I CANTIERI NAVALI DI RECCO

CANTIERI NAVALI

RECCO


PRIMA PARTE

 

La recente pubblicazione del libro: RECCO UN PAESE NEL CUORE di Vittorio Massone, ha aperto uno squarcio di luce sulla storia di questa cittadina che pare abbia dimenticato il suo passato ottocentesco come, purtroppo, é accaduto a molte altre cittadine del comprensorio rivierasco che si sono convertite al turismo all’inizio del ‘900.

Ma chi, meglio del Comandante chiavarese Ernani Andreatta, può introdurci in questo capitolo di storia locale, ma anche nazionale, visto il gran numero di velieri costruiti sul bagnasciuga di questo superbo quanto incantevole pezzo di terra?

Porgiamo quindi la parola all’autorevole “Nanni” pubblicando una sua lettera da cui emerge persino la parentela “cantieristica navale” tra Chiavari e Recco!

 

Chiavari 12 Ottobre 2020

 

OGGETTO: Volume su “RECCO UN PAESE NEL CUORE” di Vittorio Massone

 

Egr. Sig. Vittorio Massone Autore del Volume “RECCO UN PAESE NEL CUORE”

Spett.le Ass. Culturale L’ARDICIOCCA

Spett.le Sig. Sindaco di Recco GIAN LUCA BUCCILLI

 

Gent.mi Signori

Ho avuto in omaggio dalla Gentile Signora Carla BOZZO il libro in oggetto. Ne ho molto apprezzato il contenuto e anche le inedite foto del “passato” compresa l’ultima sul tragico scenario della distruzione totale di Recco.

 

Personalmente sono molto affezionato a Recco dato che sono strettamente imparentato con i Gotuzzo, (mia madre Adele) il cui mio bisnonno Francesco detto “Mastro Checco” era appunto nato a Recco nel 1808.

 

Oltre che aver fondato il Museo Marinaro di Chiavari tutt’ora esposto alla Scuola Telecomunicazione Forze Armate di Chiavari (zona Militare) mi sono anche dedicato nel passato alla “grande” storia marinara dei paesi limitrofi tra cui anche Recco. Non solo, i vari costruttori navali di Chiavari e cioè GOTUZZO, TAPPANI e BERALDO erano tutti imparentati tra di loro ma erano tutti originari di Recco. Ho conosciuto personalmente il Sindaco MATTEO BERALDO (per noi Mattelin”) che per molto tempo abitò anche a Chiavari ed era, insieme ai Tappani, mio cugino da parte di Madre.

 

Negli anni intorno al 1990 feci scrupolose e dettagliate ricerche sui libri RINA (Registro Navale Italiano) di allora per trovare eventuali “bastimenti” cioè grandi velieri da due a tre alberi costruiti e varati appunto a Recco. Ne trovai circa sessanta come potete constatare a pag. 12 di questo allegato. Ma sono certo che furono molti di più o, come afferma il “Gio Bono Ferrari almeno 200”! Purtroppo i libri RINA iniziano dal 1860 in poi e per gli altri prima del 1860 bisognerebbe ricercare negli archivi delle Capitanerie, cosa che non ho mai fatto.

 

Ogni volta che si parla di Recco, giustamente riconvertita, dopo la ricostruzione, alla più moderna “focaccia” che gli ha dato negli ultimi decenni “fama e ricchezza” per modo di dire, siamo tutti d’accordo, ma qualche anziano “storico” come me non può fare a meno di ricordare qualcosa di diverso nel suo passato. Ben lungi da ogni benché minima polemica.

Ho cercato di sintetizzarlo al massimo e spero avrete la pazienza di leggerne qualche riga.

Tutto ciò per far capire quanto fosse importante Recco sia prima dei tragici bombardamenti che della gustosissima e ineguagliabile “focaccia al formaggio”.

 

Con i miei migliori saluti

 

Ernani Andreatta

Email: andreattaernani@libero.it cell. 335 392 601

Allegati Pag. 11 – I Cantieri Navali di Recco ed il suo indotto.

LINK

MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA - CHIAVARI

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=459;nanni&catid=53;marittimo&Itemid=160

SECONDA PARTE

I CANTIERI NAVALI DI RECCO ED
IL SUO INDOTTO

di Ernani Andreatta

Dal libro di Gio Bono Ferrari
Capitani di Mare e Bastimenti di Liguria del Secolo XIX
Edito nel 1939

Gio Bono Ferrari, dedica ben 50 pagine alla storia marinara di Recco. Sono pagine fitte di nomi di navi, di armatori, di costruttori navali, di capitani e marinai, di viaggi, di naufragi ecc. Questo dà un’idea di quanto importante e quanta storia di mare e di fatica c’è in questa cittadina rivierasca che senza fare classifiche di merito o di numero di velieri occupa un posto importante nella storia accanto a Camogli o a Chiavari e a tutte le altre cittadine liguri che per secoli avevano nel mare e nei commerci l’unica risorsa che era una delle poche vie di uscita dalla grama e povera vita del tempo. Non solo, tutti conoscono Camogli che giustamente ha un posto veramente grande nella storia legata al mare ma, se pensiamo che Camogli, per questioni di spiaggia non aveva cantieri navali, mentre Chiavari e Recco hanno costruito navi per secoli. E non erano da meno in armamenti in generale, questo deve farci riflettere e dare a tutte le nostre cittadine il posto che meritano senza campanilismi o piccole gelosie.  Ora Recco, è diventato il paese della “focaccia” per autonomasia, ma un tempo la sua struttura commerciale e sociale era ben diversa.

 

IL CANTIERE NAVALE DI RECCO NEL 1857
La spiaggia prima del mare è  pochissima.
Sulla sinistra si nota il ponte della ferrovia in costruzione.
Il primo treno vi passò nel 1860. Nel cantiere navale è in costruzione il “RE GALANTUOMO” un Brigantino a palo di proprietà dei Gotuzzo, uno degli ultimi che Luigi Gotuzzo costruì prima del passaggio del Cantiere a Paolo Rolla nel 1863.


Il CANTIERE NAVALE DI RECCO nel 1865
notare le due navi in costruzione sulla sinistra e la pochissima spiaggia a disposizione prima del mare.


Già nel 1600 e 1700, a Recco,  esistevano  una miriade di attività navali. Non possiamo andare troppo indietro e dobbiamo riferire la nostra conversazione solo ai tempi più recenti.
Un esempio, dal 1840 sino al 1876, a Recco vi costruirono velieri i Gotuzzo, i Rolla e i Saccomanno tanto per citarne alcuni.

Secondo i registri RINA consultati,  Luigi Gotuzzo (parente dell’omonimo che costruì a Chiavari) vi costruì 16 velieri dal 1840 al 1863. Il Rolla ne costruì 25 dal 1863 al 1875. Il Rolla assieme al Saccomanno ne costruì 3 e altri anonimi circa una dozzina. Ma siamo consapevoli delle nostre manchevolezze nel riportare quanti altri costruttori prima di questi tre nominati si cimentarono nell’arte della costruzione navale a Recco. Ed infatti Gio Bono Frrari nel suo irripetibile volume riporta: Se si facesse il calcolo dei grandi bastimenti costruiti a Recco si sorpasserebbero di certo i 200.

A RECCO, AL TEMPO DELLA VELA, ESISTEVA ANCHE UN INDOTTO IMPORTANTISSIMO.

Oltre ad essere rinomata per le sue campane e i suoi orologi da torre, oltre che avere tra i suoi figli un Nicolosio da Recco, scopritore delle Isole Canarie e un “ferreo” ammiraglio come Biagio Assereto che aveva saputo vincere ben due re alla battaglia di Ponza, Recco era famosa per i suoi “bozzellai”. La grande fabbrica di questo prodotto del quale tutte le navi che si varavano in riviera avevano bisogno, era nei capaci fondaci del convento di San Nicolò. I “canapini” così chiamati, erano i portatori della canapa per fare i cordami. La buona canapa arrivava anche dall’Emilia e veniva portata con una lunga teoria di muli, una vera e propria carovana che faceva l’antica strada di Brignole, Priosa, Favale di Malvaro, Tribogna, la Spinaiola, Testana e Recco. Un grande fabbro, il “Gillio”, “capace di fare dalle “teste di morto” ai grossi Paranchi “ arrivò ad avere  ben 22 operai ai suoi ordini. Poi c’erano i “Ciavairi” o chiodatori, i forgiatori dei perni di rame che in genere provenivano tutti da Masone, lavoro delicatissimo. E non ultimi i Mastri Scultori perché Recco aveva anche la specialità delle belle polene, vere statue, artisticamente scolpite che si mettevano sotto il bompresso. Fino al 1865 c’era l’usanza che quando un barco era pronto sotto il nome del barco si incideva un rudimentale castello. Era una bella affermazione di campanile. Poi l’usanza sparì.

CURIOSITA’

Al tempo dell’epoca eroica della vela (1700-1800) un buon Maestro d’Ascia guadagnava Lire 6 al giorno, cifra favolosa, se si pensa che gli uomini che lavoravano a incatramare o “impeciare” i cavi guadagnavano soltanto due “mutte” al giorno, ossia 80 centesimi.

Ogni barco voleva la sua  campana  di bordo bella e ornata. Così a Recco nacquero anche le fonderie dei  Picasso. Gli armatori vi si recavano personalmente per ordinare le campane. Se erano “Michelini” facevano incidere sulla campana l’effige di San Michele che trafigge Lucifero. Se “Madonnini” il bassorilievo della Madonna del Suffragio. Se erano di Camogli usavano il medaglione della Madonna del Boschetto, San Prospero o San Fortunato come effige. Un Capitano di Camogli che aveva la moglie di nome Maria vi fece incidere “Aspettami Marinin”, un altro “Salvami dai pirati o divo Prospero”.

Oltre 250 velieri varati a Chiavari

Una piccola premessa era necessaria
ma rivolgiamoci ora al vero tema della nostra conversazione:
oltre 250 velieri oceanici varati a Chiavari tra il 1830 e il 1930 i cui costruttori, tutti nati a Recco, emigrarono a Chiavari per costruire le loro navi. Cerchiamo di capirne
i motivi dopo aver conosciuto i personaggi.
I Gotusso comunque , poi registrati come Gotuzzo, nascono come armatori di barchi a Portofino e poi, si spostano a Recco con Luigi e a Chiavari con Francesco (detto Mastro Checco) per diventare costruttori navali  nei primi anni del 1800.


Francesco Gotuzzo detto Mastro Checco nato a Recco nel 1808.
Svolse tutta la sua attività di costruttore navale a Chiavari dove vi morì nel 1865
.

Quando morì aveva ben 9 velieri in costruzione tra “Ciassa di Barchi” (Piazza Gagliardo) e il Cantiere Navale degli Scogli attualmente denominato:

“LUNGOMARE DEI GOTUZZO COSTRUTTORI NAVALI”

Il suo testamento,  che era anche un accordo commerciale, venne firmato dalla vedova, Vittoria Gagliardo (1820-1888), dal figlio Luigi Gotuzzo, da Matteo Tappani, e dagli armatori Erasmo, Sebastiano e Francesco Raffo. Alla sua morte,  nel 1865 come detto,  erano in costruzione nel cantiere degli Scogli ben 9 velieri: BP VENEZIA  (già ultimato e varato), BP PETRONILLA, BP FENICE, NG VIRGINIA, BP ERASMO, BP APENNINO, BP SOLLECITO, BP ANTONIETTA COSTA, BP GIABATTISTA D’ASTE. Tutti grandi velieri a tre alberi come Brigantini a palo e un Nave Goletta il VIRGINIA.

Lasciò scritto che i due quinti dei costi e ricavi sarebbero andati a Matteo Tappani per la sua opera prestata nella costruzione, che aveva anche sposato la figlia di Francesco, Giulia Gotuzzo, mentre i tre quinti andavano al figlio Luigi Gotuzzo con la raccomandazione di “andare d’accordo almeno per 6 anni”.

In pratica Matteo Tappani imparò l’arte di costruttore dal suocero, Francesco Gotuzzo,  detto “Mastro Checco”.


Matteo Tappani, “U sciu Mattè”, nato a Recco nel 1833.
Svolse tutta la sua attività di costruttore navale a Chiavari dove vi morì nel 1924.  Assieme al figlio Francesco fu uno dei fondatori del Cantiere Navale di Riva Trigoso.

I Fratelli Beraldo, tutti Capitani di mare, erano tre:
Giuseppe, 1853-1939, Enrico, 1858-1925 ed
Erasmo, 1863-1946, tutti originari di Recco, per un certo periodo abbastanza lungo operarono e abitarono a Chiavari.  Non siamo in possesso di loro fotografie.

Ma possiamo constatarne la loro importanza dai Capitoli 6 e 7 del Volume “CHIAVARI MARINARA DALL’EPOCA EOICA DELLA VELA . STORIA DEL RIONE SCOGLI” Seconda Edizione del 1997.


Nella foto il B.G. Maddalena Beraldo costruito a Chiavari e varato nel 1920

Era stato costruito proprio nella zona denominata ora Via dei Velieri nella quale furono costruiti e varati molti velieri di vari costruttori come i Briasco, i Brigneti, i Piceni Gessaga, i Copello e gli stessi Beraldo.

I costruttori navali GOTUZZO, TAPPANI e BERALDO erano tutti imparentati, vediamo come:

FRANCESCO GOTUZZO detto Mastro Checco, (1808-1865) coniugato con Vittoria Gagliardo ebbe 9 figli: 5 maschi e 4 femmine.

La terza figlia, GIULIA GOTUZZO (nata 1844) sposò MATTEO TAPPANI (1833-1924) ed ebbero 4  figli: FRANCESCO, costruttore navale divenne poi Podestà di Chiavari dal 1932 al 1942.

La seconda figlia  di Matteo Tappani, TERESA sposò appunto ENRICO BERALDO (1858-1925).

Il quarto maschio di Francesco Gotuzzo, LUIGI (1846-1919) continuò a condurre il cantiere navale di Chiavari lasciando poi, alla sua morte, la direzione al figlio EUGENIO detto Mario.

Nota: Il Luigi Gotuzzo nato nel 1786, che costruì a Recco prima del Rolla, era figlio di Francesco (nato 1759) e Pellegrina Massone mentre Francesco Gotuzzo detto “Mastro Checco” nato nel 1808 era figlio di Francesco e della seconda moglie, Maria Geronima Avegno, quindi fratellastro di Luigi.

ATTIVITA’ COSTRUTTORI NAVALI

SVOLTA A CHIAVARI DA OGNUNO:

Gotuzzo Francesco e figlio Luigi e figlio Eugenio

Oltre 105 velieri costruiti

Tappani Matteo e figlio Francesco

Oltre 55 Velieri

Beraldo e altri (Briasco, Brigneti, Piceni Gessaga,

Copello)  oltre 30 velieri

DOMANDA?

PERCHE’ I GOTUZZO, I TAPPANI E I BERALDO E ALTRI, DI CHIARA ORIGINE “RECCHELINA”, VENNERO TUTTI A COSTRUIRE LE LORO NAVI A CHIAVARI?

Come abbiamo visto nelle precedenti panoramiche di Recco dovevano trovare una alternativa alla concessione demaniale data l’esposizione evidente alle mareggiate quando lo scafo era in costruzione. Pur tuttavia, a Recco nonostante gli spazi limitati, in certi anni come nel 1865 si ebbero 4 vari e addirittura nel 1875, (un anno prima della chiusura del cantiere) 6 vari nello stesso anno. Crediamo che il record spetti a Francesco Gotuzzo.

Quando morì a Chiavari nel 1865, aveva ben 9 scafi in costruzione come dedotto dal suo testamento e dalle divisioni che poi vennero fatte tra Matteo Tappani (che aveva dato assistenza nelle costruzioni) e Luigi Gotuzzo figlio di Francesco. Solo con questi dati possiamo farci un’idea di quanto fosse attiva la cantieristica nelle nostre riviere dato che Chiavari o Recco non erano certamente casi isolati.

Il veliero, a Chiavari, quando i Tappani e i Gotuzzo vi si recarono, poteva essere costruito tranquillamente al riparo delle mareggiate e tutti sappiamo quanto fosse agevole dato la grande quantità di legno da tagliare o lavorato che giaceva sotto la nave.

3)  La spiaggia di Chiavari, specialmente ai primi anni del 1800 era lunga e ininterrotta, con una dolce pendenza verso il mare che consentiva allo scafo, nel momento del varo, di scivolare lentamente senza accelerare la corsa, verso l’acqua.

4) Non appena il veliero toccava l’acqua, inoltre, poteva contare su di una notevole profondità che le assicurava un immediato galleggiamento senza insabbiarsi.

Chiavari - Casa Gotuzzo - Piazza Gagliardo

 

MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA CHIAVARI

 

GLI ATTREZZI DEL MAESTRO D'ASCIA

Ogni attrezzo corrisponde ad un antenato, che qui continua idealmente a vivere ... queste asce sono intrise del suo sudore, del suo sangue, del suo pensiero ... Ecco spiegata la sacralità del luogo! Gli odori forti della resina, della stoppa e della pece stanno ai vecchi cantieri come l'odore d’incenso sta alle chiese, come il mosto sta alle cantine.

Nel lavoro del maestro d’ascia tutto é cadenzato da segreti e gelosia di mestiere! Dal fabbricare i propri utensili per entrare in qualsiasi “recanto” della barca in costruzione, alla scelta dei manici di legno (pero, melo, limone), alle misure (peso, lunghezza, larghezza) che devono essere armoniche con la sua stazza e con lunghezza del suo braccio. Ogni colpo d’ascia emana una nota musicale che racconta la storia di quel legno (vecchiaia, stagionatura, duttilità, qualità, prontezza d’impiego). L’ascia é affilata come il rasoio da barba. Nel tempo diventa l’estensione dell’arto del suo maestro di cui assume la stessa personalità. E’ solo paragonabile allo scalpello dello scultore, al pennello di un pittore. Se l’occhio ti tradisce e sbagli il “tocco”, devi ripartire daccapo.

 


 

GLI ATTREZZI DEL CALAFATO

La MARMOTTA DEL CALAFATO



VEDUTA DI CHIAVARI NEL 1888


VEDUTA DI CHIAVARI NEL 1912






 

TERZA PARTE

 

RICERCHE E STUDI DELLA PROF.SSA

LUCIANA GATTI

Prof.ssa Luciana Gatti e Prof. Carlo Maccagni – Università di Genova- In attesa di intervenire con la loro relazione.

Il Comandante Ernani Andreatta é da tempo in contatto con la Prof.ssa Luciana Gatti dalla quale ha ottenuto la ricerca (PDF) così intitolata:

ATTI DELLA SOCIETA’ LIGURE DI STORIA PATRIA – Nuova Serie – Vol. XLVIII (CXXII) FSC. II

Cliccando sul titolo sopra si aprie una finestra sulla quale si preme “Salva” per scaricare il pdf di cui al titolo.

LUCIANA GATTI

(é solo un caso di omonimia…)

Un raggio di convenienza”

Navi mercantili, costruttori e proprietari in Liguria nella prima metà dell’Ottocento

Si tratta di un corposo STUDIO di 495 pagine del quale segnalo agli appassionati le pagine relative ai “bastimenti” costruiti a Recco, essendo questo l’argomento di cui ci occupiamo oggi.

La ricerca, come vedrete, riguarda tutta la cantieristica ligure di quel periodo che inizia al Capitolo: 2. Cantieri e costruttori

Pag. 93-94-95-106

A pag.123-124 Appendice 1 – Le navi costruite (1826-30 e 1838-52)

Gli elenchi seguenti segnalano, per gli anni e le direzioni documentate, le singole costruzioni raggruppate per tipi, con l’indicazione di nome, portata, costruttore, proprietario e cantiere.

Ripeto: segnalo soltanto le pagine dove compaiono i Cantieri di Recco.

Pag. 123-124-125-126-127-128-129-131-132-133-135-136-140-141-142-147-150-152-154-155-157-161-162-163-164-166-168-170-173-174-

A pag. 365 Appendice 3 – Repertorio di Costruttori

A pag. 427-438-439-440-450-452-453-454-455-456

Più di tante informazioni sulla carriera della Prof.ssa Luciana Gatti, studiosa e ricercatrice di Storia del Mondo Marittimo Ligure, preferiamo segnalare 10 tra i suoi più importanti lavori di ricerca a cui gli appassionati e followers della nostra Associazione MARE NOSTRUM RAPALLO possano attingere per migliorare la conoscenza delle proprie radici marinare.

Gatti, Luciana

Navi e cantieri della Repubblica di Genova, sec. 16.-18. / Luciana Gatti

Genova : Brigati, 1999]

Gatti, Luciana

Il baro del tempo / Luciana Gatti

Legnago : Edizioni Grafiche Stella, 1999

 

Gatti, Luciana

Sulle maestranze dei cantieri genovesi in età moderna / Luciana Gatti

Fa parte di: Navalia : archeologia e storia

 

Gatti, Luciana

I mestieri a Genova tra medioevo ed età moderna Luciana Gatti

Spoleto : Centro italiano di studi sull'alto medioevo, [s.d.]

 

Gatti, Luciana

L' arsenale e le galee : pratiche di costruzione e linguaggio tecnico a Genova tra Medioevo ed età moderna / Luciana Gatti

Genova : s.n!, 1990-...

 

Gatti, Luciana

Artigiani delle pelli e dei cuoi / Luciana Gatti

Genova : [s.n.], 1986

 

Gatti, Luciana

Le navi di Angelo M. Ratti, imprenditore genovese del 18. secolo / Luciana Gatti

Genova : s. n.!, 2001 (Genova : G. Brigati)

 

Gatti, Luciana

5 : Artigiani delle pelli e dei cuoi / Luciana Gatti

Genova : s. n.!, 1986 (Genova : Prima cooperativa grafica genovese, 1987)
Fa parte di: Maestri e garzoni nella societa genovese fra 15. e 16. secolo

 

Gatti, Luciana

L' arsenale e le galee : Pratiche di costruzione e linguaggio tecnico a Genova tra medioevo ed eta' moderna. Parte prima / [Di] Luciana Gatti

Genova : [s.n.], 1990

 

Gatti, Luciana

Le navi di Angelo M. Ratti, imprenditore genovese del 18. secolo / Luciana Gatti

Genova : [s.n.], 2001 (Genova : Brigati Glauco)

 

Ernani ANDREATTA

 

A cura di Carlo GATTI

Rapallo, 20 Ottobre 2020


 


CAMOGLI 1916: TRAGEDIA IN SPIAGGIA

CAMOGLI 1916: TRAGEDIA IN SPIAGGIA

In quell’inverno del 1916, le “buriane” erano una dietro l’altra. La nostra costa era flagellata dai cavalloni impetuosi,  generati da un libeccio che pareva non avesse termine.

Erano passate da poco le 17 di quel 12 dicembre, quando un brigantino a palo, l’Astrea,  proveniente da Marsiglia, stava dirigendo su Genova per due motivi: perché era il suo porto di destinazione e perché aveva bisogno di “ridosso” da quel mare implacabile. Fu inutile: il porto di Genova era sbarrato poiché in quegli anni della Prima Guerra Mondiale, si bloccavano gli accessi ai porti dopo il tramonto!



In quest'immagine dell'archivio Ferrari, si vedono gli scogli della "Pianora delle Chiappe" che sono oggigiorno nella spiaggia

Il Comandante Edoardo Mennea di Sorrento, decide allora di mettere la prua verso Portofino, nella speranza che quel promontorio possa offrire un po’ di riparo al libeccio. Mentre il veliero si trova all’altezza di Camogli, verso le 22, la tempesta si fa più spietata e il Comandante decide di spiaggiare nella nostra costa, nell’intento di salvare la nave e l’equipaggio. Un marinaio inizia a suonare il corno da nebbia, usato a quel tempo anche per le situazioni di pericolo, così da allertare gli abitanti di Camogli in quella tragica sera. E difatti, poco dopo, la spiaggia vicino alla chiesa vede brulicare molti camogliesi che cercano di offrire assistenza a quello sfortunato brigantino.
Tramite funi vengono salvate sei persone, ma quattro, incluso il Comandante Mennea non ce la fanno. Poco dopo, verso mezzanotte, il veliero si sconquassa definitivamente sugli scogli denominati “Pianora delle Chiappe”, cioè proprio sotto la nostra Basilica e che oggigiorno sono pressoché  assorbiti dalla spiaggia.



Una panoramica dal Castel Dragone con - a sinistra - i resti dell'ASTREA

L’Astrea, di 807 tonn.di stazza, lungo 57 metri, era stato costruito nel 1890 nei cantieri di Loano, a quel tempo molto famosi e usati anche da vari armatori camogliesi. Si chiamava originalmente Pietro Accame ed era proprietà di quella celebre famiglia di armatori di Pietra Ligure – gli Accame - che poi si radicarono anche a Loano e Genova. Nel 1886 cambiò il nome in Astrea appunto, dopo essere stata acquisita da un armatore di Meta di Sorrento.


La targa commemorativa sul ceppo dell'ancora dell'ASTREA


Altra veduta dei reperti dell'ASTREA


La bigotta dell'ASTREA - dono di Ido Battistone - conservata al Civico Museo Marinaro
"Gio Bono Ferrari" di Camogli



Dipinto raffigurante l'ASTREA in arrivo a Napoli. Opera (venduta) attribuita a De Simone.
(gentile concessione Antichità Bruzzone - Genova)

A Camogli, oggi rimangono ancora i resti di quella tragedia. Sulla terrazza verso mare del Castel Dragone, si trovano pezzi d’ancora dell’Astrea. Al nostro Civico Museo Marinaro “Gio Bono Ferrari” si trova una bigotta, cioè una specie di puleggia senza scorrimenti, che serviva a collegare più “manovre dormienti” insieme, cioè assicurava quei cavi che tenevano ben salda l’alberatura del veliero. Quella bigotta è un dono di Ido Battistone, l’indimenticato leader del famoso sciabecco camogliese “Ō Dragōn”.

 

Bruno Malatesta 8/2014 (foto dell'autore)
Bibliografia: "Il romanzo della vela" di Tomaso Gropallo - Ed. Mursia;
"Quaderni Nr. 5&6 del Civico Museo Marinaro G.B. Ferrari" - Nuova Editrice Genovese.=

Rapallo, 2 Settembre 2019


IL PERIMETRO

 

SAN BENEDETTO DA NORCIA: IL PATRONO D’EUROPA

La dott.ssa Selene CATENA ci dona la sua originale interpretazione  dell'ultimo libro di Paolo Rumiz: IL FILO INFINITO che ci conduce in pellegrinaggio sul sentiero europeo dei monasteri benedettini. Sono i discepoli di Benedetto da Norcia, il santo protettore d’Europa che l’autore ha cercato nelle abbazie dall’Atlantico fino alle sponde del Danubio. Luoghi più forti delle invasioni e delle guerre.

Un viaggio affascinante nella storia che trova ancora oggi la sua attualità.

Che uomini erano quelli. Riuscirono a salvare l’Europa con la sola forza della fede. Con l’efficacia di una formula ora et labora. Lo fecero nel momento peggiore, negli anni di violenza e anarchia che seguirono la caduta dell’Impero romano, quando le invasioni erano una cosa seria, non una migrazione di diseredati. Ondate di violenza spietate, pagane. Li cristianizzarono e li resero europei con la sola forza dell’esempio. Salvarono una cultura millenaria, rimisero in ordine un territorio devastato e in preda all’abbandono.

Costruirono, con i monasteri, dei formidabili presidi di resistenza alla dissoluzione.

Gli uomini che le abitano vivono secondo una Regola più che mai valida oggi, in un momento in cui i seminatori di zizzania cercano di fare a pezzi l’utopia dei padri: quelle nere tonache ci dicono che l’Europa é, prima di tutto, uno spazio millenario di migrazioni…

E da dove se non dall’Appennino, un mondo duro, abituato da millenni a risorgere dopo ogni terremoto, poteva venire questa portentosa spinta alla ricostruzione dell’Europa?

Dopo la lettura di questo libro, forse per un’incorreggibile deformazione professionale, é cresciuta in me la convinzione che le navi siano dei monasteri naviganti molto simili alle abbazie di cui si occupa Paolo Rumiz nel suo libro. Lontano dai poteri centralizzati e dalle insidiose ideologie dei partiti, il potere a bordo di una nave é demandato al suo Comandante il quale, quando assume l’atteggiamento del pater familiae, riesce a conciliare nella formula: ora et labora, lo spirito di sacrificio, il rispetto reciproco, la socialità e la produttività anche quando tutte le religioni e le etnie di questo mondo s’incontrano e non si scontrano come succede sulla terraferma ad ogni latitudine.

Il mondo del mare è uno scrigno millenario colmo di tesori ed insegnamenti, il più vicino alle REGOLE di S.Benedetto! Ma quanti lo conoscono?

di Carlo Gatti

 

IL PERIMETRO

di Selene CATENA

Come in un gioco di specchi, un pensiero stamattina stenta a guardarsi, a tastarsi, a prendere coscienza di sé, stenta a ritrovare la propria immagine primigenia, origine e fine di ogni altra riflessa.

“La felicità sta nel perimetro”

Paolo Rumiz “IL FILO INFINITO”. Feltrinelli. Pag. 29

“Cosa hanno fatto i monaci di Benedetto se non piantare presidi di preghiera e lavoro negli spazi più incolti d’Europa per poi tessere tra loro una salda rete di fili?”


Qualcosa in me si ritira, ogni mano su un orecchio, ad attutire uno stridio.

Quando ero piccola, sei sette anni, passavo tutta l’estate a casa dei nonni, sul mare.


 

Tra la porta di casa e la spiaggia c’era, e c’è ancora, uno spiazzo di qualche metro, tutto di cemento. Per un lungo periodo, non ho mai capito perché né perché quel periodo sia poi finito, mentre giocavo, tutti i pomeriggi, cadevo. Da sola. Sulle ginocchia.

Non si piangeva. Faccio parte di una sottopopolazione dell’infanzia degli anni settanta forgiata su modelli educativi autoreferenzianti, per cui se cadi o sbagli non devi piangere. Un po’ di saliva sul ginocchio, ti rialzi, con l’idea serpeggiante che se stai male te la sei cercata. Piuttosto ti accerti che non ci siano testimoni.

Così le ginocchia sembravano mappe per isole del tesoro: croste dalle forme irregolari, con tonalità migranti dal vermiglio al ruggine, finite di stampare solo ai primi d’ottobre, quando le articolazioni rientravano negli abiti e andavano in letargo.

Ecco.

“La felicità sta nel perimetro”


La frase mi fa ritrarre, come se inavvertitamente qualcuno avesse sfiorato quel mio ginocchio estivo di quarantaquattro anni fa.

Salto, schivo, scivolo in una sorta di black out percettivo.

Solo dopo, come gli occhi delle lumache, timidi, torno su. E sbircio che succede.

Da adulta feroce paladina degli spazi aperti, del no-border, non come sistema ma come unica possibilità di vita, quella di fuga non è una risposta. E’ una reazione, dunque, in quanto tale, l’unica possibile.

E’ per questo che ci torno su e ci ronzo attorno, come una falena innamorata dell’inestinguibile fiamma della curiosità prodotta dal ‘diverso da me’.

Con una sorta di ossimoro percettivo, qualcosa si apre ad accogliere un’idea di apparente chiusura, annusandone la familiarità del retrogusto.

E’ vero. La felicità sta nel perimetro.

Il pensiero nel gioco di specchi comincia a ritrovarsi: una catenina, sottile, lunghezza media, senza pendagli, attorno al collo esile di donna di mezza età. E’ la prima idea di perimetro che mi si accampa in testa. Ed é subito un elogio alla bellezza, non c’è sfumatura di contrazione o di confine.

Piuttosto il sentore di un’esaltazione dell’umano, un perimetro d’argento che avvolgendola potenzia la visibilità della grazia emanata.

Ed é così che finalmente si ritrova e, placida, si mette a sedere negli occhi, l’immagine primigenia, il perimetro dei perimetri: la pelle.

Il confine per cui veniamo al mondo, per cui possiamo essere io e non tu o loro o tutti.

Il perimetro che permette di esserci, sperimentare, vivere, con tutti i disordini che si creano, su ciò che vuoi farci entrare dentro e cosa vuoi lasciare fuori.

La morbida linea che fa si che tu sia chi sei.

E la divisione puoi percepirla per quella che è: l’ennesima illusione ottica. La Vita si ritaglia in corpi di pelle per poter giocare e interagire con sé stessa, in una festa che rischi di perderti, se credi agli specchi.

Invece siamo tutti invitati alla festa.

Tanti perimetri di pelle di luce.

 

Selene CATENA

Ortona, 24 Luglio 2019

 

 

 

 

 



Ricordando la HAVEN vent'anni dopo....

 

Ricordando la HAVEN

vent’anni dopo...

Il relitto é indicato nella parte sinistra della cartina

Due rapallesi, Pino Sorio (Ufficiale di Macchina) e Livio Alessandri (Ufficiale di Coperta) navigarono sulla Amoco  Mildford Haven in seguito ribatezzata HAVEN.

10 Aprile 1991 - L’attenzione e lo sgomento di tutti erano ancora rivolti alla collisione avvenuta nella notte tra la MOBY PRINCE in uscita dal porto di Livorno e la petroliera AGIP ABRUZZO ancorata in rada. Le notizie grandinavano ancora gracchianti, confuse, controverse su tutte le frequenze portuali e soltanto le parole: “Bettolina”, “Agip Abruzzo”, “Moby Prince”, “Nebbia”, filtravano anonime, limpide, inesorabili e sufficienti a definire un quadro che ormai aveva preso corpo in tutta la sua drammaticità. Nello scalo labronico si contavano ancora i 140 morti e ognuno cercava disperatamente la spiegazione che ancora oggi, a distanza di vent’anni, nessuno é riuscito a dare. “..ma le disgrazie non giungono mai sole..” recita un vecchio adagio! E qualche volta pare proprio che la biblica Apocalisse si materializzi in alcune  “prove pratiche” per testare le già flebili forze di noi umani.

11 Aprile 1991 - Nella tarda mattinata, dalla vicina  Arenzano giungeva come un fulmine a ciel sereno la notizia di un’altra immane sciagura del mare. In quella tranquilla rada rivierasca, ad appena 90 miglia di distanza da Livorno, si aprì improvvisamente un secondo girone infernale. Sulla superpetroliera HAVEN, ancorata ad 1,5 miglio dalla spiaggia, scoppiò un spaventoso incendio seguito da ripetute esplosioni che spararono la coperta del castello di prora distaccandola di netto dal resto dello scafo. In breve tempo e per ogni cisterna, s’innescò una catena di deflagrazioni che divamparono e trasformarono la nave in un immenso rogo. La tragedia ebbe un lungo epilogo che possiamo così sintetizzare: 5 marittimi su 36 d’equipaggio perdettero la vita. La superpetroliera Haven di 335 metri di lunghezza, con una capacità di carico di 230.000 tonn. colò a picco. La liguria subì Il più grave disastro ecologico mai avvenuto in Mediterraneo e forse nel mondo. Ma come andarono veramente le cose? Erano le 12.40  quando  il Pilota Giancarlo Cerruti, di guardia al Porto Petroli di Multedo, udì il segnale di soccorso “mayday-mayday” lanciato dalla Haven e si precipitò con la pilotina verso la calma rada di Arenzano. Il viaggio durò 20 interminabili minuti e il contatto radio tra Comandante e Pilota fu intenso e drammatico. I soccorsi furono allertati immediatamente e si udirono frasi spezzettate del tipo: “lance di salvataggio, immediata evacuazione, salvataggio con gli elicotteri ed altre concitate richieste” . Appena la pilotina giunse sotto la poppa della nave, una terrificante esplosione scosse la petroliera a centro nave. Erano le 13.00. Pezzi di lamiera infuocata volarono in tutte le direzioni risparmiando fortunosamente l’imbarcazione dei piloti. In quell’istante la voce del Comandante s’interruppe. Il Pilota capì che la morte lo aveva falciato sul Ponte di Comando mentre ancora dava ordini al suo equipaggio e chiedeva aiuto per la sua nave in grave pericolo. A terra la gente ebbe un sussulto d’incredulità quando vide un fungo “atomico” ergersi in volute di fumo nero che rotolavano gonfiandosi lentamente verso il cielo limpido, primaverile. Tutto accadde con diabolica rabbia sopra quel lungo scafo nero che reagiva ad ogni esplosione con lugubri boati e lingue di fuoco che squarciavano l’aria come saette, la colonna di fumo nero era alta ormai più di 300 metri. Da subito la nave apparve così martoriata da rendere vana qualsiasi strategia di recupero. La conferma si ebbe quando il mio amico Silvan, che si trovava a bordo di un rimorchiatore in avvicinamento, mi disse d’aver visto la prora inarcarsi e poi spezzarsi. Una parte dell’equipaggio della HAVEN riuscì a tuffarsi in mare a pochi metri dalla pilotina di Cerruti che li raccolse, insieme al suo timoniere Parodi. Furono salvati 18 naufraghi. Il valoroso pilota dichiarò: “non fu facile sottrarre alle fiamme quei corpi che a stento respiravano ed erano ricoperti di viscido crude-oil. Riuscimmo a  salvarli con la forza della disperazione”. Ne morirono cinque, alcuni sotto i suoi occhi mentre  l’imbarcazione si allontanava, quasi affondando per il sovraccarico. Gli altri superstiti rimasti intrappolati in quei roghi di fiamme furono salvati dai rimorchiatori e dagli ormeggiatori in un secondo momento e con molta fortuna. Giancarlo Cerruti, insieme agli altri eroi di quella triste giornata, ricevettero numerose benemerenze e attestati di stima per la freddezza, il coraggio e spirito di solidarietà dimostrati in quella terribile circostanza. L’entità di quel rogo immenso fu tale da rendere vano ogni sforzo per soffocarlo. Non restò che contenere l’espansione del crude-oil per evitare quel disastro ecologico di cui nessuno, purtroppo, vantava esperienze e strategie di contrasto sicure. Tutta l’attenzione si concentrò quindi nel predisporre misure antinquinamento stendendo infiniti chilometri di “panne” a protezione del litorale usando tutti i mezzi disponibili per il ricupero del prodotto che ancora galleggiava in superficie  avendo resistito al fuoco. L’agonia durò tre giorni e nessuno, dall’Ammiraglio Alati all’ultimo marinaio dei rimorchiatori, ormeggiatori e di quel fantastico Corpo dei Vigili del Fuoco, si riposò un solo attimo. Il problema che si pose alle Autorità e alla cittadinanza non era di facile soluzione e forse, ancora oggi, vale la pena di ricordare qualche particolare. Il tempo stava cambiando. Una brezza fresca da scirocco (SE) increspò il mare. Il 12 aprile fu deciso di tentare l’aggancio della poppa della HAVEN per trainarla verso la costa con lo scopo di gestire al meglio lo spegnimento e le operazioni antinquinamento. La nave era ridotta ormai ad un relitto. Il rimorchiatore Istria, con il supporto manuale della motobarca VVFF, imbrigliò con un cavo d’acciaio l’asse del timone della petroliera allungandolo con uno spezzone di cavo che passò all’Olanda, un rimorchiatore di notevole potenza. Durante l’operazione d’aggancio, la nave emanava un tale calore che i marinai e i pompieri rischiarono l’asfissia, lo svenimento e quindi la vita stessa. Verso sera iniziò il traino verso Arenzano con grosse difficoltà. Il vento era girato a libeccio (SW) rinforzando e minacciando di spiaggiare chilometri di “panne antinquinamento” (barriere verticali, galleggianti e semisommerse). Se ne perdettero molte, mentre altre furono rimorchiate in porto e furono salvate. Il comandante  dell’Olanda F.Capato dichiarò:  “il convoglio procedeva come una “mosca sul catrame fresco” e il relitto dava chiari segni di collasso, l’inclinamento andava via-via accentuandosi… anche l’immersione era visibilmente in aumento…ancora fuoco e fiamme e si udivano scricchiolii dovuti allo sforzo del traino ed all’azione del mare sempre più mosso, con un’onda di ritorno che ne aumentava l’altezza”. Tutti gli occhi erano puntati sul relitto cercando di coglierne ogni segnale anticipatore della fine.

Nella nottata del 13 Aprile, il relitto raggiunse  la posizione assegnata dalla Capitaneria, era completamente in fiamme e vittima dell’ennesima esplosione. In tarda  mattinata   l’Olanda mollò il cavo. Il relitto restò immobile sul posto e affondò il mattino del 14 Aprile in Latitudine =44°22’44” N- Longitudine= 008°41’58” E. ad 1.05 miglia da Capo Arenzano, su un fondale di circa 70 mt. Al contrario di quanto accadde a Livorno, le cause del disastro della Haven vennero subito intuite dagli esperti. Nei giorni precedenti, la superpetroliera aveva sbarcato 80.000 tonn. di crude-oil all’Isola Artificiale di Multedo. Andò quindi alla fonda fuori Arenzano, e vi rimase con tempo buono nell’attesa di far rotta verso un nuovo porto per scaricare le 220.474 tonn. che aveva ancora nelle cisterne. La nave non era quindi operativa e poteva solo essere impegnata, con le pompe di bordo, nella manovra di travaso di parte del carico per raggiungere un buon assetto di navigazione. Sulle petroliere, il 1° Ufficiale di Coperta ha la responsabilità del carico, e per le operazioni d’apertura e chiusura delle numerosissime valvole, si avvale del Tanchista (sottufficiale) e di altri assistenti di coperta. Il 30 gennaio 1992, nel corso dell’Inchiesta Formale, il Tanchista dichiarò che quella mattina il Primo Ufficiale ordinò di chiudere determinate valvole d’intercettazione alle cisterne del gas inerte, e che egli lo fece. Mentre il Primo Ufficiale, al contrario, dichiarò d’aver ordinato l’apertura delle stesse. Ma dalla ripresa subacquea effettuata in presenza dei periti, le valvole “sospettate” risultarono tutte chiuse. L’evento che appare più accreditato dagli esperti é che si sia creata, in fase di pompaggio del prodotto, una sovrapressione nella cisterna n°1 determinata proprio dall’ipotesi appena descritta. L’operazione durò 70 minuti determinando progressivi e devastanti “cedimenti strutturali”, con emanazione di scintille che, in presenza di gas nelle tubazioni, innescarono i primi incendi ed esplosioni. L’effetto domino, come abbiamo già descritto, si propagò con effetti ritardati anche di molte ore, ma la reazione a catena di esplosioni fu inevitabile e l’agonia della nave si protrasse per quasi tre giorni. Alcune considerazioni tecniche:

- La sezione di prora fu addirittura staccata dal resto dello scafo ed affondò a circa 6 miglia dal relitto principale e giace su un fondale di 480 metri.

- Il petrolio greggio (crude-oil) a contatto con l’acqua di mare subisce alterazioni chimiche notevoli. Nel caso dell’incendio della Haven, durato 3 giorni, vi é stata una accelerazione del processo di evaporazione del prodotto, con liberazione delle frazioni più leggere e pericolose per l’inquinamento favorendo il rapido affondamento dei residui più pesanti dell’acqua di mare e questa massa asfaltica-bituminosa è diventata perennemente inerte e non pericolosa.

- Ciò che non avremmo mai voluto leggere: “ 4 giugno 2011, Arenzano - Un sub è morto ieri pomeriggio nel corso di un’immersione sul relitto della petroliera Haven. Il sub tedesco si chiamava Martin Rehermann e. da quanto riferito da Carabinieri e Guardia Costiera, sarebbe stato colto da malore mentre stava risalendo in superficie ....

- Per gli appassionati “sub” prendiamo in prestito dalla HAVEN Deco Station alcuni interessanti dati di profondità.

La statuetta del Gesù Bambino di Praga, fissata  sul ponte di comando del relitto.

Carlo GATTI

Rapallo, 12.10.11


AUGURI DI NATALE 2020 - IL FARO DELLA SALVEZZA

IL FARO DELLA SALVEZZA


 

ASPETTIAMO IL VACCINO … COME IL NAVIGANTE DI NOTTE CERCA IL FARO PER RITORNARE A CASA

 

BUON NATALE 2020 DI SPERANZA

A TUTTI !

MARE NOSTRUM RAPALLO


IL VENTO (in manovra)

IL VENTO


 

BY JOHN GATTI17 NOVEMBRE 2020•11 MINUTI

 

Ogni porto presenta difficoltà differenti.

Per alcuni è la nebbia a complicare le cose, per altri sono il vento, la corrente, gli spazi ristretti, i bassi fondali, ecc.

Per altri ancora può essere la combinazione di più elementi a elevare il rischio nella manovra delle navi.

Oggi parliamo del vento.

Se talvolta può essere d’aiuto, quando è particolarmente teso occorre fare valutazioni accurate, o il rischio di non riuscire a gestire questa forza può metterci realmente in difficoltà.

Ho detto “talvolta può essere utile”. Mi riferisco, ad esempio, a quelle situazioni in cui un vento leggero aiuta ad allargarci dalla banchina durante un disormeggio; oppure, analogamente, quando una brezza leggera ci accompagna dolcemente in banchina. Un vento che soffia dalla giusta direzione, e una lunghezza di catena data fondo, ci possono permettere di ruotare la nave su sé stessa senza l’ausilio della macchina o dei thruster; o ancora, un vento calcolato bene, rispetto alla sagoma della superficie velica, può agevolare un’accostata o un’evoluzione.

Un altro aspetto poco considerato, e anche un po’ curioso, è che spesso il vento aiuta il pilota anche nella “preparazione” della manovra. Infatti, nella fase di discussione con il comandante della nave, uno dei passaggi più delicati resta quello legato al numero eventuale di rimorchiatori da impiegare durante l’operazione. Le insidie del vento e della corrente sono spesso paragonabili, ma il vento è percepibile e visibile, mentre la corrente, più subdola, può essere anche accompagnata da condizioni meteo ottimali. Va da sé che convincere il comandante, quando sente il vento fischiare e vede il mare striato di bianco, è molto più facile rispetto a quando si discute di un pericolo non visibile che si nasconde sotto la superficie del mare.

A questo proposito mi viene in mente un fatto accaduto diversi anni fa:


Ph: J.Gatti

Quattro giornate di forte scirocco, accompagnate da cielo coperto e rovesci di pioggia, lasciarono il posto, dal punto di vista meteomarino, a una serie di giornate perfette: cielo limpido, mare calmo e assenza di vento.

Da noi le brezze che soffiano da levante e da sud-est portano corrente in canale, e più giorni insistono più la corrente diventa forte.

Quella volta, in particolare, il fiume d’acqua che imboccava a levante per sfogare a ponente, fu particolarmente impetuoso. Corrente forte, ma comunque prevedibile per i primi due giorni… l’anomalia fu nel fatto che anche il terzo e quarto giorno, seppure il tempo continuasse ad essere ottimale, l’impetuosità di questa forza continuava vigorosa, e invisibile all’occhio, sotto la superficie del mare.

Il difficile era convincere i comandanti della necessità di usare rimorchiatori per contrastare la situazione.

 

A quei tempi, la pressione esercitata da molti armatori per contenere le spese, portava i comandanti a cercare di risparmiare “sempre e comunque” e per contro i piloti a gonfiare un po’ la gravità della situazione sparando alto per “ottenere almeno qualcosa”.

Ma quella volta la situazione raggiunse il limite: il comandante vedeva una bella giornata e non c’erano parole che lo potessero convincere della pericolosità della situazione. D’altra parte noi stessi ci aspettavamo l’usuale ridimensionamento della corrente nel giro di poco tempo.

Per farla breve, nell’arco di tre giorni tre navi in manovra andarono a urtare la stessa nave passivamente e sfortunatamente ormeggiata sottocorrente rispetto al punto di evoluzione.

Io mi trovai sulla quarta il quarto giorno…

Era un’ottima nave: 150 metri di lunghezza, due macchine e un bow thruster. Si trovava in una condizione di “mezzo carico”, ideale per la manovra. Il comandante era un habitué del porto; veniva due volte alla settimana da anni ed era, quindi, molto pratico delle “dinamiche e delle situazioni”.

Appena salii a bordo lo misi a conoscenza degli incidenti dei giorni precedenti e dell’anomala presenza di questa forte corrente. Uno sguardo di sufficienza fu l’immaginabile reazione. Provai a insistere, ma le argomentazioni con cui rispose avevano delle solide fondamenta:

· la nave manovrava bene;

· il comandante, buon conoscitore del porto e di grande esperienza, si faceva la manovra e, di solito, la faceva anche bene;

· era il quarto giorno di buon tempo e la corrente doveva per forza essere meno forte di quando erano avvenuti gli altri incidenti.

Non ero per niente convinto, ma non riuscii comunque a impormi, anche perché, in fondo in fondo, pensavo anch’io che, se la manovra veniva impostata bene, si sarebbe potuta gestire la situazione.

Il confronto, dal punto di vista psicologico, non terminò bene. Da una parte c’ero io, pilota, che difendevo la mia posizione e dall’altra c’era il comandante che moriva dalla voglia di dimostrarmi quanto fosse bravo anche in quella difficile situazione. In pratica non era stato raggiunto un punto di vista comune che sarebbe stata la base per una manovra condivisa.

In condizioni normali, si arrivava al punto di evoluzione con una discreta velocità, si fermavano le macchine per tempo, si metteva decisamente indietro la sinistra, il bow a sinistra e si ruotava quasi in derapata. Al momento giusto si metteva indietro anche la macchina di dritta e il gioco era fatto.

Quella volta, complice il difetto psicologico del nostro confronto, per dimostrare la sua bravura arrivammo in fondo al canale con una velocità ancora più alta del solito; e più gli dicevo che con quella corrente andavamo troppo veloci, più lui mi lanciava messaggi con gli occhi a voler dire “ora ti faccio vedere io come si fa”.

Tutto sembrava procedere per il meglio fino a tre quarti dell’evoluzione, ma quando l’opera viva del fianco sinistro della nave cominciò a chiudere fino a trovarsi al traverso della corrente, la situazione precipitò.

La nave cominciò a cadere velocemente di pancia.

Nell’attimo di esitazione del comandante intervenni suggerendo di mettere le macchine indietro tutta e il thruster a sinistra. Lo scopo era quello di urtare da fermi per non provocare aperture nello scafo. Picchiammo per ben tre volte, recuperando ogni volta spazio indietro sul rimbalzo. Giocammo sulle macchine per appoggiarci il più delicatamente possibile e sempre da fermi. Alla fine riuscimmo a toglierci dalla corrente e a raggiungere l’ormeggio.

Il danno materiale non fu particolarmente grave, ma quello nel mio orgoglio, per non essere riuscito a impormi, e in quello del comandante, per le conseguenze della sua presunzione, ci lasciarono il segno per un bel po’ di tempo.


Ph: J.Gatti

Ma torniamo al vento.

Anche in questo caso l’esperienza ha un peso importante.

Le differenze tra le navi non si limitano alla classificazione per tipologie, e neanche alle dimensioni. La stessa nave, infatti, ha caratteristiche completamente differenti a seconda del pescaggio o del carico che ha in coperta; e la stessa manovra, con la stessa nave, a parità di condizioni, può essere influenzata da improvvisi ostacoli o da diverse condizioni meteomarine.

L’esperienza porta a un’analisi automatica inconscia di numerose variabili che dà, come risultato, la consapevolezza delle accortezze necessarie allo svolgimento di una manovra.

Ovviamente occorre mantenere un margine di sicurezza assolutamente soddisfacente.

Laddove questo margine viene intaccato o quando l’esperienza non è sufficiente, diventa necessario supportare le sensazioni con la matematica. In questo senso ci vengono in aiuto numerose formule, più o meno pratiche, per stabilire la forza del vento in tonnellate.

Ve ne sono alcune che offrono la possibilità di calcolare tale forza in base all’angolo d’incidenza del vento, altre che tengono conto anche della densità dell’aria, qui vi propongo una formula di semplice applicazione che offre risultati comunque attendibili:

Forza del vento (Ton) = Velocità del vento al quadrato in metri al secondo, diviso 18, per la superficie velica esposta in metri quadrati.

Consideriamo, ad esempio, una portacontenitori lunga 366 metri, con un bordo libero di 11 metri, caricata con cinque file di contenitori per tutta la sua lunghezza. Che forza avrà il vento, in tonnellate, soffiando al suo traverso con 25 nodi?

25 nodi corrispondono (più o meno) a 12,5 m/s

La superficie di ogni container è: 2,4 m x 5 = 12 m

Quindi, la superficie velica totale è:

(11+12) x 366 = 8418 mq

Forza del v. a 25 kn= (12,5×12,5)x(8418):18 = 73 Ton circa

Se per la manovra si hanno a disposizione rimorchiatori di ultima generazione da 70 ton, in queste condizioni è consigliabile utilizzarne almeno tre.

Mi fermo qui, consapevole che l’argomento meriterebbe di essere approfondito molto di più.

È comunque nei nostri programmi dedicare un intero video (e un eBook)  al vento e ai suoi segreti.


Ph: J.Gatti

 

Visitate il sito www.standbyengine.com
troverete interessanti articoli che parlano di mare.

 


LA REGGIA DI PORTICI - REAL ACCADEMIA DI MARINA

LA REGGIA DI PORTICI

L'Italia vanta un inestimabile patrimonio artistico, forse il più vasto d'Europa. Dal nord al sud, sono tante le dimore reali che raccontano la storia del nostro paese per cui vale la pena ricordare che da noi si conta il maggior numero di siti UNESCO al mondo: ben 54 censiti nel 2019 dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. Si tratta di luoghi con un enorme valore storico, archeologico e culturale, un immenso patrimonio che attrae ogni anno milioni di visitatori da tutto il mondo.

Le regge in particolare ci fanno immaginare balli di corte, complotti militari, amori clandestini. Quanti segreti si nascondono tra i corridoi intricati come labirinti, tra le fronde dei giardini e nelle grandi stanze dai soffitti a volta? Nessuno può saperlo.

Oggi ci occupiamo della La Reggia di Portici e della

REAL ACCADEMIA DI MARINA

La stupenda Reggia Borbonica, come mostra la carta sotto, é vicinissima a Napoli. La sua costruzione diede vita al cosiddetto Miglio d’oro: una linea disegnata da stupende ville nobiliari lungo la costa da Portici ad Ercolano.


La Reggia di Portici, costruita a partire dal 1738 per volere del re di Napoli, Carlo III di Borbone e della regina, Amalia di Sassonia, é considerata tra gli esempi più significativi di residenza estiva della Casa reale borbonica e della sua corte.

Situata alle pendici del Vesuvio - tra il bosco superiore (dedicato alla caccia) e quello a valle (di natura ornamentale e prospicente il mare) – fa parte della tradizione dell’aristocrazia napoletana di costruire ville periferiche ai piedi del vulcano.

“Ci penserà Iddio, Maria Immacolata e San Gennaro!”

Con questa espressione il sovrano rispondeva a chiunque gli facesse osservare la pericolosità del luogo.

I lavori di costruzione iniziati da Giovanni Antonio Medrano, furono condotti dal 1741 secondo il progetto di Antonio Canevari e conclusi dai celebri Luigi Vanvitelli e Ferdinando Fuga.

Le preziose decorazioni degli interni furono affidate a Giuseppe Canart, Giuseppe Bonito e Vincenzo Re al quale vanno attribuite: le decorazioni architettoniche dello scalone a doppia rampa e le finiture delle sale delle Guardie e del Trono.

Attraversato l’atrio si accede alla parte inferiore del palazzo caratterizzata dalla grande facciata verso il mare e un’ampia terrazza da cui si dipartono due rampe a tenaglia che conducono al parco curato da Francesco Geri.


Tutta la zona, intensamente abitata in epoca storica e conservata dall’eruzione del 79 d.C., si dimostrò ricca di reperti eccezionali che furono valorizzati e sistemati, in fasi successive, nelle stanze della Reggia fin all’allestimento del
Herculanense Museum divenuto ben presto una delle mete preferite all’interno del Grand Tour; oggi il materiale è custodito presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Segnaliamo ancora: gli affreschi di Crescenzo Gamba nelle volte (Allegoria della Verità e Aurora); il Gabinetto in stile Luigi XV; il Gabinetto cinese con pavimento musivo - proveniente da Ercolano - e la Sala Cinese, oggi Aula Magna. Attestazione greche e romane arricchiscono logge, viali, giardini, il Chiosco del Re Carlo, l’Orto fitopatologico e gli altri ambiti. Si fa menzione, inoltre, del “recinto del gioco del pallone” realizzato sotto Ferdinando IV.
Diventata, sul finire del XIX secolo (1872), sito per la Reale Scuola Superiore di Agricoltura e sede di un Orto Botanico nel “giardino soprano della Reggia”, dal 1935 ospita la Facoltà di Agraria della Università di Napoli Federico II.

Possiamo chiudere questo capitolo con un’anonima dichiarazione che ci sembra appropriata: “nel corso del tempo il complesso della Reggia di Portici divenne “luogo di memorie d’arte, di memorie storico-scientifiche e paesaggistiche ed è ancora oggi luogo di contrasti in cui vivono l’anima archeologica e l’anima scientifica”.



Carlo III di Borbone

Si dice che tre sia il numero perfetto, che Carlo III di Borbone fece suo ordinando di costruire, oltre al Palazzo di Capodimonte e la Reggia di Caserta, anche il Palazzo Reale di Portici.

Una delle tesi sulla storia del palazzo vuole che il sovrano abbia scelto la costiera vesuviana dopo essere stato invitato, dal principe di Elboeuf Emanuele Maurizio di Lorena, a trascorrere una giornata nel suo palazzo di Portici, da qui partì l’entusiastica idea di commissionare la costruzione di una Reggia nel 1738.

Un’altra tesi ci racconta che nel 1737 Re Carlo III di Borbone scoprì la zona grazie ad una tempesta che costrinse la sua nave a entrare in fretta nel porto del Granatello a Portici. Il posto piacque molto sia alla Regina Maria Amalia che al Re che decise di farvi costruire una delle sue residenze che divenne poi Reggia ufficiale.

I lavori iniziarono nel 1738, e il Re Carlo acquistò poco dopo anche vaste aree verdi circostanti per realizzare un grande parco ed inglobò nella nuova costruzione anche le ville preesistenti del conte di Palena e del principe di Santobuono espandendosi così verso il mare e acquistando boschi e terreni di altri nobili. I lavori terminarono nel 1742, ma la Reggia non fu sufficiente ad ospitare tutta la corte, e così molti nobili fecero costruire stupende ville nei dintorni, creando una zona bellissima che prese il nome “il miglio d’oro” che abbiamo già citato dando così vita alle Ville Vesuviane.

Palazzo Reale di Portici in un dipinto del XVIII secolo


La reggia presenta una ampia e maestosa facciata terrazzata e munita di balaustre. L'edificio ha una pianta quadrangolare e, l'atrio attraverso cui vi si accedeva da una cancellata in ferro prima e successivamente, grazie alla cosiddetta strada delle Calabrie (oggi via Università) che andava a tagliare in due il parco, è sostenuto da nove volte a pilastri.

Il cortile del palazzo, che in pratica è simile ad un vero e proprio piazzale, presenta sul lato sinistro la caserma delle Guardie Reali e la cappella Palatina (1749), mentre un maestoso scalone (1741) conduce dal vestibolo al primo piano, dove si trova l'appartamento di Carolina Bonaparte.

Le già accennate opere di scavo portarono alla luce numerose opere d’arte di valore, tra cui un tempio con 24 colonne di marmo, che furono sistemate temporaneamente nel Museo di Portici, annesso alla Accademia Ercolanese, dove vengono depositati i reperti provenienti dagli scavi archeologici di Ercolano.

 

Tra monarchia e rivoluzione: una storia tumultuosa

Durante la rivoluzione napoletana del 1799, combattuta dai rivoltosi per rovesciare la monarchia borbonica ed instaurare la Repubblica partenopea, la Reggia fu abbandonata e spogliata di numerose opere d’arte a causa della fuga a Palermo della corte reale, che portò con sé 60 casse piene di reperti. Nel 1806, quando divenne re di Napoli Giuseppe Bonaparte, le antichità rimaste a Portici furono trasferite al Museo di Napoli, dove furono sistemate, dopo il ritorno dei Borbone, anche le opere trasferite precedentemente nella capitale siciliana. Il Museo di Portici trovò così la sua fine, anche se il trasferimento degli affreschi venne concluso solo nel 1827.

Sotto Ferdinando II di Borbone, la reggia acquistò un collegamento diretto con Napoli, grazie alla più antica linea ferroviaria italiana (inaugurata nel 1839), ed ospitò anche il pontefice Pio IX, per divenire progressivamente un sito sempre meno frequentato.

 

Il bosco e i giardini all’inglese

Di particolare rilievo è il bosco, disegnato con ampi viali contornati di giardini all’inglese che fanno da sfondo ad opere d’arte tra cui vanno segnalate: la Fontana delle sirene, il Chiosco di re Carlo, la Fontana dei cigni e persino un anfiteatro.

All’interno del parco fu anche allestito uno zoo con specie di animali esotici che il sovrano Ferdinando IV volle acquistare all’estero.

Oggi la reggia ospita la sede della Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” ed alcuni musei.

 



Pensato come dimora estiva del Corte, il Palazzo divenne col tempo residenza reale e sede del Museo Ercolanense, voluto da Re Carlo per raccogliere gli oggetti trovati nello stesso periodo ad Ercolano, Pompei e Stabia.


Lo scalone

Le collezioni archeologiche andarono poi a Napoli

Nei primi anni dell’Ottocento le collezioni archeologiche furono trasferite a Napoli e costituirono il nucleo dell’attuale Museo Archeologico Nazionale.

In seguito, durante il Decennio francese (1806–1815), la Reggia fu trasformata da Gioacchino Murat che fece cambiare tutto il mobilio secondo il gusto dell’Impero francese.

 


Con il ritorno dei Borbone la Reggia fu al centro dell’attenzione reale in particolare quando il 3 ottobre 1839 fu inaugurata la linea ferroviaria, la prima in Europa, che collegava Napoli alla Reggia.

 

La scala affrescata dell'ala a mare della Reggia di Portici


 

All’interno del Palazzo Reale si accede al primo piano con un magnifico scalone lungo il quale sono state sistemate le statue trovate ad Ercolano e che fu decorato nei soffitti dallo scenografo del San Carlo. Bellissime le Sale delle Guardie e quella del Trono, stupendo anche il parco, con un giardino all’inglese degradante verso il mare con lunghi viali.

 


Gli interni del Palazzo

Dal 1872 la Reggia ospitò una Scuola di Agraria che poi si è trasformata, negli anni 30 del ‘900, in facoltà di Scienze Agrarie dell’Università Federico II di Napoli.



Oggi la Reggia ospita anche l’Orto Botanico di Portici e L’Herculanense Museum che è l’anima archeologica del polo museale del Sito Reale di Portici e vari Musei delle Scienze Agrarie.

L’orto botanico di Portici

Della Reggia è parte integrante anche l’Orto botanico di Portici che occupa parte del parco della Reggia. Ancora oggi sono visibili le opere architettoniche realizzate nel Settecento: cassoni per le piante, muri di cinta, busti marmorei e fontane, aiuole specializzate, vasche con piante acquatiche e la Serra Pedicino.

 


Ripartita secondo un ordine sistematico, l’esposizione botanica è organizzata per distribuzione geografica e relative tipologie ambientali: vi si allevano conifere nordiche, flora del Mediterraneo, magnolie e piante provenienti dal Centro e Sud America, Australia, Sudafrica e di origine euroasiatica.

C’è anche un giardino storico e, all’ombra dei lecci, c’è il giardino delle felci che è uno degli angoli più suggestivi dell’Orto. Vi si coltivano oltre 400 specie provenienti dai deserti africani e americani. Al verde del giardino storico, si contrappone la natura quasi selvaggia del bosco circostante. L’Orto botanico e il bosco sono luoghi molto belli che meritano di essere visitatati.

ALTRE MERAVIGLIE DI PORTICI

I lavori, realizzati con fondi europei e diretti dall’architetto Ciro La Greca, proseguirono tra mille problemi, ma anche tante soddisfazioni, non solo per la meraviglia della capriata palladiana, ma come la scoperta sotto strati e strati d’intonaco – rimosso con un bisturi da restauro del graffito di un vascello inglese, forse un omaggio alla forte presenza dei figli d’Albione nel Regno, e del disegno di un pentagramma con alcune note – tracciato con la “sanguigna”, una matita rossa in uso fino al 1806 – che all’epoca suscitarono grande interesse tra gli esperti.


Riportiamo la consulenza sul vascello inglese che è stata gentilmente fornita dall’ingegnere navale Lucio Militano, autore, tra l’altro, di libri molto ben documentati sulla Marineria Borbonica: «Il disegno è molto schematico e fatto, probabilmente, non da uomo di mare per certi errori sulla struttura degli alberi e la forma dello scafo. Armata a “nave” con tre alberi a vele quadre, tre vele di prua (fiocchi) e vela di poppa. La vela di poppa (randa di mezzana) fa pensare ad un armamento velico tipico della seconda metà del XVIII secolo in poi; sullo scafo si vedono i portelli dei cannoni, ve ne sono 32 evidenti nei due ponti inferiori e dovrebbero essercene altri 5/6 sul ponte di coperta, per un totale (stimato) di 80 cannoni. In tal caso sarebbe un vascello di terzo rango secondo la terminologia in uso preso la Royal Navy (secoli XVIII, XIX). La nave potrebbe essere la rappresentazione di una della flotta di Nelson al tempo di Ferdinando IV (ma anche successivo). Era un tipo di nave molto diffuso nella Royal Navy, infatti nel 1805 su 175 navi, 147 erano di terzo rango. Per la cronaca il vascello Monarca della Marina Duosiciliana (costruito a Castellammare di Stabia) e trasformato in nave a propulsione meccanica ad elica nel 1854, apparteneva a questa classificazione (detta anche a due ponti). Potrebbe essere stata una nave di questo tipo.»

 


REAL ACCADEMIA DI MARINA

La Real accademia di marina di Napoli, fondata il 4 dicembre 1735 da Carlo III di Borbone sotto il nome di Academia de los Guardia Estendardes de las Galeras, è stato l'istituto di formazione degli ufficiali dell’Armata di mare del Regno di Napoli e quindi delle Due Sicilie.  Dal 1861 al 1878 formò gli allievi ufficiali della Regia Marina Italiana. È la più antica accademia navale d'Italia, nonché progenitrice, insieme alla sua omologa di Genova, dell’Accademia Navale di Livorno.

Al fine di aumentare il numero degli aspiranti, gli anni di corso furono ridotti da quattro a tre, ed il ventaglio d'età fu ampliato fino a comprendere allievi dagli 11 ai 16 anni.

Da un punto di vista dei programmi di insegnamento, l'istituto era egualmente provvisto di elementi teorici e pratici. Oltre alla storia, alla geografia, alla lingua inglese e francese, alla matematica, alla trigonometria piana e sferica, alla fisica sperimentale ed allo studio dei trattati pratici per la costruzione dei vascelli; gli allievi facevano pratica due volte a settimana di armi bianche e da fuoco, artiglierie comprese, e si esercitavano in mare a tenere l'ordine di battaglia.


Sir John Acton

Il sistema di addestramento sul modello spagnolo rimase in vigore fino all'avvento, in qualità di ministro, dell'ammiraglio inglese John Acton, il quale impresse un notevole impulso allo sviluppo della flotta militare.

Come detto in precedenza, l'intendimento originario era quello di allocare i cadetti in un apposito edificio alla Darsena di Napoli. Permanendo tuttavia ancora negli anni Settanta del XVIII secolo l'indisponibilità di tale edificio, fu deciso il trasferimento dell'Accademia a Portici.

Il trasferimento a Portici (1780-1793)

La scelta di trasferire a Portici l'Accademia non fu casuale, in quanto la cittadina vesuviana diventava, da marzo ad ottobre, il centro della vita di corte.

La scelta dell'edificio da destinare all'Accademia di Marina cadde sull'antico convento dei Gesuiti, il quale, alla cacciata dell'ordine dal Regno, avvenuta mediante la prammatica del 31 ottobre 1767, era stato acquisito ai beni della corona. L'antico monastero, similmente a quanto avvenuto per quello che avrebbe ospitato la Reale Accademia della Nunziatella di Napoli, era già stato destinato ad usi militari. Esso ospitava infatti i cadetti del Battaglione Real Ferdinando, corpo di Casa Reale del quale lo stesso re Ferdinando IV di Borbone aveva il grado di colonnello.

L'edificio aveva subìto, rispetto alle origini, numerosi miglioramenti tra cui quelli operati da Carlo Vanvitelli nel 1771, i quali avevano lo scopo di rendere confortevole l'alloggiamento dei cadetti, in quanto i Gesuiti avevano lasciato i luoghi in condizioni pietose. I lavori, iniziati nell'autunno di quello stesso anno, procedettero rapidamente, tanto da potersi considerare ultimati il 27 marzo 1777. Al completamento dei lavori, i cadetti del Battaglione Real Ferdinando vi ebbero accesso, seguendo durante l'anno la corte negli spostamenti tra Napoli e Portici.

All'inizio del giugno 1779, in funzione della determinazione di portare a Portici l'Accademia di Marina, vi fu inviato l'ingegnere delle opere idrauliche della Marina Giuseppe Bompiede, con l'incarico di studiare la situazione e disegnare i piani di un ampliamento. Il progetto risultante vide la realizzazione di un nuovo braccio dell'edificio. I lavori, affidati al Tenente di Vascello, ingegnere idraulico, Salvatore Carrabba, iniziarono alla fine dell'estate del 1779; e furono completati in una prima tranche entro il febbraio 1780. Il completamento della prima fase consentì il trasferimento a Portici di un Comandante, due subalterni, e venti guardiamarina, uno per stanza. Il proseguimento dei lavori consentì il trasferimento dell'intero corpo docente, degli ufficiali, del personale di servizio e di tutti i 40 guardiamarina nell'edificio entro l'estate del 1780.

Il trasferimento nella nuova sede, e la sua prossimità al porto del Granatello, consentiva l'agevole addestramento dei cadetti in mare, il quale veniva effettuato a bordo di una galeotta ivi ancorata. La pratica di artiglieria veniva invece effettuata presso il Fortino del Granatello, antica costruzione sorta intorno ad una precedente torre di avvistamento costruita ai tempi del viceré di Napoli Pedro Alvarez de Toledo y Zúñiga.

L'Accademia fu oggetto di frequenti visite da parte di Ferdinando IV, il quale fin da giovanissimo coltivò un forte interesse per i giochi di guerra. Nelle acque antistanti il Granatello, infatti, e nel bosco che circondava la locale Reggia, si svolgevano spesso simulazioni di combattimenti, cui il re partecipava di persona. All'Accademia passarono inoltre numerosi personaggi di rilievo del tempo, tra cui, il 17 febbraio 1784, il re di Svezia Gustavo III, che ne rimase molto favorevolmente impressionato.


Francesco Caracciolo

La sede di Portici dell'Accademia, che in questo periodo ospitò come allievo il futuro ammiraglio Francesco Caracciolo, fu abbandonata alla fine del 1793, quando l'istituto fu trasferito in un edificio della capitale.

l secondo periodo napoletano (1793-1805)

La sede di Pizzofalcone

Il periodo palermitano (1805-1816)

Il terzo periodo napoletano (1816-18619

Il monastero dei SS. Severino e Sossio (1816-1835)

La sede di Santa Lucia (1843-1878)

Nel regno d'Italia (1861-1878)

A seguito dell’Unità d’Italia e dell'istituzione nel 1861 della Regia Marina proseguì nella formazione degli allievi ufficiali di marina fino al 1868, quando la Reale Accademia di marina fu unificata con la "Regia scuola di marina" di Genova, già della Marina del Regno di Sardegna per creare un unico istituto, con decreto del 20 settembre 1868: la Regia scuola di marineria. L’allora Ministro della Marina, ammiraglio Augusto Riboty, unificò le due scuole in un unico Istituto, e le suddivise in due Comandi, detti Divisioni. Da quel momento gli allievi seguirono i primi due anni di corso presso la sede di Napoli e gli ultimi due a Genova.

Nel 1878, con la trasformazione della Scuola in Accademia Navale con legge presentata dall'allora ministro della Marina, l'ammiraglio Benedetto Brin, furono soppresse le sedi di Napoli e Genova, e fu indicata come sede unica Livorno.

CONCLUSIONE

Come abbiamo visto in questo panorama di valori storici ed artistici inestimabili, PORTICI fa parte di quella storia, arte, cultura, paesaggi, ma anche tradizione, folklore, miti, leggende che hanno fatto grande l’Italia nel mondo. Una miscela di risorse che devono essere conosciute da tutti e tradursi in ricchezza per l’umanità.

Ci ha provato in Parlamento il senatore Sergio Puglia che ha ottenuto l’approvazione dell’ordine del giorno votante la valorizzazione del Real Sito di Portici. Il Governo “opererà nelle opportune sedi al fine di ottenere, da parte dell’Unesco, il riconoscimento del valore universale e l’inserimento dello stesso nella lista dei patrimoni dell’Umanità”.

Carlo GATTI

Rapallo, 14 Settembre 2020


L'MPRESA SEMPRE ATTUALE DI UN CAPITANO CAMOGLIESE

L'IMPRESA SEMPRE ATTUALE DI UN CAPITANO CAMOGLIESE

Molto si dice sui brigantini e l'epoca eroica della vela. Qualcuno evidenzia negativamente la vetustà dell'argomento, cioè afferma che tale periodo appartiene ormai a storie desuete, fuori dai nostri tempi.

Eppure, il nostro Civico Museo Marinaro "G.B. Ferrari" conserva molte testimonianze di quell'epoca che non sono avvolte da antiquate ragnatele del passato, ma "au contraire" - come in ogni museo - si rigenerano, soprattutto per la fruizione delle generazioni future.

Un esempio remoto, e al tempo stesso attuale, è il dipinto raffigurante la nave a vela Trojan, che fu gestita dai fratelli Mortola, ramo "Liggia". Il veliero balzò alle vette della notorietà quando il suo capitano, Filippo Avegno di Camogli, la condusse come prima nave in assoluto nel porto di Gulfport, nello stato del Mississippi, Stati Uniti.
A quel tempo, la struttura portuale era stata appena inaugurata e gli americani erano perciò impazienti di iniziare il loro business del traffico di legname. Tale notizia è riferita dall'insigne custode della cultura marinara camogliese, Giò Bono Ferrari. Ferrari omette però il periodo storico di riferimento di quell'impresa ma, d'altro canto, spiega esaustivamente che il capitano Avegno non solo "inaugurò" il porto statunitense, ma anzi contribuì ad effettuare degli approfonditi sondaggi nei tortuosi fondali di quell'accesso. Fatto sta, che altre navi, dapprima riluttanti ad entrare in porto, si convinsero della sicurezza di quell'approdo: per Avegno fu perciò un tripudio di premi e riconoscimenti.
Bene, si dirà, abbiamo letto il testo di Ferrari; cosa c'è di nuovo?
Ecco, qui si richiama il concetto di rigenerazione e riferimento alle generazioni future.

Tempo fa, la Società Capitani e Macchinisti Navali di Camogli fu contattata dalla Società Storica di Gulfport. Come è noto, gli americani sono attentissimi al loro passato, per cui chiesero se avevamo disponibile un'immagine ben definita della nave Trojan, la quale costituisce ovviamente una pietra miliare nella storia di quel porto. I Capitani di Camogli inviarono immediatamente la foto del dipinto presente in Museo e, in Mississippi, di conseguenza, i nostri interlocutori furono euforici di quella trasmissione.


Il dipinto del Trojan presente al Museo Marinaro di Camogli

Quando la comunicazione con gli amici americani fu stabilita, iniziò un fitto scambio di informazioni sulla nave, dei suoi armatori, delle immagini. Anche noi fummo arricchiti di testimonianze: per esempio, le foto del 24 gennaio 1902 (data effettiva - finalmente nota -  dell'inaugurazione del porto di Gulfport), che mostrano la "nostra" nave ormeggiata e imbandierata!


Il Trojan ormeggiato a Gulfport: è il 24 gennaio 1902

Ma la collaborazione non termina qui: all’inaugurazione della nuova sede della Società Storica di Gulfport – prevista per il 2020 – verrà esposto un modello del veliero lungo un metro e mezzo, attualmente in costruzione presso il laboratorio di un professionista. E aggiungiamo la più grande soddisfazione: il logo della Società statunitense, che è un’immagine stilizzata del Trojan, farà per sempre una splendida pubblicità alla professionalità e intraprendenza camogliese.


La prossima sede della Società Storica di Gulfport. Il logo dell'ente raffigura il
veliero camogliese Trojan (vedi immagine sopra)

Come si vede, le gesta degli artefici della navigazione a vela camogliese sopravvivono nel tempo; anzi, c'è da aspettarsi che altri legami riaffiorino dagli anfratti più inaspettati e che - certamente - ci riempiono d'orgoglio.

BRUNO MALATESTA

10/2019


L'AFFONDAMENTO DEL P.FO ANDREA SGARALLINO

L’AFFONDAMENTO DELL’ANDREA SGARALLINO

PORTOFERRAIO - ISOLA D’ELBA

La nave trasportava civili e militari che tornavano all'Isola d'Elba dopo l'8 settembre 1943. Fu la più grave sciagura nelle acque italiane durante la guerra, con oltre 300 morti.


Il piroscafo ANDREA SGARALLINO fu costruito dai cantieri Orlando di Livorno nel 1930 e portava il nome di un garibaldino della Spedizione dei Mille. Stazzava 731 tonnellate e poteva trasportare 330 passeggeri alla velocità massima di 14 nodi (26 Km/h).

La nave prese servizio nella flotta della Società Anonima di Navigazione Toscana, passata in seguito sotto il controllo della Terni ed infine ceduto ad un armatore privato. Fu assegnato al servizio di collegamento tra Piombino e Portoferraio.

Allo scoppio della guerra, il 10 giugno 1940, il piroscafo fu requisito dalla Regia Marina e venne armato. In versione bellica con livrea mimetica, L'Andrea Sgarallino fu riclassificato Nave Ausiliaria F-123 e cominciò ad operare nel teatro del Mediterraneo.

La Vedetta Foranea Sgarallino (nave adibita al controllo delle zone portuali) entrerà nella storia dopo la resa dell’Italia l'8 settembre 1943.

Una settimana dopo il proclama Badoglio le forze germaniche attaccarono le guarnigioni italiane sull'Isola d'Elba e, per costringerle rapidamente alla resa, il 16 settembre bombardarono Portoferraio con 10 Stukas. L'Andrea Sgarallino fu requisito in porto e nuovamente posto in servizio di collegamento con il continente il 21 settembre.


Con questa livrea mimetizzata, il piroscafo Andrea Sgarallino fu silurato a poche miglia a Nord Est dell’isola d’Elba dal sommergibile inglese H.M.S UPROAR. Era il 22 settembre 1943.



H.M.S UPROAR P31 - IL KILLER DEL PIROSCAFO ANDREA SGARALLINO

L’ULTIMO VIAGGIO

SULLA ROTTA

Piombino-Portoferraio.

Ore 8:30 del 22 settembre 1943.


Il giorno successivo il piroscafo, che indossava ancora la livrea mimetica e batteva bandiera tedesca, salpò da Piombino poco dopo le 8:30 del mattino e fece rotta come sempre verso l'Isola d'Elba. Aveva caricato circa 330 passeggeri, molti dei quali erano militari italiani sbandati che rientravano presso le loro famiglie sull'isola dell'Arcipelago toscano. Il tratto di mare Piombino-Portoferraio, 14 miglia nautiche, un’ora di navigazione per quella nave, come qualcuno aveva sospettato, era il più pericoloso per gli agguati tesi dai sottomarini britannici. Nell’ambiente si sapeva e qualcuno suggeriva che sarebbe stato meglio procedere per la Corsica che era già stata occupata dagli Alleati che avrebbero sicuramente offerto la protezione aerea.

Prevalsero gli ottimisti imprudenti e, quel giorno, ogni famiglia elbana pianse un figlio, un marito, un congiunto, un parente, un amico.

La nave militarizzata italiana, partita dalla vicina Piombino, era ormai vicina al suo porto di destinazione Portoferraio per sbarcare civili e militari che tornavano a casa dopo l’8 settembre. Quei poveri ragazzi, dopo mille vicissitudini, trovarono la morte nell’ultimo braccio di mare, quando vedevano già le proprie case e le proprie famiglie nell’attesa di poterli riabbracciare.

Il loro KILLER, il smg. H.M.S UPROAR P31, era in agguato proprio davanti alle porte di casa, in attesa di colpirlo a tradimento con un siluro molto preciso nel fianco.

Riprendiamo come FONTE attendibile un accurato servizio di PANORAMA sul siluramento e rapido affondamento del piroscafo ANDREA SGARALLINO.

“Dai racconti di uno dei pochissimi superstiti, Stefano Campodonico, durante il viaggio l'equipaggio discusse a lungo riguardo all'opportunità di attraccare sulle coste della Corsica già occupata dagli Alleati. Verso la fine della rotta, l'Andrea Sgarallino superò la località Nisportino (Rio nell'Elba) nella zona Nord-orientale dell'isola dove giungeva a vista del Forte Stella di Portoferraio. Alle 9:49 circa una terribile esplosione udita distintamente nell'abitato di Portoferraio squarciò lo scafo nella nave. L'Andrea Sgarallino era stato colpito dal siluro lanciato dal sommergibile britannico "HMS Uproar" (che aveva partecipato all'affondamento della Bismarck). Comandato dal Tenente di Vascello Laurence Edward Herrick, L'Uproar aveva inquadrato la livrea nemica e non aveva avuto dubbi sul siluramento, che in pochi minuti causò la tragedia. L'Andrea Sgarallino, ferito a morte, affondò in fiamme in pochi minuti dopo essersi spezzato in due tronconi. Quel giorno piovigginava sull'Elba e molti dei passeggeri non ebbero scampo perché si erano stipati sottocoperta per ripararsi dalle intemperie.

Molti di loro furono storditi dalla forza dell'esplosione o scaraventati contro le pareti in ferro della nave per lo spostamento d'aria ed affogarono risucchiati dal vortice della nave che si inabissava. Soltanto quattro di loro si salveranno, aggrappati ai resti dell'imbarcazione che avrebbe dovuto riportarli alle loro case: oltre al citato Stefano Campodonico (che perderà una gamba a causa delle ferite) solo altri tre furono i superstiti. Saranno salvati da pescherecci dopo alcune ore tra i flutti poiché si temeva che il sommergibile inglese potesse colpire ancora. Alla fine della giornata, saranno recuperati solamente 11 degli oltre 300 corpi tra cui quello del Comandante dello Sgarallino, Il Sottotenente di Vascello Carmelo Ghersi”.

IL RELITTO

ALBUM FOTOGRAFICO

DELL’ANDREA SGARALLINO IN PIENA ATTIVITA’

E DEL SUO RELITTO SUL FONDO



Sopra e sotto – Il piroscafo ANDREA SGARALLINO in una foto scattata quando era ancora una nave passeggeri civile che mostrava sulla ciminiera il logo della Società Anonima di Navigazione Toscana. Come abbiamo già visto, la nave fu requisita dalla Regia Marina il 10 giugno 1940 quando L’Italia entrò nella Seconda guerra mondiale.

Le foto che seguono mostrano il relitto riverso sul fianco sinistro alla profondità di 66 metri.






Carlo GATTI

Rapallo, 20 agosto 2019

 


Identificato il "SOMMERGIBILE di Portofino"

 

Comunicato stampa 13 novembre 2011

MARE NOSTRUM RAPALLO - Associazione di studi e cultura marinara

Identificato ufficialmente il “sommergibile di Portofino”. Si tratta dell’U-Boot 455 scomparso il 6 aprile 1944

Nell’ambito della manifestazione Mare Nostrum 2011 alla sala congressi del Gran Caffè Rapallo sabato scorso si è tenuto il convegno-dibattito sul tema “U Boot 455: svelato l’ultimo mistero”.

All’incontro era  presente un folto pubblico di appassionati ed esperti tra cui anche numerosi soci dell’associazione AIDMEN (Arte e documentazione marinara), di aderenti al gruppo Betasom e dagli amici del Museo marinaro di Chiavari guidati dal presidente Ernani Andreatta.

L’incontro promosso dall’associazione Mare Nostrum Rapallo era coordinato dal presidente com.te Carlo Gatti e si avvaleva quali relatori della presenza di Emilio Carta e Lorenzo Del Veneziano autori del libro storico illustrativo “Il mistero dell’U Boot 455 – ventinove immersioni fra i relitti della provincia di Genova”.

Durante l’incontro sono state dibattute le varie teorie sull’identità del sottomarino scoperto ad una profondità di oltre 100 metri dal noto sub Lorenzo Del Veneziano che per primo lo aveva filmato e fotografato scatenando l’interesse di storici ed esperti.

Il sottomarino oggi si presenta  con la prua rivolta verso l’alto mentre la parte poppiera si era praticamente disintegrata per lo scoppio di una mina la notte del 6 aprile 1944.

A dividere gli esperti sulla certa identità del sommergibile era una grossa rete a strascico che copriva parzialmente lo scafo impedendo di fatto di verificare se il relitto avesse le mitragliere o meno.

“Ciò avrebbe reso inconfutabile che il sommergibile tedesco fosse operativo e non un vecchio sottomarino portato alla demolizione – spiega Lorenzo Del Veneziano – In una successiva esplorazione, perfezionata assieme ad altri esperti sub, siamo riusciti a tranciare quella rete e a sollevarla parzialmente. Ciò ha evidenziato la presenza dei supporti delle mitragliere le cui canne si sono probabilmente spezzate sotto la pressione della pesante rete all’atto della sua rimozione”.

“A spezzare le ultime perplessità, se ancora ce ne fosse stato bisogno, è stato il ritrovamento di una mitragliera da 37 mm parzialmente infossata nel fango scoperta ad una distanza di una ventina di metri dal relitto dell’U Boot 455 – aggiunge Emilio Carta – A dirla tutta, insomma, il sommergibile era pienamente operativo e si chiude così il cerchio delle ipotesi: l’U Boot U 455 era l’unico che ancora mancava all’appello nel Mediterraneo e gli archivi tedeschi lo confermano. Speriamo che nessuno tenti di penetrare all’interno di quel battello divenuto un sacrario di guerra contenente i corpi dei 54 uomini dell’equipaggio.

Per info ed eventuali foto:

Emilio Carta cell.338 8601725

Rapallo, 15.11.11