Ora la nave è alla cappa, le macchine sono di nuovo ferme, dovrebbe essere finita. E invece neanche ora le ancore fanno presa sul fondo, e continuano ad arare; la terra, gli scogli, le case, gli alberi di Rapallo continuano ad avvicinarsi implacabilmente.

Un nuovo “avanti a tutta forza”, un “indietro a tutta forza” sono inutili; l’equipaggio è sfinito. Il timone si muove inerte tra le braccia del comandante, senza governare, come il volante di un’automobile su un lastrone di ghiaccio. L’elica sembra che giri a vuoto. Il radiotelegrafista Pietro Marcucci, un triestino che ha navigato in tutti i mari del mondo, riceve l’ordine di trasmettere il segnale di distress («stiamo correndo un grave pericolo»), il segnale immediatamente precedente a quello dell’SOS («salvate le nostre anime»). Da Genova accorrono quattro potenti rimorchiatori ma, a causa della furia del mare e dei fondali bassi, non possono avvicinarsi.

Per alcune ore il Locarno resiste ancora, avanti e indietro, cercando di tenersi lontano dalla riva, con disperate manovre. Tutti gli uomini sono ai loro posti, nessuno ha mangiato, le ore passano lente, senza che si riesca ad uscire dalla trappola del Tigullio. Alle cinque del pomeriggio, d’improvviso, la prora, che ora è volta verso la riva e sembra sfiorare le case di Rapallo, tocca sul fondo. E’ un colpo secco, una falla si apre nei gavoni. Ma la lotta disperata continua ancora per ore.

Al largo incrociano i rimorchiatori; da bordo del Locarno vengono lanciati razzi per segnalare la sua posizione. Ma il mare è sempre furioso ed i soccorritori non possono avvicinarsi. Da terra una folla enorme segue con ansia le vicende della nave. Se il vento diminuisse, se il mare calasse, il Locarno potrebbe ancora salvarsi.

Invece il pericolo si è fatto più grave, ci sono scogli da ogni parte, la nave rischia di rovesciarsi, sbattuta avanti e indietro dalle ondate.

Alle dieci di sera un altro urto; stavolta la prora si incaglia. Da terra, dove sono stati accesi potenti fari, si distingue la falla. Ormai le distanze sono ravvicinate, il capitano Sallustro ed il comandante dei pompieri che sono venuti in suo soccorso possono comunicate a voce, attraverso i megafoni. Subito dopo la catena di un’ancora che aveva fatto presa su uno scoglio si rompe.  Il Locarno viene ora trascinato verso il vecchio castello di Rapallo, ma poi il mare cambia direzione e lo riporta verso la spiaggia, sempre sballottandolo. Alle due di notte, l’agonia continua ancora; la nave, che s’è messa al traverso, sbatte contro un moletto che si protende per una decina di metri dalla riva. E’ il colpo di grazia. Sono dieci-venti colpi violentissimi. Anche il timone si spezza, una pala dell’elica si piega. Le stive uno, due e tre vengono sfondate, le tanke sono forate, la nafta comincia a galleggiare sul mare, l’acqua salsa invade lo scafo. Le sentine sono allagate, l’acqua si precipita anche nella sala macchine. I forni vengono spenti d’urgenza per evitare che scoppi un incendio.

Ora è davvero finita; l’acqua in sala macchine significa aver perso completamente il controllo della nave, manca ogni energia, viene meno la luce.

FINALMENTE A DORMIRE

 

Alle tre di notte, a malincuore, il capitano dà l’ordine di abbandonare la nave. La terra è proprio a due passi, ma le ondate sono altissime ed è impossibile scendere in acqua. Allora si improvvisa una teleferica di soccorso. Il nostromo getta una cima e i pompieri fanno salire a bordo un cavo che viene legato ad un picco. Sul cavo, trattenuto dalla parte di terra da una decina di pompieri (per le forti oscillazioni della nave è infatti impossibile agganciarlo ad un sostegno fisso) scende per prima la moglie del capitano, poi, ad uno ad uno, diciannove dei ventidue membri dell’equipaggio, ciascuno col suo fagottino.

A bordo, sulla nave che oscilla paurosamente rimangono il capitano, il radiotelegrafista e un macchinista. Sperano ancora in un miracolo: e se scendessero la nave verrebbe considerata un relitto.

Ma alle sei di mattina, quando il mare comincia a calmarsi un po’ il capitano si rende conto che non c’è più nulla da fare. Anche la stazione radio viene chiusa. Alle nove di mattina i tre uomini a bordo calano una biscaglina e lo scalandrone lungo il bordo. Ora è possibile scendere a terra. Il naufragio, l’incredibile naufragio nel “mare di casa” è terminato: lo scalandrone posa giusto giusto sul moletto, i naufraghi possono andare a mangiare e a dormire all’albergo. Ora incomincia la battaglia tra armatori e assicuratori, incomincia il lavoro di recupero della nave.

Ma perché – ci si domanda – la nave si è arenata? I tecnici daranno le loro risposte. Ma la spiegazione, tutto sommato, è una: il Locarno è una nave vecchia e piccola, troppo debole per affrontare il mare. Ha avuto la fortuna di arenarsi a Rapallo, anziché di sbattere su uno scoglio o di andare a picco nell’Oceano, come le navi sono solite fare».

 

CENERENTOLA

di Pier Luigi Benatti

 

Trent’anni di servizio sono tanti, anche per una nave. Significano il continuo altalenarsi di porto in porto sino alla nausea, una ciclopica montagna di materiali che si sono trasferiti, una babelica torre di casse, di fusti, di sacchi inghiottiti nelle stive e rigurgitati nei docks.

C’è l’assalto di cento tempeste ruggenti, il monotono sgranarsi di un interminabile rosario di vuote giornate di navigazione, la deprimente sosta attraccati a luride banchine, con gli argani che cigolano lamentosamente, le gru che ti frugano le viscere, il turpiloquio sconvolgente degli scaricatori, e l’odore insopportabile di pelli mezze conciate, di sostanze fermentate, di acidi soffocanti, che ti resta addosso per mesi e mesi assieme all’unto ed al catrame dei lubrificanti.

Un’esistenza infelice, da umilissima bestia da soma, in uno scafo arrugginito, maculato qua e là di un minio purpureo, fasciato da strisce di nafta lasciate dal pennello di cento risacche, sotto tutte le latitudini, sì da sentirsi un povero Don Chisciotte dall’armatura goffa, arlecchinesca e sconnessa.

Trent’anni di dura, nascosta, fatica, che l’affetto spontaneo di quel pugno di uomini che ti abitano non riesce a lenire e che si acutizza ogni volta che, nelle vie del grande porto, sfiori una di quelle superbe città viaggianti, tutte nitore e luminosità. Prima di finire laggiù, in fondo al più appartato e periferico dei moli.

E’ la vita del cargo, sotto tutte le bandiere.

Ma sono bastate poche ore, la forza del vento e la fantasia del mare, perché anche una povera nave potesse  rivivere intera la favola di Cenerentola. E così, lasciato il fardello sotto la Lanterna, al calar delle tenebre, questa trascuratissima ancella dell’Oceano, ha fatto la sua comparsa come una grande dama sulla promenade d’una delle più celebrate spiagge alla moda, sotto gli sguardi stupiti dei presenti.

Poi sono giunti i cronisti, i fotoreporters, la televisione; poi il suo nome è corso nell’etere e la sua figura è stata riprodotta sui rotocalchi d’ogni continente; poi la sua vicenda è stata narrata in tutte le lingue e tutti la conobbero.

Ospite d’eccezione, che, increduli, in tanti vennero a curiosare da vicino, dominò sovrana le conversazioni e divenne soggetto d’obbligo per i ricordi fotografici, dando finalmente il cambio al nostro vegliardo castello.

Ma come in tutti i libri di favole, dopo sedici pagine, il racconto è giunto al termine.

Cenerentola se n’è andata verso quell’orizzonte donde era uscita ed è bello pensare che, anche questa volta, alla fiaba non sia mancato il lieto fine. Che importa, infatti,  se si parla di disarmo, di demolizione… l’impronta della scarpetta di questa Cenerentola del mare è lì, su mille giornali, a ripeterci una storia fantastica che sembra irreale, ma che è invece vera.

 

Una testimonianza

Cosa ricordo? Ricordo un pomeriggio livido, fatto di acqua e di vento, tanto vento… L’angolo della tabaccheria Mocellin non dava nessun ridosso, l’ombrello aperto ti spingeva indietro ed il vento ti infilava l’acqua negli occhi e giù per il collo… ma non mollavo; quella “carretta” nera che mostrava larga parte di rosso dell’opera viva cosa vuol fare? Vuol dare una pruata al pontile di Porticciolo?. Accidenti, se volevano dar fondo dovevano decidersi prima! Così non terrà,… è scarica e fa troppa vela, è in un fondale troppo basso, troppe lunghezze di catena da filare per sperare…

Alle sette di sera la prua si alzava ed abbassava producendo un rumore strano e lamentoso su di uno scoglio di fronte all’allora Gran Bar Dedalo; all’alba la nave era parallela alla passeggiata a mare, tenuta a distanza da essa solo dal moletto dei Primeri… sembrava ormeggiata.

E fu una vera “Epifania”, soprattutto per coloro che non avevano mai visto una nave e a quegli ottanta metri di ferro tributavano tutto il loro stupore.

Io guardavo e pensavo: ce ne vorranno di cavalli di forza per portarla via! E vennero sette Fratelli Neri e tirarono per sette giorni… Ma Lei si era scavata il suo letto nella morbida sabbia del golfo ed era tanto stanca. si era rassegnata al Suo destino deciso dagli uomini… Non voleva vedere altri porti… Infatti i rimorchiatori ebbero un fugace successo e poi la dovettero abbandonare per non essere tirati sotto anche loro… Noi eravamo tanto giovani, Emilio. Mi piaceva pensare che le navi avessero un’anima…

Giulio Cuneo

Rapallo, 03.03.11