LE CAMPANE DI PASQUA
Povirazio, un vecchio marittimo, uno dei tanti che si incontrano negli ospedali:
vicenda che non fa notizia ma che rallegra il cuore, come il canto di un usignolo ci ricorda che è primavera, anche nlele giornate umide.
Sia nei grandi che nei piccoli ospedali ci sono tensioni create dall’ambizione e dall’invidia come in tutti i posti di lavoro del mondo, perché la gente è la stessa dappertutto.
Lavoravo dunque a quei tempi in un posto dove avevo trovato tensioni emotive molto forti, condite di ingiustizie, e a volte, purtroppo, di supponenza.
Era un triste periodo di lavoro, per me, quello.
Suonò il telefono che ero appena entrato in Reparto, alle 7.30 del mattino. Una voce dal tono irritato:
«Pronto, sono Mieli: quando ci venite a rivedere quel malato?»
La dottoressa Mieli, di uno dei Reparto Medicina.
«Ciao, Mieli. Quale malato?»
«Quello dell’ernia strozzata, Povirazio. Siete già venuti a vederlo nei giorni scorsi … »
«Non ne so nulla. Sabato e domenica non ero di turno … »
«Anche prima! Sono un po’ di giorni che ve lo palleggiate. Quand’è che ve lo prendete?»
Caddi dalle nuvole:
«Un’ernia strozzata?»
«Eh! Un occluso, che sta sempre peggio!»
Sgranai gli occhi:
«E perché l’avete voi, se è occluso?»
Lei ringhiò quasi:
«E’ quello che ti chiedo! E’ un malato vostro, o no? Vi abbiamo già mandato una pila di richieste di consulenza!»
Mi guardai intorno: in quel momento non c’era nessun altro in Reparto.
«O.K., vengo a vederlo. Ciao, Antonella»
Nel Reparto Medicina la mattinata era appena all’inizio. La Mieli mi aspettava sulla porta.
«Ciao» disse «Grazie, che sei venuto subito … Ti accompagno. Il malato è da questa parte!»
Povirazio Cristiano mi parve subito un Povero Cristo. Un vecchio dagli occhi vispi, tanto piccino che quasi spariva nel letto.
Era senza denti, con un solo canino che gli spuntava dalla mandibola. Per la lassità dei legamenti la mandibola sporgeva oltre il labbro superiore, sicché quel canino usciva fuori minaccioso e gli dava un’aria da narvalo, o da orco dei fumetti.
Il sondino naso gastrico era pieno di contenuto spesso e la pancia enorme contrastava con la pochezza del resto.
«Signor Povirazio, questo è il chirurgo» disse la Mieli «E’ venuto a vederla. Gli racconti cosa sente!»
«Tengo male di pancia, sempre più forte» esordì il poveraccio «che non ce la faccio più …»
«Il male è aumentato tra sabato e domenica, signor Povirazio?» dissi io.
Lui scosse la mano destra avanti e indietro:
«Tanto, dottò, che non lo sopporto più»
«Mi faccia vedere la pancia, prego!»
Appena misi gli occhi sull’inguine destro mi scappò fuori un moccolo:
«Bellìn»
«Eh! Hai visto?» disse la Antonella.
Un’ernia maligna non ridotta, che portava i segni di ecchimosi generate dai precedenti tentativi dei ditoni che volevano ridurla.
«Com’è possibile» sussurrai «che l’abbiano lasciato lì, Antonella?»
Lei si strinse nelle spalle e scosse il capo
«Ha un’ernia strozzata!» sussurrai guardandola negli occhi «perché è qui?»
«Cosa ne so io? Non sono mica un chirurgo!»
«Quelli che l’hanno visto nei giorni scorsi non l’hanno trasferito?»
«Macché, è lì tale e quale, da quando è arrivato!»
«Perché non l’hanno preso?»
«E’ un ex navigante, fumatore, bevitore… bronchite cronica, diabete, cardiopatia. E’ un ASA II-III»
Voleva dire che il vecchio marittimo era tutto scassato, e che operarlo sarebbe stato un grosso rischio. Perciò chi l’aveva visto in precedenza si era limitato a pestare sul sacco nel tentativo di ridurre l’ansa bloccata, tanto da fargli venire la pelle viola!
E’ imbarazzante da dire, ma ogni tanto si attivano queste dinamiche, nei grossi ospedali: se un malato viene etichettato come fonte di possibili rivalse, a volte si innesca l’effetto dello scaricabarile (o del cerino corto).
E il cerino corto in quel caso l’avevo appena pescato io!
Ignaro, ma non stupido, Povirazio Cristiano, ex marittimo da carretta, stava lì con sondino e il dente unico a guardarmi. La pancia da batrace gli limitava ancor più il respiro, e il sacco dell’ernia gli prorompeva all’inguine, come uno zaino pieno di budella.
Budella atoniche, che toccando la pancia guazzavano come l’acqua dentro una camera d’aria gonfia!
L’occhio che mi guardava però era quello di un navigante che vede lontano: un misto di senso pratico e umiltà.
«Uhm…» dissi.
«Prenditelo» implorò speranzosa l’Antonella.
«Dottò, proprio non si può fare nulla?» chiese il Povirazio.
Sbuffava e ansimava, coi suoi pochi polmoni. Il sondino lo inchiodava al letto, ma riuscì a stupirmi:
«Dottò, operatemi. Toglietemi questo dolore. Guardate: non m’importa di morire, a mia, ma toglietemi il male. Non ce la faccio più!»
Polvirazio sognava la sua nave sospesa…
Era coraggioso, il tipo, come tutti quelli che hanno navigato il mare.
Il sondino che lo inchiodava al letto e le ecchimosi che aveva sulla pancia mi ricordarono altri chiodi e altri lividi occorsi a un povero Cristo di duemila anni prima. Così rammentai che eravamo all’inizio della Settimana Santa.
«Dottò, levatemi ‘sto male, Per carità!»
«I parenti cosa dicono?» chiesi sottovoce all’Antonella.
«Ti faccio parlare con loro appena andiamo di là»
«Ma quali parenti!» insorse Povirazio «Ve lo chiedo io: operatemi, dottò! Non è bastante?»
«Silenzio, Povirazio» lo zittì la Mieli «lasciaci parlare fra noi!»
«E’ mai possibile, Antonella» sussurrai «che oggi, qui, succedano ‘ste cose?»
«Altroché se è possibile! Allora lo prendi?» chiese, speranzosa.
«Per forza, è da operare!»
Lei sgranò gli occhi:
«Lo vuoi operare?»
«Secondo te come si può uscire da questa situazione? Lo guardiamo morire tastandogli la panza?»
Lei rise:
«Secondo me sei matto»
Aveva ragione, pensai, un po’ triste. Però dissi:
«Se fosse tuo padre?»
La frase era retorica, ma pur sempre inequivocabile, difatti la Anto annuì:
«Capisco. L’hai già detto in Sala?»
«Vado ora a dirglielo: si scatenerà il putiferio!»
Me l’aspettavo già, il ruggito degli anestesisti e l’ululato del Personale, ma per fortuna di turno di urgenza c’era il mio vecchio amico Gian-il-Burbero.
Fece ricorso a tutte le invettive, prese a calci gli armadietti, lanciò gli zoccoli, ma alla fine si calmò.
«Va bene, però gli faccio solo una spinale, eh? Se lo intubo, lo ammazzo!»
«Meglio che niente, Gian … »
«Se c’è un’ansa necrotica dovrai fargli la resezione da sveglio!» affermò con una certa perfidia.
Sudai freddo: pensavo alle condizioni di quell’ansa, dopo tutti quei giorni di strozzamento, e alle ditate che l’avevano percossa nei tentativi di riduzione.
Finsi indifferenza:
«Sta bene, facciamo come hai detto tu, Gian: una spinale e basta!»
«Hai già parlato coi parenti? Gli hai detto che può morire sotto i ferri?»
Annuii. I parenti avevano boccheggiato nella disperazione.
“Il rischio è molto grande” avevo detto “Le sue condizioni sono pessime”.
Quando lo portarono sul tavolo operatorio era più di là che di qua.
L’ernia era enorme, ma soprattutto l’ansa intestinale che c’era dentro sembrava proprio sul punto di scoppiare. Era nera e puzzava di morto, e quando la liberai dal cingolo strozzante non cambiò colore. Restò immobile, come un lombrico schiacciato.
«Datemi garze imbevute di fisiologica tiepida, scaldiamola un po’» dissi.
«Acqua calda» disse la ferrista
Non pareva esserci nulla da fare. Nulla si muoveva.
«Bisogna resecare l’ansa» dissi, e Gian si agitò sul suo sgabello.
«Ti ho detto che non lo posso intubare. Se lo faccio muore di sicuro al risveglio»
«Beh, così non lo posso lasciare. Se l’ansa non si riprende nei prossimi minuti, dovrò farlo»
Mentre lui si accingeva a preparare l’intubazione smoccolando, però, scorsi un barlume di miglioramento nel colore dell’intestino, che da nero era diventata viola.
«Aspetta un momento … il colore sta cambiando» dissi.
«Fa vedere …» disse Gian.
Nei dieci minuti successivi la situazione non cambiò di molto, ma facendo il calcolo mentale delle probabilità, mi convinsi che gliene restavano di più se l’avessi lasciata che se l’avessi resecata.
Dopo altri cinque di pazienza, la situazione pareva stabilizzata.
«La lasciamo stare» dissi. Gian e gli altri sospirarono di sollievo.
«Dai, chiudila lì e andiamocene a casa!» disse il mio amico.
I budelli scappavano fuori dalla breccia del sacco come serpi gonfie, ma riuscii lo stesso a fare una plastica e a riparare l’immane buco con una protesi a rete.
Appena finito lo trasferimmo in Rianimazione:
«Sei d’accordo per il trasferimento in Rianimo?» mi disse
«Certo» sorrisi «figurati se ti smentisco»
Tutti e due, senza dircelo, avevamo la certezza che sarebbe uscito dalla Rianimo coi piedi davanti.
Il giorno dopo passai a trovarlo. Versava in condizioni disperate ma non ancora morto. Tornai ancora per due giorni di fila, ma era sempre così.
La peristalsi non riprendeva, il ristagno aspirato dal sondino era molto abbondante e spesso.
Il venerdì partii per le ferie già programmate, verso la Toscana, e mi allontanai con un certo sottofondo di amaro nello stomaco.
Non mi levavo dalla mente la faccia del Povirazio che diceva:
“Mi operi, mi tolga questo dolore. Non ce la faccio più”
Telefonai dall’albergo, l’indomani:
«Pronto, Rianimo? Sono Lucardi. Come sta Povirazio Cristiano?»
Il collega mi snocciolò i dati degli esami, e alla fine concluse:
«Non va bene. Non ha più evacuato, e la pancia è tesissima»
Ogni volta la risposta era sempre la stessa:
«Niente evacuazioni? Neanche aria?»
«Macché, niente!»
Anche gli esami peggioravano, sicché a un certo punto mi venne paura di telefonare. La sorte di quel poveretto, mi accorsi, era diventata una parte di me, come se la sua sopravvivenza fosse legata alla difficile situazione lavorativa nella quale versavo, in quell’ospedale.
Era la notte di Pasqua, nella quale il cielo era una coperta di stelle, sulla Toscana silenziosa.
Non dormivo, perché la sorte di Povirazio mi pareva un’ingiustizia troppo ingiusta.
Morire male dopo aver lottato così! Lui ci aveva provato, pensavo: ce l’aveva messa tutta!
La sorte sua mi pareva in qualche modo quella di tutti i poveri Cristi del mondo, per i quali non c’è Resurrezione all’alba della Domenica.
Passammo la giornata di Pasqua nella piscina delle Terme, a Monsummano, patria del poeta Giusti: io quasi sempre in acqua, e quasi sempre con la testa sotto, a fare le bolle, mentre le campane suonavano la Resurrezione.
«Non ci pensare più» mi consolava mia moglie «vedrai che in qualche modo ne uscirà!»
“Già” pensai “ne uscirà coi piedi davanti”
Quella notte finalmente mi addormentai filato, e a un certo punto, sul fare dell’alba, dalle pieghe del dormiveglia scaturì un sogno.
Povirazio mi veniva incontro, in apparenza più giovane, con la dentiera rilucente, e mi ringraziava prendendomi le mani.
«Vi bacio le mani, dottò» diceva «feci una tonnellata di feci, e il male mi passò»
Felice, mi complimentavo con lui, e mi divincolavo prima che riuscisse a baciarmi le mani.
«Sta buono, Povirazio» esclamavo «Lasciami stare le mani!»
Tutto pareva reale, come se lui fosse stato veramente lì, con me.
«Vedi? » dissi «lo sapevo che non poteva finire male, dopo che sei stato così coraggioso!»
Poi gli dissi una cosa un po’ ridicola, mentre gli davo una pacca sulla spalla:
«Complimenti, Cristiano: mi hai insegnato una cosa che non sapevo ancora!»
La mattina dell’Angelo, mentre suonavano le campane, io feci colazione duro e impalato lì, come un piolo. Come i soldati Boemi e Croati della poesia di G. Giusti.
“Me lo sono sognato perché è morto, il poveraccio” pensavo.
Chiamai la Rianimo e mi rispose un’infermiera indaffarata:
«Scusi, abbiamo molto da fare. C’è stato un brutto incidente in Autostrada. Mi lasci il numero, dottore. La farò richiamare!»
Non mi telefonò nessuno, sicché mi convinsi che Povirazio fosse davvero nel mondo dei più e fosse venuto in sogno per salutarmi.
Provai a chiamare Gian, per vedere se ne sapeva qualcosa, ma mi rispose la segreteria.
«Accidenti, è vero!» esclamai «Anche Gian è in ferie. Me l’aveva pure detto!»
«Come sta, il tuo paziente?» chiese mia moglie
«E’ morto, probabilmente. Me lo anche sono sognato» risposi.
Le raccontai il sogno.
«Smetti di torturarti» disse lei « ti richiameranno presto!»
Non chiamò nessuno, e le ferie pasquali passarono molto lentamente. Ogni tanto mi consolavo dicendo che comunque nessuno avrebbe potuto fare di più. Che almeno avevo tentato!
Le solite cose, insomma.
Tornammo a casa dopo alcuni giorni e passai davanti alla porta della Rianimo senza entrare, perché avevo paura di sentirmi dire che tutto era stato inutile.
Sulla soglia della Chirurgia incontrai Ramazza, il collega che mi aveva aiutato durante l’intervento.
«Ciao Pietro»
«Ciao, Lucardi. Hai saputo che fine ha fatto Povirazio?»
«Ah, ehm… è morto, no? »
«Macché, guarda, è stato un miracolo. Stava per andarsene la notte dopo Pasqua. Ti ricordi, no, in che condizioni era? Ebbene, mi hanno raccontato che si è seduto sul letto e ha detto “Devo cacare, portatemi la padella” Ha riempito due padelle e poi voleva anche mangiare!»
Non credevo alle mie orecchie, ma mi sentivo felice …
«Possibile?» riuscii a dire infine «Dov’è, ora? »
«Da noi: è ricoverato di là, al letto 23. Sembra un altro. Da conciato com’era prima, a oggi … »
«Vado a trovarlo» dissi.
“Me lo sono sognato perché è morto, il poveraccio” pensavo.
Chiamai la Rianimo e mi rispose un’infermiera indaffarata:
«Scusi, abbiamo molto da fare. C’è stato un brutto incidente in Autostrada. Mi lasci il numero, dottore. La farò richiamare!»
Non mi telefonò nessuno, sicché mi convinsi che Povirazio fosse davvero nel mondo dei più e fosse venuto in sogno per salutarmi.
Provai a chiamare Gian, per vedere se ne sapeva qualcosa, ma mi rispose la segreteria.
Cristiano Povirazio sembrava davvero un altro, con la dentiera e la barba fatta
«Buon giorno: sono tornato oggi in Reparto e mi hanno dato la buona notizia. Ce l’ha fatta, signor Povirazio!»
«Dottore mio …» disse.
Gli vennero le lacrime agli occhi:
«Posso baciarvi le mani?»
“Uffa, con ‘ste mani!”
«No. Non esageriamo, Cristiano. Piuttosto, come si sente?»
Lui continuava a lacrimare in silenzio:
«La notte dell’Angelo ho sentito qualcuno che mi suggeriva di chiedere la padella perché dovevo andare del corpo, e così ho fatto. Io stesso non credevo che mi restava più un minuto da campare. Non potrò mai ringraziarvi abbastanza. Dottò!»
Ebbi la certezza in quel momento che Qualcuno avesse voluto insegnarci qualcosa. A me, a lui, o a tutti e due.
Carlo Lucardi
14 marzo 2021.