IL LABORIOSO DISINCAGLIO DELLA
M/N ANTINOUS
NEL GOLFO DI PALMAS (Cagliari)
PREMESSA: Il disincaglio dell’ANTINOUS é la rievocazione d’un avvenimento che era finito in soffitta da oltre quarant’anni. Per puro caso sono ritornato sulle sue tracce trovandomi tra le mani persino la documentazione del viaggio. Sono passati tanti anni e, nel frattempo le navi hanno preso le sembianze di superbe astronavi che si sono chiuse in se stesse ed hanno chiuso le porte al mare. Oggi gli equipaggi non portano più il tipico marchio salmastro sulla pelle, ed il volo dei gabbiani non avverte più nessuno che la terra é vicina con le sue antiche scogliere. Il mondo navale é cambiato. Il mare invece non cambia mai, ed esige sempre lo stesso rispetto, oggi come al tempo del TITANIC. Ecco allora che l’incaglio dell’Antinous si avvicina a quello più recente della Costa Concordia che, insieme ad altre navi sfortunate del passato, rappresentano le pagine di un vecchio libro di storia che va letto e riletto per conservare l’umiltà che il marinaio qualche volta dimentica.
Nel ripercorrere le tappe di questa avventura, sono riemersi ricordi personali e qualche volta mi sono lasciato andare all’uso del gergo marinaresco dell’epoca, ben sapendo che i miei lettori amano lavarsi nell’acqua salata ed entrare in punta di piedi nell’affascinante mondo dei rimorchiatori e sentirsi oggi, come tredici anni fa, imbarcati con “Quelli del Torregrande”.
Posso solo aggiungere, non certo per consolarvi, che la vera “relazione tecnica” del disincaglio avrebbe riempito molte pagine di noiosi calcoli matematici per ogni fase dell’operazione: visitare lo scafo e constatare i danni, alleggerire la nave, individuare le strategie di tiro per liberarla dagli scogli, tamponare le falle esterne, esaurire l’acqua presente nelle sentine, nei doppi fondi, nel gavone di prua, chiudere alla meglio i locali sinistrati con casse di cemento di vario tipo per rendere la nave rimorchiabile fino al porto di Genova e immetterla in bacino. Ho pensato di risparmiarvi questa “puddinga” tecnica che é materia per pochi disgraziati-specialisti, ed ho cercato, al contrario, di salvarne lo spirito marinaro, che é tutto ciò che conta ancora oggi e che sopravvive – con altri mezzi – sulle navi migliori in circolazione. Il mio tempo é ormai scaduto, ma ai giovani naviganti suggerisco di non confondere l’alta tecnologia che é una grande risorsa del nostro tempo, con lo spirito marinaro che é un fluido che viene da lontano e diventa ARTE solo quando si sposa e si unisce con il mare.
Buona lettura.
Il Golfo di Palmas si trova tra l’isola di S.Antioco e la sponda Sud-Occidentale della Sardegna
La tramontana scendeva fredda e rabbiosa sull’anfiteatro portuale genovese. Era il 20 marzo 1970 quando l’altoparlante di Molo Giano gracchiò: “Torregrande a Ponte Parodi per istruzioni”. L’ordine di fare bunker e provviste per una settimana ci giunse come un pugno nello stomaco. La gita sulle alture di Genova che avevo promesso all’equipaggio con i familiari al seguito, era rimandata sine die.
Tratto di costa rocciosa del Golfo di Palmas
Radio-cucina aveva intercettato nella notte la notizia di una nave incagliata nel Golfo di Palmas (Cagliari), ma il destinatario del viaggio pareva essere il Ciclone (4.000 CV), da tempo in stand-by sull’ormeggio di Ponte Parodi a far “denti di cane”. (1) Invece, la mia convocazione ‘urgente’ a Ponte Reale, sede degli armatori, mi tolse ogni dubbio ed anche il diritto di farmi inutili domande. La decisione era stata presa ai vertici! Toccava al Torregrande. Mi sentii così catapultato nel nuovo ruolo e feci la prima riflessione: “se la nave incagliata é pane per i nostri denti da 2.500 CV, spero abbia le dimensioni di un Liberty, perché se fosse più grande si andrebbe solo a frullare schiuma… e a rimediare brutte figure davanti a quei caproni che pascolano intorno ai nuraghi.”
Tipico fondale del Golfo di Palmas
Mi consultai con Zeppin, e il mio nostromo di Carloforte mi diede la conferma che da quelle parti le scogliere squartano le navi anche con lo sguardo. Mi precipitai in ufficio cercando d’immaginare i danni subiti da una nave finita tra le ganasce di quelle rocce e mi preparai una sequenza di domande per saperne di più. Le prime perplessità mi giunsero quando il responsabile dell’Altura mi disse, con gran nonchalance, di non sapere nulla di quella nave e dei danni subiti. Da buon ‘amministrativo’ si era preoccupato del nolo e con estremo garbo insistette per rendermi partecipe di una postilla aggiunta sul contratto di cui, sinceramente, non mi fregava un c…
– “Sa, i tempi sono stretti. Il nostro cliente, l’armatore greco Papadopulos, ha prenotato l’ingresso in bacino a Genova per il 31 marzo. Pertanto le operazioni da compiere sono due: il disincaglio della M/n Antinous ed il suo rimorchio da S. Antioco alla rada di Genova. Qualora i tempi non fossero rispettati, la nostra Società (Rimorchiatori Riuniti) dovrà pagare una cospicua penale”.
Mi rassegnai con difficoltà a quel surreale nulla di fatto e dissi:
– “OK Giorgio! Mentre il Torregrande si toglie i ‘panni portuali’ e si prepara alla partenza, mettimi in contatto con il Comandante della nave, oppure con il Capitano d’armamento greco. Prima di partire per la battaglia vorrei sapere che armi portare… ”.
– “OK! Proviamo subito con l’Ufficio del Pireo” –
La Antinous in navigazione sotto bandiera tedesca
La telefonata fu breve ma densa di utili informazioni. La ANTINOUS (14.000 stazza l. – 160 mt. lungh.) era un carrettone ben più grande e moderno di una liberty. La nave era partita dal Pireo per Marsiglia, ma quando giunse a Capo Teulada, il Comandante prese atto che il Mar di Sardegna era impraticabile. La forte libecciata stava girando a NW e, nel giro di qualche ora, il vento di Mistral l’avrebbe colpita sul muso con tutto il suo variegato repertorio di colpi. La nave era in zavorra ed il motore zoppicava già da tempo per problemi alle fasce elastiche di alcuni pistoni e aveva perso potenza. La decisione finale fu quella d’invertire la rotta per evitare guai maggiori, ma il Comandante era incerto se risalire la costa orientale della Sardegna fino a Capo Corso, oppure se passare la notte pendolando al minimo della velocità nel vicino “rifugio” del Golfo di Palmas. Optò per la seconda soluzione che avrebbe consentito ai macchinisti di metter mano al cilindro più malandato. Ma qualcosa andò storto … e in piena notte l’Antinous fu spinta sugli scogli da improvvise raffiche di vento, o forse per un inconfessabile colpo di sonno del timoniere…Quién sabe? La nave e il suo equipaggio non correvano pericoli imminenti perché lo scafo si era incastrato con la prora in un invaso naturale di scogli e non presentava alcun sbandamento, era ridossato e non accusava alcuna sollecitazione dal moto ondoso. La voce chiuse la conversazione dicendo che era in partenza per Cagliari e che ci saremmo incontrati sul posto. La descrizione del Capitano d’armamento greco fu così realistica e meticolosa che mi parve d’aver assistito al film dell’incaglio in prima visione.
Entrato ormai con scienza e coscienza nel merito dell’operazione ‘disincaglio’, avanzai alcune ipotesi in direzione del mio interlocutore genovese:
–“Se l’Antinous navigava in circolo all’interno del Golfo di Palmas, al momento dell’impatto aveva, come minimo, una velocità di 6 nodi per poter governare e, a quella andatura, gli squarci sotto la parte prodiera dello scafo ci sono di sicuro.
– Se l’Antinous si trova incagliato su un vasto bassofondo, magari circondato da scogli affioranti, sarà un problema avvicinarsi, stendere i cavi e disporre di un ampio settore di tiro. Il Torregrande pesca 6 metri e se ci sono altri spuntoni nelle vicinanze i nostri limiti di manovra e di sfruttamento della potenza saranno ridotti. A questo punto, fare previsioni mi sembra alquanto azzardato”.
L’amico Giorgio si alzò di scatto, sbiancò in volto, ma rimase concentrato ed in silenzio come un centometrista sul blocco di partenza. Non gli permisi di compiere il balzo… e continuai imperterrito:
– “Se la nave ha premura di entrare in bacino a Genova, sarà meglio allertare anche il Casteldoria che pesca un metro abbondante meno di noi, ha 1.000 CV in meno ma è più manovriero, ha un ottimo Comandante, Marietto Di Bartolomeo, ed un equipaggio di grande esperienza portuale e d’altura. Con il Casteldoria ho già disincagliato il Pasquale Volpe ad Alistro in Corsica, e so come lavora. Due rimorchiatori con diverse caratteristiche possono combinare, in coppia, manovre di notevole effetto”.
A quel punto presi un foglio A/4, scarabocchiai una nave sugli scogli e dissi:
– “Il Torregrande lo posizioniamo ‘poppa contro poppa’. La sua potenza va usata per scavare un letto a due piazze, una specie di scalo su cui la nave dovrebbe scivolare al momento della liberazione. Per raggiungere lo scopo dovrò brandeggiare lo scafo a dritta e a sinistra. Sarà un lavoro di potenza e pazienza che alla fine darà i suoi frutti.
– Il Casteldoria lo mettiamo a ‘spring’ sul lato libero della prora. Sono certo che Marietto darà dei formidabili scrolloni… Per entrambi sarà una manovra divertente e pericolosa allo stesso tempo.
Il vantaggio dell’azione congiunta dei due ‘mastini’ consiste nel creare una coppia di forze parallele, a volte anche sguardate, ma sempre sincronizzate nel disegnare una piattaforma geometrica variabile che sia in grado di sollecitare la nave in più direzioni.”
Il manager genovese sapeva che ero giunto al 5° disincaglio della mia carriera e la mia esperienza in materia non era in discussione ma, in quell’oretta trascorsa insieme, aveva percepito la mia preoccupazione convincendosi, forse, che l’intera operazione poteva riservare sorprese. Alla fine mi guardò fisso negli occhi, mi mise una mano sulla spalla e disse:
“Senti Comandante, ritorna a bordo e fai del tuo meglio per partire il più presto possibile. Io cercherò di convincere gli Armatori a spedire anche il Casteldoria.”
Mi sentii gratificato! Durante l’illustrazione del mio piano, Giorgio non aveva pensato solo ‘ai noli suoi’. Quindi, non avevo perso tempo. All’epoca avevo già imparato a mie spese che per vincere nella vita occorre avere poche idee, ma chiare e supportate da una strategia convincente. A questo servì il mio disegno: ad architettare una soluzione.
Vinsi forse il primo round, ma la strada era ancora lunga e tutta in salita.
“Ho ancora tre richieste!”
Dissi con tono sommesso, quasi per ricordarlo a me stesso.
– “Mi serve il PIANO aggiornato del Golfo di Palmas.
Ma poi alzai il volume e aggiunsi:
– Duga, il più esperto sommozzatore della Società, verrà con noi.”
Infine, guardai con espressione decisa, quasi minacciosa, il mio interlocutore che sapevo essere azionista di minoranza della Società e dissi:
– “Ho un’ultima richiesta. Il Casteldoria deve imbarcare quel giovane sommozzatore alto due metri. Credo si chiami Barbieri. Noi disincaglieremo la nave, ma non potremo partire finché i due sub non avranno tamponato gli squarci sotto lo scafo. Anche per loro sarà un lavoro lungo e difficile”.
Il sorriso di Giorgio mi confermò il suo appoggio incondizionato.
Ogni volta, uscendo dalla Sancta Sanctorum, mi ritrovavo nello stesso Bar di Piazza Caricamento a sorseggiare il solito caffé schiumato e a riflettere sullo stesso argomento:
“Porca della puttanona! Com’é possibile che ogni partenza sia sempre “urgente e improvvisa”, con decine e decine di problemi d’affrontare senza aver il tempo di programmare un viaggio decente? Com’é possibile pensare, decidere e lavorare con il fiato sul collo dei principali che ti coprono di stress?
Eppure, cari lettori, tutto ciò si verificava ad ogni partenza! Infatti, la prassi ormai consolidata, prevedeva che ogni comandante giungesse sfinito alla vigilia della partenza e pronunciasse in pubblico la fatidica frase:
“ Non vedo l’ora di partire per togliermi da questa massacrante rottura di c…”
Poi, mentre mi catapultavo verso Ponte Parodi per raggiungere il bordo, elencavo mentalmente le cose da fare: controllare le provviste, mandare un ufficiale a comprare le carte nautiche all’Idrografico, accertarmi che i ‘rinforzi’ di macchina e coperta erano quelli giusti, imbarcare il marconista ‘aggiornato’ sulle frequenze… Per i problemi della coperta la soluzione era più facile, ci pensava Zeppin: togliere il paglietto di prua (2), controllare accuratamente l’attrezzatura di rimorchio (catene-cravatte d’acciaio, grilli, redance, bozze), i cavi di perlon e gli altri di poliprop presenti in stiva. Zeppin vedeva lungo e non perse tempo per raccattare merce preziosa per l’imminente operazione: quel miracoloso grasso animale chiamato sebo/sevo *– tavole di legno – tela olona – sacchi di iuta – cemento a pronta presa – gomma d’ogni tipo e altri accidenti richiesti dai sub per tamponare le falle esterne. Zeppin ne veniva dalla vela, fiutava le trappole e di casini in mare n’aveva visti e risolti tanti. All’inizio, il rustico nostromo si rivolgeva ai magazzinieri di Ponte Parodi per procurarsi ciò che gli serviva, ma se gli andava buca, chiedeva aiuto a quei pochi nostromi-amici che gli erano rimasti in porto dopo aver mandato a scaricare tutti gli altri… Ma se non riusciva ancora nel suo intento, allora perdeva la pazienza e non chiedeva più niente a nessuno. I suoi occhi si facevano piccoli e con un ghigno poco raccomandabile continuava le sue ricerche di notte improvvisandosi ‘guardiano della calata’. In questa nuova veste si aggirava per i bordi, apriva i ‘tabernacoli’ (stive) e, con il mandato né scritto né dichiarato, del suo comandante e dell’armatore, trasferiva le sue prede preferite dalle barcacce portuali al prestigioso Torregrande in partenza per avventure ben più importanti… La ‘sua’ stiva si riempiva a tappo, ma solo lui e il suo delfino Stefano Mora, sapevano dove cercare il maltolto che non era mai in vista, perché si trovava imboscato sotto cumuli di cime che scoraggiavano l’eventuale recupero da parte delle vittime.
Al marconista erano affidati i bollettini del tempo, il ritiro delle ‘Spedizioni’ in Capitaneria, e poi il controllo delle fatture e provviste.
SI PARTE PER UN’ALTRA AVVENTURA
Uscimmo dall’imboccatura del porto alle 18.00 del 21 marzo 1970. Il preannunciato Mistral ci diede dei formidabili cazzotti sul fianco destro fino a Capo Corso, ma poi lo perdemmo di vista fino all’arrivo. Entrammo nel Golfo di Palmas alle 04.00 del 23.3. dopo aver compiuto 380 miglia, alla velocità di 11.18 nodi, in 34 ore di moto. In mattinata prendemmo la Libera Pratica (3) a S. Antioco dove ritrovai un caro amico, Capo Pistis comandante dell’Ufficio Circondariale Marittimo della locale Capitaneria di porto. Da lui ebbi altre preziose informazioni sulla nave incagliata e sui fondali. Nel frattempo il cuoco andò per pesce fresco e pane caldo. Poco dopo salpammo per la nostra improrogabile missione.
Tra poco sarà l’alba del 23.3.70 – I colori di questa immagine e le luci di bordo ci ricordano il primo impatto con la nave incagliata.
Lasciai il Torregrande alla fonda nelle mani dell’esperto 1° uff.le G.Ghigliotti e mi feci portare con lo zodiac verso la biscaglina appesa fuoribordo della Antinous. Il Comandante della nave incagliata mi salutò da lontano mettendosi sull’attenti e poi sbracciando euforico dall’aletta del ponte di comando come per dirmi: “belin! sei arrivato finalmente”! Dopo l’arrampicata mi trovai tra le braccia nerborute di un marinaio di colore e la mano tesa di tre eleganti ufficiali greci, evidentemente disoccupati. Quando il Comandante scese in coperta, notai che la bassa forza indietreggiò, come se il Padreterno in persona stesse scendendo dal cielo. L’uomo era un cinquantenne che indossava la divisa militare e lucidi stivali neri, era in perfetta forma fisica, ma esibiva qualcosa di ridicolo: impomatato di brillantina Linetti, era immerso in una nuvola di dolciastra Eau de Cologne. Il foulard bianco, sotto il giubbotto nero di pelle stile Gestapo, era un vezzo che nascondeva forse il collo flaccido.
Sotto i baffetti macchiati di nero ed un sorriso levantino, faceva capolino l’incontenibile incazzatura per quanto era successo alla sua nave. Si girò per farmi strada e notai il manico di un frustino di pelle nera fuoriuscire dalla cintola sul fianco sinistro. Avevo già visto usare quell’arnese nel porto di Durban in Sud Africa. Un boero aveva l’incarico d’imbarcare un grosso quantitativo di pittura sulla mia nave: Naess Companion. I negretti venivano frustati ogni volta che posavano diverse latte in coperta per riprendere fiato. Era l’epoca della bieca Apartheid (A).
Dopo dieci anni sentii gli stessi brividi nella schiena ed un forte impulso a lasciare quella belina sugli scogli insieme ai suoi sgherri dopo aver liberato quei giovani africani. Ma scelsi, per ragioni di stipendio, una tattica meno invasiva, quella di rivolgermi a lui solo per servizio, senza un sorriso, senza quella atavica complicità che per millenni aveva unito i nostri popoli: una faccia una razza.
Ad essere sincero non vidi mai usare quella frusta sull’Antinous, ma la vidi sfilare ogni volta che il greco urlava un ordine alla ciurma composta solo d’africani.
Non tardai a collegare quello sceneggiato alla storia greca di quegli anni, ovvero con la dittatura dei colonnelli, nota anche come La Giunta.(B)
Come tutti i greci di una certa età, il bel fustigatore, che chiamai da quel momento Zorba il greco (C), parlava un italiano marinaresco di tutto rispetto e la strada per capirsi bene e subito, fu tracciata in un baleno. Rifiutai la colazione e mi limitai a sorseggiare un caffé turco fino al limite della bratta densa. Salimmo sul ponte della bussola normale (4) per calcolare gli spazi disponibili e per osservare dall’alto gli scogli circostanti: un vero incubo per le nostre future evoluzioni. Il comandante aveva alleggerito la prua scaricando in mare l’acqua del gavone di prua (5), ma non aveva fatto alcun tentativo con la macchina per disincagliarsi, e neppure il sistema più consigliato dalla teoria marinaresca di virarsi sulle ancore spostate a poppavia. Non avendo la possibilità d’ispezionare la parte esterna incagliata, Zorba si limitò a registrare numerose infiltrazioni e allagamenti nei doppifondi prodieri. Concertammo di decidere il da farsi dopo aver letto la relazione del sub Duga.
Estrassi il mio A/4 dal borsello di juta, gli mostrai lo schizzo di come avrei disposto i due rimorchiatori, e gli illustrai la tattica di tiro accoppiato. Andammo a poppa per vedere dove e come attaccare l’attrezzatura da rimorchio del Torregrande, e sulla prua gli anticipai il sistema d’attacco del Casteldoria che conoscevo altrettanto bene.
Duga era impaziente che gli dessi il via per la prima ispezione subacquea, ne parlai con Zorba ed ottenni anche un battello di supporto comandato da un ufficiale e due marinai. A fine mattinata Zeppin aveva già sistemato sulla poppa della nave una briglia chiamata in gergo patta d’oca di catena,(6) uno spezzone di cavo d’acciaio di grosso diametro chiamato bragotto ed uno spezzone cavo di nylon intrecciato, chiamato gherlino, che era impiegato per dare elasticità ed assorbire gli inevitabili strappi.
Mentre ero a bordo, avevo incaricato il 2° uff.le Aldin Capurro di sondare i fondali nel giro di 200 metri di mare intorno alla nave e di posizionare alcune boette in corrispondenza dei vicini bassifondi e scogli pericolosi. Tramite il marconista ero in contatto con il Casteldoria in navigazione, e informavo Marietto su tutto ciò che poteva interessare il suo utilizzo, in modo da non perdere altro tempo al suo arrivo.
Il m/r Casteldoria (nella foto) era una buona macchina della sua epoca.
Gli armatori lo avevano programmato per un uso allargato: lavoro portuale e viaggi d’Altura in Mediterraneo. Il rimorchiatore aveva uno shape più elegante dei suoi ‘fratelli portuali’ che avevano la prora più bassa e rincagnata che ricordavano la postura di certi lottatori antichi. Sul suo unico albero svettava l’antenna del radar che gli conferiva un portamento nobile e suscitava una certa invidia tra le altre barcacce del porto che erano destinate allo stesso impiego, ma non potevano mai uscire di casa…
Tuttavia, il suo compito principale era pur sempre il servizio portuale che era alle prese, in quegli anni di boom economico, con il gigantismo crescente delle petroliere e dei primi containers transoceanici. Per questa ragione, i suoi 1.535 cavalli di razza erano sempre molto richiesti sulle imboccature del porto di Genova.
Il concetto d’impiego del Torregrande era invece diametralmente opposto. Il rimorchiatore disponeva di un’ottima strumentazione per la sua epoca: radar, radiogoniometro, ecoscandaglio, girobussola, una potente stazione radio, pompe antincendio a grandi masse e altrettante spingarde. Disponeva di un moderno telecomando Ka.Me.Wa (elica a passo variabile) in plancia che lo rendeva particolarmente manovriero. Il suo compito principale era il Servizio d’Altura, ed aveva un buon motivo per tirarsela un po’… disponeva, infatti, di un ottimo Automatic Tow Winch, chiamato troller/trolley dagli equipaggi. Tramite questo potente verricello poteva filare il rimorchio in navigazione con tempo cattivo, e recuperarlo con tempo buono. Il cavo del troller del Torregrande aveva un diametro di 40 m/m, ed una lunghezza di 800 metri. Questo apparato lo poneva sopra la media del tempo classificandolo: Rimorchiatore d’Altomare. Quando imbarcava palombari/sommozzatori e determinati apparati (polmone d’acciao) diventava automaticamente Rimorchiatore di Salvataggio.
Tuttavia, quando era disoccupato, il mastino entrava in una squadra portuale ed era utilizzato per l’ormeggio e disormeggio delle grandi petroliere nel porto Petroli di Multedo, ma anche presso la discharging oil platform in mare aperto, ed anche all’Italsider per gli arrivi delle pesanti bulkcarriers. A chi scrive capitò d’attaccare con il Torregrande, nei giorni ventosi e in altre emergenze, anche i traghetti della Tirrenia, gli Espressi ei Canguri nelle anguste calate del Porto Vecchio. Questa eclettica unità, ogni tanto, salpava per il Nord Europa, attraversava l’Atlantico, giungeva in Canada, rientrava in Italia e ripartiva per il Congo. Il suo nome diventò presto un mito nel settore mondiale dell’altura.
In realtà, fuori dell’ambiente mercantile, ancora oggi, pochi conoscono la differenza tra il servizio portuale e quello d’altura che, in qualche modo, pur partendo da una radice comune, sono ben presto destinati a differenziarsi già sull’imboccatura del porto. Il Comandante di un rimorchiatore d’altomare ha gli stessi doveri e diritti di un qualsiasi Comandante di nave. Il suo Comando si esercita, ovviamente, anche sul rimorchio, sia che abbia il suo equipaggio, sia che viaggi come un relitto. Come si può ben intuire, a volte il suo Comando può estendersi anche per oltre duemila metri di convoglio e su più Comandanti (rimorchi in tandem). Un Capitano di rimorchiatore portuale, quando é sotto rimorchio in porto, esegue gli ordini del Pilota portuale e lavora sotto la responsabilità della nave. Le rispettive funzioni sono quindi ben distinte anche sotto il profilo delle responsabilità oggettive.
Marietto di Bartolomeo era il comandante del Casteldoria fin dal suo varo avvenuto nel 1961. I due ‘soggetti’ si erano capiti al volo e dopo 10 anni, il loro matrimonio era ancora fortissimo. Marietto era un Padrone Marittimo che in Mediterraneo non temeva il confronto con i Capitani di lungo corso perché sapeva navigare. In porto era un artista che parlava poco ma sapeva ricamare, e come i veri marinai osava, ma rispettava il mare.
ARRIVA IL CASTELDORIA
Il Casteldoria (nella foto) partì da Genova mezza giornata dopo di noi e giunse a destinazione con la Libera Pratica intorno alle 14, mentre Duga mi consegnava la bozza dei danni subiti dalla nave.
** Torello
Prima di mostrare la lista dei danni a capitan Zorba, la discutemmo con Marietto e Duga per metterne a fuoco sia l’entità che la pericolosità per la navigazione. Poco dopo allargai la riunione anche agli altri ufficiali per decidere una strategia condivisa di tiro, ma anche per fissare alcune regole: orari di lavoro, soste, controlli e sicurezza. In buona sostanza era mia intenzione ritornare a bordo dell’Antinous con un programma già studiato, discusso e approvato.
Zorba, come tutti i marinai greci, aveva molta dimestichezza con i problemi navali e lo si capiva dalle domande che poneva per scoprire le vere caratteristiche dei nostri rimorchiatori. Tuttavia, essendo a digiuno della problematica in corso, accettò il nostro planning senza obiezioni rimettendosi alla nostra professionalità. Per la verità, si preoccupò soltanto dei contatti radio ed insistette per volerci prestare un walkie-talkie per rimorchiatore.
Anche i due telegrafisti fissarono appuntamenti radio per eventuali contatti di servizio tra i comandanti.
Era l’alba del 23.3. Appena fece chiaro ci avvicinammo alla nave con molta prudenza per non toccare il fondale e diedi fondo l’ancora alla distanza di circa 25 metri dalla poppa della nave. Dal suo passacavi centrale pendeva la nostra briglia di catena che, mossa da una leggera brezza di terra, ‘scampanava’ sulla parte emergente del timone. Il gommone di Stea evoluiva rumoroso rompendo il silenzio della baia che stentava a risvegliarsi. Appena l’equipaggio dell’Antinous raggiunse i posti di manovra, il gommone lasciò la poppa del Torregrande e raggiunse la nave rimorchiando i pesanti attacchi da collegare con un grosso maniglione (grillo)(7). La stessa operazione fu compiuta dal Casteldoria sotto la prua.
Il sole più meridionale del nostro era appena sorto, ed appariva più grande del solito. Con timore riverenziale iniziammo a tirare lentamente per scaldare i motori, stendere l’attrezzatura e sentirci accomunati, uomini e mezzi, allo stesso destino. Nessuno di noi aveva azzardato pronostici, era presto per capire se il carattere della nave ferita era docile e rassegnata, oppure orgogliosa e dura da domare. Per capirci qualcosa, fin dall’inizio, ‘si auscultava’ la paziente in cerca di battiti e vibrazioni che correvano sul cavo portando preziose informazioni ed interrogativi: cedeva oppure resisteva? Eravamo vicini oppure lontani dal disincaglio? La mattinata trascorse nello studio delle reciproche mosse, come certi pugili usano fare nei primi round di un match importante e pieno di rischi. Nel pomeriggio ci prendemmo una pausa per leggere i pescaggi e rilevare eventuali segni di sforzi sull’attrezzatura. Zorba era impaziente, forse era deluso che due rimorchiatori venuti da lontano non l’avessero ancora liberato. Ogni mezz’ora s’attaccava al walkye talkie e urlava:
“State tirando al massimo? Dalla scia non si direbbe! – Avete ancora extra potenza da aggiungere? – La nave non si muove – Skatà! ”
Quando ero concentrato al timone rispondevo per educazione alle sue domande con un fischio breve, se insisteva emettevo invece un fischio lungo per dirgli che mi aveva rotto…. quando poi esagerava lo facevo contento e lo prendevo un po’ in giro:
“Stai tranquillo comandante, stiamo lavorando per te, ma noi usiamo il cervello e non il frustino… A proposito di fruste, fai togliere i marinai dalla poppa perché ora ti farò vedere qualcosa che non hai mai visto. Attenzione! Se il cavo si spezza… si comporta proprio come una lunghissima e micidiale frusta che si può ritorcere contro i fustigatori come te. Cazzo!”
Dopo una breve pausa di consultazione, Zorba rispondeva concitato:
“Cosa dici? Io non capisco niente. Ho capito solo l’ultima parola… Ripeti per favore!”
Rispondevo con un fischio lungo e facevo sculettare la poppa del Torregrande per farlo contento.
Fin dall’inizio delle operazioni, anche il mozzo più inesperto aveva capito che il cetaceo era indifferente alle carezze. Gia! Noi del ponte l’avevamo capito ancora prima, esattamente dopo aver letto il rapporto di Duga e sapevamo che per tirarla fuori dalla sua alcova occorreva tanta cattiveria. La rabbia che aumentava in noi andava trasferita progressivamente alla nave. Il rischio di un trattamento brutale era quello di aumentare gli squarci sotto lo scafo, ma la priorità era il disincaglio, a suturare le ferite ci avrebbero pensato i chirurghi del Cantiere Navale.
Dopo una serie di bordate terrificanti, ci fermammo per un controllo. La nave aveva ceduto lateralmente, l’avevamo liberata sui fianchi, ma la balena dormiva ancora più comoda nel suo letto ormai a due piazze. Zorba se n’era accorto, ma dalle sue parole si capiva che non tiravamo abbastanza. Allora feci in modo di tenerlo impegnato con alcune richieste formali:
“Ora manderò i miei sub a controllare gli squarci sotto la prora. Non vorrei che dopo averla liberata, la nave affondasse in qualche metro d’acqua.” Presi i binocoli e notai con interesse ”antropologico” che anche i greci usavano i nostri gesti scaramantici!
Nel tardo pomeriggio, d’accordo con il mio partner di tiro, decidemmo di passare alle maniere forti mettendo in atto una serie di potenti scrolloni per “vedere l’effetto che fa…”.
Con Marietto avevamo già sperimentato la manovra con successo e, forse per vanità professionale e mania d’esibizione, decidemmo che era arrivato il momento d’entrare in azione mostrando a Zorba i nostri attributi.
Il nostromo Zeppin l’avrebbe fatto prima, e ce lo comunicò a suo modo storpiando i nomi:
“Nu semmo mìga vegnûi fin chì pe fäselu menâ da-ö Zembo! Femmöghe vedde chi semmo e poi portemmo via ö belin!”
(“Non siamo mica venuti fin qui per farci prendere in giro dallo Zembo! Facciamogli vedere chi siamo e poi ce n’andiamo via spediti”.
“Zeppin, ma chi ö l’é ö Zembo?”
(“Zeppin, ma chi é Zembo? “)
– Gli chiese Stea che in genere faceva da traduttore –
“Mi sò ûn belin cömme ö se ciamma ö cömandante greco. Ma a veddilu da chì, ö me pâ zembo e anche un pô buliccio…”
(“Non so un accidente di come si chiama il comandante. Ma a vederlo da qui, mi sembra gobbo e anche un po’ effeminato”.)
Era difficile trattenere le risate, ma Stea sapeva come fare!
“Ooh Zeppin, ma ö nostro comandante ö l’ha battezôu Zorba e no Zembo che in zeneize vêu di ghêubbo.”
(“Ooh Zeppin, ma il nostro comandante l’ha battezzato Zorba, no Zembo che vuol dire gobbo in genovese”.)
“Oa ho capìo! “Zembo il greco”, cömme quellu cìne döve i l’ean tûtti bulicci…”
(Adesso ho capito! “Zembo il greco”, come quel film dove erano tutti effeminati”)
Rispose Zeppin senza batter ciglio.
Fu imposto a tutti lo sgombero dai posti di manovra per evitare che impreviste rotture generassero incidenti che mai, in questi casi, sarebbero stati di lieve entità. I più preoccupati erano i direttori di macchina dei due mastini. Sapevano, infatti, che presto i loro gioielli sarebbero passati (ripetutamente) dal minimo al massimo dei giri in pochi secondi, con sbalzi di temperatura dei gas di scarico da far accapponare la pelle. Purtroppo, dopo aver usato invano la normalità di tiro, non rimaneva che sperimentare la brutalità, oltre la quale non restava che il CICLONE, con i suoi poderosi 5.000 CV di potenza, ma con la penale da pagare per il ritardo accumulato.
Il Casteldoria cominciò le danze quando si trovava sul limite interno del suo settore. Marietto fermò Improvvisamente il motore e, mentre il cavo veniva rapidamente imbando sull’acqua, ripartì a tutta forza lavorando di timone, prima un po’ a dritta (vicino alla nave) e poi tutto a sinistra, in modo tale da far coincidere lo strappo del cavo (venuto in forza) con il peso dello scafo al traverso. Il risultato fu un’azione violentissima e devastante, che fece vibrare la nave, pendolare i bighi dei derrick, fuggire il personale di bordo in tutte le direzioni come animali impauriti, ed infine fece urlare il tesissimo Zorba: “Kalos! Kalos! (bello! bello!) Ma ora fermatevi! Devo controllare se ci sono danni alla nave e agli attacchi di rimorchio a prora.”
Poco dopo entrammo in azione con il Torregrande seguendo la stessa tattica nel far venire il cavo imbando per poi ripartire alla ‘gran puta’ giocando di timone per far sentire il peso dello scafo. Il nostro settore di tiro era ben più ampio di quello del Casteldoria ed esercitai la nuova ‘manovra a strappo’ su ambo i lati del settore. Decisi quindi di raddoppiare l’effetto ad ogni ripartenza.
Se il rimorchiatore di prora aveva prodotto un notevole sbandamento a dritta dell’Antinous durante l’aggressione, il Torregrande lo aveva riprodotto sul lato di terra insieme ad uno “sculettamento” a poppa che faceva ben sperare per il futuro.
Ci accordammo con Marietto di terminare la giornata con una manovra congiunta ‘molto cattiva’ per studiare la reazione dell’Antinous. Era urgente capire i nostri limiti e quelli di sopportazione della nave. Chiamai a rapporto Zorba e l’informai che il Casteldoria e il Torregrande avrebbero congiunto le loro potenze disponibili in una manovra molto pericolosa. Mi raccomandai pertanto di sgombrare l’equipaggio dalle zone pericolose.
Partimmo entrambi alla velocità di 10 nodi e rifacemmo la stessa manovra ‘risolutiva’ per cui ci eravamo allenati per anni. Il risultato fu quello di produrre devastanti effetti basculanti e sbandanti quando entrambi eravamo nei punti più lontani dei rispettivi settori; mentre si ottennero effetti di forte sradicamento quando eravamo quasi affiancati. Durante la creazione di queste coppie di forze, la nave ricevette forti sollecitazioni da prua a poppa. I derrick (8) sembravano sollevarsi e ricadere per effetto delle vibrazioni. Le sovrastrutture scrollavano e sputavano pittura mista a ruggine. La nave sbandava a dritta e a sinistra e sembrava che si liberasse da un momento all’altro. L’effetto perfettamente coordinato fu talmente invasivo che, ad ogni colpo, gli equipaggi urlavano: OLE’! OLE’! Ed era veramente come assistere ad un’appassionante corrida! Ma la “bestia” sembrava immortale e non voleva arrendersi! La sua prora era attaccata alla scogliera, e questa alla montagna, e questa all’intera Sardegna. Incazzato come una iena, diedi l’ordine di chiudere la giornata e di andare alla fonda.
Il test era stato importante, gli ultimi rilevamenti avevano evidenziato qualche cedimento, ma la nave era ancora fortemente incagliata. Ne parlai con Marietto alla radio e mi disse: “Mìa Charly, ti vediae che döman s’aportemmo via”.
(“Vedrai Charly che domani l’arranchiamo!”)
Il suo ottimismo riportò in equilibrio il mio malumore e programmammo di ripartire alla carica, il giorno dopo, con una nuova e più sicura attrezzatura. Quella sera notai che tra il mio l’equipaggio iniziava a serpeggiare un certo pessimismo. La tensione era alta. Eravamo al quinto disincaglio riuscito in pochi anni, i miei uomini erano tutti esperti della materia della materia e avevano capito che le cartucce più potenti le avevamo già sparate senza grandi risultati.
I rispettivi Armamenti, nonché le Autorità di terra e di mare esigevano spiegazioni e previsioni che regolarmente evitavo di dare per non creare false aspettative. Il motto da usare nelle varie circostanze era sempre lo stesso: “Ci vuole il suo tempo!”
La giornata del 24 iniziò sotto la pioggia battente con un calo indecente della temperatura. Il nostro D.M. Guido Bianchi profetizzò che il freddo avrebbe consentito di aumentare i giri del motore principale e quindi di compiere l’impresa. Per una questione di scaramanzia, la parola ‘disincaglio’ era bandita dal vocabolario di bordo, al suo posto si usavano solo parolacce da postribolo…
La giornata fu massacrante per tutti, per chi manovrava e per chi sorvegliava la scena. Pioggia e freddo la fecero da padrone. Stabilimmo dei turni di manovra al timone per garantire almeno 10 ore di tentativi sempre più aggressivi e risolutivi. Continuammo a usare le derapate di scafo inaugurate il giorno prima rasentando ogni volta la nave e gli scogli. Non avendo nulla da perdere, ci sfogammo con rabbia infliggendo alla povera nave punizioni violente d’ogni tipo. Dovevamo dimostrare lo stesso coraggio dei vecchi gladiatori che non lasciavano l’arena ad altri lottatori più giovani e forti senza combattere fino alla fine. Il Torregrande non aveva mai fallito una missione e Il nostro orgoglio si sentiva ferito.
L’unica interruzione giornaliera avvenne quando l’ing. Canepa, che era anche un sub del R.I.N.A (Registro Italiano Navale), andò a visitare la carena dell’Antinous insieme ad altri tecnici di una Ditta incaricata dalle Assicurazioni dell’Armatore greco di effettuare le riparazioni necessarie. Dopo l’incaglio, la Antinous aveva perso il Certificato di Navigabilità (9), e per il trasferimento a Genova era richiesta la Classe Provvisoria (10), che solo la Capitaneria avrebbe rilasciato dopo le relative ispezioni con esiti positivi dei periti.
I programmi proseguivano in tutte le sedi, ma la nave era sempre incagliata e aggrappata alla Sardegna. Zorba aveva a bordo le sue gatte da pelare per giustificare i suoi errori e rimediare a tutte le magagne del bordo sotto inchiesta. Mi fece pena e pensai alla solitudine del Comandante sottoposto all’aggressione degli implacabili giudizi dei ‘terrestri’.
I nostri guai cominciavano ad incrociarsi: Zorba si era incagliato ed io non riuscivo a liberarlo. Nel nostro intimo sentivamo, forse, la stessa amarezza che da sempre attanaglia i perdenti di turno.
I suoi impegni contingenti, ci permisero di escogitare altre variazioni di tiro senza dover dare necessariamente spiegazioni. Il nostro impegno fu totale e nessuno avrebbe potuto accusarci di risparmiare energie meccaniche, nervose e di qualsiasi altro tipo.
Durante un’esibizione di forza particolarmente robusta, la nave urlò come un paziente operato senza anestesia… Cominciò a vibrare e a scrollarsi di dosso tutto ciò che le pesava. Avevamo procurato un fortissimo terremoto. Zorba mi chiamò chiedendo una tregua pietosa non riuscendo neppure a bere un caffé con i suoi importanti ospiti. La giornata finì com’era cominciata: incolore, fredda e senza risultati apparenti.
Prima di cena chiamai Zorba e gli dissi che sarei salito a bordo per fare due calcoli.
Meditò a lungo una risposta, infine capì che mi sarei arrampicato sull’Antinous anche senza la sua approvazione. L’idea che mi frullava in testa era troppo semplice per essere vera. Una soluzione semplice ad un problema apparentemente impossibile che mi ricordava ”la scoperta dell’uovo di Colombo”. Ma dopo gli insuccessi di quei giorni, non volevo sputtanarmi con altri coupe de theatre fallimentari anche dal punto di vista dei calcoli matematici.
Chiamai nella mia cabina l’unico vero marinaio che avevo a bordo e gli chiesi:
“Zeppin, secondo il tuo istinto, quanto possono pesare le due ancore della nave con 20 lunghezze di catena (500 metri in tutto)?”
A Zeppin gli si illuminarono gli occhi, scattò in piedi e disse:
“Minimo 50 tunnei. Comandante, sci-â ghe fasse mollâ tutto in mâ. Son segûo ca vegne sûbito quella bagascia.”
(Come minimo 50 tonnellate. Comandante, gli faccia mollare tutto in mare. Sono sicuro viene subito quella benedetta nave!)
“OK Zeppin, sci-â no digghe ninte in gìo, çerchiôu de cönvinçe u Zembo”.
(“OK Zeppin, non dica niente a nessuno. Cercherò di convincere Zembo”.)
“Ma ö no se ciamma Garbo?” –
(“Ma non si chiama Garbo? –
“Ma no, ormai ô ciamemo Zembu cöscì ö ne portiâ förtnnû-a.”
(“Ma no, ormai lo chiamiamo Zembo (gobbo), così ci porta anche fortuna”)
“Oh belin, se ghe n’emmu de bêzêugno!”
(“Accidenti se ne abbiamo bisogno”)
Con Zorba ci chiudemmo in plancia, cenammo in Sala Nautica e finimmo i calcoli intorno a mezzanotte.
Dai certificati in suo possesso risalimmo al peso delle ancore e delle catene. Sulla Scala delle Solidità calcolammo di quanto si sarebbe alzata la prora se avessimo filato in mare quel fardello di 85 tonnellate dall’estrema prua. Nonostante il “gettito” delle ancore e catene, calcolammo che l’Antinous non sarebbe riuscita a disincagliarsi con i propri mezzi. Per l’auto-disincaglio era necessario un gettito di circa 320 tonnellate. Spiegai a Zorba che eravamo lì proprio per superare la differenza di peso mancante con la nostra potenza, ma che avremmo dovuto spostare il Casteldoria a poppa per sommare i nostri bollard-pull.(11)
Zorba non era del tutto convinto, ma interpretai la sua reticenza come un senso di colpa per non aver pensato lui stesso, con largo anticipo, a questa soluzione… Arrivò a dire che sarebbe stato un lavoro inutile e gravoso per il suo equipaggio e che si sarebbe risolto il problema chiamando un terzo rimorchiatore della Compagnia Sarda di Cagliari che era già in rada, smanioso di mostrare i propri muscoli, in attesa della nostra resa.
Capii che la decisione era già maturata negli ambienti che Zorba aveva alle spalle: Assicurazioni, Broker, Bacini, lo stesso Armatore greco ed anche le Autorità locali per le pressioni del turismo estivo ormai imminente. Zorba era passato dalla loro parte! L’ordine di rimescolare le carte sarebbe giunto intorno alle 09, il giorno successivo.
Non mi rassegnai e tentai una ‘colombella o palombella’ pallanuotistica:
“Ascoltami Comandante! A mollare tutto in mare ci metti un attimo, e se riesco a disincagliarti puoi prenderti il merito dell’operazione e rimediare un bel po’ di punti con il tuo armatore. Se invece l’operazione gettito delle ancore non producesse alcun effetto, avresti comunque operato un estremo tentativo per il bene della nave e del tuo armatore. Cos’hai da perdere? Forse un’ora per virarti a bordo le ancore, ma non credo sia un problema insormontabile. E allora dov’é il problema?”
Come dicevo poc’anzi, gli amici greci sono innanzitutto marinai ‘dentro’, Zorba non faceva eccezione e finì per capire che l’ultima manovra da compiere, forse la più importante, doveva essere firmata soltanto con il suo nome e cognome.
Non so se la notte gli portò consiglio, ma all’alba del 25 marzo mentre stavamo facendo colazione, sentimmo un fragoroso rumore di catene. Mi affacciai e vidi un’immensa nuvola di polvere rugginosa avvolgere tutta la nave.
Zorba aveva mollato ancore e catene in mare proprio come gli avevo suggerito, e lo fece astutamente, come se l’idea gli fosse venuta dopo una notte insonne di calcoli solitari……
Marietto mi chiamò e mi disse: “ieri sera ti volevo chiamare e suggerirti l’idea che invece é venuta a Zorba”.
“Grazie Marietto, l’importante adesso é verificare se l’idea é quella buona….”
Ci mettemmo in tiro lento e progressivo con le solite cautele ormai collaudate. Entrammo a regime di giri intorno alle 09. Dopo circa mezz’ora di tiro decidemmo con Marietto di dare il primo scrollone. La Antinous assorbì il tiro senza sbandare o sussultare. Era la prima volta che succedeva e un brivido mi attraversò completamente. La nave si sfilò docilmente ed un triplice fischio di sirene invase l’intero Golfo di Palmas.
La nave era libera e galleggiava!
Il Casteldoria rientrò subito a Genova. L’Antinous recuperò le sue ancore e fu portata alla fonda dal pilota. Il sub Barbieri si trasferì sul Torregrande per compiere i lavori di riparazione subacquei insieme a Duga. I lavori di riparazione provvisori nel Golfo di Palmas terminarono il 27.3 ed in serata la nave salpò per Genova a rimorchio del Torregrande. Il convoglio arrivò il giorno 30.3 ed entrò in bacino nella data prevista dal contratto.
L’Antinous a rimorchio corto del Torregrande in avvicinamento a Genova
L’Antinous é finalmente in bacino a Genova. Le riparazioni sono state realizzate e presto riprenderà il mare. (Foto-enciclopedia IL MARE Vol. 1°)
ALLEGATO n.1
Rapportino Nautico del Viaggio
ALLEGATO n.2
Estratto Giornale Nautico Parte 1° dal quale si ricava l’usura del materiale sottoposto a sforzi eccezionali per disincagliare l’ANTINOUS.
“Torregrande”
Dati Nave: Anno Costruz. 1962 – S.L. 361 T. Lunghezza 37 Mt. – Potenza 2.500 CV – Velocità: 13.4 nodi – Tiro 25 T.
Equipaggio:
Com.te Carlo Gatti – D.M.: Guido Bianchi – 1° Uff.le cop: Giorgio Ghigliotti-
1° Macch. Giacomo Carena – 2° Uff.le cop. Aldo Capurro – 2° Macch. Giorgio Lo Turco
Nostromo Giuseppe Luxoro – Marò Stefano Mora – Marò: Egidio Rizzo – Marò-Cuoco Luigi Gastaldo – Radiotelegrafista: Vincenzo Rocchino – Sub: Giacomo Duga
“Casteldoria”
Dati Nave: Anno Costr. 1961 – S.L. 185 T. Lunghezza: 29 Mt. – Potenza 1.535 CV – Velocità: 12 nodi – Tiro 15 T.
Equipaggio:
Com.te Mario Di Bartolomeo – D.M. Osvaldo Schiano – 1°Uff.le cop. Luigi Gabrielli
1°Macch. Angelo Angius – Marò Maiulo (senior) – Marò Giovanni Bottino
Marò Antonio Mazza – Cuoco Angelo Parodi – Sub Francesco Barbieri
Piccolo Glossario:
1 – Denti di cane: Durante la sosta prolungata della nave in acque portuali, si formano incrostazioni sulle lamiere dell’opera viva a causa dei balani, che sono un superordine di crostacei maxillopodi. I balani sono anche chiamati “denti di cane” per via della loro forma aguzza che risulta essere molto tagliente.
2 – Paglietto di prua: Parabordo di gomma massiccia a forma di grande baffo che ripara e attutisce la parte più sporgente del rimorchiatore (a prora), da urti durante le manovre portuali. Esiste anche il paglietto di poppa e quelli laterali. Un tempo il paglietto era composto di cavi di canapa/nylon intrecciati ma anche di copertoni di camion.
3 – Libera Pratica: Atto dell’Autorità che concede il nulla-osta alla nave per avviare operazioni commerciali
4 – Bussola Normale (ponte): Bussola magnetica posta in luogo elevato per non essere influenzata dal magnetismo di bordo.
5 – Gavone di prua o di poppa: Locali adibiti allo stivaggio della zavorra (acqua).
6 – Patta d’oca di catena: Sulla prora del rimorchio sono voltati alle bitte due spezzoni di catena collaudata di circa 5-6 metri, che lavorano sui passacavi. Fuoriescono e si congiungono in una piastra triangolare (oppure un maniglione o grillo) alla quale si collega il cavo di rimorchio (troller-trolley se sul winch automatico).
7 – Maniglione/Grillo: Ferro a U con due fori per il passaggio di un perno. Serve ad unire due anelli
8 – Derrick: Mezzo si sollevamento del carico di bordo.
9 – Certificato di Navigabilità: Viene rilasciato dall’ispettorato compartimentale, se sono navi a propulsione meccanica. Quando la propulsione è a vapore la nave deve essere provvista anche del certificato d’idoneità della caldaia, rilasciato dall’ispettorato compartimentale.
10 – Certificato di Classe: Tutte le unità della flotta sono munite di Certificato di Classe rilasciato dal R.I.N.A. Che attesta la bontà di scafo ed apparato motore.
11 – Bollard-pull: Tiro al dinamometro. Il rimorchiatore tira un cavo di 100 metri messo sulla bitta di una banchina o diga. In perito, tramite uno strumento chiamato dinamometro misura la potenza in tonnellate del rimorchiatore
* Sevo/Sego – Grasso giallastro ricavato da bovini ed equini. Era usato sin dall’epoca della marineria velica come oggi si usa il pongo. Essendo impermeabile e morbido al punto giusto, serviva per amalgamare stracci, canapa, iuta, legname e sughero per formare tappi e chiudere falle, vie d’acqua. Ma sui rimorchiatori era anche spalmato sugli archi e sul bordo per eliminare gli attriti del materiale da rimorchio (cavo del troller, catene, cavi d’acciaio, bragotti, coppi, bozze, ecc…) Si usa ancora nei vari tradizionali per far scivolare la nave in mare.
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** Torello – E’ il primo corso di fasciame lavorato in modo da poter essere unito alla chiglia.
Note:
A – Apartheid (separazione) era la politica di segregazione razziale istituita dal governo di etnia bianca del Sudafrica nel dopoguerra e rimasta in vigore fino al 1990.
L’apartheid fu applicato dal governo sudafricano anche alla Namibia , fino al 1990 amministrata dal Sudafrica. L’apartheid è stato proclamato cimine internazionale da una convenzione delle Nazioni Unite, votata dall’assemblea generale nel 1973 ed è entrata in vigore nel 1976 (International Convention on the Suppression and Punishment of the Crime of Apartheid), e quindi successivamente inserito nella lista dei crimini contro contro l’umanità che la Corte Penale internazionale.
B – La Giunta. Con questo nome s’indica tuttora il periodo compreso negli anni dal 1967 al 1974, quando la Grecia fu governata da una serie di governi militari anticomunisti saliti al potere il 21 aprile 1967 con un colpo di Stato.
C – Zorba il greco è un film del 1964, diretto da Michael Cacoyannis e basato sull’omonimo romanzo di Nikos Kazantzakis. La parte del protagonista fu recitata da Anthony Quinn che si produsse in una delle sue migliori (e più famose) interpretazioni, nelle vesti di un personaggio ottimista che sa sempre come superare le difficoltà del momento. La musica, soprattutto il brano di Mikis Theodorakis (chiamato ballo di Zorba o Sirtaki), rimane tutt’oggi una delle musiche più famose della Grecia, al punto da esser diventato un ballo tradizionale. Il film fu girato nell’isola greca di Creta. In particolare, la scena in cui Antony Quinn balla il Sirtaki è stata girata sulla spiaggia di Stavros.
Carlo GATTI
Rapallo, 06.06.12