TRENT’ANNI DI TECNOLOGIA PORTUALE
Tra le pieghe dei ricordi personali.
Dai fischi del pilota…alla Torre di Controllo del porto.
Veduta del Porto di Genova
All’inizio del 1968, quando la nave in arrivo si presentava tra Punta Vagno ed il fanaletto rosso della diga, il pilota attirava l’attenzione con una serie di fischi, poi ne scandiva un certo numero per indicare quanti rimorchiatori avrebbe “attaccato”. Del VHF, sulle barcacce del porto, se ne parlava soltanto per sentito dire.
Prima di prendere il cavo, facevo un giro intorno alla nave e, da sottovento al ponte di comando, ascoltavo dalla viva voce del pilota il posto d’ormeggio e dove intendeva girare la nave. Era un doveroso inchino ed una pura formalità, perchè ogni pilota aveva il suo stile ed il suo ritmo, persino nel presentarsi sull’imboccatura, il che anticipava la sua personale tattica di manovra, il resto era soltanto l’adeguamento ad un dejà vu.
Siamo nel 1938 una squadra di piloti esce incontro alle navi in arrivo a Genova
I piloti erano molto simili tra loro nell’aderire alla stessa scuola di pilotaggio, nel senso che le manovre, pur sviluppandosi tutte in modo diverso, avevano dei modelli standard, tuttavia, qualche volta poteva accadere di partecipare ad una variazione sul tema, infatti, le situazioni d’emergenza non mancavano mai, ma erano le eccezioni fuori della routine.
Ogni pilota aveva la sua “guida” più o meno nervosa, una forte personalità ed un particolare senso marinaresco. Alcuni erano già anziani e fra loro non mancava chi si era lasciato alle spalle dolorose avventure belliche e grandi fatiche postbelliche….
Confesso di non avere mai considerato, in quegli anni, il rimorchio ed il pilotaggio, attività molto distinte tra loro e quando rimorchiavo una nave in altura, non solo ne diventavo il comandante naturale, ma il più delle volte la pilotavo anche nei fiumi e spesso la ormeggiavo e disormeggiavo dalla rada o da un piccolo porto, dove neppure esisteva il servizio di pilotaggio.
Pensavo, realmente, di essere già “dentro” a quella specializzazione che ritenevo, erroneamente, ripetitiva o tutto al più complementare a quella che stavo esercitando, e che tanto mi appassionava, forse per le variabili connesse alle numerose ed impegnative attività collaterali: altura, disincagli, assistenze, salvataggi, operazioni antincendio, oltre che portuale, naturalmente.
Due Liberty a rimorchio del Vortice da New York a Castellon de la Plana
Nel 1970 a New York, in occasione del “rimorchio oceanico” di due Liberty da Newark alla Spagna, i capitani dei due rimorchiatori della Mc Allister’s, che tenevano affiancate le navi, usavano alternarsi sul M/r Vortice per pilotare il convoglio dalla Reserve Fleet, per sette ore, sino alla foce dell’Hudson.
Mi trascinai d’allora la convinzione che le due attività fossero talmente simili da essere anche intercambiabili, quantomeno nel “nuovo mondo”.
I piloti del porto di Genova, a giudicare da quanto si sentiva nello shipping internazionle, lavoravano con molta professionalità ed “il loro miglior maestro” – si diceva allora – “era il vento, che riuscivano a farselo amico, con molta abilità.”
Questo giudizio molto lusinghiero, per la verità, era esteso anche ai comandanti/Rr, che erano nati e cresciuti nel porto della tramontana e prima d’essere utili alla nave, imparavano a governare il proprio mezzo con grande maestria e con tutti i venti. Sicuramente, a quei tempi, la cosiddetta gavetta era molto più lunga per un comandante/Rr, piuttosto che per un pilota del porto.
Ai comandanti/Rr, erano più graditi i piloti con spiccato autocontrollo e soprattutto chi era rispettoso delle difficoltà oggettive degli altri partecipanti alla manovra.
Per esempio, erano apprezzati i piloti che fermavano l’elica quando il rimorchiatore prendeva il cavo di poppa, e non accostavano la nave quando l’altro rimorchiatore si trovava a due metri dal tagliamare.
Fase molto delicata. Il rimorchiatore, tramite il “sacchetto”, ha stabilito il contatto con la nave. La manovra è ravvicinata e si svolge in velocità.
Col dovuto rispetto e con qualche diffidenza, i piloti del porto erano classificati e misurati sulla scala delle velocità, proprio come il vento; i più veloci erano considerati i più “pericolosi” in tutti i sensi, e dal rimorchiatore si capiva benissimo fino a che punto il vento giustificasse un’andatura eccessiva.
Nel periodo precedente l’introduzione del “modello Tractor” nel porto di Genova, la manovra portuale era molto condizionata dalla versatilità, potenza, lunghezza e manovrabilità delle barcacce disponibili; fattori che incidevano notevolmente sull’andamento dell’ormeggio, a cominciare dal posto in cui girare la nave, nel controllo del convoglio in canale, sino all’attracco vero e proprio.
Anni ’60. Una decina di rimorchiatori all’ormeggio di Ponte Parodi
E’ forse opportuno ricordare che a partire dagli anni ’60, sino alla fine degli anni ’80, le manovre in porto si facevano con quaranta rimorchiatori, di cui una buona parte era composta di mezzi antiquati e molto diversi tra loro. Il comandante, chiamato con un po’ di malizia barcacciante, prendeva sempre la stessa barca e ne diventava l’unico interprete. Nel tempo, questa consuetudine o necessità, aveva creato nei piloti l’abitudine di chiamare il rimorchiatore con il nome del comandante.
f.5 Un’altra immagine di Ponte di Parodi con la sua varietà di rimorchiatori in attesa d’entrare in servizio.
Della nave in arrivo, in quegli anni, m’interessava cogliere subito:
1) La nazionalità dell’equipaggio.
Dovevo calcolare, a priori, il tempo in cui dovevo rimanere, in posizione molto “scomoda”, sotto la prora oppure nella scia dell’elica, nell’attesa del cavo di bordo. I nordici erano i più affidabili. Gli indiani e i cinesi, i più lenti.
Il cavo della nave sta per essere messo al gancio del M/r “Canada”. In questa fase, la scia della nave tende ad allontanare il rimorchiatore.
Il cavo della nave sta per essere messo al ganci del M/r “Canada”. In questa fase, la scia della nave tende ad allontanare il rimorchiatore.
2) La bandiera e la Società armatrice.
Dalla tradizione marinara della nave sarebbe dipesa la bontà del cavo da rimorchio, che doveva essere adatto al peso della nave, al vento ed a quel tipo di manovra. Spezzarlo, significava spesso essere responsabile di una frustata che poteva uccidere all’istante marinai della nave e del rimorchiatore, non solo, ma poteva compromettere anche il risultato della manovra alla presenza d’altre navi in manovra, di cui s’ignorava la natura del carico.
3) La pericolosità della scia di scarico dell’elica, per non farmi travolgere.
Questo terzo punto, che ritenevo molto delicato, dipendeva:
a) dalla potenza della macchina della nave.
b) dal tempismo o dall’eventuale distrazione del pilota.
La smacchinata è partita. Il rimorchiatore si è defilato.
La sicurezza del rimorchiatore e del suo equipaggio, chiuso in acque ristrette tra due pontili ed una calata, dipendeva dalla gestione di questi elementi. Una smacchinata di dieci/ventimila cv., sempre involontaria e senza preavviso, poteva causare il rovesciamento del gozzo degli ormeggiatori, impegnato vicino all’elica, oppure rompere il cavo e far girare il rimorchiatore su se stesso, senza controllo, proprio come una trottola. In entrambi i casi, le conseguenze di simili accadimenti, obiettivamente rari, facevano sempre discutere, anche animatamente, le parti coinvolte.
A volte poteva anche succedere che il comandante della nave, all’insaputa del pilota, toccasse la macchina per aggiustare la posizione a manovra quasi conclusa, e rovinava tutto incappando nella situazione appena descritta.
Questo fatto, non del tutto ameno, dovrebbe far riflettere sulla necessità che soltanto il pilota, conoscitore dell’ambiente, oltre che dei problemi di manovra, dovesse dirigere egli stesso, sempre, la manovra.
Da comandante/Rr, m’interessava sapere, inoltre, se la nave era dotata di turbina oppure di motore diesel. Spazio e tempo d’arresto della nave erano molto condizionati da questo fattore tecnico, essendo la turbina lentissima e poco potente in manovra, rispetto al motore tradizionale.
Dal punto di vista dinamico della manovra, quando la nave arrivava sul posto della “girata”, il rimorchiatore doveva trovarsi, nel momento giusto, perfettamente ad angolo retto, per poterla piegare senza farla avanzare. Questa fase esprimeva la bontà o meno della coordinazione tra il pilota ed i rimorchiatori, quindi incideva sull’armonizzazione stessa della manovra.
Il rimorchiatore, qualora avesse anticipato il piegamento del rimorchio rispetto all’arresto stesso della nave, rischiava non solo il trascinamento, ma anche il rovesciamento.
Da comandante/Rr, non ero “strettamente” legato agli aspetti tecnologici più o meno avanzati della nave da rimorchiare. Mi occorrevano, tuttavia, le giuste informazioni per potermi regolare durante la manovra, nei limiti appena accennati.
Al contrario ero direttamente coinvolto nella tecnologia di bordo del rimorchiatore.
In quegli anni esistevano ancora rimorchiatori a vapore, imposti per legge, in quanto fornitori proprio di vapore, quand’era necessario a salpare le ancore di navi in disarmo. I loro nomi erano: Iberia-Olanda-Svezia-Perù-Tripoli-Forte.
Esisteva inoltre un rimorchiatore USA:
Algeria, che partecipò allo sbarco degli Alleati in Normandia e proseguì la carriera a Genova.
Dalmazia ed il piccolo Bengasi, di costruzione in legno.
Classe Francia (3) – erano forti e pesanti.
Classe Capo Testa (3) – erano maneggevoli, forti, ma leggeri.
Classe Derna (2) – piccoli e versatili, furono ristrutturati e potenziati (1500 cv,).
Libano, Danimarca e Britannia – medio-piccoli e superati.
Grecia, Castelsardo e Alghero – buoni e adatti al medio tonnellaggio.
Istria-India-Panama, conosciuti come “rotori” (sist. cicloidale). Erano molto richiesti per la loro maneggevolezza e versatilità.
Brasile-Nuraghe-Torregrande-Casteldoria-America-Dalmazia-Norvegia–Ariel-Espero formavano la squadra dei rimorchiatori d’altura, insieme al Vortice ed al Ciclone. Quest’ultimi non lavoravano in porto.
Si era ancora lontani dall’avvento del già accennato “modello unico” di fine millennio, e capitava di dover lavorare, nello stesso giorno, con il Forte, per poi passare ad un Rotore ed infine al Torregrande, come successe anche al sottoscritto. Questo rappresentava un aspetto tipico e non sempre facile di quella professione.
Potenza, manovrabilità, eleganza. Con l’avvento del “Modello Tractor”, il servizio di rimorchio nel porto di Genova si è allineato allo standard dei maggiori porti del mondo.
Il doversi adattare ai cosiddetti “salti”, era un esercizio scomodo, ma anche molto gratificante. Quel tipo d’allenamento mi fu utile in seguito, quando da pilota non incontrai grandi problemi nel manovrare navi piccole che abitualmente cercavano di non prendere il rimorchiatore, neppure con vento forte.
Da pilota del porto… Nel giugno del 1975, quando cominciai l’anno da allievo pilota nel porto di Genova, paradossalmente, mi si aprì uno scenario completamento nuovo. Il fatto mi sorprese non poco, perché negli otto anni precedenti, dalla piccola tuga del rimorchiatore che comandavo, ebbi modo di studiare, molto accuratamente, anche nei dettagli, il comportamento dei piloti del porto, ogni giorno, durante le tante manovre d’ormeggio e disormeggio che si facevano allora.
Presto mi resi conto che, pur partecipando alla stessa manovra, il pilota vedeva la nave da un’altra prospettiva, senza dubbio più complessa.
Per esempio, quando mi avvicinavo alla nave, cercavo già di capire dal vetro della pilotina, se aveva un buon assetto, se prendeva vento, se l’elica era immersa, ma soprattutto, da un’occhiata rapida al pescaggio, cercavo di prevedere il suo spazio d’arresto. Per altre informazioni andavo a naso…, già! Proprio così!
Entrato, infatti, negli alloggi della nave, in base all’odore, alla luce ed ad altri dettagli, capivo, indipendentemente dalla bandiera più o meno di comodo, se l’equipaggio aveva una qualche tradizione marinara. Questo elemento, il più delle volte era importante per prefigurarmi l’andamento della manovra.
Giunto poi sul ponte di comando, incontravo il comandante e, nel mio computer cerebrale, scattava l’input più importante. In quel momento ero già in grado di sommare quelle informazioni che mi permettevano di accelerare la manovra oppure di rallentarla, in quanto già prevedevo tra quanto tempo e dove, l’equipaggio sarebbe stato pronto a dare i cavi ai rimorchiatori a prora e a poppa.
La velocità della manovra era anche in funzione, del traffico in corso, delle “mani chiamate dei portuali” in banchina, ma soprattutto dipendeva dalla direzione e forza del vento di giornata. Con un po’ d’esperienza capii che la buona riuscita della manovra dipendeva soprattutto da come l’avevo iniziata, già un miglio fuori le dighe.
Durante l’avvicinamento all’imboccatura, ritenevo importante impossessarmi di un’altra preziosa infomazione: i nomi dei comandanti/Rr che mi avrebbero “attaccato” ed assistito in manovra. Uomini e mezzi avevano caratteristiche che andavano accettate, interpretate e sfruttate al meglio.
Di quell’ambiente conoscevo la forza e la debolezza e, pur stimando la professionalità di quasi tutti i miei ex-colleghi, decidevo dove dargli il cavo, se in avamporto, dopo aver portato in accelerazione la nave bene al vento, oppure se non era il caso, davanti alla strega, (zona Fiera) nella bonaccia, dopo aver rallentato.
Da pilota, quindi, sapevo che la manovra andava pensata e programmata con largo anticipo, più di quanto ritenessi dal rimorchiatore. In questo senso mi occorrevano più informazioni, non solo legate al traffico in corso, ai servizi disponibili, ma anche alla situazione delle altre navi sul posto d’ormeggio a me destinato.
Da pilota, dovevo affrontare, per ogni nave, il problema della biscaglina e quando le onde erano alte cinque o più metri, salire e scendere da bordo costituiva un grosso problema personale da risolvere. Non pochi furono i piloti che, sottovalutando qualche dettaglio, caddero in mare, sia in porto che in navigazione.
….una volta saliti e scesi da bordo!
Il problema era tanto importante e personale che in venticinque anni di servizio, non mi sono mai sognato di fumare una sigaretta, né di dormire meno di sei-sette ore per notte. Le condizioni fisiche, che avevo del tutto trascurato quando ero comandante/Rr, sono diventate, da pilota portuale, il requisito primario per poter svolgere l’attività che, secondo i vecchi piloti” …”era la più bella del mondo, una volta saliti e scesi da bordo!”
Questa presa di coscienza, che ovviamente si affinò con gli anni, mi costrinse a considerare il pilotaggio una specie di missione, facendomi spesso sentire un monaco in ritiro permanente.
Da comandante/Rr avevo quindi una visione parziale della manovra, sia come posizione scelta nella manovra, sia come prestazione offerta sotto la direzione del pilota. Ciò non voleva significare distacco dalla manovra, al contrario, il cavo da rimorchio, come un vero cordone ombelicale, mi trasmetteva ed amplificava il passaggio di tensione, di forza, di vibrazioni, di pulsazioni, di paura negli sbandamenti fuori controllo, di forte timore dinanzi agli sfilacciamenti dei legnoli che preannunciavano la possibile rottura.
Potrei raccontare di tante emozioni di quegli anni, legate per lo più ad incidenti, incendi, salvataggi ecc… che non ho certo dimenticato, e che semmai, da pilota, ho aggiunto a nuove esperienze, di diverso calibro adrenalinico, come il fermarsi con la prua o con la poppa di una nave a pochi centimetri da una banchina…il che non aveva proprio l’effetto di un calmante.
Indimenticabile fu, ad esempio, quel colpo d’adrenalina, per ciò che mi capitò su una nave in arrivo, quando un’ufficiale inglese, stranamente senza flash-light, mi accompagnò in coperta, facendomi attraversare un boccaporto semiaperto che non vidi e che centrai in pieno. Mi salvò l’istinto o qualcos’altro… per cui mi trovai sospeso, sui gomiti e con il resto del corpo penzoloni sul cielo di una stiva vuota…
E con quale leggerezza volammo, con l’amico Nanni Santagata, su un’onda che ci depose incolumi, in coperta, senza essere passati dalla biscaglina…di una nave che rollava “alla gran puta”!!
Incredibile! Fu quella volta che, avviandomi dal ponte di comando verso la biscaglina, m’imbattei in un commando (israeliano) armato fino ai denti, che mi strattonò puntandomi le armi per non avermi riconosciuto…
Ma ancora oggi ricordo come un incubo, quella gelida mattina invernale, nella rada di Voltri, quando mi trovai appeso a metà della fiancata di un’altissima petroliera (vuota), mentre il vento attorcigliava la biscaglina che era senza spreaders, e la pioggia ghiacciata mi aveva paralizzato le mani, e non c’era modo né di salire e né di scendere…
Da pilota, tuttavia, ho scoperto un altro aspetto delicato del pilotaggio: il rapporto psicologico con il comandante della nave. L’esperienza mi ha insegnato che questo “contatto” o era addirittura liberatorio, oppure sofferto da parte del comandante.
La scuola inglese, da questo punto di vista, era molto pragmatica nel sostenere che:
“il peggior pilota è sempre più affidabile del migliore dei comandanti, il quale non può avere, in nessun caso, un’approfondita conoscenza del mondo portuale che lo ospita in un determinato momento, dove altri soggetti navali perseguono lo stesso scopo.”
Dalla bontà del rapporto instaurato tra questi due personaggi, dipendeva, in ogni caso, il risultato della manovra. Al contrario, dalle incomprensioni che potevano sorgere sul ponte di comando, per differenti visioni della manovra, a volte si ottenevano pessime manovre.
Poteva succedere che il comandante, stanco del viaggio ed innervosito a causa del ritardo accumulato, facesse ricadere il proprio malumore sul pilota, che non sempre sapeva incassare il colpo e qualche volta dimenticava di dover essere sempre un “gentleman”, retribuito per un servizio alla nave, e…ogni tanto la manovra perdeva, temporaneamente, il suo naturale conduttore…
Nella gran maggioranza dei casi, comandante e pilota si comportavano da veri professionisti, ben consci d’avere una storia millenaria in comune e di venire da lontano, insieme, tenendosi per mano, nel superare tutte le difficoltà psicologiche, ambientali e tecnologiche.
Molti erano i casi in cui, tra comandante e pilota nasceva una profonda amicizia, favorita dalla reciproca stima, cultura e nazionalità. Nella vita media lavorativa di un pilota del porto di Genova, il numero di manovre si aggirava sulle trentamila, ed era intuibile quanto egli doveva atteggiarsi ad abile diplomatico e cittadino del mondo.
Tra i piloti si raccontava che – i danni di manovra avvenivano, il più delle volte, quando comandante e pilota erano stati compagni di scuola o erano molto amici…- Ovviamente si alludeva alla loro scarsa concentrazione. Era vero! In tutte le manovre, anche la più semplice, era proibito deconcentrarsi e non prendere visivamente atto delle continue variazioni di posizione della nave.
Da comandante/Rr, non ricordo d’aver mai preso in considerazione gli aspetti psicologici ed il loro possibile modo d’influenzare una manovra. Sicuramente durante le mie esperienze in altura, dovevo regolarmente servirmi del pilota portuale locale, il quale però si limitava a darmi le informazioni nautiche e del traffico portuale, essendo la manovra del rimorchiatore molto personale e compenetrata nel modo d’essere e di lavorare del suo comandante.
A proposito di turbine…
I giovani e forti piloti dei cacciabombardieri TOMCAT dell’USAF, quando di notte atterravano manualmente sulle portaerei, subivano forti sbalzi di pressione, ed arrivavano a 250 battiti cardiaci, rischiando infarti e svenimenti.
Certi raffronti potevano apparire impropri, tuttavia, pensavo che se mi fossi sottoposto alle stesse misurazioni, durante certe entrate notturne all’Italsider, le mie pulsazioni non potevano rivelarsi molto diverse da quelle dei piloti militari summenzionati.
Da pilota, la vecchia turbina era una specie di “maledizione” che durava dal momento dell’imbarco sino alla fine della manovra. Lenti erano gli avviamenti, scarsa la potenza, lunghissimi gli spazi d’arresto e quando la nave era in banchina, avendo sempre l’elica in movimento, era un tormento bloccarla in posizione. Difficile era il controllo di grandi petroliere o carboniere, specialmente alla presenza di pessime condizioni meteo.
Mi riferisco, per esempio, all’entrata, sempre dopo la mezzanotte, di una (delle tante) carboniera a turbina, mediamente lunga 250 metri, che doveva entrare, ad ogni costo, due o tre volte la settimana, anche alla presenza di fortissime sciroccate che facevano aumentare la velocità di 3 o 4 nodi, oppure di certe libecciate che la schiacciavano contro la diga. L’imboccatura era così stretta e poco illuminata che ricorrevo alle luci di posizione dei rimorchiatori, piazzati in mezzo al canale, per avere un riferimento.
Entrata di una nave all’Italsider con mare al traverso.
Durante l’avvicinamento, appena fermavo la turbina, la nave si abbatteva e per tenerla parallela alla diga, sull’asse dell’entrata, dovevo:
-Imboccare il canale con la marcia avanti.
-Aumentare la velocità.
-Entrare completamente.
-Fermare la turbina.
-Avviarla e metterla tutta indietro.
-Dare i cavi ai rimorchiatori e sperare, con la scarsissima potenza a disposizione, che il Signore ci donasse qualche cavallo in più per fermarla nello spazio residuo di uno scafo.
-La provvidenziale e qualche volta eroica prestazione dei rimorchiatori era, di solito, decisiva per un buon finale del solito film…
E’ inutile dire che le pruate, forti o leggere, contro la banchina non mancarono mai! E’ inutile dire che alcune volte furono colpite le gigantesche gru del prolungamento e l’impianto-Italsider rimase “limitato” per mesi. E’ inutile dire che n-volte le navi a turbina si fermarono ad un metro…dagli impianti.
Da comandante/Rr, avevo già partecipato molte volte a quell’infernale esperienza, sempre alle due di notte, e ricordo benissimo d’aver salvato la mia parte di prue; ma non sempre capivo l’abbrivo eccessivo e immotivato che mi costringeva ogni volta a mettermi a spring a tirare, a volte sino alla rottura del cavo tra scintille e bestemmie.
Da pilota, poi, sono stato in grado di darmi tutte le risposte…del caso. Eccetto una, quella principale:
“Perché si entrava sempre a quell’ora ed in quelle condizioni di tempo?”
Si diceva che, a causa d’eventuali ritardi della nave, i dirigenti erano costretti a fermare gli impianti dell’Italsider. C’erano di mezzo i turni degli operai e quindi la loro occupazione. Per le petroliere del Porto Petroli di Multedo, si diceva invece che il Paese rischiava il black-out energetico.
A mio giudizio, il senso o il nonsenso di questo fenomeno molto italiano, non andava ricercato nell’intelligenza o nella stupidità di chi si trovava ad operare in quel periodo, ma se proprio dovevo puntare un dito, allora non avevo il minimo dubbio nell’affermare che le responsabilità andavano ricercate nella classe politica del decennio precedente, che non era stata capace di prevedere il gigantismo navale e, di conseguenza, neppure l’adeguata tecnologia delle strutture portuali atte ad ospitarlo. Ai poveri cristi non rimaneva che porvi rimedio secondo il vecchio detto “fare le nozze con i fichi secchi e… molti cardiotonici!”
Per pura informazione, vorrei solo aggiungere che, statistiche alla mano, i piloti portuali di tutto il mondo, sono soggetti all’infarto del miocardio, purtroppo, dalle ultime rilevazioni, pare che i dati siano tuttora in salita.
In questo senso il tributo pagato dai piloti del porto di Genova era noto nell’ambiente, così com’era ben noto che altre manovre portuali, della mia epoca, richiedessero un cuore d’acciaio.
Una manovra sofferta… a causa di un residuo di vecchia tecnologia!
Navi a vapore con interni di legno e lucidi ottoni, lente e silenziose come vele d’altri tempi, sfidavano ancora le potenti e veloci containers, dotate di bowthruster e spaziali consolle, collocate al centro dei ponti di comando, sempre più simili ad aerei.
La piccola storiella che mi accingo a raccontare, più d’ogni considerazione teorica, può esprimere il senso del divario tra due tecnologie che hanno convissuto nella stessa epoca, definita ormai tecnologica, ancora per molti decenni.
Nel 1975, durante il mio periodo d’allievo pilota, circolavano ancora per i sette mari vecchie navi a vapore, per la verità in numero assai limitato. Ne conoscevo alcune per averle attaccate con i rimorchiatori in porto, ma ne ignoravo le qualità manovriere e soprattutto la potenza.
Una mattina, con vento fresco di tramontana, mi trovai insieme al pilota G. Salomone a bordo di una carretta greca di 10.000 tonnellate, in partenza da calata Bettolo. La nave, già scostata dal vento, aveva anche la prora in direzione dell’uscita di levante.
Il pilota chiese al comandante il permesso di lasciarmi manovrare sotto la sua responsabilità. Com’era suo costume, il buon Giovanni abbandonò il ponte di comando e se n’andò sull’aletta. In pratica mi lasciò solo, dicendomi soltanto di fare molta attenzione alla manovra. Forte della mia esperienza portuale non riuscivo, in tutta onestà, a classificarla come una manovra complicata.
Con eccessiva disinvoltura, diedi il “molla tutto da terra”. Mi feci allargare un po’ di più dal rimorchiatore di prora e poi li mollai entrambi, per avere l’elica libera e poter accelerare, con il vento al traverso, nella zona del taglio di Calata Canzio, che all’epoca era molto più stretto.
Era la prima volta che manovravo una vecchia nave a vapore, vuota e trasandata come una vecchia tramp d’altri tempi. Nei due mesi di tirocinio d’allievo, infatti, mi ero esercitato soltanto su navi moderne, potenti e sopratutto dotate di timoni compensati, ad ampio settore.
Nel momento in cui notai “cadere” eccessivamente la prora, diedi l’ordine al timoniere: “tutto a sinistra”, ma la nave rispose come s’avessi detto “5° a sinistra”. Ripetei l’ordine, ma la resa era quella… La stessa cosa successe quando aumentai la potenza della macchina alternativa. La nave aveva una limitatissima potenza, un abisso, rispetto ad una nave moderna di pari stazza. Ormai avevo liberato i rimorchiatori, credendo che potessero ostacolarmi la manovrabilità …
La situazione era disperata. Si scivolava dolcemente, di pancia, verso la diga. Quando pensai di dare fondo l’ancora, era ormai troppo tardi.. “la mia carriera finisce qui, oggi!!” Pensavo disperato. Ma il buon Giovanni, memore delle sue esperienze personali, aveva già bloccato, dall’aletta sottovento, un “rotore” che stava rientrando alla base, e gli fece segno di mettersi a spingere a centro-nave.
Nonostante la provvidenziale spinta di Stea Mora, passammo talmente vicino al taglio della Canzio, da poter contare le gritte sul lato della Volpara.
Giunti in avamporto, Salomone entrò in timoneria e non disse nulla. Fui io stesso a chiedergli perchè mi avesse abbandonato….
“Io ti avevo avvertito” – disse con la sua celebre calma olimpica – che non era una manovra facile. Non sentirti in colpa! Hai fatto in ogni caso una buon’esperienza. Credo che tu abbia imparato moltissimo dagli errori che hai fatto… molto di più di qualsiasi spiegazione da parte mia”.
Ritorno alla manovra teorica ed allo sfruttamento estremo delle risorse tecnologiche della nave.
Crisi istituzionali, scioperi, cali di traffico, l’assestamento ed infine la ripresa del nostro porto; questi furono i fatti che caratterizzarono buona parte degli anni ’80.
I piloti si difesero da queste calamità, diminuendo l’organico da 34 a 22 unità, ma i dipendenti della Corporazione da stipendiare: impiegati, pilotini, tecnici, ed addetti ad altri servizi, rimasero in ogni caso una quindicina.
Questo motivo prettamente economico, sullo sfondo di una tradizione contraria a qualsiasi forma di sindacalismo politico, consigliò i piloti a perseverare sulla loro strada solitaria, nella peculiare condizione di dipendenti di se stessi e della Capitaneria di porto.
Questa situazione “particolare” vide, purtroppo i piloti soli ed assestati in prima linea, specialmente durante lo sciopero degli altri Servizi portuali, ed in particolare quello del personale dei rimorchiatori. Non tutti in porto, ovviamente, capirono le loro necessità di sopravvivenza e purtroppo si aprì una ferita che impiegò un po’ di tempo a guarire.
Ho preso spunto da questi storici avvenimenti per ricordare che, in quelle non poche giornate, i piloti hanno vissuto, dal punto di vista professionale, paradossalmente, i giorni più brillanti della loro storia professionale.
E’ forse giusto ricordare che dagli scioperi dei dipendenti della Società Rimorchiatori Riuniti, furono esclusi i traghetti e le emergenze, ed è altrettanto utile ricordare che, da parte dei piloti, non si cercarono atti d’eroismo e neppure lavori degni d’encomi, riconoscimenti ufficiali o cose di questo tipo.
Tuttavia, escluse le manovre ritenute impossibili, a causa del consueto utilizzo di quattro o più rimorchiatori, tutte le altre navi entrarono ed uscirono regolarmente dal porto, senza il minimo danno. Ad un lavoro di routine, basato sulla velocità e la sicurezza, si passò ad un sistema più lento e studiato nei minimi particolari. Tutto ciò fu possibile perché il pilota di turno, indipendentemente dall’età e dall’esperienza maturata, s’impegnò strenuamente nella preparazione della “sua” performance, partendo da quella manovra teorica che aveva studiato a scuola e dallo sfruttamento adeguato della tecnologia della “sua” nave.
Il pilota di turno non spinse mai il comandante ad entrare in porto, oppure ad uscire senza l’aiuto dei rimorchiatori. Il pilota, ascoltava le caratteristiche della nave:
Effetto elica, eventuale potenza del Bow Thruster (elica di prora).
– Velocità timone.
– Potenza macchina alle varie andature.
– Pescaggio.
– Superficie velica.
– Caratteristica dell’ancora per l’eventuale dragaggio, o girata ecc..
Con questi dati, il pilota esponeva al comandante la “sua” soluzione, adattandola, ovviamente, alle condizioni del vento e della corrente di quel momento.
Ogni pilota che rientrava in Torretta ripeteva come un ritornello ciò che il comandante gli aveva appena detto:
“Pilota, se te la senti di portarmi fuori (o dentro) senza rimorchiatori, io sono a tua disposizione !”.
In quelle giornate d’estrema tensione nervosa, i piloti, manovra dopo manovra, scoprirono il loro enorme potenziale professionale, che era sconosciuto persino a se stessi.
Di quelle giornate, veramente stressanti, ne ricordo una in particolare. Credo sia stato un sabato, con vento di scirocco, sui 20/22 nodi, nel giugno del 1986.
Alla fine del turno giornaliero, contammo 54 lavori, tra arrivi e partenze. Tra cui una decina di navi passeggeri: le “vecchie” a turbina: Amerikanis, Britanis, Ellinis, girate tutte sull’ancora davanti a Ponte dei Mille, e poi Eugenio C.- Enrico C.- Ausonia ecc..
Alcuni episodi di tecnologia estrema.
La tecnologia navale nel frattempo fece passi da gigante. Me ne resi conto agli inizi degli anni ’90, allorché un comandante norvegese, durante la manovra d’ormeggio all’Isola (Multedo), mi spiegò che la sua nave (non ricordo il nome) era un “prototipo” e che era stata costruita per navigare senza equipaggio, vale a dire, per essere telecomandata da terra.
Mi fece visitare le centraline che raccoglievano i dati provenienti dai sensori dislocati in ogni parte della nave. Quelli dello scafo, per esempio, misuravano le pressioni esterne: la forza del mare, del vento, la corrente e le varie temperature. Tutti i dati, elaborati dal computer di bordo, erano poi trasmessi, automaticamente, alla centrale dell’Ufficio Operativo dell’Armamento di Bergen.
Sullo studio delle schede ricevute, il Responsabile avrebbe impartito gli ordini operativi alla nave.
Il comandante mi spiegò, inoltre, che il sindacato norvegese dei capitani di l.c. prese una ferrea posizione contro questa forma di “wild tecnology” e che era in corso un dibattito internazionale sulla questione, che implicava anche temi ecologici, antropologici, etici oltre che economici.
La crescita della Automazione Navale, per mezzo dell’informatizzazione estesa e diffusa a partire dalle costruzioni degli anni ’80, cambiò il modo di pensare, di parlare, di studiare e quindi di navigare. I piloti, per un certo periodo, erano rimasti ai margini di questa dirompente innovazione, perchè i tradizionali ordini di manovra alla macchina-e-timoniere erano, in ogni caso, mediati dal comandante della nave, che li trasmetteva secondo la rinnovata tecnologia di bordo.
Alcuni anziani piloti si arresero quasi subito. Il gap era soltanto psicologico, ma parve loro insormontabile. Ricordo con tenerezza, che un collega della vecchia guardia, verso la metà degli anni ’90, raccontò di essersi trovato su una nave-passeggeri, in viaggio inaugurale, sulla quale non esisteva più il telegrafo, in tutte le sue versioni, e neppure la figura del timoniere. Ricordo perfettamente l’episodio e lascio quindi la parola al collega stesso: “Il comandante, dopo aver scostato la nave dalla banchina, m’invitò a prendere in mano il joystick e fare la manovra di uscita dai Ponte dei Mille…
Per una questione d’orgoglio e cercando di ricordare quello che imparai sulla play-station di mio nipote, non battei ciglio e ringraziai anzi il comandante per la fiducia. Purtroppo, non mi accorsi subito che i comandi avevano un’impostazione invertita rispetto alla nostra normale metodica. Giunti in avamporto, anziché venire a sinistra verso l’uscita di levante, la nave accostò a dritta verso il Porto Nuovo. La velocità anziché diminuire, aumentò. Ci fu un po’ di panico! Ma si rimediò in tempo. Tuttavia, non ricordo d’aver mai visto la diga così da vicino… persino i cani randagi ci abbaiavano….forse erano convinti di essere speronati…”
Occorre dire che i giovani piloti contribuirono alla risoluzione del problema, portando nuova linfa e soprattutto la giusta mentalità in Corporazione. In seguito, stimolati anche da altri eventi, come la costruzione della Torre di Controllo, per la quale i piloti si erano tanto battuti, iniziò nella vecchia Torretta una vera e propria sana competizione per un completo aggiornamento di telematica.
Nasce la Torre di Controllo per un servizio tecnologico avanzato.
-Più cemento per le strutture logistiche a terra, significa meno acqua di manovra per le navi che hanno dimensioni sempre maggiori.
Questo è il primo problema che assilla comandanti e piloti dei porti della nostra epoca.
-Nelle ore di punta, il porto cambia continuamente scenari, in un divenire di situazioni dinamiche sempre più pericolose, specialmente alla presenza del traffico costantemente in crescita. Questo è il secondo problema.
Le due caratteristiche, comuni ai grandi porti integrati, dotati di 3-4 imboccature, fu presa in considerazione come un reale problema da risolvere, alla fine degli anni ’80 e dopo forti pressioni dei piloti, fu risolto alla metà degli anni ’90 con la costruzione della Torre di Controllo del traffico.
Sotto quest’aspetto, la direzione globale del traffico, via radio, rispose alla moderna esigenza del traffico navale, sintetizzato nello slogan:
“snellimento del traffico nella sicurezza”.
Contemporaneità di manovre
Linea Blu (Daniela Bianchi nella foto) in visita alla Torre di Controllo.
L’esercizio di quest’attività rappresentò una nuova specializzazione ed un nuovo impegno per il pilota portuale e comportò, rispetto al vecchio sistema, responsabilità oggettive molto importanti. Si trattava, in sintesi, di fornire ai comandanti ed ai piloti a bordo, informazioni e consigli su vento, corrente, traffico in corso, servizi disponibili, e di risolvere tutte quelle situazioni che esulavano, normalmente, dalla vera e propria manovra tecnica per la quale il pilota era tradizionalmente preposto e preparato.
Il pilota che presidia in questo momento la Torre di Controllo, rappresenta la moderna figura del Traffic Manager, cui fa riferimento l’Autorità, e gli altri soggetti dello shipping: Agenzie, Spedizionieri, Portuali, Giornali, Marittimi e navi, ovviamente. La stessa persona, dopo qualche ora di servizio, si sdoppia, imbarca sulla pilotina, ritorna ad essere un pilota che esce incontro alla nave.
La globale esperienza del pilota viene così messa al servizio, non solo della nave in senso tradizionale, ma anche al servizio della città mercantile e soprattutto al servizio della sicurezza di tutti.
L’attività della Torre di Controllo può essere svolta con diverse modalità. In Europa, questi Centri Direzionali operano, da molti decenni, secondo schemi non sempre omogenei tra loro.
2000- La Nuova Torre di Controllo del Traffico, vista dalla Tall Ship “Simon Bolivar”
Il tempo ci dirà se il prezioso “strumento genovese” sarà stato utilizzato secondo la restrittiva logica del semaforo cittadino, con esclusivi compiti di polizia, oppure, se lo stesso è interpretato perseguendo gli obiettivi originali, che erano: la guida dinamica delle navi, l’abbattimento dei tempi morti, l’organizzazione di sorpassi di navi lente in sicurezza, lo stabilimento di precedenze che snelliscano il traffico senza penalizzare una parte d’utenti, la distribuzione dei servizi disponibili secondo i metodi più razionali ed economici.
1900- La vecchia Torre dei Piloti a Molo Giano, guardata a vista da una “barcaccia”.
Per ottemperare a tutto ciò, di una nave, occorre conoscere la tecnologia teorica e pratica che sono le curve evolutive, gli spazi d’arresto, le accelerazioni, i loro comandanti persino nelle loro capacità tecniche e decisionali.
A mio giudizio, questi parametri possono essere interpretati soltanto da chi frequenta quotidianamente le navi e le conosce profondamente nella loro globalità e particolarità.
Gli spostamenti di una nave avvengono in spazi molto ampi. Le collisioni, per fortuna, sono sempre più rare.
La manovra navale rappresenta invece l’aspetto più delicato e complesso del viaggio, perché si svolge in acque sempre più ristrette e coinvolge altri utenti, che trasportano carichi importanti e a volte pericolosi.
Il futuro è già qui…..
La pilotina Pegaso in navigazione nel mare lungo.
A Le Havre i piloti hanno messo i “rotori”
Vorrei concludere questo Album di ricordi personali, con una graditissima testimonianza: il Direttore di Macchina, quasi mai compare come un personaggio nella letteratura marinara del pianeta, un po’ per la sua innata modestia, ma credo, soprattutto, perché oscurato dal cono d’ombra proiettato dal Comandante, figura che da sempre rappresenta, in esclusiva, il padrone del vapore. Tuttavia, dai miei ricordi personali, traggo questo sincero sentimento: il D.M. che si è trovato al mio fianco, sia su una grande nave passeggeri, sia su un rimorchiatore portuale o d’altura, oppure sulla piccola pilotina, ha sempre rappresentato: LA MIA META’ ed oserei dire, senza falsa modestia, la parte migliore di me, cioè la parte che non possedevo. A riprova di tutto ciò c’è questa mia, pur “piccola”, ma entusiasta risposta alla chiamata dell’amico D.M. Silvano Masini, compagno di tante avventure sui rimorchiatori, dopo 40 anni di lontananza e mai d’oblio.
Rapallo, 13.02.12
Carlo GATTI
Il presente saggio é saggio é stato pubblicato nel libro
“APPUNTI DI STORIA DELL’AUTOMAZIONE NAVALE E DINTORNI
(Estate 2006)
Autori: Silvano Masini – Gian Luigi Maggi