Donne
E sedutosi davanti al tesoro (Gesù) osservava come la folla gettava monete nel tesoro; e tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a se i discepoli, disse loro: <In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri, poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere.>
Marco, 12,38-44
Questo è ciò che anch’io penso delle donne e della loro generosità.
Non ne ho parlato molto in questi miei ricordi, non perché, ininfluenti, abbiano attraversato la mia vita, anzi; se la vivo serena, è anche grazie alle straordinarie figure femminili che ho avuto la fortuna di incontrare, da mia madre a mia moglie sino all’ultimo sempre al mio fianco, anche in quanto ho qui scritto, ma perché, ragazzo a quel tempo, ci si soffermava meno sull’altro sesso, imbevuti com’eravamo di “fascistico” maschilismo. Avanzando negli anni, capii che, come ricordava l’affascinante attrice Michèle Morgan, sono loro <…che sempre pagano un prezzo più alto >.
Volendo rendere omaggio a tutte sotto una visione laica, mi limiterò a ricordare quelle del tempo di guerra perché, proprio in simili situazioni estreme, emergono le qualità essenziali; furono leonesse nel portare avanti il loro ruolo di perpetuatrici della specie.
E’ provato statisticamente che nove mesi dopo luttuose calamità, c’è un incremento della natalità; è l’uomo che, a fronte di tanta morte o paura, tenta, a volte anche inconsciamente, di rilanciare la vita come fa l’albero che, prima di morire, produce in un ultimo sforzo vitale, più frutti e quindi più semi, così da assicurare la continuità alla specie.
E’ difficile parlare di loro senza cadere nell’ovvio o nel moralismo, ma una cosa va detta: l’Italia, spaccata in due e abitata da italiani ormai fuori di senno, senza alcuno che facesse rispettare la legge, occupata da stranieri che in casa nostra si combattevano e ci combattevano, grazie alle donne, ha continuato a vivere.
Le famiglie, ancorchè smembrate da forzate assenze d’alcuni suoi componenti, non si sono sfasciate per loro merito e le hanno traghettate sino ai giorni nostri, sopperendo alle assenze maschili, sostituendole in casa, nel lavoro e nella scuola, rivelando una combattività fino allora insospettata.
Oggi, passata l’emergenza e dimenticandosi alcuni cosa seppero fare quelle donne per salvare la famiglia dallo sfascio, accompagnando per mano quei bambini sino a divenire uomini, oggi dicevamo auspicano di poter impunemente sostituire quel coagulante con non si sa quale alternativa.
Noi figli, nonostante crescessimo in quel caos generale che per quanto se ne parli oggi, resta inimmaginabile, siamo stati, al limite dell’impossibile, accuditi e dalle nostre madri abbiamo appreso ancora i vecchi principi fondamentali che ora, in tempo di benessere, sono messi in discussione, se non dimenticati da chi ci ha seguito. Quell’educazione si rivelò preziosa per il nostro equilibrio, facendoci sperare e stimolandoci, fin da allora, a credere e, appena possibile, a dar vita ad un domani migliore anche se, quotidianamente in quei tempi, i violenti con il loro agire, parevano smentirle e disattenderle.
All’epoca della Repubblica di Salò, negli ultimi tempi della guerra, uscendo da casa, potevi incappare in uno sconosciuto morto ammazzato in strada; era consigliabile non fermarsi per recitare anche una sola preghiera perché, con quel gesto d’umana pietà potevi, platealmente e senza neppure volerlo, dare l’impressione agli esecutori di non condividere le motivazioni di quell’uccisione; agli occhi degli altri invece, saresti stato “etichettato” e perseguito assieme alla tua famiglia, quale sostenitore della parte che lo aveva ucciso, anche se a te, quest’ultima, continuava ad esserti realmente ignota. Vicino a quei morti ho sempre visto una qualche donna pregare piangendo.
In tutto questo sovvertimento di valori umani, si possono anche capire se non giustificare, quelle donne che si dettero agli occupanti tedeschi, non certo per condivisione della loro fede politica o per accettazione ideologica della dittatura; molte v’incapparono nella ricerca di un contatto, che poi si rivelò galeotto, atto a poter liberare il congiunto appena caduto in una retata cittadina, attuata per catturare forze di lavoro da deportare in Germania a sostituire i lavoratori tedeschi inviati al fronte, o peggio, solo per eseguire una rappresaglia vendicativa.
Altre, irretite da promesse rivelatesi poi mendaci, pensarono di rendersi utili ai parenti “internati” nei lager (all’epoca, non si sapeva cosa realmente succedeva in quei campi) dimostrandosi compiacenti con gli occupanti sperando di, attraverso questi, influenzare i loro camerati aguzzini, per permettere almeno di far arrivare colà, aiuti e corrispondenza.
Questa disponibilità finiva con il “rompere il ghiaccio”, anche fin troppo, fra le parti. Gli occupanti potevano apparire, agli occhi di chi aveva bisogno di tutto per vivere che, attraverso loro, si sarebbe anche potuto tentare di alleviare le sofferenze dei loro cari “internati”. In molti casi, in quei giorni, gli occupanti parevano detenere tutto ciò che esse ritenevano vitale. In fine c’è anche l’altro aspetto che non và sottaciuto; tutti gli uomini validi erano da troppo tempo lontani da casa e, si sa, la carne è debole. A loro volta gli stessi occupanti avevano dovuto lasciare le loro famiglie, e sapevano anche che anche là quotidianamente venivano bombardate. Solo dopo si seppe cosa realmente, in quei giorni, stava succedendo in Germania; mio zio Mario, lavoratore deportato, “aggiustatore” dalle mani d’oro, seppe rendersi utile in mille frangenti. Quante volte, il giorno dopo l’ennesimo bombardamento, veniva inviato a riassestare le case bombardate dove incontrava vedove bianche, a loro volta disponibili.
Finita la guerra, quelle che avevano ingiustificatamente perso la testa furono, dai partigiani, arrestate, insultate ed esposte al pubblico ludibrio, dopo essere state rasate e aver loro imbrattato con pittura il cranio nudo; venivano poi fatte sfilare per le strade e tutti si sfogavano ad insultarle o peggio. In quelle occasioni, come sovente capita, le più implacabili accusatrici furono spesso le altre donne, quelle la cui condotta, nel frattempo, non era certo irreprensibile con gli ultimi arrivati, i “liberatori”.
Generalmente, le prime, venivano rinchiuse per qualche giorno in guardina e, dopo averle sommariamente processate e redarguite, rispedite a casa, additandole come <puttane >.
Quelle invece che si portarono, in letti del tutto simili, i “liberatori”, sono passate alla cronaca dell’epoca con l’accattivante nomignolo di <segnorine >. Entrambe però furono spinte, forse senza neppure saperlo, dalla necessità di riconfermare il trionfo della vita sulla morte, andando assieme al maschio, in quel momento, “dominante”. Questo, di massima, era la situazione che poi, caso per caso poteva anche avere altre motivazioni.
Non intendo dare giudizi morali perché racconto cose viste e memorizzate con gli occhi di un ragazzo cresciuto, per alcuni anni, in mezzo alla morte, al dolore, alle privazioni e alla paura; bisogna inquadrare tutto in quel particolare momento storico e psicologico in cui spesso non era facile ravvisare il bene dal male, il torto dalla ragione e il falso dal vero. Eravamo troppo affamati, terrorizzati ed assonnati per poterlo nettamente percepire.
E tutte le altre donne? Come sempre capita a chi, in silenzio, compie il proprio dovere, la quasi totalità soffrì a casa, tacitamente cercando, nei limiti del possibile, d’essere punto di riferimento, supplendo così anche chi era forzatamente assente; stettero, finché fu loro possibile, vicino ai propri uomini, non facendo loro mancare la propria presenza ogni qual volta ve ne fosse l’opportunità.
Contrariamente alla guerra “15/18”, quest’ultima portò il fronte in mezzo alle nostre case e nelle nostre strade; anche qui si poteva morire a causa dei continui bombardamenti o per mano di avversari fuori di senno, soffrendo disagi, spesso paragonabili a quelli di chi combatteva. E le donne, eterno punto di riferimento, passarono attraverso quest’immane tempesta, preparando noi ragazzi, nell’attesa del ritorno dei padri sopravissuti, ad affrontare il dopoguerra senza mai perdere di vista i veri valori dell’uomo, mai come in quei giorni così travisati e calpestati.
In questo ricordo è giusto accomunare le donne della gente di mare che a Genova, ed in Liguria in generale, terra di marittimi, sono sempre state numerose. Se pur allenate a lunghi periodi di forzata separazione, in tempo di conflitto quella trepidazione divenne incubo continuo perché le notizie negative o, quanto meno contraddittorie, fornite dai vari bollettini radio, che per ragioni di segretezza frammista alla propaganda, censuravano i dettagli, non indicando mai dove erano realmente avvenuti gli attacchi che stavano segnalando ne sapevano dove quel giorno stava navigando il loro congiunto. Nell’indeterminatezza, ognuna poteva pensare di aver perso il familiare e, quindi tutte indistintamente, n’erano coivolte; né contribuiva a confortarle il nostro servizio postale, cronicamente inefficiente ma che in tempo di guerra, ove possibile, lo era ancor più.
Quelle poche lettere che riuscivano ad arrivare, moltissime andarono distrutte per causa di eventi bellici, avevano molte righe cancellate da un impenetrabile largo segno nero, specie in quei passaggi che indicavano luoghi o date ma anche semplici espressioni di sconforto o disappunto a riprova che l’unica cosa da noi funzionante efficientemente era la censura fascista che, in questa specifica attività, faceva faville.
Molte volte gli scriventi tornavano prima che giungessero le loro ultime lettere ma, troppo spesso, succedeva che quelle ferali del Ministero fossero recapitate alla famiglia dai Carabinieri, magari un attimo dopo aver finito di leggere la tanto attesa lettera, consegnata poco prima dal postino tradizionale e firmata da chi, nonostante tutto, continuava a scrivere di credere in un avvenire migliore da edificarsi a fine guerra.
In ultimo, non posso non ricordare tutte quelle donne ebree, madri o spose che, pur di non distaccarsi dalla propria famiglia, decisero spontaneamente di imbarcarsi esse stesse sui treni che deportavano nei lager i loro cari e poi, contemporaneamente ad essi, ma in campi rigorosamente separati, soccombere.
Tutto quello che ho scritto è frutto di ciò che oggi rivedo come se stessi guardando uno sfocato dagherrotipo; come quello, anche la memoria non è sempre di facile “lettura”. Posso anche aver descritto cose che, pur nella più completa buona fede, la patina del tempo che sbiadisce ogni cosa, mi può aver fatto travisare; perdonatemi, sarà l’età e l’infinito amore per questa mia Liguria.
Volendo fare un bilancio della mia vita devo dire che fu varia e senza insormontabili mutamenti; questo grazie alle persone che mi sono state attorno. Mio padre mi ha dato esempio di retta onestà e mia madre di profonda e partecipata fede. Per parte mia posso essere onorato d’aver vissuto accompagnato da pochi veri amici ma per me importanti, due dei quali sono oggi tumulati nel Famedio dei Genovesi Illustri a Staglieno.
Un solo grande, incolmabile rimpianto è quello di aver perduto, negli ultimi chilometri che mi rimangono da percorrere, la insostituibile compagnia di mia moglie. Il destino, insensibile ai miei desiderata, ha dato invece corso al proprio programma già predeterminato.
A tutte loro dedico questa poesia di Vito Elio Petrucci, il poeta che mi ha è stato amico per una vita:
FIN CHE NO TI SENTI
Fin che no ti senti
in te’na notte de lunn-a
l’ödô do limoneto
derrê a-a muagetta:
allöa l’è primmaveja.
Gh’è drento tutti i peccoei do mondo
E a coae de fâne di atri.
Allöa lìè primmaveja, pe accorzise
Che appreuvo a quello fî d’äia döçe
( o gusto ti o senti in bocca)
Gh’è o segreto de ‘na natüa
Che de peccòu in peccòu a fa cammin.
Libera traduzione: Finché non senti in una notte di luna l’odore del pittosporo dietro al muricciolo: allora è primavera. Ci sono dentro tutti i peccati del mondo e la voglia di farne degli altri. ■ Allora è primavera per accorgersi che dietro a quel filo d’aria dolce (il gusto lo senti in bocca) c’è il segreto di una natura che di peccato in peccato fa cammino.
Renzo BAGNASCO
foto del webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 28 dicembre 2014