I CADRAI – 2 –
LA STORIA DEL BASILICO
Rileggendo la mia ‘Cuciniera’, ho riscoperto il minestrone che facevano i CADRAI; la recuperammo con Vito Elio Petrucci.
Per saperne di più: quella ricetta me la diede Vito che l’ebbe, ancora giovanissimo e alle prime armi, dal figlio di un cadraio che aveva aperto una osteria in Sottoripa. Vito non scrisse mai un libro di cucina perché non era amante della “culinaria”. Ha molto collaborato con me specie nelle note storiche; era un pozzo di conoscenza; mi manca tanto perché un poeta a quel livello ha una sensibilità straordinaria nel capire le persone. I miei amici lo sanno; amo stare con gente intelligente e aperta perché da loro ho da imparare; gli altri mi lasciano indifferenti perché, prima o poi, deludono!
Renzo Bagnasco
Biografia di VITO ELIO PETRUCCI
Vito Elio Petrucci (a destra) con l’amico Renzo Bagnasco
Vito Elio Petrucci nasce il 27 aprile 1923 a Genova dove si laurea in scienze economiche e commerciali. Collabora con quotidiani e periodici; é autore di commedie, riviste, lavori radiofonici, di numerose pubblicazioni inerenti il dialetto e la cultura genovese che lo impegnano su diversi versanti nell’opera di difesa, conoscenza e diffusione delle tradizioni liguri. E’ poeta, giornalista pubblicista, uomo di teatro. Inizia a pubblicare poesie a partire dagli anni Cinquanta, proponendosi definitivamente come autore nel 1962 con la silloge in lingua Non esser soli. Ad essa faranno seguito numerose raccolte in genovese, edite tra gli altri, da Scheiwiller, dell’Arco, Pirella. Larga popolarità gli é data dall’aver curato numerosi programmi radiofonici su argomenti riguardanti le tradizioni e la cultura ligure; tra di essi la rubrica A Lanterna, messa in onda dalla sede regionale della RAI, e la fortunata serie delle commedie genovesi interpretate dalla Compagnia dialettale della Radio Televisione Italiana di Genova di cui é stato direttore dal 1954 per oltre vent’anni.
La sua attività in campo dialettale gli ha procurato riconoscimenti internazionali (é membro dell’Academie des Langues Dialectales del Principato di Monaco, e dell’Association International pour l’Utilisation des Langues Régionales à l’Ecole di Liegi.) Essa trova riscontro, oltreché nei molti atti unici e nelle oltre trenta commedie scritte per il teatro, nella grammatica genovese, Grammatica sgrammaticata (1984), e in diversi libri di argomento dialettale e folclorico: I Proverbi del Signor Regina, Amor di Genova, La Liguria in un libro ecc. Ha curato inoltre la pubblicazione di due volumi delle poesie di Firpo, Cigae e Bäsigo, e scritto (in collaborazione con Cesare Viazzi) la biografia del celebre attore genovese Gilberto Govi (Lui Govi, 1981 e 1989), in collegamento con i programmi di rinascita del teatro dialettale goviano.
Gli sono stati assegnati, per questa intensa attività, numerosi premi e onorificenze (Melvin Jones Fellow dei Lions Club, Premio Regionale Ligure per la poesia genovese, Premio Città di Genova 1990, Premio Luigi De Martini 1982, Premio nazionale “Il calamaio di Neri”, promosso dal Gruppo Internazionale di Lettura di Pisa, 1989).
Principali opere poetiche: Non esser soli, Uber, Roma 1962; Parlo d’Umbria, Sessantanovesimo libretto di Mal’aria, Pisa 1967; Basinghae dallaexia, dell’Arco, Roma 1970; Un vento döçe, Scheiwiller, Milano 1973; Graffionn-e, Libreria Sileno, Genova 1977; O quadrifeuggio, dell’Arco, Roma 1980; Amor di Genova, Pirella, Genova 1987; Ciù in là de parolle, Pirella, Genova, 1990.
Ödô de menestron
de mâ.
De caniggaea,
tra e muage da mae creuza
de lélloa recammae.
Me pâ de sentî ancon
I passi de mae moae,
argentin in sce-e prïe comme campann-e,
de longo appreuvo come benedissioìn.
SE NO GHE FïSE
Se no ghe fïse un ciaeo,
se no ghe fïse lunn-a e manco stelle,
s’avesse i euggi bindae o ancon serrae
comme un figgieu in nascion;
e fise a-o largo con un mâ de ciappa,
sensna ‘na bava d’äia;
se mettesse o mae cheu in sce’n timon
mì m’attroviéiva a-a Foxe.
Poeta che si pone sulla linea del Firpo quanto a sentimento panico della natura, Petrucci conosce forse un più acceso e carnale senso della vita e della comunità. Fu un accanito sostenitore e divulgatore dei valori della genovesità, ricordiamo tra le sue numerose pubblicazioni: Bansighæ da l’æxia (1970), Un vento döçe (1972), O quadrifeuggio (1980), Ciù in là de parolle (1990).
(Genova, 27.4.1923 – Genova, 17.5.2002) è stato un poeta, giornalista, e commediografo italiano. Ha scritto diverse pubblicazioni sul dialetto e la cultura genovese, di cui era un appassionato sostenitore e divulgatore. Era membro dell’Association Internationale pour l’Utilisation des Langues Régionales di Liegi e della Académie des Langues Dialectales del Principato di Monaco.
Tra le sue pubblicazioni, 12 raccolte di poesie dialettali, 21 libri su cultura e tradizioni genovesi, diverse commedie in genovese e scritti in collaborazione con altri autori. Le sue opere sono presenti in antologie di poesia dialettale quali ad esempio: Le parole di legno e Le parole perdute.
E’ sepolto nel Famedio del Cimitero Monumentale di Staglieno a Genova.
Vito Elio Petrucci |
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Ærzillio
L’é bello andâ lontan lontan pe-o mâ, pe ritornâ; pe vedde a-o largo un giorno un ciæo comme ‘na coæ, tegnîse o cheu e dî: L’é casa mæ! Sentî allöa che un legno into fogoâ o vâ ciù che ‘na barca in mezo a-o mâ.
Salsedine
È bello andare lontano, lontano sul mare, per tornare; per vedere al largo, un giorno, una luce come una voglia, tenersi il cuore e dire: È casa mia! Sentire allora che un ceppo nel focolare vale più d’una barca in mezzo al mare.
LA STORIA DEL BASILICO
di Renzo BAGNASCO
Il nome del basilico discende dal latino medioevale < basilicum > a sua volta derivato dal greco <basilikon> che significa <erba da re> grazie al suo forte profumo. Come si vede la profumata piantina originaria dell’India, era già nota nell’antichità: pare che sia stato il grande Alessandro a farcela conoscere nel 340 a.c.
Purtroppo però da quando è conosciuto, praticamente da quando arrivò a noi, è stato considerato idoneo a fare tutto tranne che essere usato in cucina. Era ritenuto, a secondo delle culture, o pianta medicinale o medicamentosa, assai più spesso pericolosa e quando non addirittura demoniaca o menagramo. Salvatore Massonio nel suo <Archidipno ovvero dell’insalata e dell’uso di essa> 1627, così scrive <<Il Basilico è volgarmente conosciuto: mangiato copiosamente ne cibi scurisce la vista, mollifica il corpo, promuove le ventosità, provoca l’orina, aumenta il latte: ma difficilmente si digerisce>>
Con questo biglietto da visita il nostro basilico dovette lottare parecchio prima che gli venisse riconosciuta la sua potenzialità gastronomica che già aveva. Ancor oggi l’Italia è la massima consumatrice e poi bisogna andare in estremo oriente per ritrovarlo nel suo ruolo gastronomico. Altrove è ancora o pianta medicinale o un profumo: in Egitto durante i matrimoni sino a qualche anno fa, lo si usava, mettendone un rametto dietro alle orecchie per dare profumo ma, soprattutto, per attenuare l’afrore del sudore.
Ma torniamo a leggere il Massonio: puntigliosamente ci segnala che ne parlarono (sempre male, quasi fossero all’unisono): “Plinio nel libro 12°, Theofrasto nel libro 5°, Avicenna nel secondo trattato delle forze del cuore, Alessandro Petronio nel libro 3°, Galeno nel libro 11°, Antonio Mizaldo nel libro 3° e ancora Sabino Tirone, Columella, Gargilio Marciale, Plinio Crisippo medico, Dioscaride, Sotiane, Diodoro Siculo e Girolamo Cardano”.
Gastronomicamente parlando, compare nel 1400, precisamente nel 1474 perché menzionato e codificato nel ricettario <Cucina di strettissimo magro> inserito nella Regola dell’Ordine dei P.P. Minimi di San Francesco da Paola; sì, quello del Santuario sopra Principe/Di Negro, molto caro ai marittimi genovesi. In quell’anno infatti il Papa Alessandro VI Borgia, approvò la loro Regola che comprendeva pure, credo caso unico, una dettagliata dieta da seguire rigorosamente che oggi chiameremmo ‘vegana’. Sono loro i primi che descrivono, sotto la voce <Salsa verde alla genovese> un battuto a freddo nel mortaio formato da basilico, aglio, pinoli, olio e sale nel quale si può riconoscere il primo embrione di pesto, anche se manca il formaggio bandito dalla loro dieta.
Da sempre i Comandanti genovesi dei velieri, usufruivano del ‘giardinetto’ presente su tutte i vascelli sotto le vetrate di poppa, per portarsi dietro le nostre erbe aromatiche, basilico compreso, così da poter insaporire con odori di casa i loro altrimenti, “monotoni” menù. Le essenze reggevano il salmastro che anzi le esaltava, perché cresciute sul mare come capita se si assaggia il rosmarino o l’alloro e tutte quegli aromi che nascono sul promontorio di Portofino.
Oggi, gli autori che vogliono far vedere che hanno studiato, menzionano, come suo antesignano il <moretum> romano, come lo descrivono Columella, agronomo dell’età Imperiale e il grande Virgilio proprietario terriero e poeta. Difficile però da accettare, visto che nel moretum non c’è basilico, molto aceto e una miscellanea di erbe tritate con aglio, legate con un vecchio formaggio da poi, una volta riscaldato, spalmare sul pane e non usato per condire. Più di recente lo hanno fatto addirittura discendere dall’<agliata> che non contempla ne basilico, ne formaggio ne pinoli, salsa oggi molto diffusa anche in Provenza: insomma una delle tante salse verdi per insaporire bolliti o pesci.
Bisogna arrivare a metà ‘800 per vederlo codificato, anche se con varianti non da poco, dai due autori delle fondamentali cuciniere genovesi, il Ratto nel 1865, seguito a ruota dal Rossi. Il primo lo definisce <Battuto o sapore all’aglio> suggerendo di sostituire il basilico, ove mancasse, con maggiorana o prezzemolo, alternative oggi impensabili. Il secondo invece lo definisce < Pesto d’aglio e basilico>; lui però non lo sostituisce con altre erbe profumate. Come si vede anche il pesto segue e muta nel tempo; certo in quello descritto però l’aglio dominava come pure il pecorino e non come oggi che lo hanno … castrato a partire dall’asfittico basilico per di più coltivato in luogo non vocato. Un tempo le zone idonee cominciavano dal Castelluccio di Pegli per finire a Coronata e la produzione copriva la richiesta di Genova; oggi va invece per il mondo. La speculazione edilizia del dopo guerra ha edificato in quelle zone e quindi, bisogna fare di necessità virtù. Va bene anche Prà.
In realtà il tanto oggi decantato pesto, sino ai primi del ‘900 non era molto valorizzato. Venivano ricordate le paste con il quale condirle, come i “mandilli de sea” o le troffie, come ci dice il Carbone nel suo <Con giardino e gioco da bocce> 1934, ma non il “nostro”.
civ.14r : di fronte, a sinistra, era l’ingresso dell’ antica trattoria della Gina del Campasso (“Ginn-a do Campasso”). Sfrattata dalle ferrovie da un locale vicino più antico ed adibito a osteria-cucina casalinga, la Gina (al secolo Caterina Marchese (leggi sotto per la famiglia) già vicina ai settanta, piccoletta tarchiata e robusta, accanita e fortunata giocatrice al lotto) si trasferì nel 1860 in quei locali, chiamandoli “Trattoria della Gina, (Campasso)”.
L’Autore descrive tutte le trattorie di Genova centro e dintorni, e le loro specialità. Della ‘Ginn-a de o campasso’, la mitica osteria dove si ritrovano tutti gli artisti dopo lo spettacolo al Modena, famosa per le lasagne con il…pesto o il Giacinto che profumava le sue ‘xatte’ di minestrone con abbondante pesto. Altra mitica trattoria era la Lena di Vico Angogliotti che serviva troffie al pesto di <squisitezza inaudita>.
Piu avanti scrive <I lavoratori del porto, quelli del Molo Vecchio, si distribuiscono all’ora di colazione, nelle Osterie di Piazza Cavour dalla “Sciamadda> o dal <Gin> con la storica untuosa tavola dei <contaballe> dove per tovagliolo e per tovaglia funge la carta gialla velina della farinata …>
oppure dalla <Sapesta> in Via Giustiniani dove, anche li, al Venerdì ‘troffie co-o pesto.
Leggiamo ancora il Carbone: <<Ma basta che scocchi mezzogiorno che dai mille vicoli vengono fuori i lavoratori della Darsena e dei Bacini di Carenaggio: tutti coloro che abitano lontano non hanno ne la convenienza ne il tempo di portarsi alle loro case.>>
Dei CADRAI che spezzettavano il basilico nelle loro minestre fumanti, così da stuzzicare l’appetito dei marittimi imbarcati o di chi lavorava in Porto, si è già detto in altra parte di questo sito..
E, senza volerlo siamo arrivati al pesto la cui più vecchia ricetta pubblicata, risale al “Cuciniere italiano” del 1848, prima che ne scrivessero nella Cuciniere Genovesi. Mai nessun poeta genovese lo ha cantato, contrariamente a quanto hanno fatto per quasi tutti i manicaretti nostrani, persino le uova al tegamino. Il Pesto, come è nel carattere dei genovesi, non si fa largo a gomitate, tace a aspetta che le reazioni al suo gusto lo rendano immortale nel ricordo.
L’unico che gli ha dedicato un tratto della sua poesia <In coxinn-a > (UN VENTO DÖCE-1973) è stato Vito Elio Petrucci, l’ultimo grande cantore di Genova, là dove scrive:
O gesto antigo d’un pestellâ lento,
o giâ amöso do pestello a-o torno
pe ammuggiâ o baxaicò in to göghin,
a stessa mainea de fa l’assazzo
( con ‘na diä brusca
pe giudicâ do gusto e a conscistensca),
nisciun ghe l’ha insegnòu;
comme o mignin ch’o sà çercase l’erba.
(A cura di Carlo GATTI)
Rapallo, 27 Aprile 2016