“LONDON VALOUR”
LA NAVE CHE AFFONDO’ DUE VOLTE
Prima Parte
Risacca eccezionale, presagio di tempesta!
Nel gergo dei bordi il termine mare lungo fa drizzare le antenne! Si tratta di quel sintomo ancestrale che localizza, in una zona non troppo lontana, un vento tempestoso che avanza inesorabilmente e con il quale, presto, si dovranno fare i conti…
1969 – La T/n Michelangelo in uscita dal porto di Genova scortata dal M/r Torregrande. In primo piano cinque rimorchiatori di guardia sulla caletta dei Piloti.
Era ancora notte fonda quando Charly, arrivando dalla placida Riviera di Levante, percepì, camminando, una strana sensazione d’inquietudine: il Torregrande era attraccato in fondo al molo Ovest del Porto Petroli di Multedo, ma i colpi dei bottazzi contro i parabordi di legno della banchina si sentivano da lontano ed erano secchi, regolari e si sommavano a quelli più tenui degli altri mastini: Messico, Canada, Nuraghe e Casteldoria, che completavano la squadra di guardia quel 9 Aprile 1970. I fanali di via di tutti i rimorchiatori portuali, perfettamente allineati in banchina, erano accesi e i loro alberi disegnavano nervosi balletti aerei. I tozzi scafi, pur essendo legati, spiattellavano e roteavano all’esterno con un lasco uguale all’imbando dei cavi. Quando le cime e gli stroppi di catena venivano in forza, ringhiavano minacciosi in un coro squinternato e lamentoso. Il nostromo Zeppin, si sa, aveva fiuto e già da qualche ora aveva rinforzato gli ormeggi e quando vide Charly affrettarsi in fondo al molo, attese l’attimo giusto e balzò in banchina come un felino, gli si fece incontro mostrando una cima spezzata e disse nel suo strambo dialetto carlofortino: -“Cumandante questa a l’è a segunda…sa continua sta risacca duvemmu scappà cumme levri”- Trad. “Comandante, questa è la seconda cima che si spezza…se continua questa risacca dobbiamo lasciare l’ormeggio come lepri!” Nella notte, La Direzione del Porto Petroli aveva allertato i servizi portuali e le maestranze di guardia, quindi, verso le tre, ordinò ai Comandanti delle petroliere d’interrompere la discarica, di staccare le manichette dai manifolds (mar.attacchi) di bordo e raddoppiare i cavi d’ormeggio. Charly salì sul Ponte di Comando, diede una ditata al barometro e lo mise a confronto con il barografo. Si trattava di un antico rituale imparato nelle traversate invernali del Nord Atlantico, quando la nave si trovava all’interno di una vastissima area ciclonica ed il Comandante cercava d’individuarne il centro per poterlo evitare. La depressione in avvicinamento sul golfo ligure era profonda e, per l’occasione, si faceva annunciare da un mare lungo molto atipico e da una sconcertante lettura barometrica: 749 m/m; valore piuttosto basso e che, fatto ancor più grave, tendeva a diminuire. L’equipaggio si radunò in Stazione Radio, mentre Gino inforcava le cuffie per ricevere i bollettini meteo di Roma radio in grafia, e quello di Grasse radio in fonia. La situazione era preoccupante. Le previsioni annunciavano una forte libecciata sul golfo di Genova. L’alba spazzò il buio con decise folate di tramontana che diedero soltanto una tenue speranza di contrasto a quel mare gonfio che, in modo così ineffabile e silenzioso montava la diga, si riversava sull’aeroporto e rimaneva lì, sospeso come un lenzuolo cupo, pietoso, immobile. La pista, così come la diga, non affioravano più. Tutto rimaneva coperto e poi ricoperto dal rimbalzo del mare che dalle calate del porto ritornava verso il largo. Tutto si svolgeva in assenza di vento, in modo meccanico, silenzioso e pur tuttavia dava un senso di soffocamento, provocato da una forza incontenibile che attanagliava e bloccava qualsiasi movimento teso a liberarsi da quella morsa anomala e spettacolare. Verso le dieci il cielo di ponente era pulito, mentre a levante montavano nuvole strane che, oscurando il sole, proiettavano in mare ampi coni di luce giallastra. Il vento improvvisamente prese forza e definì la sua direzione: veniva da scirocco. “Lo scirocco non ha mai fatto danni qui a Genova. Se rimanesse così… Disse con poca convinzione Bobby, il 1° ufficiale. -“Si, è vero, lo scirocco entra in porto, ma dalla porta di servizio, crea correnti strane, rovina le manovre, ma poi se n’esce dalla finestra senza sfondare”- sostenne Gian, il direttore di macchina. “A volte i bollettini sbagliano tutto. Lo ammetto! ma oggi la depressione è troppo forte e avanza rapidamente” – Ribatté Gino con scarso ottimismo – Zeppin, stranamente silenzioso, se ne stava appoggiato al vetro centrale, teneva le gambe e i gomiti divaricati, in quella tipica postura che i naviganti assumono quando il mare è burrascoso. Zeppin, aveva lo sguardo fisso verso sud, alla ricerca di quel bandolo che gli sfuggiva; intuiva il pericolo, lo inseguiva e forse lo sfidava con il magnetismo dei suoi occhi neri che tante tempeste avevano visto. Poi, un sobbalzo dello scafo lo scrollò da quell’idea fissa, e lo fece venire improvvisamente allo scoperto: “Stu sciocu u nu me incanta pe un bellu belin! U ventu u ghe ripreuva, fascendu u giu du follo, poi u pigia a rincursa, pe vegnine in tu cu… Trad. : “Questo scirocco non m’incanta per niente! Il vento poi ci riprova facendo il giro del Fullo, (noto circuito stradale genovese) poi prende la rincorsa, cioè si rinforza per venirci nel c…” Zeppin, a suo modo, aveva disegnato perfettamente il quadro meteorologico. Verso le 11.00, infatti, il vento girò nuovamente a libeccio, rinforzando d’intensità. Fu a quel punto che dalla prima petroliera in porto giunse la chiamata d’assistenza. Alcuni cavi si erano spezzati, ed urgeva la spinta di un robusto rimorchiatore per tenere affiancata la nave al pontile per ricomporre l’ormeggio. Nel giro di mezz’ora, i cinque rimorchiatori di guardia si posizionarono a spingere le pance semi-scariche di quegli enormi cetacei che pendolavano lungo la banchina, ed erano a stento trattenuti dai doppi springs. (mar. cavi a batticulo) Al Torregrande, che era il più potente rimorchiatore in servizio nel porto di Genova quel giorno, giunse l’ordine di andare a mettere la prua, provvista di un enorme paglietto (parabordo) al centro della Esso Liguria. Si trattava della prima gasiera italiana di grandi dimensioni, che era in allestimento lungo la banchina nord-sud della Fincantieri di Sestri Ponente. La nave era vuota e quindi completamente esposta al vento, non solo, ma la sua larghezza sommata alla lunghezza del Torregrande lasciava a quest’ultimo soltanto un metro di spazio dall’altro molo. Quest’ultimo particolare ebbe la sua importanza ogni qual volta la gasiera, sotto la spinta della risacca, rimbalzava di qualche metro ed il Torregrande, spingendo con i suoi 2500 cavalli, doveva accostare di almeno 20° per non danneggiare la poppa contro la già citata banchina contigua e parallela. E’ inutile dire che questa strana manovra avveniva ad ogni flusso e riflusso del moto ondoso. La situazione peggiorò quando, verso mezzogiorno, il vento aumentò ancora ed un paio di maone, (vecchie imbarcazioni portuali di legno) adibite alla pitturazione esterna delle carene e provviste di alti e luridi ponteggi, ruppero a loro volta gli ormeggi e scarrocciarono addosso al Torregrande che rimase imbottigliato in quel cul de sac fino a tarda sera, quando finalmente si liberò il Nuraghe e venne a sbrogliare quel fatale groviglio di tubi, legni e cavi. Già, forse quell’impensabile ingorgo portuale fu davvero fatale, perché impedì al Torregrande d’intervenire nel salvataggio dei naufraghi della London Valour.
La London Valour in uscita da un porto nordico.
La tragedia della London Valour
Quanto riportato finora è la fedele ricostruzione della grave ed anomala situazione meteorologica, che era già in atto nella nottata di quel fatidico 9 Aprile, a ponente della Lanterna. Come si è visto, in mattinata si verificò un ulteriore peggioramento del tempo e la gente del porto, e non solo quella, come vedremo, ne seguì l’evoluzione con grande trepidazione e partecipazione.
1° Testimonianza
Com’era la situazione a levante della Lanterna? Per rispondere a questa domanda lasciamo la parola ad un testimone d’eccezione: Il signor Pietro Pacino, ex marittimo e funzionario del Registro Navale di Genova, all’epoca del disastro della London Valour fu il primo genovese a rendere testimonianza davanti alla Commissione d’Inchiesta del Tribunale Marittimo di Londra nel 1972. Tra le tante deposizioni rese alle svariate Autorità italiane e straniere, incaricate di svolgere le indagini sull’accaduto, abbiamo scelto quella del signor Pacino perché ci è sembrata, senza il minimo dubbio, la più attendibile poiché precisa, competente e quindi la più aderente alla realtà pur nella sua inevitabile drammaticità. Alle sue tempestive segnalazioni si deve, tra l’altro, la rapida messa in moto del coordinamento dei soccorsi.
Mr. Phillips (Giudice della Commissione, N.d.A): Si ricorda il giorno in cui la London Valour scarrocciò contro la diga? – Pacino: Si. Mi ricordo era il 9 Aprile. – Vide lei stesso l’evento? -Si. Lo vidi io stesso. – Dove si trovava alle 13.00 del 9 aprile – Stavo arrivando a casa. – Vedeva il mare dal suo appartamento? – Si. – Vedeva anche la diga Duca di Galliera? – Si. Sig. Pacino ora leggerò il suo rapporto dall’inizio. “Evento London Valour, 9 Aprile 1970. Ricostruzione dell’osservazione fatta da Piazza Rossetti (Foce), dalle 13.00 alle 15.30. La ricostruzione è il risultato di una consultazione fatta tra tutti i componenti la mia famiglia. Aggiungo che gli orari sono stati scrupolosamente ricostruiti, ma che ovviamente debbono essere considerati approssimati. Alle 13.00 arrivo a casa e noto lo stato del mare. Maltempo da sud e vento forte. Molte navi sono all’ancora, fuori della diga esterna. La prima di queste è una bulk-carrier, (London Valour, N.d.A) molto carica con la prora al vento. Ho la sensazione che sia troppo vicina e che addirittura possa ostacolare l’entrata in porto alle altre navi…………… Alle 13.30 mi accorgo che il tempo tende a peggiorare. Il vento sta aumentando e tende a girare da SSW a SW. Valuto la forza del mare 5/6. La nave precedentemente segnalata sembra aver messo la prora a SW; è in questa posizione che la sua poppa si trova a circa mezzo miglio dal fanale rosso della diga; ha l’ancora di sinistra in mare. Una seconda nave, in rada, ha salpato l’ancora e si allontana.”
Mr. Phillips: Ciò avvenne prima o dopo l’impatto della London Valour sulla diga?
Pacino: Questa nave lasciò l’ancoraggio alle 13.00. Alle 13.45 guardo il barometro: segna 748 mm. E tende a scendere. Devo specificare che il mio barometro non è professionale, ma domestico. Il vento sta ancora aumentando d’intensità, anche il mare è peggiorato; ora il mare lungo e alto arriva sulla spiaggia (ridossata dalla diga, N.d.A.). Stimo che la sua forza sia intorno a 6/7. La nave è sempre ferma nella stessa posizione, ma sembra leggermente più vicina alla costa; sul momento ho l’impressione che abbia allascato un po’ di catena, ma con i binocoli mi rendo conto che a prora non c’è nessuno. Alle 13.55-14.00, mare forza 7, in aumento, con onde alte e bianche che si rompono sulla diga della Foce. Osservo la nave e ne leggo il nome sulla poppa: London Valour, perché la nave ha girato a ponente a causa della forte corrente che in queste circostanze, sotto costa, spinge in quella direzione.
Mr. Phillips: Lei conosce le correnti di quella zona?
Pacino: Si, quando navigavo, con il libeccio forte, mi sono trovato in grande difficoltà nell’imboccare l’entrata del porto. Facevamo sbandate notevoli…….( il libeccio soffia di traverso all’imboccatura, N.d.A.) La sua distanza in diminuzione dalla diga, mi fa pensare che la nave abbia dragato l’ancora e che tuttavia mi sorprende che non sia stata usata anche l’ancora di dritta, che è tuttora al suo posto in cubia. La distanza della nave dalla diga sembra ora essere 300/350 metri. Valuto che questa posizione sia molto pericolosa. Guardo con il binocolo: nessuno è in coperta, né a prora, né sul ponte e neanche a poppa. La nave sembra abbandonata. Il barometro è ancora sceso ulteriormente 745. Il vento è ancora più forte. Alle 14.00/14.10 abbiamo la netta sensazione che a bordo non si stiano rendendo conto del pericolo in cui si trovano. Prendo il telefono e chiamo la Torre dei Rimorchiatori (ubicata al Molo Giano, vicina all’imboccatura, N.d.A.) al numero 282766 ed informo della situazione il capo servizio. Chiamo il 683068, Ponte Parodi (Sede dei Rimorchiatori, N.d.A.) e ripeto la precedente comunicazione di pericolo. Chiamo il 67451 e contatto l’ufficiale di guardia della Capitaneria, sig. Telmon. Chiamo nuovamente il 67451 e chiedo del secondo ufficiale di guardia; purtroppo non ottengo risposta. Allora chiamo il generale Carfì e gli spiego brevemente la situazione, che penso sia molto urgente. Alle 14.10 l’ancora di dritta è sempre in cubia. A bordo non si vede nessuno. La nave si trova a circa 250 metri dalla diga e quasi parallela ad essa. Il vento è molto forte…e ci meravigliamo, con grande ansia, che non mettano in moto la macchina ..! Alle 14.15/14.20 finalmente si vede qualcuno a bordo, sia a poppa che sul ponte di comando. Sembra che siano stati avvertiti da qualcuno dell’imminente pericolo. Alle 1420/14.25 la nave, spinta dal vento, si sta avvicinando ancora di più alla diga. Alle 14.25 udiamo un debole e prolungato fischio accompagnato da alcune nuvolette di vapore. Immagino che la pressione della caldaia non era giunta al punto giusto.” Mr. Phillips: Perché immagina questo? Pacino: Perché il fischio si sarebbe sentito più forte. “Subito dopo, per almeno dieci secondi, vediamo una densa nuvola di fumo nero levarsi dalla ciminiera; poi più nulla. Noi non vediamo più muoversi la nave. Capisco che si tratta di una turbina, e che il motore non sufficientemente riscaldato, non è pronto. Tutto ciò è veramente strano per una nave all’ancora e con quel mare…La nave sembra ora trovarsi a 50 metri dalla diga e sembra scarrocciare verso est, nella nostra direzione. La tragedia appare inevitabile, se non è gia avvenuta! Anzi, alcune particolari rollate ci fanno pensare che la nave sia ormai incagliata. Si vedono ora alcune persone muoversi in diverse parti al centro ed a poppa, ma veramente poche. Il mare, sotto la spinta del vento è aumentato a forza 7/8; la Foce e il piazzale della Fiera sono spazzate dalle onde. Sulla diga cadono onde violentissime. Il barometro sembra fermo su 744 mm. Mare lungo da SW. Alle 14.25/14.30 ….riconosco il rimorchiatore India e mi chiedo come possa affrontare un mare forza 8 con i suoi rotori Voith-Schneiders sotto lo scafo. (Che fuoriescono dall’acqua, N.d.A.) Alle 14.35 l’India ha accostato a sinistra e torna indietro. Poco dopo un rimorchiatore più grande esce dal porto, è il Forte, credo, sembra che ce la faccia e lentamente guadagna posizioni in una lotta coraggiosa contro i marosi. Poco dopo ci prova un altro rimorchiatore l’Iberia, poi ci riprova l’India. Alle 14.40 nel frattempo notiamo una piccola imbarcazione portuale che si è messa a ridosso della diga in corrispondenza della nave. L’imbarcazione riesce a sbarcare numerose persone, che si possono vedere molto bene, sulla diga spazzata dai colpi di mare….Ci chiediamo come questi uomini possano fare qualcosa in quelle condizioni.
9.4.1970, la London Valour flaggellata dai marosi
Alle 14.40/14.45 osserviamo l’arrivo di numerose imbarcazioni che si fermano all’interno della diga; la ben nota imbarcazione dei Piloti, la Teti sta operando in mare aperto, all’altezza della poppa della nave…mentre cinque imbarcazioni hanno lasciato il porto per portare aiuto alla nave. Ma come? Cosa possono fare? Tutte rimangono con la prora al vento ed al mare in un raggio di 200/300 metri. Vediamo chiaramente che esse non possono avvicinarsi e non possono fronteggiare gli elementi a causa della loro scarsa potenza di macchina. Ci appare chiaro che la gente a bordo di queste imbarcazioni stanno facendo il possibile, quanto meno per salvare tutti coloro che si tufferanno in mare.
In queste due immagine non troppo chiare, il leggendario Cap. Rinaldo Enrico volteggia con la sua ciambella sulla London Valour nel tentativo di salvare i superstiti del naufragio.
Alle 14.50 l’elicottero dei pompieri arriva sul posto e rimane in hovering sulla nave. Ma due cose appaiono subito chiare:
(1) che la nave ha troppi ostacoli alti: alberi, colonne, bighi, radar e segnali sugli alberi, ecc.. per permettere all’elicottero di avvicinarsi e prendere gli uomini;
(2) il vento molto forte rende troppo pericolose le manovre di avvicinamento sopra la nave con ciambelle e scale di corda che possono agganciarsi facilmente a qualche struttura della nave.
Nello stesso momento in cui appare l’elicottero, molti altri veicoli di soccorso e ambulanze arrivano rapidamente in Piazzale Kennedy….. Alle 15.00 il tempo è ancora in peggioramento. Il barometro segna 742. Vento fortissimo. Mare forza 8. Onde lunghe arrivano come frustate dal mare aperto. La nave appare ormai ferma, stabile e affondata con la poppa ricoperta dal mare; la prora è ancora visibile, così come parte del cassero e del ponte di comando. Si possono vedere gli uomini dell’equipaggio sparsi qua e là. I soccorritori sulla testata della diga si affannano… Alle 15.00/15.30 assistiamo con grande ansia agli svariati tentativi di raccogliere i naufraghi che hanno avuto il coraggio di gettarsi in mare e ci rendiamo conto di quanto sia estremamente difficile rimanere in mare in quelle condizioni, così come non possiamo che ammirare lo spirito di abnegazione che spinge i soccorritori genovesi che, lottando contro la furia del mare e del vento, rischiano la loro vita per salvare quella di altri marittimi in un momento di supremo bisogno………………”
2° Testimonianza
Relazione del pilota del porto Giovanni Santagata
Verso le 13.35 del 9 Aprile c.a. mi trovavo nella Sala Operativa della Stazione Piloti con il collega Aldo Baffo. Improvvisamente notammo la nave inglese London Valour molto vicina (200-300 metri) alla diga foranea. Percepii la situazione di pericolo con vento e mare in un improvviso crescendo. Chiamai immediatamente l’Ufficio Marittimo del CAP (Consorzio Autonomo del Porto, N.d.A.) comunicando che a mio giudizio la nave in oggetto era in grave difficoltà, che provvedesse per l’allarme e che io sarei uscito immediatamente con la pilotina. Diedi pure l’allarme alla Stazione Rimorchiatori che immediatamente ordinò al Rm. Forte e ad altri di uscire. Alle 13.40 i piloti Giovanni Santagata e Aldo Baffo s’imbarcano sulla pilotina Teti condotta dal timoniere Barone e dal motorista Fanciulli e dirigono all’imboccatura. Alle 13.45 la pilotina esce in mare aperto tentando di mettersi in contatto con la London Valour senza esito. La forza del vento e del mare ha assunto le caratteristiche della tempesta da libeccio. Vediamo la nave ancora ad un centinaio di metri dagli scogli della diga. L’equipaggio ha già indossato le cinture di salvataggio. Vediamo la nave quando impatta la scogliera. Alle 14.00 il comandante Lai, Ufficiale Tecnico della Capitaneria, mi chiede la mia posizione. Mi ordina di passare con il VHF sul canale 16 e di assumere la direzione ed il coordinamento delle operazioni di soccorso. Mi ordina di tenerlo costantemente informato; cosa che ho fatto per tutto il tempo che sono rimasto a bordo della Teti. Con la pilotina a lento moto, data la violenza del vento e del mare, pendoliamo tra la poppa della London Valour ed il suo ponte di comando, a sud della nave. Vediamo l’equipaggio diviso in due gruppi, uno a poppa ed uno sul cassero centrale che con le mani ci fanno ampi gesti. La minima distanza, cui ci siamo riusciti ad avvicinare, è stata una cinquantina di metri. Sentiamo per VHF quanto si sta facendo a terra per organizzare i soccorsi. Vediamo uscire la C.P.233 (La vedetta della Capitaneria di Porto del Cap. Telmon, N.d.A.)
Foto n.6 Un’altra piccola imbarcazione tenta l’uscita in mare aperto. Si tratta della m/vedetta della Capitaneria al comando del Cap. Telmon.
Dirigo di nuovo in mare aperto. La situazione sulla London Valour sta precipitando. La nave sta affondando flagellata dai colpi di mare, i doppi fondi adibiti alla nafta si sono sfondati. A poppa della nave gettano a mare un battello pneumatico autogonfiante su cui saltano purtroppo soltanto tre naufraghi. Detto canotto munito di tenda fortunosamente si scosta dalla nave e scarroccia verso gli scogli della Fiera del Mare. Con la Teti mi porto sottovento al mezzo che, essendo molto leggero, mi scarroccia addosso facilitandomi l’aggancio. A lento moto per non perderlo, mi porto a ridosso della diga foranea. Prendo a bordo i tre naufraghi, indi ne trasbordo due sulla m/barca del CAP. Uno di loro, un giovane ufficiale ritengo, chiede di restare con noi ad aiutarci. Essendo in ottime condizioni, dico di sì. Alle 16.15 usciamo di nuovo fuori del porto e avvistiamo quasi subito un altro naufrago letteralmente coperto di nafta ed allo stremo delle forze. L’Ufficiale inglese credo riconosca in lui un amico e generosamente si tuffa in suo soccorso. Gettiamo un salvagente a ciambella cui si avvinghiano entrambi. Il recupero in mare aperto risulta impossibile causa i bruschi e violenti movimenti della pilotina. Li rimorchiamo in una zona di relativa calma a ridosso della diga. Tento con il motorista di issarli a bordo, ma essendo completamente ricoperti di nafta ci scivolano via. Mi viene in aiuto il Rm. India al comando del cap. Ragone cui passo la cima, li recuperano e li portano a terra. Alle 16.40 dirigiamo con la Teti di nuovo in mare aperto. Avvistiamo un altro naufrago in buone condizioni di forze. Ci portiamo sopravvento e ci lasciamo scarrocciare a ridosso del molo. Agguanta il salvagente che gli gettiamo e lo rimorchiamo a ridosso del molo. Ci viene in aiuto il Rm. Alghero al comando del cap. Fanciulli che lo recupera e lo porta a terra. Ci avviamo di nuovo fuori, alla ricerca di altri naufraghi. Incontriamo due cadaveri. Uno per volta, con il mezzo marinaio, li rimorchiamo a ridosso del molo. Non so dire da chi sono stati recuperati e avviati a terra. Alle 16.45 la pilotina Preve mi viene incontro ed il com.te Tanlongo mi fa cenno di rientrare a ridosso della diga. Ci affianchiamo ed avviene il cambio dell’equipaggio e del sottoscritto. Imbarcano sulla Teti i piloti Ragazzi e Fioretti, il timoniere Grillo ed il motorista Mortola; si dirigono fuori a continuare le ricerche. Di quanto sopra descritto ho tenuto costantemente informati, tramite VHF, sia il comandante Lai sia il mio capo pilota Giovanni Raimondi. Alle 18.15, incombendo la sera, il sottoscritto pilota Santagata con il pilota Baffo ed il conduttore Fanciulli c’imbarcavamo sulla pilotina Preve e dirigevamo fuori per ulteriori ricerche di naufraghi. Giunti presso il fanale rosso della diga foranea il s.capo Tanlongo, dalla pilotina Teti, mi comunica dell’avvistamento di tre naufraghi lungo la scogliera della Fiera, invitandomi ad andare a vedere. Costeggiando la suddetta scogliera per un centinaio di metri, arriviamo sino alla foce del Bisagno, purtroppo senza risultato. Si dirige per il rientro. Alle 19.30 attracchiamo alla Stazione Piloti.
In fede
Pilota cap. Giovanni Santagata
A seguito di questi avvenimenti furono concesse:
LE MEDAGLIE DI “BENEMERENZA MARINARA”
al cap. Giuliano Telmon (Capitaneria di Porto) : Oro
al cap. Rinaldo Enrico (Vigili del Fuoco) : Oro
al pilota Giovanni Santagata (Corpo Piloti-Porto) : Argento
al pilota Aldo Baffo (Corpo Piloti : Argento
al pilota Giuseppe Fioretti (Corpo Piloti-Porto) : Bronzo
LONDON VALOUR
Nave |
Varo |
Ristr. |
Stazza L. |
Lungh. |
Largh. |
Eq. |
London Valour
|
1956 Havert U.K. |
1967 La Spezia |
15.875 |
174 mt |
21 mt
|
56 58 * |
* La cifra è riferita al momento del naufragio. Essa comprende la moglie del Comandante e quella del Marconista che erano ospiti a bordo e non facevano parte dell’equipaggio.
Luogo del Naufragio: L’estremità di levante della diga foranea del porto di Genova.
I Fatti: Il 2 Aprile 1970 la nave era partita da Novorossisk diretta a Genova con 23.606 tonnellate di cromo.
Il 7 Aprile la nave giunse a Genova e diede fondo l’ancora in rada, nell’attesa dell’ormeggio. Alle 12.00 del 9 Aprile la pressione barometrica era molto bassa 748 mm. Il mare, in assenza o quasi di vento, era gonfio e montava la diga. Nessun avviso di burrasca, secondo le testimonianze di bordo, era stato emesso via radio o segnalato nell’ambito portuale. Alle 13.00 il vento girò a SW ed andò via via aumentando d’intensità. Ci fu una riunione sul ponte di comando, ma il Comandante D. M. Muir non diede particolari disposizioni e si ritirò in cabina con sua moglie. Alle 13.30 l’ufficiale di guardia sul ponte avvisò il Comandante e l’Ufficiale di guardia in macchina che il tempo era in netto e rapido peggioramento, ma fu il 1° Ufficiale di coperta che, scorgendo dal suo oblò la diga estremamente vicina, diede l’Allarme Generale. Il C. Macchinista recepì l’emergenza e si prodigò per accelerare al massimo l’avviamento della turbina. Purtroppo la prontezza a manovrare la macchina fu data soltanto pochi minuti dopo l’impatto della nave contro la diga. Alle 13.50 il vento da libeccio era forza 8 ed il barometro segnava il valore più basso della giornata 742 mm.
L’Impatto
Alle 14.22 la London Valour, dopo un rapido scarroccio, fu spinta dalle onde contro gli scogli della diga Duca di Galliera.
Le operazioni di Salvataggio
Nella fase iniziale della tragedia, una parte dell’equipaggio si era concentrato presso il cassero centrale della nave. Questa era la zona più pericolosa perché battuta e schiacciata tra le onde e la diga.
Un razzo ed una cima furono comunque sparati sulla diga ed i Vigili del Fuoco riuscirono ad approntare il Va e Vieni, una sorta di sistema funicolare che poté salvare tre marinai indiani. L’apparato sembrava collaudato ed il Comandante convinse la moglie a mettersi in salvo, ma subito dopo s’inceppò.
Foto n.7 – La foto mostra il recupero di alcuni naufraghi ricoperti di nafta
Alla signora Muir mancarono le forze per resistere aggrappata alla teleferica e precipitò tra gli scogli dinanzi agli occhi atterriti dell’equipaggio e del marito che, incurante del pericolo, volle darle l’estremo saluto con la bandiera inglese (Union Jack, N.d.A.).
Poco dopo, un’onda gigantesca spazzò via il marconista Mr. Hill e sua moglie che sparirono insieme ed annegarono tra i flutti. Il 2° Macchinista Mr. Carey fu strappato dalla stessa onda e scaraventato in mare, ma fu miracolosamente salvato dalla ciambella dell’elicottero del Cap. Enrico. In quell’occasione il Comandante fu visto per l’ultima volta, era ferito gravemente ad una gamba.
In questa drammatica istantanea si notano alcuni membri dell’equipaggio assiepati sulla “normale” della nave in cerca di salvezza. L’imbarcazione dei piloti Teti, a sinistra, affronta il mare in posizione quasi verticale sulla cresta dell’onda.
La stessa incredibile onda aveva sollevato il 1° Ufficiale di coperta Mr. Kitchener, 31 anni, di due piani, sino alla Monkey Island (il ponte della “bussola normale”, ubicata sopra la timoneria, N.d.A.), dove già si trovavano il Cadetto Mr. Lewis ed altri marinai indiani. Questi ultimi, sebbene sollecitati dai loro superiori, rifiutarono il tuffo della speranza e perirono massacrati tra gli scogli.
Gli Ufficiali inglesi furono invece salvati dai Piloti del porto e dalla vedetta del capitano Telmon della Capitaneria di porto. Una parte del personale che si era concentrato a poppa si salvò per due fattori principali:
a)- per il coraggio e l’iniziativa dimostrata dal 2° Ufficiale inglese, Mr. Donald Allan McIsaac, 25 anni. (L’ufficiale che era di guardia sul ponte di comando nel momento del naufragio, N.d.A.)
b)- nell’impatto con il terminale della diga, la poppa della nave risultava libera e sporgente. Da quella posizione più esterna, i più coraggiosi tra l’equipaggio si gettarono in mare e subito dopo furono raccolti dai soccorritori.
Altri provvidenziali salvataggi avvennero tramite collegamento nave-diga con il già citato va e vieni, approntato con estremo coraggio dai Vigili del Fuoco e dai marinai della nave.
Tra i tanti atti di coraggio e di grande valore compiuti dai genovesi, desideriamo ricordare quello che si verificò alle 16.17 quando, sulla cresta di un’onda gigantesca, arrivo un naufrago, tutto nero, al di là della barriera di protezione del canale di calma. Italo Ferraro, un pallanuotista-sub di quasi due metri, pioniere della vita subacquea, (quello stesso che visse, proprio sul fondo del canale di calma, per una settimana, in una campana d’aria, N.d.A.), si tuffò con muta e pinne dal terrapieno della Fiera e, come un angelo calato dal cielo, sollevò il marinaio, lo mise in salvo e poi sparì.
Nell’impatto della nave contro gli scogli appoggiati alla diga, lo scafo subì notevoli spaccature, dalle quali straripò il fuel oil, con cui venivano accese le caldaie. Il prodotto combustibile si sparse in mare, la cui superficie divenne una lastra nera che imbrattò completamente i naufraghi tanto da renderli irriconoscibili, estremamente scivolosi e quindi difficilmente catturabili dai soccorritori.
Le vittime: Nel disastro perirono 22 persone. Si salvarono 38 membri dell’equipaggio: i più coraggiosi, coloro che si tuffarono in mare e furono spinti dalle onde tra le braccia dei soccorritori che si erano appostati un po’ ovunque, in quelle acque vorticose, schiumose ed impazzite.
Nei giorni successivi, gli stessi media Inglesi definirono eroico il comportamento dei soccorritori genovesi che intervennero in quelle drammatiche operazioni di salvataggio
Le Responsabilità La Corte Reale di Giustizia del Tribunale Marittimo di Londra, il 17 Maggio 1972 emise la seguente sentenza:
Il naufragio e la conseguente perdita della London Valour fu causata dall’errata condotta del comandante Cap. Donald Marchbank Muir, 57 anni….
Emerse pure che: il comandante dimenticò di avvertire i suoi Ufficiali di coperta che, alla Sezione Macchina della nave, (C.Macchinista, Mr. Samuel Harvey Mitchell, N.d.A.) necessitava un congruo preavviso prima di dare la tradizionale “prontezza”, a causa d’ordinari lavori di manutenzione ai motori ausiliari che erano, comunque terminati in mattinata.
Una delle Verità: Quando, dopo il naufragio, i sommozzatori s’immersero per ispezionare lo scafo, notarono che le sette lunghezze di catena (ogni lunghezza misura 25 metri, N.d.A.) erano distese ed intatte. L’ancora poggiava sul fondale melmoso di 25 metri, però le unghia delle marre erano rivolte verso l’alto e tra loro passava un cavo d’acciaio. Questa circostanza fu la fatale spiegazione del cedimento dell’ancora della nave e del suo rapido avvicinamento alla diga, nel momento di massima forza del mare e del vento. Le marre si capovolsero nell’impatto con l’insospettata presenza di un cavo d’acciaio e non poterono mordere il fondale, fare presa nel fango e porre quindi resistenza all’effetto di quella libecciata devastante.
Conclusione: Nonostante l’eroico comportamento di tutti i soccorritori intervenuti in mare, in terra ed in aria, a rischio della propria vita, il bilancio delle vittime fu grave:
il 9 Aprile 1970
perirono
22 persone
travolte dalle onde e schiacciati contro gli scogli posti a suo tempo a protezione della diga. Il naufragio, vissuto in diretta con la partecipazione di una folla incredibile di genovesi, fu e rimane, a distanza di 35 anni, una pagina di storia sconcertante per l’indifferenza e l’assenteismo dell’equipaggio di fronte ai ripetuti avvertimenti che segnalavano l’avvicinarsi della fortissima libecciata, della quale la nave fu vittima.
Fonte Bibliografica: Report of the: “OFFICIAL INQUIRY”
INTO THE LOSS BY STRANDING OF S.S. LONDON VALOUR
Terza Parte
LA LONDON VALOUR AFFONDA DURANTE L’ULTIMO VIAGGIO
Il relitto della London Valour, con le sue sovrastrutture emergenti, rimase per diciotto mesi come simbolo e monito di quanto il dio-mare, al di là d’ogni tecnologia, sia ancora l’invincibile peso massimo, posto al centro di un immenso ring e sempre pronto a decidere il destino di chi non lo tema a sufficienza o non lo rispetti secondo le sue regole. Appoggiata a pochi metri dal vecchio fanale rosso d’entrata, la ex-nave britannica non impedì la costruzione dell’ultimo pezzo di diga verso levante. Per la verità, fu lasciato un varco navigabile per il transito delle imbarcazioni addette alla risoluzione dei vari problemi creati dal relitto. La London Valour fu liberata del carico ed in parte fu demolita sul posto. Numerose le traversie e non facili furono le decisioni prese dalle Autorità Marittima e Portuale. Nessun Cantiere di demolizione, infatti, era in grado di ospitare un relitto con un simile pescaggio, né tanto meno era facile trovare un porto che rischiasse la paralisi del traffico a causa del suo affondamento, magari sull’imboccatura… Dopo qualche mese dal disastro, entrò in scena la ditta olandese Smit Tak International Bergingsbedriff, specialista a livello mondiale in operazioni di Recuperi Navali, che vantava un originale sistema per rendere galleggiante i resti della London Valour, tramite l’immissione di milioni di palline di polistirolo nelle sue capienti stive.
La Smit Tak non riuscì a riportarla interamente a galla, ma le garantì, tuttavia, una discreta galleggiabilità, che avrebbe dovuto assicurare il suo rimorchio in mare aperto e quindi l’affondamento, con l’uso di dinamite, nella zona delle Baleari, ad est di Minorca, su un fondale di circa 3500 metri, denominata “Fossa delle Baleari”. L’abisso marino, destinato ad accogliere le spoglie della London Valour, era stato accuratamente scelto dalle Autorità competenti, con il preciso intendimento di rendere sicura la navigazione in Mediterraneo, oltre che salvaguardare le attività marinare dei Paesi limitrofi, legate alla pesca, turismo ecc… da possibili problemi d’inquinamento.
Foto n.11 – Il 12 ottobre del 1971, ai primi chiarori dell’alba, il rimorchiatore oceanico Vortice disincagliò il relitto dalla diga e lo fece con molta accuratezza per non creare superflue lacerazioni sotto lo scafo, quindi lo consegnò ai rimorchiatori d’altomare Torregrande, capo convoglio, (in primo piano) e Genua (secondo piano) per il traino prestabilito.
Epilogo: Siamo così giunti all’epilogo di questa incredibile tragedia marinara e forse nessuno, meglio di Charly, il Comandante del Torregrande, può accompagnarci in questa specie di rito funebre a conclusione di una storia tristissima che, volenti o nolenti, ci appartiene completamente.
“Nonostante il tempo fosse buono, al momento della partenza da Genova, il bollettino meteo era pressoché indecifrabile, nel senso che lasciava spazio a quella parola “variabilità” che anche i più giovani lupi di mare imparano presto a detestare e a diffidare per la sua incapacità di prendere una posizione chiara e quindi di non prevedere proprio nulla…Ma il problema più serio, fin dall’inizio del viaggio, era del tutto psicologico: era infatti difficile controllare serenamente la navigazione di prora, avendo al traino un relitto che pescava 22 metri, come una superpetroliera dei giorni nostri, e del quale si potevano vedere soltanto le colonne dei bighi, che apparivano tra l’altro bianchi e fatui come fantasmi e, come tali, capaci di sparire in qualsiasi momento.
Torregrande e Genua avevano un tiro complessivo di 4.500 cavalli di razza, che furono subito totalmente sbrigliati, nell’illusione d’uscire al più presto da quell’incubo! Purtroppo la velocità era poco superiore ai tre nodi. Altri 10.000 cavalli di potenza, magra consolazione, non avrebbero aumentato di un decimo l’andatura, a causa dell’inesistente idrodinamicità della sua massa informe e sommersa. Tra i nostri equipaggi, cui non difettava certo l’esperienza, la parola d’ordine era: “occhi aperti ragazzi”, mentre avevo già preso tutte le misure d’emergenza, tra cui l’aver predisposto un marinaio, di guardia nel locale del verricello automatico (chiamato Troller, N.d.A.), pronto a tagliare il cavo di rimorchio con la fiamma ossidrica, in caso d’affondamento improvviso del relitto. Dopo il tramonto di quell’insolita giornata di navigazione, il tempo andò via via peggiorando e nella notte, forti piovaschi impedivano il pieno controllo visivo del rimorchio, che appariva protetto da una barriera bianca di pioggia e schiuma, sulla quale andavano ad infrangersi i potentissimi fasci bianchi di due proiettori da 1000 watt ciascuno. Lo Stato Maggiore Olandese, che aveva la regia dell’intera l’operazione, era ospite sul Torregrande. Il suo compito era di controllare il buon andamento della navigazione del convoglio sino al punto prestabilito, per poi procurare l’inabissamento del relitto con l’impiego di cariche di dinamite. Ci trovavamo, purtroppo, ad un terzo soltanto del percorso e tutto lasciava pensare ad un suo imminente affondamento. L’esperienza insegna che anche nei momenti difficili ci sia, quasi sempre, un momento di comicità! I nostri ospiti olandesi, celebri per le loro tradizioni marinare, non ressero ai primi colpi di mare e, quasi subito, sparirono sottocoperta, portandosi dietro la puzza sotto il naso e tutti quei strani strumenti, con il quali si erano imbarcati a Genova… Durante la serata cercai di stanarli ripetutamente per renderli edotti della situazione che, a nostro avviso, era ormai irreversibile, a causa del graduale abbassamento del relitto e della velocità quasi del tutto azzerata. Dopo l’ennesimo invito a salire sul Ponte, il nostromo Zeppin, di ritorno dai loro alloggi, mi disse con un tono che non ammetteva indulgenze: “Se o bon maina o se conosce a-o cattivo tempo… sti chi se treuvan a bordo pe sbaglio; se né battan u belin du periculu, du relittu e de Baleari, pensan sulu a racca cume bestie marotte…! Ma ghe lo ditu in sciu muru au capu: loda o ma e stanni a ca, besugu! Ma chi va imbarcou Zagallo? (Trad. Se il buon marinaio si vede nel cattivo tempo…questi qui si trovano a bordo per sbaglio; se ne fregano del pericolo, del relitto e delle Baleari, loro pensano solo a vomitare come animali ammalati! Ma gliel’ho detto a muso duro al capo: loda il mare, ma stattene a casa…Ma chi vi ha imbarcati, Zagallo? Zagallo; ne abbiamo già parlato altrove. Ricordate il comico folletto-clandestino imbarcato sui rimorchiatori d’altura? Il troll che naviga, parla, mangia, dorme, prende tutti per il sedere… perché lui è sempre lì, tutti lo intravedono , ma nessuno riesce mai ad agguantarlo…Zagallo non è a ruolo, quindi è senza paga. Gli Armatori sopportano la sua presenza a bordo perché porta fortuna…ed alleggerisce la tensione. Intorno all’una e trenta di notte, Giovanni Negro, il comandante del Genua, mi chiamò per radio e disse: “per noi i giochi sono fatti, e di giocare non n’abbiamo più voglia…” gli risposi che anche noi eravamo dello stesso parere e che poteva “staccare” quando voleva, e di continuare a scortarci con il proiettore sino al “finale dell’incompiuta”… Cercai ancora una volta, invano, d’aver l’O.K. degli olandesi e poi misi in atto, con calma, il piano di recupero dell’attrezzatura di rimorchio per evitare che andasse persa con i resti della London Valour. Verso le 02.30, dopo aver virato a bordo la prima parte del rimorchio (250 metri di cavo d’acciaio), iniziammo a recuperare anche i 220 metri di cavo di nylon collegati al relitto. Eravamo flagellati dall’ennesimo piovasco, ma ci avvicinammo fino a pochi metri da quella visione dantesca…poi, mi portai a poppa estrema e Zeppin mi passò la mannaia di bordo, che era stata affilata dal boia-motorista Spalla. Mi feci quindi appoggiare il cavo da 90 m/m sul piatto bordo poppiero e diedi un colpo deciso e preciso che ci liberò, brutalmente, da quella funesta angoscia che ci aveva attanagliato per molte ore il cuore e la mente… Il troncone della ex-nave britannica London Valour colò a picco alle 02.58 del 13 ottobre 1971, sbavando schiuma, eruttando migliaia e migliaia di palline di polistirolo e salutando il mondo con un fragoroso rigurgito. La sfortunata nave giace ora ad una profondità di 2640 metri, in latitudine 43°02’N e longitudine 08°06’E, ad una quarantina di miglia da Imperia e circa cinquanta ad Ovest di Capo Corso. Quel giorno qualcuno scrisse:
“La London Valour si è inabissata definitivamente, rifiutando ancora una volta di sottomettersi al volere dell’uomo e scegliendosi da sola il fondale che è divenuto la sua tomba, 2640 metri al disotto della superficie di quel mare che così selvaggiamente l’aveva ferita”.
Carlo GATTI
Rapallo, 12.05.11