LE CARTOLINE DI LEO - VALLE CHRISTI
"LE CARTOLINE DI LEO"
VALLE CHRISTI
Foto Dino Alloi
Rapallo non mi è mai sembrata una bellissima città, é sicuramente un borgo vivibile e con il suo perché, mai niente però che mi avesse mai convinto che Rapallo fosse davvero bella.
Tuttavia, ho sempre riconosciuto a Rapallo la particolarità di saper conservare alcuni dei propri punti di fascino, veri e propri pezzi di storia spuntati fuori da periodi lontani nel tempo.
La PORTA DELLE SALINE
IL PONTE cosiddetto di ANNIBALE
Ce lo mostrano Valle Christi, il Ponte Annibale, la Porta delle Saline ed il Castello di Rapallo.
Non ho visto, per ragioni anagrafiche, Rapallo nei suoi anni d’oro, l’ho vista sempre piena di case, palazzi e viavai di turisti, però mi è sempre piaciuto vedere come nel bel mezzo di tutto questo, Rapallo ci tenesse a conservare alcuni di questi monumenti sopra accennati.
Valle Christi, però, non è come gli altri monumenti Rapallini, che si ergono nel pieno centro di quei palazzi e del sempre crescente traffico, Valle Christi è maggiormente nascosta agli occhi dei turisti ed è qualche chilometro più lontano dal mare rispetto agli altri.
Forse, se non fosse per l’enorme campo da golf che sembra quasi proteggerlo da un’esagerata urbanizzazione (Rapallina) che con il tempo prese piede nel borgo, adesso Valle Christi non sarebbe altro che un ricordo, pressoché dimenticato nel grigio di qualche edificio o di una strada.
Di certo e non avremmo più un pezzo di storia ancora leggibile da più di 800 anni.
Un attestato del 3 aprile 1204 segna l’approvazione dell’arcivescovo Ottone Ghillini per la donazione del terreno su cui poi verrà costruito il monastero sotto la volontà di due nobildonne genovesi (Altilia e Tiba Malfanti). Le due sorelle infatti donarono il terreno all’Ordine Cistercense, con la volontà che vi fosse costruito un monastero per poi ritirarsi personalmente nella vita monacale.
La costruzione fu completata all’inizio del 1206 ed un articolo del 7 Aprile dello stesso anno dimostrava che il monastero era già abitato da alcune suore.
Il monastero di Valle Christi, nei 300 anni per cui verrà abitato, conquisterà una discreta fetta di notorietà e verrà presto associata all’operosità ed alla santità di alcune monache.
Dopo questi 300 anni, nel 1502, ad abitare nel monastero rimasero solo 2 suore, motivo per cui il convento chiuse e queste vennero trasferite in altri edifici religiosi.
La chiesa romanica si mostrò inospitale per le suore del nuovo ordine religioso a causa dell’alta insalubrità del luogo e della distanza del monastero dal centro Rapallino; delle 22 nuove suore solo 5 non chiesero di essere trasferite.
La vicinanza ad un centro abitato diventò essenziale quando cominciarono gli sbarchi e gli assalti sempre più frequenti dei pirati nella metà del XVI secolo, esempio ne è lo sbarco di Dragut a Rapallo nel 1549.
Nel 1573 il monastero venne ufficialmente chiuso ed il terreno venne venduto per circa dieci mila lire genovesi.
Anche tutto ciò che era dentro il monastero venne venduto poiché all’interno dell’edificio si situava una decorosa collezione di beni dal valore altissimo, tra cui anche un quadro di Domenico Fiasella.
La Leggenda
Sono diverse le leggende attribuite al monastero Rapallino, ma tutte ruotano intorno a delle eventuali urla che tormentano l’edificio nelle notti senza luna.
Questo perché la leggenda a cui viene dato maggior credito, l’unica con un eventuale fondo di verità, narra proprio del fantasma di una monaca che si aggira tra le antiche mura dell’edificio e che dovrebbe urlare con la propria figlia mai nata per tormentare i propri assassini.
La monaca si innamorò follemente di un pastore del posto con cui prese l’imprudente decisione di infrangere la regola di castità.
Nel momento in cui le altre monache vennero a saperlo, la trasgressiva venne murata incinta, ancora incinta della bambina.
Nel 1903 il monastero di Valle Christi divenne un patrimonio nazionale rimanendo intoccabile dal fenomeno di urbanizzazione Rapallina conservandosi - Anche se non nelle migliori delle condizioni - come un monumento storico e diventando fonte di vicende storiche e leggende impossibili
LEONARDO D'ESTE
Rapallo, 17 Dicembre 2020
NELLA MANOVRA, SAPER MANOVRARE E’ TUTTO?
NELLA MANOVRA, SAPER MANOVRARE E’ TUTTO?
by JOHN GATTI•23 OTTOBRE 2020•13 MINUTI
Apro uno spiraglio su un momento particolare della manovra:
Voltiamo il rimorchiatore!
Portare una nave in banchina, o disormeggiarla per poi accompagnarla fuori dalle ostruzioni portuali, significa pianificare un’operazione.
Un po’ come guardare la figura per intero, scegliere i pezzi del puzzle, predisporli nel giusto ordine e fare attenzione affinché combacino bene.
Legare, incocciare o voltare un rimorchiatore – il termine usato varia da porto a porto – è un’operazione delicata.
Cerchiamo di capire quali sono le procedure più corrette per evitare di correre rischi inutili e rendere l’operazione fluida ed efficace.
Nel tempo sono successi numerosi incidenti che hanno visto coinvolti rimorchiatori che operavano nelle vicinanze di navi in movimento.
Nella maggior parte dei casi è stata individuata come causa principale di questi sinistri, la velocità! A seguire abbiamo l’errore umano, l’inesperienza e il tipo di rimorchiatore utilizzato.
In realtà c’è un altro aspetto da considerare che, in qualche modo, emerge soprattutto dai ricordi, visto che io stesso ho passato quella fase.
Mi riferisco alla naturale compartimentazione delle competenze.
Per diventare piloti si segue un percorso preciso che matura in una professionalità specifica e approfondita.
Una visione abbastanza completa la si raggiunge solo dopo esperienze maturate in molti anni di problemi risolti.
Nella prima fase si tende a concentrarsi sul “nocciolo” della manovra, sulla tecnica e sulla buona riuscita del contratto affrontato; obiettivo comunque ampio e impegnativo.
È solo quando si raggiunge un certo grado di tranquillità nello svolgimento del lavoro che si riesce a considerare, con interesse ed efficacia, anche il contorno del nocciolo: l’estetica della manovra, la fluidità, l’equilibrio obiettivo delle decisioni e dei consigli e, cosa molto importante, il ruolo e la dinamica degli altri soggetti più strettamente coinvolti. Mi riferisco al comandante della nave con il suo equipaggio, agli ormeggiatori e ai rimorchiatori.
Non basta sapere che ci sono, bisogna riuscire a guardare le cose dal loro punto di vista, capire i loro problemi, le loro necessità e i loro punti forti. Solo così si riuscirà a lavorare meglio e più in sicurezza.
Non è scontato che un pilota sappia le caratteristiche del rimorchiatore che volterà a prora, come non è scontato che sia perfettamente conscio delle difficoltà che, il comandante del rimorchiatore, potrebbe incontrare per quel nodo di velocità in piú della nave, o i possibili effetti di un cavo mollato troppo velocemente a poppa.
Come ho già detto è un aspetto importante, che sale la classifica delle priorità solo dopo che altri aspetti della manovra diventano talmente da familiari da non essere considerati più come problemi prioritari.
Ci vuole tempo.
Ph:J.Gatti
È in questa ottica che voglio affrontare, in maniera leggera e discorsiva, i punti che necessitano di un passaggio mentale condiviso.
Prima di entrare nel vivo però, dobbiamo parlare brevemente delle forze e degli effetti a cui è soggetto un rimorchiatore quando naviga in prossimità di una nave in movimento.
Queste forze aumentano con l’incremento della velocità della nave e con la diminuzione della distanza nave-rimorchiatore: più è alta la velocità e minore è la distanza, maggiori sono le forze di interazione che intervengono tra i due scafi. Oltre a questi due fattori, ad aumentare gli effetti concorrono anche le forme delle opere vive, l’underkeel clearance, l’assetto della nave, il pescaggio, ecc.
Le zone maggiormente interessate sono quelle vicine alla prora, molto meno quelle prossime al centro nave – questo è principalmente dovuto alla forma dello scafo – e risultano particolarmente insidiose quando il rimorchiatore si avvicina per essere voltato.
In quella fase, sapere esattamente a cosa si va incontro è praticamente impossibile. Come già detto, gli effetti subiscono numerose influenze e l’esperienza del comandante del rimorchiatore, unita a buone capacità di manovra del mezzo, incide molto sul livello generale di sicurezza dell’operazione, ma la cosa certa è che:
diminuendo la velocità diminuiscono anche gli effetti di interazione
Volendo rimandare l’approfondimento di un argomento che merita ben più di poche righe, semplifico citando solo alcuni dei rimorchiatori più utilizzati al mondo: quelli convenzionali, gli azimuth stern drive o ASD e i Tractor Tugs, o ATD, così chiamati perché hanno i propulsori posizionati verso prora.
Ph: M.Garipoli
Ho già detto che l’area più soggetta a queste forze d’interazione è quella prodiera e il rimorchiatore che viene voltato a prora si trova necessariamente a operare molto vicino allo scafo. In questo caso, quelli che hanno i propulsori vicini al bulbo della nave, se si trovassero nella necessità di doversi disimpegnare velocemente da una situazione potenzialmente pericolosa, si troverebbero a utilizzare timoni o propulsori in un’area soggetta a forze imprevedibili e non lineari, che contrasterebbero l’esecuzione della manovra. Questo è il motivo per cui la maggior parte degli incidenti si registra con il rimorchiatore che deve voltare a prua e dotato di propulsione poppiera.
Sarebbe quindi meglio, potendo scegliere, utilizzare a prora i Tractor Tugs.
In ogni caso, due regole che andrebbero sempre rispettate sono le seguenti:
· se a prora vengono presi più rimorchiatori, voltare per primo sempre quello al centro perché, in caso di emergenza (blackout, avaria, ecc.) avrebbe libere le vie di fuga laterali;
· in caso di utilizzo di più rimorchiatori, voltare prima quello a poppa; in questo modo potrà intervenire, in caso di necessità, aiutando il controllo della nave o rallentandone la velocità, mentre si cerca di voltare il rimorchiatore a prora.
Per quanto riguarda la procedura di avvicinamento del rimorchiatore alla prua della nave in movimento, ritengo pericoloso quasiasi approccio frontale, sia che il rimorchiatore aspetti la nave lungo la sua rotta per poi anticiparla una volta raggiunto, sia che – ancora peggio – il rimorchiatore vada incontro alla prora in controcorsa. In caso di avaria ai propulsori o agli organi di governo l’impatto sarebbe probabilmente inevitabile.
La soluzione che preferisco è quella che vede il rimorchiatore affiancare la nave in una rotta parallela, sorpassarla e, restando laterale alla prua dal lato sottovento, prende l’heaving line e inizia le operazioni di incoccio completamente libero.
Ph: J.Gatti
Parliamo ora di velocità. Argomento delicato e influenzato da diverse variabili.
· se parliamo di ASD da voltare a prora, o comunque di rimorchiatore tradizionale con i propulsori a poppa, minore è la velocità e meglio è; direi che un buon limite massimo potrebbe essere quello dei 6 nodi;
· se utilizziamo un Tractor Tug, allora andrebbe considerata anche la velocità massima del rimorchiatore e l’esperienza del suo comandante, ma direi che 6/7 nodi sarebbero accettabilissimi (per esperienza personale, e ascoltando il parere di diversi comandanti di rimorchiatori, direi che sono accettabili anche velocità superiori);
· quando il rimorchiatore deve essere voltato a poppa o lateralmente, il problema “sicurezza” assume un peso diverso e, di conseguenza, anche la velocità ha diversa rilevanza; 6/8 nodi possono andare bene.
È necessario sottolineare come, per un comandante di rimorchiatori, l’esperienza, l’abilità personale e la conoscenza del proprio mezzo influenzino enormemente il fattore “sicurezza”.
Anche in questo caso, come in quasi tutte le situazioni, conoscere e ammettere i propri limiti, dimostrando equilibrio e oggettività, contribuisce non poco al contenimento dei rischi e, di conseguenza, degli incidenti.
Facciamo ora qualche considerazione che interessa il lato “nave”.
È di uso comune, e lo ritengo anche corretto, utilizzare la lingua locale durante le comunicazioni con i rimorchiatori. Questo perché nella manovra sono coinvolti anche gli ormeggiatori e, a volte, personale di terra ed è meglio che tutti siano al corrente e comprendano quello che succede. D’altra parte è necessario mettere a conoscenza di tutti gli sviluppi anche il comandante, perciò è buona norma tradurre per lui tutte le comunicazioni che interessano la manovra.
Durante lo scambio di informazioni con il comandante della nave, è importante chiedergli l’SWL della bitta a cui verrà dato volta il cavo del rimorchiatore, informarlo sulla necessità dell’uso di un idoneo heaving line, di avvisare il personale al posto di manovra di stare lontani dal cavo in lavoro, chiedere di essere informati sulle varie fasi di aggancio dei rimorchiatori e su qualsiasi cosa di rilievo che li riguardi. Occorre, inoltre, informare il comandante su come si intendono utilizzare i rimorchiatori nei vari steps della manovra.
Al momento di mollare il cavo, in particolare quello di poppa, avvisare il personale al posto di manovra di lascarlo piano piano per evitare che possa finire nei propulsori del rimorchiatore.
Ph: M.Scarrone
Il comandante del rimorchiatore deve essere informato:
– sulla SWL della bitta che useranno per voltarlo;
· sulle condizioni della nave (pescaggio, velocità minima, eventuali problemi);
· sull’ormeggio assegnato alla nave e la manovra che si intende effettuare.
Uno dei problemi che talvolta si riscontrano, riguarda il tempismo degli attori in campo: è molto importante che il rimorchiatore arrivi puntuale e, nel caso ciò non fosse possibile, che avvisi in tempo per permettere al pilota di regolare la velocità di conseguenza.
Allo stesso modo, al fine di evitare situazioni pericolose, l’equipaggio della nave deve essere pronto all’arrivo del rimorchiatore.
È infatti un rischio inutile per il rimorchiatore restare sotto la prua più tempo dello stretto necessario.
Quando si volta il rimorchiatore, inoltre, è importante che la nave mantenga rotta e velocità costanti ed è comunque buona norma avvisare sempre di eventuali variazioni.
Una cosa che il comandante del rimorchiatore, a mio avviso, deve tenere conto, è del fatto che il pilota, molto spesso, non ha piena coscienza delle caratteristiche dei loro mezzi. Questo vuol dire che non deve farsi problemi a suggerire variazioni di pianificazione, se queste sono più funzionali al lavoro da svolgere.
Come ho anticipato all’inizio dell’articolo, quello che ho scritto non è altro che un “assaggio” di una delle tante fasi delicate della manovra.
In futuro toccheremo altri argomenti sottolineando l’aspetto dell’efficacia, della coordinazione delle parti, della professionalità, della gestione degli imprevisti e, soprattutto, della sicurezza.
Leggi altri articoli nella sezione blog.
Ph: J.Gatti
Rapallo, 31 Ottobre 2020
LE NAVI OSPEDALE ITALIANE
LE NAVI OSPEDALE ITALIANE
LE ORIGINI …
La Fondazione del “Comitato Milanese della Associazione Medica Italiana per il soccorso ai malati e ai feriti in guerra”
Al dott. Cesare Castiglioni si deve la costituzione del “Comitato Milanese della Associazione Medica Italiana per il soccorso ai malati e ai feriti in guerra” di cui ne divenne il Presidente il 15 giugno 1864.
Il suo intento fu quello di creare un'Associazione per fornire aiuti medici ai militari feriti (in accordo con le numerose associazioni sorte in Europa grazie all'opera di Henry Dunant).
Tale comitato, presupposto per l'istituzione della Croce Rossa Italiana, andò ad occupare il settimo posto in ordine di fondazione fra le società nazionali, quinto per adesione alla Convenzione di Ginevra.
Nell'agosto 1864 il dott. Castiglioni venne chiamato a Ginevra per esporre quanto fatto a Milano, partecipando quindi alla stessa conferenza dalla quale nacque la Convenzione di Ginevra del 1864, dove si proclamò:
“DOVERSI NON CONSIDERARE NEMICO IL NEMICO FERITO E BISOGNOSO DI ASSISTENZA” – Assumendo quindi il principio d’uguaglianza di alleati e nemici davanti alla necessità di assistenza.
D'intesa con il Comitato Internazionale della CROCE ROSSA di Ginevra fu poi stabilito che la bandiera della Croce Rossa potesse essere usata solo in caso di guerra. L'Associazione fu approvata dal Ministero dell’Interno e della guerra, e il 1º giugno 1866 il Ministero della guerra disciplinò l'organizzazione, ponendo regole militari ai componenti delle squadriglie; il personale superiore doveva perciò indossare una divisa formata da: un berretto di panno verde scuro con la legenda "soccorso ai feriti" ricamata in oro; una cravatta nera; una giacchetta alla cacciatora di panno verde scuro e pantaloni di panno grigio, come usava la Guardia Nazionale.
Il 22 giugno 1866 l'Italia dichiarò guerra all’Austria e dieci giorni dopo partirono le prime squadriglie di volontari, che soccorsero i combattenti in Trentino e i feriti dell'Armata di Mare. Il comitato milanese trovò inoltre appoggio e aiuto nella Francia e nella Svizzera per la sua opera di soccorso: per la prima volta le nazioni non belligeranti si adoperarono apertamente per soccorrere le avversità di Paesi limitrofi in guerra. L'Italia nel panorama internazionale fece inoltre da tramite ai soccorsi destinati ai feriti nella Guerra franco-prussiana del 1870-71.
IN MARE CI SI MOSSE DUE SECOLI PRIMA
Le prime navi ospedale, dette "pulmonare", vennero approntate nel XVII secolo utilizzando vecchie galee in disarmo, non più in grado di navigare. La pulmonara restava fissamente attraccata nel porti, funzionando come INFERMERIA per i marinai in attesa della pratica, ai quali era vietato lo sbarco sulla terraferma.
L'8 dicembre 1798, non ritenuta più idonea al servizio come nave da guerra, la britannica HMS VICTORY fu convertita in nave ospedale per curare prigionieri francesi e spagnoli feriti di guerra.
L'ispettore Luigi Verde fu il primo capo del Corpo sanitario della regia Marina a dare vita nel 1866 alla prima nave ospedale italiana: la WASHINGTON.
Luigi Verde morì poco dopo nell'affondamento del RE D’ITALIA durante la Battaglia di Lissa.
Il concetto moderno di nave ospedale protetta e denunciata presso apposite istituzioni internazionali doveva sorgere solo con la CONVENZIONE DELL’AJA DEL 1907.
CONVENZIONE DELL’AJA
Le navi ospedali vennero definite nel 1907 dalla Convenzione dell’Aia. In particolare l'articolo 4 definiva le limitazioni affinché una nave potesse essere considerata "nave ospedale".
La nave ospedale spagnola Esperanza del Mar, impiegata come supporto ai pescherecci al largo delle Canarie
· La nave deve avere segni di riconoscimento e illuminazione che la classifichino come tale.
· La nave dovrà fornire assistenza medica a feriti di tutte le nazionalità.
· La nave non dovrà essere impiegata per alcun scopo militare.
· La nave non dovrà interferire né ostacolare le navi militari.
· Le forze belligeranti, come designate dalla convenzione dell'Aia, potranno ispezionare le navi ospedale per verificare eventuale violazioni dei punti precedenti.
In caso di violazione di una delle precedenti limitazioni la nave dovrà essere considerata come unità combattente e potrà essere legittimamente colpita e affondata. Comunque, l'aprire deliberatamente il fuoco o affondare una nave ospedale in rispetto alla convenzione dell'Aia, è da considerarsi crimine di guerra.
Seconda guerra mondiale
Nel corso della Seconda guerra mondiale la Regia Marina armò decine di navi ospedale, spesso mercantili o piroscafi trasformati, ma anche navi soccorso e navi ambulanza, che facevano in maggioranza la spola tra l'Italia e il Nord Africa.
Molte furono affondate dagli alleati:
Giuseppe Orlando, San Giusto, Città di Trapani, Arno, Po e Virgilio.
Complessivamente delle 18 unità ne furono affondate 12. L'Italia denunciò inutilmente gli affondamenti alle autorità di Ginevra.
Navi bianche
Le navi ospedale, dal colore con cui vengono tinteggiate, prendono il nome di navi bianche. Per antonomasia vennero chiamate navi bianche quelle impiegate nel 1942 (sotto l'egida della Croce Rossa) per rimpatriare 50.000 civili italiani, rimasti in Etiopia dopo la conquista inglese.
Navi ospedale italiane:
· Washington (1854 - 1904)
· Albaro (1890)
· Brasile (1905)
· Clodia (1905)
· Menfi (1911)
· Cordova (1906 - 1918)
· Ferdinando Palasciano (1899 - 1923)
· Italia (1905 - 1943)
· Marechiaro (1911-1916)
· Re d'Italia (1907 - 1929)
· Regina d'Italia (1907 - 1928)
· R 1 (1911)
· Santa Lucia (1912)
· Gargano
· Aquileia (1914 - 1943)
· Arno (1912 - 1942)
· California (1920 - 1941)
· Città di Trapani (1929 - 1942)
· Gradisca (1913 - 1950)
· Po (1911 - 1941)
· Principessa Giovanna (1923 - 1953)
· Ramb IV (1937 - 1941)
· Sicilia (1924 - 1943)
· Tevere (1912 - 1941)
· Toscana (1923-1961)
· Virgilio (1928-1944)
Navi soccorso italiane:
· Capri (1930 - 1943)
· Epomeo (1930 - 1943)
· Laurana (1940 - 1944)
· Meta (1930 - 1944)
LE NAVI BIANCHE CON LA CROCE ROSSA
Non vi fu molto rispetto da parte del nemico per le "navi bianche italiane", come venivano chiamate le navi ospedale, nella seconda guerra mondiale.
- Nave Ospedale: WASHINGTON
https://it.wikipedia.org/wiki/Washington_(pirotrasporto)
- Nave Ospedale: ITALIA
https://it.wikipedia.org/wiki/Italia_(nave_ospedale)
- Nave Ospedale: FERDINANDO PALASCIANO
https://it.wikipedia.org/wiki/Ferdinando_Palasciano_(nave_ospedale)
- Nave Ospedale: REGINA D’ITALIA
- Nave Ospedale: PO
- https://it.wikipedia.org/wiki/Po_(nave_ospedale)
- Nave Ospedale: CALIFORNIA
https://it.wikipedia.org/wiki/California_(nave_ospedale)
- Nave Ospedale: ARNO
https://it.wikipedia.org/wiki/Arno_(nave_ospedale)
- Nave Ospedale: SICILIA
- Nave Ospedale: CITTA’ DI TRAPANI
https://it.wikipedia.org/wiki/Città_di_Trapani_(nave)
"Tevere ", "Orlando", " San Giusto " ……perdute per bombe di aeroplani o per urto contro mine.
- Nave Ospedale: TEVERE
https://it.wikipedia.org/wiki/Tevere_(nave_ospedale)
Affondamento della nave TEVERE
- Nave Ospedale: ORLANDO
https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Orlando_(nave_soccorso)
- Nave Ospedale: SAN GIUSTO
https://it.wikipedia.org/wiki/San_Giusto_(nave_soccorso)
" California ", "Arno", " Sicilia ", " Città di Trapani ", …….affondate per siluramento.
- Nave Ospedale: VIRGILIO (Mitragliata)
https://it.wikipedia.org/wiki/Virgilio_(nave_ospedale)
- Nave Ospedale: TOSCANA (Mitragliata)
https://it.wikipedia.org/wiki/Toscana_(transatlantico)#/media/File:Toscanapiroscafo.jpg
- Nave Ospedale: AQUILEIA (Mitragliata)
https://it.wikipedia.org/wiki/Aquileia_(nave_ospedale)
- Nave Ospedale (soccorso): CAPRI (Attaccata e mitragliata)
https://it.wikipedia.org/wiki/Capri_(nave_soccorso)
- Nave Ospedale: PRINCIPESSA GIOVANNA (Mitragliata)
https://it.wikipedia.org/wiki/Principessa_Giovanna_(nave_ospedale)
Violazione deliberata delle convenzioni internazionali? In parte, forse: ma gli inglesi rispondevano che spesso le nostre navi ospedale, invece dei feriti, caricavano truppe e munizioni per i fronti, per farli arrivare a destinazione sotto la copertura del la Croce Rossa. La verità è ancora da decifrare. Le navi ospedale erano mercantili requisiti e conservavano il proprio equipaggio, al quale si aggiungevano (dopo la trasformazione ospedaliera) i medici, gli infermieri e le crocerossine, agli ordini di un colonnello medico di Marina, il quale affiancava il comandante della unità. Molti piroscafi, divenuti nave ospedale al tempo della campagna d'Etiopia, erano stati successivamente riconvertiti al primitivo impiego.
Solo il "California" e l' "Aquileia", tra essi, erano stati conservati nei ruoli e tenuti in posizione di riserva fino al maggio 1940, quando erano stati rimessi entrambi in funzione. La prima missione del "California" era stata assai penosa. Aveva rimpatriato da Bengasi, oltre al previsto carico di ammalati e feriti, nel luglio 1940, anche i feriti dell'incrociatore "Giovanni dalle Bande Nere", superstite del combattimento di Capo Spada, che aveva visto l'affondamento dei gemello "Colleoni".
La "Po" fu una delle prime unità trasformate in nave ospedale allo scoppio della guerra. Era stato un piroscafo di 7.289 tonnellate, costruito nel 1911 e appartenente al Lloyd Triestino. Ebbe breve vita: entrato in servizio nel luglio 1940, il 14 marzo 1941 fu colato a picco da un attacco notturno di aerosiluranti, mentre si trovava nella rada di Valona per imbarcare feriti provenienti dal fronte greco. A bordo si trovava come crocerossina Edda Ciano, che si salvò.
L' "Aquileia" era stata costruita nel 1914. Si trattava di un vecchio trabiccolo, ancora dotato di caldaie con forni alimentati a carbone, per cui frequentemente era soggetta ad avarie di macchina, pertanto doveva procedere a velocità ridottissima, oppure era costretta a lunghi periodi di inattività in cantiere, per riparazioni. Con tutto ciò riusci a navigare fino all'armistizio. Il 15 settembre 1943, dopo essere stata catturata dai tedeschi, fu affondata a Marsiglia.
Per tornare alla "California", essa fu colpita a poppa da un siluro d'un aerosilurante inglese la notte del 10 agosto 1941, verso le 23, durante un attacco alla rada di Siracusa, dove la nave era all'ancora. A mezzogiorno dell'11, la "California", parzialmente affondata, giaceva su un fondale con l'acqua fin quasi alla coperta. Fu deciso che l'equipaggio e il personale medico l'abbandonassero, nella speranza di poterla recuperare in seguito. Essendosi ciò rivelato impossibile, venne demolita sul posto, dopo che il materiale di bordo era stato portato a terra. Non si può far colpa agli inglesi della sua perdita: infatti, forse per evitare il riconoscimento del porto da parte dei ricognitori nemici, il "California" aveva quella sera tutte le luci di bordo spente, mentre la convenzione di Ginevra faceva obbligo alle navi ospedale di mantenerle sempre accese. Non venne quindi individuata e questo fatto segnò il suo destino. Era stata una delle nostre "navi bianche" più efficienti, con una trentina di missioni al suo attivo, effettuate specialmente nel Mediterraneo orientale.
- Nave Ospedale: GRADISCA
https://it.wikipedia.org/wiki/Gradisca_(nave_ospedale)
Segnalata l'opera della "Gradisca", (un ex piroscafo fabbricato in Olanda), alla battaglia di Capo Matapan, conclusasi in modo funesto per la nostra flotta, con la più grave sconfitta navale subita dall'Italia nel corso dell'intera guerra. La battaglia avvenne, come é noto, nella notte del 29 marzo 1941. Furono colati a picco tre nostri incrociatori, il "Fiume", lo " Zara " e il " Pola ". Le perdite risultarono ingenti.
Furono gli stessi inglesi a segnalare a Supermarina il punto esatto dove era avvenuto lo scontro, perché si potessero soccorrere quei naufraghi che essi non erano in grado di fermarsi a raccogliere, trovandosi sotto la minaccia di bombardamento da parte di aerei tedeschi: come fu scritto, "un gesto cavalleresco che dimostrò una volta di più lo spirito di solidarietà che da sempre accomuna i marinai di tutte le nazionalità”.
Nonostante lo stato di profonda prostrazione in cui erano caduti i nostri comandi a causa della disfatta, e lo stato d'animo ben comprensibile che ne era seguito, vi fu una tempestività ammirevole nell'eseguire l'ordine di soccorso suggeritoci dagli stessi inglesi. La "Gradisca" venne dunque dirottata sul posto e recuperò quanti più naufraghi le riuscì di imbarcare, pochi, purtroppo, rispetto agli oltre tremila marinai che perirono in quella drammatica notte. Dopo l'otto settembre la "Gradisca" fu catturata dai tedeschi a Patrasso, in Grecia.
- Nave Ospedale: RAMB IV
https://it.wikipedia.org/wiki/Ramb_IV
Quanto alla "Ramb IV", (nella foto sopra), la bananiera trasformata in nave ospedale per l'AOI (Africa Orientale Italiana) di base a Massaua, essa fu catturata dagli inglesi nel 1940 quando presero la città. Successivamente venne affondata nel Mediterraneo.
Benemerita fu anche l'azione della "Toscana" sopravvissuta ai mitragliamenti di cui era stata fatta oggetto. Anch'essa era stata un piroscafo passeggeri del Lloyd Triestino, trasformata all'inizio del 1941 ed entrata in servizio sul finire dal 1942. Nonostante quindi questa sua data di ingresso in ruolo piuttosto tardiva, la "Toscana" fu una delle più attive unità ospedaliere italiane e portò a termine ben 54 missioni, trasportando 4720 feriti e naufraghi, e 28.684 ammalati.
Complessivamente le 19 navi ospedale della nostra Marina effettuarono durante il secondo conflitto mondiale oltre 700 missioni per trasporto feriti e ammalati e soccorso naufraghi, con una percorrenza totale di oltre 310.000 miglia. Importanti furono in modo particolare le tre missioni con cui si ricondussero in patria altre trentamila civili italiani dall'ex impero, ossia dall'Africa orientale ormai caduta in mano degli inglesi. Esse si svolsero rispettivamente dal marzo al giugno 1942, dal settembre 1942 al gennaio 1943, dal maggio all'agosto 1943. Vi furono impiegati, sotto le insegne della Croce Rossa.
LE GRANDI NAVI BIANCHE DELL’ESODO D’AFRICA
- LA M/N VULCANIA, gemella della SATURNIA, in missione di rimpatrio dei Civili dalla AOI nel 1942
http://transatlanticera.blogspot.com/2013/03/i-transatlantici-saturnia-e-vulcania.html
Furono circa 28 mila i nostri connazionali che in tre viaggi diversi tra il 1942 e il 1943 lasciarono Etiopia, Eritrea e Somalia per rimpatriare. Le motonavi Saturnia e Vulcania e i transatlantici Caio Duilio e Giulio Cesare, definite per l’occasione «navi bianche» perché decorate con i colori della Croce Rossa e allestite come grandi dormitori — con ospedali per far fronte a serie emergenze sanitarie — furono il teatro di una delle missioni più interessanti di cui finora si è parlato molto poco.
La DUILIO, gemella della GIULIO CESARE, con la livrea di Nave ospedale
https://it.wikipedia.org/wiki/Giulio_Cesare_(transatlantico_1920)
I grandi piroscafi "Saturnia" e "Vulcania", seguiti ad otto giorni di distanza dal "Cesare" e dal "Duilio". La rotta era la seguente: Trieste, Genova, Gibilterra, Canarie, Isole dei Capo Verde, Capo di Buona Speranza, Port Elizabeth, Canale di Mozambico, Oceano Indiano, Berbera, Massaua. Ogni viaggio equivaleva, in miglia, al giro del mondo.
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Anche la nave passeggeri VIRGILIO (gemella dell’ORAZIO) operò come nave ospedale in Mediterraneo
https://it.wikipedia.org/wiki/Virgilio_(nave_ospedale)
CARLO GATTI
Rapallo, 24 Agosto 2020
U BOOT 455 - Il Sottomarinio della Leggenda
“IL SOTTOMARINO DELLA LEGGENDA: U BOOT 455. TRENTA IMMERSIONI FRA I RELITTI DELLA PROVINCIA DI GENOVA”
AUDITORIUM GALATA MUSEO DEL MARE
VENERDI’ 18 MARZO ORE 17.30
INGRESSO LIBERO FINO AD ESAURIMENTO POSTI
Venerdì 18 marzo al Galata Museo del Mare torna l’appuntamento con i grandi relitti storici: alle 17.30 in Auditorium verrà presentato il libro storico – documentale "Il sottomarino della Leggenda: U BOOT 455. Trenta immersioni fra i relitti della provincia di Genova". Durante la presentazione, curata degli autori Emilio Carta (giornalista e scrittore) e Lorenzo Del Veneziano (fotosub), verrà proiettato un film-documentario sulla recente scoperta del sommergibile U455 nelle acque genovesi. All’incontro prenderanno parte Erika Della Casa, inviata del Corriere della Sera e Maurizio Brescia, storico navale. A fare gli onori di casa Franca Acerenza, Resp. Collezioni Scientifiche del Mu.Ma e Nicola Costa Consigliere Costa Edutainment. Ingresso libero fino ad esaurimento posti
Il filmato, della durata di 16 minuti, riprende alcune fasi della guerra sui mari durante l’ultimo conflitto per poi passare alle eccezionali immagini del relitto di un sommergibile tedesco, l’U-Boot 455, videofilmate ad una profondità di 120 metri.
L’ultima novità del 2010 in fatto di ricerche documentali navali è il volume storico-fotografico “U-Boot 455, il sottomarino della leggenda: 30 immersioni sui relitti della provincia di Genova” i cui autori sono il giornalista e scrittore Emilio Carta e il noto fotosub Lorenzo Del Veneziano.
L’opera, (160 pagine con oltre 260 fotografie a colori –Agb Busco Editore) che è dedicata ad un’accurata rivisitazione dei trenta relitti ad oggi individuati nelle acque della provincia di Genova, ha preso forma dal desiderio di fissare nella memoria del lettore un passato semisconosciuto ed importante della storia marinara.
Il libro è suddiviso in trenta schede, tante quanti sono i relitti individuati e, ciascuna di esse, contiene la storia di ogni nave e illustra nei minimi dettagli l’immersione attorno e all’interno di ogni relitto nonché le relative coordinate geografiche.
Punto fondamentale di questo lavoro è stata l’individuazione del relitto dell’U-Boot 455 cui, dopo l’iniziale emozione per la scoperta a 120 mt di profondità da parte di Lorenzo Del Veneziano, è seguita una seconda fase di ricerca storica.
“Oggi, conclusa questa ricerca storico-documentale, commenta Emilio Carta, possiamo dire che del sottomarino tedesco misteriosamente scomparso e dato per disperso il 6 aprile 1944 sappiamo praticamente tutto: dalle missioni effettuate nel Mediterraneo al naviglio affondato fino ai nomi di coloro che si erano avvicendati al suo comando. Il tutto suffragato da immagini storiche, tratte dagli archivi tedeschi, sino a quelle più recenti, affascinanti e splendide, scattate a centoventi metri di profondità. Permane comunque il mistero sui motivi che hanno provocato l’affondamento dell’U 455 e, soprattutto, il perché si trovasse nella zona compresa fra Portofino e Camogli: nel libro abbiamo cercato di dare le risposte. ”
In “U-Boot 455, il sottomarino della leggenda: 30 immersioni sui relitti della provincia di Genova” vengono inoltre illustrati ulteriori ventinove relitti individuati ed esplorati lungo il tratto costiero della provincia ligure, da Moneglia a Cogoleto. Di ognuno viene descritta la storia e riportata l’esperienza relativa all’immersione. Riemergono così dagli abissi, lungo il magico filo della memoria, tragici eventi bellici e immagini emozionanti, particolari sigle identificative e numeriche come l’UJ 2208 a Genova, il KT a Sestri Levante e nomi di navi più o meno conosciute come Croesus a San Fruttuoso di Capodimonte, Mohawk Deer a Portofino, Washington a Camogli, senza contare le scoperte del liuto (leudo) medievale e della caracca al largo di Genova per finire alla Haven di Arenzano.
L'evento è organizzato da Azienda Grafica Busco Editrice, Rapallo Notizie Mare, Mare Nostrum, ANMI Genova, ANMI Savona, in collaborazione con Mu.MA, Costa Edutainment, Ass. Promotori Musei del Mare e Coop. Solidarietà e Lavoro.
Ufficio Stampa Costa Edutainment per Galata Museo del Mare
Eleonora Errico tel 0102345322
stampa@galatamuseodelmare.it
15.03.11
QUANTO E’ SLEGATA L’ANCORA DALL’ELICA E DAL TIMONE
QUANTO E’ SLEGATA L’ANCORA DALL’ELICA E DAL TIMONE
BY JOHN GATTI •6 OTTOBRE 2020•13 MINUTI
Nel corso degli anni l’ancora come ausilio alla manovra, ha ceduto il posto – in ordine d’importanza – al passo variabile e ai thrusters.
Non molti anni fa era normale impostare una manovra di affiancamento a una banchina, con il lato nave non favorevole all’effetto dell’elica, prevedendo l’uso dell’ancora.
A questo proposito voglio riportare una piccola esperienza, maturata nel mio periodo da allievo, tratta dal libro “A bordo con il Pilota“:
“Il pilota che mi seguiva nella manovra aveva molta esperienza e il coraggio/pazienza di far continuare la gestione all’allievo fin quasi al “punto di non ritorno”. Questo è positivo, perché l’adrenalina provocata da un “quasi impatto” salvato il più tardi possibile lascia un segno indimenticabile e vale più di molta teoria.
Eravamo a bordo di una nave lunga cento metri che pescava sette metri e mezzo, monoelica a passo fisso sinistrorsa, timone tradizionale e senza elica di prora.
Dovevamo percorrere circa due miglia di canale per poi accostare di novanta gradi a dritta e affiancare in banchina con il fianco sinistro, senza evoluzione.
Poco dopo aver imboccato il canale, un altro pilota imbarcato su una nave in partenza ci chiese di aumentare la velocità per permettergli di mollare gli ormeggi.
Il mio ragionamento spiccio si limitava a considerare che ero a bordo di una nave piccola, che per me equivaleva a “piccoli problemi”.
Portai la macchina ad Avanti Mezza e passammo la metà del canale a setteno di di velocità. Una volta liberato il transito per l’altra nave, ridussi ad Avanti Adagio, ma la velocità scese solo di un nodo e, per farlo, ci mise parecchio tempo, ma dentro di me ero tranquillo perché continuavo a pensare che “la nave era piccola”…
A qualche centinaio di metri dall’accostata di novanta gradi scesi ad Avanti Molto Adagio.
Per farla breve, realizzai di avere un’elevata velocità, relativa alla situazione contingente, troppo tardi.
Fermai la macchina, ma la nave carica era troppo pesante e lenta nelle risposte.
Cominciai a sudare freddo: mi vedevo già contro la nave ormeggiata di fronte a noi.
Rimisi in moto la macchina, ma con il Molto Adagio la velocità di accostata era sempre troppo lenta e fui costretto ad aumentare fino ad Avanti Mezza. Il timone riprese a rispondere bene a scapito di una velocità che riprese a salire.
Lo scenario che si presentava ai nostri occhi era il seguente: una nave ormeggiata a sinistra e la nostra destinazione cento metri più avanti, duecentocinquanta metri di fronte finiva tutto: solo cemento.
Per chiudere il cerchio posso dire che avevamo a che fare con una velocità prossima ai sei nodi e a un effetto dell’elica che, a marcia indietro, ci avrebbe fatto dare una pruata in banchina…
Ormai ero in panico.
Intervenne il pilota.
Diede subito tutto il timone a dritta e, non appena la nave cominciò ad accostare, mise la macchina Indietro Tutta e il timone in mezzo: l’effetto dell’elica fermò l’evoluzione e chiamò la prua a sinistra; a quel punto diede fondo all’ancora di dritta. Una lunghezza e mezza in acqua, fece agguantare e poi filare un’altra mezza lunghezza.
Risultato: dopo qualche minuto eravamo ormeggiati in banchina, perfettamente in posizione.
Considerazioni:
- la prima cosa che risulta evidente è la differenza tra il limite dell’allievo e quella del pilota, dovuta a una questione di abitudine alla reazione nelle situazioni critiche affrontata nelle migliaia di manovre già effettuate. Aggiungo l’abitudine all’uso disinvolto dell’ancora che elimina le esitazioni.
- La teoria è la base imprescindibile, ma la pratica concretizza le parole incidendo l’esperienza nella memoria.
- La velocità non è un valore assoluto, ma relativo alla situazione contingente.
- Anche la grandezza della nave è spesso relativa: solitamente gli ausili alla manovra sono proporzionati alla stazza e il pescaggio può rendere una piccola nave molto difficile da governare.
- La sicurezza della manovra in cui si è impegnati è la cosa più importante. Nel caso specifico, far aspettare qualche minuto in più il pilota in partenza non avrebbe portato nessuna conseguenza, mentre aumentare la velocità ha creato una situazione di potenziale pericolo.
- L’errore più grave è stato quello di non prevedere i passaggi successivi, arrivando al punto di accostata in prossimità dell’ormeggio senza la possibilità di ridurre la velocità.
- La giusta sequenza avrebbe previsto una riduzione progressiva della velocità, in modo di arrivare al punto di accostata con circa due nodi, per poi accelerare nell’evoluzione assicurandosi un maggior controllo. Terminata la rotazione si doveva stabilizzare la rotta, fermare la macchina e dare fondo per poi continuare dragando l’ancora.
In questo racconto sono stati messi in evidenza diversi punti, tra i quali troviamo la pianificazione dell’uso dell’ancora.
In questo racconto sono stati messi in evidenza diversi punti, tra i quali troviamo la pianificazione dell’uso dell’ancora.
In effetti, per una questione di “allenamento del gesto” al fine di renderlo fluido in caso di necessità, non sarebbe sbagliato utilizzare, di tanto in tanto, l’ancora anche solo per esercizio.
Purtroppo la reale efficacia di questo strumento, oggigiorno, la si apprezza soprattutto nelle emergenze. Situazioni in cui la rapidità d’intervento è il fattore che, il più delle volte, determina il controllo degli eventi o l’inevitabile impatto.
In generale i vantaggi nel suo utilizzo sono numerosi:
- controllo della caduta della prora in banchina;
- arresto della nave con uso minimo della macchina;
- gestione della rotta con l’ancora a dragare;
- posizionamento dell’ancora come aiuto per il successivo disormeggio;
- e così via.
Passo variabile ed eliche di manovra hanno semplificato le cose…
Come ben sappiamo, e senza entrare troppo nei particolari, le eliche a passo fisso hanno le pale solidali al mozzo e non è possibile agire sul loro orientamento. Questo comporta tutta una serie di limiti di cui è necessario tenere conto:
- per invertire la direzione di moto, si deve fermare il motore e riavviarlo con l’asse accoppiato in senso inverso. Ogni volta occorre un nuovo avviamento, che ha bisogno d’aria, che non è infinita…
- a seconda del timone di cui sarà dotata la nave che stiamo manovrando, avrà una sua velocità minima di governo. Alcune, dotate di timone dall’ampia superficie manovrano fino a velocità molto basse, altre meno. In ogni caso tutte hanno un limite.
Va da sé che, per pareggiare i conti in queste condizioni, l’ancora è la soluzione ideale.
Abbiamo detto che l’avvento delle eliche a passo variabile e delle eliche di manovra ha cambiato la situazione.
Vediamo perché.
Per prima cosa rinfreschiamo la memoria definendo
il passo dell’elica: che è la distanza teoricamente percorsa in un giro completo dall’elica, trascurando la cedevolezza del fluido, che corrisponde alla distanza che la stessa percorrerebbe se si muovesse all’interno di un corpo solido. (Approfondimenti nel video “Le eliche“)
Si deve proprio alla possibilità di variare a piacimento il passo dell’elica una delle rivoluzioni avvenuta nelle impostazioni delle manovre, discorso che vale, in particolar modo, per le navi medio/piccole. Quelle cioè, dove spesso l’ancora sostituiva egregiamente il lavoro dell’eventuale rimorchiatore.
Le eliche a passo variabile ruotano sempre nello stesso senso a giri costanti.
Niente più problemi di avviamenti e facilità a regolare la velocità a seconda dell’esigenza.
Questo sistema porta con sé anche diversi difetti, come la difficoltà a mantenere la rotta a passo zero, dovuta alla continua rotazione dell’asse; la resa a marcia indietro generalmente scarsa e accompagnata da un forte effetto dell’elica; e diversi altri che in questo contesto non andiamo ad affrontare.
Sta di fatto che la possibilità di poter agire sul passo per regolare la velocità, permette di avere un controllo maggiore sulla manovra; se poi aggiungiamo un’elica di prora, allora l’ancora diventa veramente una cosa di cui, in queste condizioni, si può fare a meno.
Ma l’ancora, nonostante la frequenza del suo utilizzo sia diminuita considerevolmente negli ultimi anni, resta una delle carte più importanti del mazzo.
Mi è capitato solo una quindicina di volte, in più di vent’anni da pilota, di doverle utilizzare in situazioni d’emergenza, ma vi assicuro che se in quelle occasioni non avessi avuto “familiarità” nell’utilizzo di questo ausilio, il conto in soldi dei danni che ne sarebbero derivati sarebbe stato veramente alto.
Consiglio, per chi non l’avesse ancora fatto, di dare un’occhiata anche all’articolo “Ancore: quelli a prua non sono orecchini!”
Per approfondimenti sulle ancore e il loro utilizzo: “Il punto sulle ancore“.
JOHN CARLO GATTI
Rapallo, 8 Ottobre 2020
BATTUBELIN - Ricordando Emilio Carta
BATTUBELIN
Ricordando Emilio!
DAL SITO
RUBIAMO …
Ci troviamo in Indonesia… in un angolo della terra talmente conosciuto che “belin”, se lo cerchi, non lo trovi manco con Eppure esiste!
Nel nord della Sumatra, la sesta isola più estesa del paese, troviamo questa ridente comunità a circa mille trecento km dalla sua capitale, Jakarta.
Sono andato a cercarvelo più nello specifico, ma purtroppo Google Maps non ha mappato ancora quella zona con precisione.
Ci sono comunque molte conferme in altri “mappamondi” online che vi linko di seguito!
Come abbiamo visto c’é un Batu Belin nell’altra parte del mondo! Ma c’é anche un famoso Ristorante a MIAMI che porta questo nome con la doppia TT come piace a noi liguri! Da cui ne deduciamo che il proprietario sia un nostro conterraneo…
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Battubelin is a new Italian restaurant located on the 79th Street Business District. We are famous for the incredible, authentic Italian cuisine, and our made-from-scratch foods created by our expert Italian chefs. Come by, check out our incredible selection of amazing, authentic Italian dishes, today.
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Whether it’s our amazing focaccia, or our incredible antipasti, the one thing everyone agrees on is that this is the real Italian cuisine, reinvigorated with the Miami twist. Battubelin is one of the best Italian restaurants in Miami that offers high-quality service and warm gracious hospitality.
Contact us today to make your reservations, and we look forward to seeing you soon.
Questi “gioiellini” non sono di certo sfuggiti al nostro Emilio Carta la cui coæ de schersâ
era ben nota ai rapallesi per i suoi riuscitissimi scherzi del primo d’aprile… ma chi lo conosceva da vicino sapeva fino a che punto poteva “elevarsi” la sua ironia!
A questo punto il lettore si chiederà: “Ma di cosa stiamo parlando?” - E’ vero, occorre una spiegazione. Lo scrittore-giornalista Emilio Carta, amatissimo specialmente dai “rapallini-rapallesi”, aveva fin dall’inizio…, e la sua famiglia lo ha tuttora, un curioso indirizzo di posta elettronica:
Ho scritto “gioiellino” perché Emilio lo conservò nel suo scrigno segreto per i posteri sapendo che prima o poi LUI dal cielo ce lo avrebbe rivelato.
Beh! Ora tutti quelli che credevano di conoscerlo: raffinato e colto, ed hanno fatto una smorfia quasi di disgusto nel leggere la sua mail… oggi sanno o avrebbero dovuto sapere che Emilio é stato un marittimo di lungo corso, un uomo di mare che si trovò a solcare i lontani mari d’oriente e d’occidente. Da quelle parti, proprio in Indonesia, s’innamorò del Sitar e laggiù trovò anche la sua identità elettronica… adatta ai mala tempora currunt…!
Del “BATTUBELIN” - Ristorante di MIAMI non abbiamo ancora alcuna connessione … ma siamo sicuri che prima o poi Emilio si farà VIVO un’altra volta per caso … senza dare spiegazioni come era il nel suo stile anglo sassone!
Una delle espressioni più note dell'educazione britannica è infatti: "Never explain, never complain". Mai dare spiegazioni, mai lamentarsi. Forse inconsapevolmente, oppure no, Emilio si attenne per tutta la sua vita a questo ideale che noi oggi scopriamo per caso, sia per aver sempre evitato di dare spiegazioni su quel suo stravagante “indirizzo di posta elettronica” sia nel non essersi mai lamentato durante il suo ventennale “calvario”!
Emilio é stato l’esempio più classico dell’ironia!
È inutile avvisare quando si fa dell’ironia. Gli ironici lo avranno già capito. Gli altri, non lo capiranno nemmeno dopo la spiegazione.
Emilio era proprio così … Se qualcuno gli avesse chiesto spiegazioni del BATTUBELIN, sicuramente gli avrebbe risposto con un sorriso beffardo:
“E se non sai cogliere l’ironia, prova con i pomodori…”
RINGRAZIO l’amico Alessandro Bortolameazzi per avermi inviato il post
IL MUGUGNO GENOVESE di cui sono tifoso...
Carlo GATTI
Rapallo, 31 Agosto 2020
COSMA MANERA - LO SPIRITO DELL'ARMA
COSMA MANERA – LO SPIRITO DELL’ARMA
QUEST’ANNO RICORRE IL CENTENARIO DI QUELL’INCREDIBILE SALVATAGGIO DI OLTRE 10.000 MILITARI ITALIANI
IL COLONNELLO DEI CARABINIERI COSMA MANERA IN ALTA UNIFORME
Tra il 1916 e il 1920 il maggiore dei carabinieri Cosma Manera riuscì a compiere una delle più appassionanti e rischiose missioni di recupero prigionieri dell’epoca moderna.
Prelevò dalla Russia oltre diecimila ex soldati italiani delle cosiddette terre irredente, arruolati nell’esercito austro-ungarico, e percorse in condizioni climatiche estreme, un lungo tragitto dalla Siberia fino alla Concessione italiana di Tientsin e poi, via mare, fino a rientrare in Italia.
MISSION IMPOSSIBLE si direbbe oggi, ma non é stata una fiction! Oggi parliamo di una Storia vera di CORAGGIO, Abnegazione, Intelligenza strategica e diplomatica, Resistenza fisica e morale, grande AMORE per la patria, per gli italiani e per la nostra Bandiera Nazionale. Caratteristiche che soltanto un CARABINIERE di rango speciale poteva possedere! Riportare a casa i soldati irredenti fu l’unico pensiero di ogni sua giornata e fu speso per questo obiettivo.
Solo, insieme a 10.000 soldati in un enorme Paese allo sbando, privo di appoggi e riferimenti specifici, Cosma Manera tentò di rimpatriarli via mare, ma le pessime condizioni meteorologiche fecero sfumare il progetto.
Così Cosma Manera e un primo blocco di prigionieri recuperati in vari campi di prigionia furono costretti a compiere una rischiosissima traversata, di oltre 6.000 chilometri, in condizioni proibitive, tentando di giungere in Cina. Dove il governo in un primo momento impedì l’accesso, ritenendo troppo rischioso far transitare oltre 2.000 uomini armati. Sbloccata la situazione, l’ufficiale tornò indietro per recuperare gli altri prigionieri.
Finché, nel febbraio 1920, Cosma Manera e i militari sopravvissuti alle durissime condizioni di vita si imbarcarono su tre navi mercantili americane e fecero ritorno in Italia. Arrivarono a Trieste il 10 aprile del 1920. Un’impresa epica, che però non venne celebrata come dovuto perché, nel frattempo, era esplosa la “questione fiumana” e il governo dell’epoca ritenne poco opportuno dare troppa enfasi al rientro dei militari.
PREMESSA STORICA
Le statistiche ci dicono che il 56% della popolazione italiana agli inizi del 1900 era totalmente analfabeta. Le città, in stragrande maggioranza, usavano ancora i lumi a petrolio. Le ferrovie avevano poco più di 40 anni e viaggiare da Napoli a Venezia era un’avventura di settimane. Si usava la legna per cucinare e scaldare le case, ed il cavallo era più affidabile dell’auto ancora ai primi albori… La società era divisa in tre classi sociali separate: aristocrazia, clero e popolo. L’Impero Austro Ungarico comprendeva: Trentino, Veneto, Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, dove la popolazione di lingua italiana era parecchio distante dalla mentalità austriaca. Gli austriaci consideravano gli italiani delle nostre terre come esseri incivili: sbandati, rissosi, nullafacenti e incompetenti. Con questa premessa non possiamo meravigliarci se all’inizio della Grande Guerra li avessero scelti come carne da cannone da inviare sul fronte russo.
IL NOCCIOLO DELLA QUESTIONE…
Decine di miglia di italiani in uniforme austriaca partirono per combattere in nome dell’Imperatore d’Austria. L’Italia, intanto, durante la guerra diventò nemica dell’Austria Ungheria, e quando la guerra finì nel 1918 e l’Impero Austro ungarico si sciolse, Trentino, Alto Adige, Venezia Giulia, Istria e Zara furono annesse all’Italia. Per quei soldati rimasti in Russia improvvisamente non esisteva più un governo che li reclamasse e loro stessi non sapevano più chi fossero o per chi avessero combattuto. Erano uomini letteralmente perduti, dentro e fuori, alcuni relegati in campi di prigionia, altri mendicanti per le strade, nel freddo, fra miseria, sommosse rivoluzionari ed epidemie, in un mondo troppo vasto per pensare di riuscire a ritornare dalle proprie famiglie. In Italia li chiamano “irredenti”, perché potrebbero redimersi arruolandosi nell’esercito italiano e guadagnarsi la cittadinanza italiana, eppure per le ragioni dette prima non lo fanno. Per recuperarli il governo manda in Russia tre ufficiali dei Carabinieri: il maggiore Giovanni Squillero, il capitano Nemore Moda e il capitano Marco Cosma Manera.
CHI ERA MARCO COSMA MANERA?
MANERA, nato ad Asti il 15 giugno 1876, era uscito dal collegio militare con il grado di tenente, e dopo un’esperienza a Creta nel 2° battaglione della 93° fanteria, era entrato nei Carabinieri Reali nel 1901. Dotato di una naturale propensione per le ligue (francese, inglese, tedesco, greco, turco, bulgaro, serbo e russo), la sua prima missione da Carabiniere era stata in Macedonia, dove nel 1904 il governo ottomano si era rivolto ai Carabinieri italiani per organizzare una gendarmeria. In breve tempo Cosma Manera aveva organizzato 1400 reclute musulmane e ortodosse che, sotto il suo comando, convivevano senza problemi. Una tribù appartenente a una minoranza etnica lo aveva rapito e condannato a morte, ma quando il capotribù aveva scoperto che il tenente aveva il suo stesso nome – Cosma – per scaramanzia aveva deciso di risparmiarlo e rimandarlo in Italia. Da allora, il tenente Manera aveva deciso che avrebbe usato solo il suo secondo nome, dato che gli portava fortuna. Tornato in patria era ripartito subito per una campagna in Albania, poi durante la prima guerra mondiale era sopravvissuto all'inferno del Cadore tornando coi gradi di Capitano.
Doti organizzative, capacità linguistiche ed esperienza di azione in condizioni proibitive:
Cosma era quindi l’uomo ideale per tentare il recupero degli irredenti
Il capitano Cosma Manera doveva radunarli e riportarli in Italia.
Era una missione che anche al giorno d’oggi farebbe tremare i polsi a chiunque, vista la enorme vastità del campo in cui ci si doveva muovere Cent’anni fa. Verso il termine della Grande guerra, quel compito doveva sembrare quasi disperato.
INIZIA LA MISSIONE CHE DURERA’ TRE ANNI
Insieme al maggiore Squillero e al capitano Moda, Manera s’imbarca così a Newcastle, attraversando Svezia e Finlandia per arrivare all’allora Pietrograd il primo d’agosto del 1916 con addosso solo i gradi e 94mila lire in oro nascoste nei calzini.
I tre ufficiali raggiungono l’avamposto della missione italiana nella situazione peggiore possibile: in Russia sta scippiando la guerra civile in Russia e devono rintracciare gli irredenti dispersi in 45 governatorati dell’Impero, pianificare dove raggrupparli ed evacuarli. Il tutto prima che arrivi l’inverno, quando il freddo bloccherà i trasporti e li costringerà ad aspettare sei mesi circondati da una popolazione drogata di propaganda bolscevica contro i soldati stranieri.
PRIMO CONTATTO, PRIMO RISULTATO - PRIMO RIENTRO
Il lavoro di intelligence, inizia a dare risultati: nel porto di Arkangel’sk sul mar Bianco, si trovano ancora ormeggiati dei piroscafi asburgici abbandonati, un po’ malconci ma utilizzabili. Nel frattempo Manera e i suoi ufficiali rintracciano un primo scaglione di irredenti, 33 ufficiali e 1600 uomini di truppa.
Li radunano Kirsanov (Dip.TAMBOV) e poi li trasportano al porto di Arcangelo il 24 settembre 1916; da qui un piroscafo li porta in Inghilterra. Sembra tutto risolto così Manera viene nominato Maggiore e gli altri due ufficiali tornano in Italia.
Uomini e bambini nel cimitero cittadino a Kirsanov (TAMBOV), vedi carta sotto segnato con una palla viola.
Acquartierato a Pietroburgo, sfrutta il campo di prigionia di Kirsanov come centro di raccolta, lavora bene con passaparola e propaganda trasformandolo in un centro di raccolta stabile, dove assemblare altri scaglioni che faranno lo stesso tragitto dei precedenti. Trova altri trentini nei campi di prigionia a Omsk, in Siberia, dove vivono a -40° tra topi e colera. A luglio 1917, Manera ha radunato 57 ufficiali e 2600 uomini di truppa, si sta preparando un secondo viaggio quando scoppia la guerra civile.
LA RUSSIA SPROFONDA NELL’ANARCHIA – LA MISSIONE DI COSMA MANERA APPARE DISPERATA …
Porti, stazioni ed edifici vengono presi dalle guardie rosse mentre il neonato Comitato centrale di Lenin guida le rivolte delle campagne, i cui abitanti – dopo milioni di morti, carestie ed epidemie – preferiscono morire sotto i proiettili zaristi che di fame. Tutte le fonti di Manera scappano o cambiano schieramento, il porto di Arcangelo diventa irraggiungibile per il ghiaccio, e i piroscafi vengono affondati dagli U-boat. I rifornimenti di viveri si interrompono e tutte le comunicazioni saltano, mentre un centro dopo l’altro si trasforma in teatro di guerra. Scappare via mare è impossibile, e gli uomini per tornare in Italia dovrebbero attraversare zone in tumulto senza né viveri, né armi, né equipaggiamento, e per di più con uomini demotivati e spossati da anni di miseria. Un suicidio.
TUTTAVIA L’UFFICIALE ITALIANO SEMBRA L’UOMO GIUSTO PER LE IMPRESE IMPOSSIBILI – GLI ITALIANI IN CINA
Cosma Manera scopre però che la Transiberiana funziona ancora – non si sa ancora per quanto – solo che va in direzione opposta all’Italia. L’ufficiale organizza allora un luogo di ritrovo a Vladivostok e con vari stratagemmi nasconde piccoli gruppi di irredenti nei vagoni merci. Un convoglio dopo l’altro arrivano tutti a destinazione (Vladivostok). Cosma parte con l’ultimo gruppo, stipati tra paglia, bagagli e casse, è un viaggio di una difficoltà impensabile che dura settimane, ma funziona sia dal punto di vista logistico che psicologico.
Per gli uomini, vedere un ufficiale che patisce con loro il freddo, la fame e le pulci è un’immagine potentissima. Una volta arrivato, Manera viene celebrato dagli irredenti come UN PADRE SALVATORE. L’Italia, però, adesso è ancora più distante. Il ghiaccio impedisce le partenze via mare anche da Vladivostok, ma Manera sa che in Cina c’è una minuscola colonia italiana, detta Concessione di Tientsin, un porto della Manciuria con concessione commerciale conquistata da Roma per aver partecipato alla repressione della RIVOLTA DEI BOXER (1899-1901). La raggiungono a piedi, dividendosi in gruppi, e una volta lì aspettano.
COSMA MANERA SBALORDISCE LO STATO ITALIANO…
Lo Stato italiano è in attesa di notizie dalla Russia, quindi rimane molto stupito quando si vede recapitare un telegramma dalla Cina. Manera comunica che gli irredenti sono stati trasformati in esercito: un battaglione multiculturale di austriaci, croati, trentini, veneti e serbi chiamato Legione Redenta di Siberia, ufficialmente al servizio dell’Italia, ma in realtà disposto a dare la vita solo per quell’ufficiale che ormai chiamano "papà". L’Italia reagisce con scarso entusiasmo, anche perché ha appena finito di gestire l'occupazipone di Fiume da parte di D’Annunzio e non vede di buon occhio gli eserciti personali, ma Manera è pur sempre un ufficiale dei Carabinieri e non un intellettuale eccentrico.
UNA GIUSTA MOSSA DALL’ITALIA
COSMA viene quindi nominato Addetto Militare dell'Ambasciata d'Italia a Tokyo con residenza a Pechino, cosa che gli garantisce carta bianca e gli apre qualsiasi porta. Manera riorganizza gli uomini in tre battaglioni di quattro compagnie ciascuno, li addestra e in pochi mesi riesce a trasformare quel gruppo di sbandati senza terra né futuro, carcerati, mendicanti o disperati in un reparto d’elite, capace di ampliare la ricerca di altri irredenti con l’aiuto del Consolato italiano e di quello inglese. Il metodo di recupero improvvisato dal maggiore Manera diventa un sistema vero e proprio e il suo lavoro si guadagna l’ammirazione di truppe, ufficiali e politici.
UN’ALTRA “TROVATA” INCREDIBILE…
Il recupero degli irredenti procede spedito quando le truppe bolsceviche attaccano la Transiberiana per strapparla dal controllo zarista. La Russia ormai è nel caos, ci sono epidemie e i viveri scarseggiano per civili e militari; le armate zariste non sono in grado di difendere il treno, così Manera decide di sfruttare il suo esercito ed entrare in battaglia. Due giorni prima, però, a Tientsin si presentano trecento uomini con uniformi militari italiane raffazzonate, guidati da un Capitano che mette a disposizione la sua “brigata Savoia”, che non risulta in nessun archivio dell’Arma o dell’esercito.
Nemmeno il suo Capitano appare nei registri, e non ne fa mistero: è un ragioniere di Benevento di nome Andrea Compatangelo che si è inventato tutto.
Andrea Compatangelo
Agli inizi della guerra mondiale era emigrato a Samara, un piccolo paese sul Volga dove c’era la sede del Komuch, governo vagamente democratico. Conservatore fino al midollo e innamorato di un’aristocratica russa, Compatangelo viveva di esportazioni e nel tempo libero faceva il corrispondente per l’Avanti! diretto da Mussolini. Con la rivoluzione d’ottobre la cittadina sprofonda nel panico, già anni prima c’era stata un’occupazione dei soviet drammatica, soprattutto per gli emigrati italiani.
Venuto a sapere che c’erano degli irredenti nelle prigioni attorno a Samara, si era nominato Capitano “di una grande potenza occidentale” per poi presentarsi per trattare la consegna dei prigionieri con le autorità, mentendo in maniera abbastanza convincente da liberarne a centinaia. Una volta fuori, fece cucire delle uniformi per loro e inquadrandoli in un proprio esercito che chiamò appunto Brigata Savoia, "per dargli autorità".
CAMPATANGELO - UN PERSONAGGIO DALLE RISORSE STRAORDINARIE
Legione redenta in Siberia
La brigata SAVOIA
La TRANSIBERIANA: San Pietroburgo-Vladivostock
Nel luglio 1918 questa scalcagnata brigata ruba un treno militare e parte sulla Transiberiana verso Vladivostok, il porto da cui partiranno per ritornare in Italia.
FATTO INCREDIBILE:
Compatangelo e i suoi uomini si fermano a ogni stazione per combattere assieme a zaristi e cecoslovacchi in cambio di armi, munizioni e viveri. La pratica dopotutto val più della teoria, e in poche settimane la brigata Savoia inizia a far parlare di sé. Abbandonano la vecchia locomotiva rubandone un'altra blindata dotata di mitragliatrice, caricano a bordo due infermiere russe che si occupano dei feriti – una, sostengono molti, erede della famiglia reale – e avanzano diretti verso Vladivostok, preceduti dalla loro fama. Ad ogni battaglia, la brigata si fa più numerosa e si ferma di volta in volta a riparare i binari danneggiati dai banditi, in un viaggio allucinante di sei mesi durante i quali non sanno nemmeno se la guerra c’è ancora o no. A Krasnojarsk, dove prima gli zar e poi Stalin, mandano la gente nei gulag trovano una città più o meno nell’anarchia: gli zaristi sono fuggiti mentre contadini, operai e militari hanno preso il comando pur senza averne competenze né esperienza.
CAMPATANGELO FIALMENTE INCONTRA COSMA MANERA
Coi suoi uomini Compatangelo occupa il municipio, instaura una dittatura militare riuscendo a far convivere in qualche modo bolscevichi e socialisti, che lo riconoscono come leader. Da Krasnojarsk, il ragioniere sfrutta il telegrafo per avere notizie e gli capita all’orecchio la storia della legione Redenta e di una figura avvolta dal mito, un ufficiale dei Carabinieri che vaga per la Russia a salvare compatrioti e a trasformarli in soldati d’elité.
Dopo un mese e mezzo in città, Compatangelo riparte con i suoi uomini. Attraversano la Manciuria sul loro treno blindato, i cinesi tentano di sequestrarlo ma lui se la cava sempre con le sue doti da affabulatore… millantando e minacciando drammatici incidenti diplomatici internazionali fino ad arrivare a mettersi sull’attenti davanti a Cosma Manera in persona, sei mesi dopo, per consegnargli la sua brigata Savoia che viene integrata alla Legione di Siberia. Poi, così come era apparso, Compatangelo scompare.
IL RITORNO IN PATRIA DI COSMA MANERA
Cosma Manera invece, insieme ai suoi uomini, difende con successo la Transiberiana e finalmente nel 1920 torna a Trieste con tre navi americane, con il grado di Tenente Colonnello riprende la sua vita militare come se nulla fosse. Gli irredenti si disperderanno per l’Italia a caccia delle proprie case e famiglie, ma non prima di aver regalato a Manera una coppa di bronzo con incise le tappe più importanti di quel viaggio in treno da Kirsanov a Vladivostok, dove avevano patito la fame e il freddo insieme. Si sposerà tre anni più tardi, avrà due bambine e morirà nel 1958, all’età di 82 anni. Oggi riposa nel cimitero urbano di Viale Don Bianco. Dal 2013, la Piazza d’Armi di Asti é intitolata a lui.
Il ritorno in patria avvenne solo nel 1920 così il capitano Cosma Manera, da allora, rimase famoso come “il padre degli irredenti”.
Cosma Manera con i gradi di colonnello (1927)
Lettere al Corriere
………Ancora un ricordo. Fra i luoghi da lei elencati vi è Tambov, (sfera viola sulla mappa) una città delle «terre nere » nella Russia occidentale. La visitai pochi mesi dopo il mio arrivo perché a meno di cento chilometri vi è il piccolo cimitero militare di Kirsanov, l’unico in cui fosse allora possibile rendere omaggio a militari italiani morti in Russia. Deposi una corona d’alloro, ma non appena cominciai ad aggirarmi fra le tombe scoprii che questi italiani erano soldati trentini dell’esercito austroungarico, catturati probabilmente in Galizia. Più tardi scoprii che vi era stato a Kirsanov un ospedale militare dove molti prigionieri austro-ungarici erano stati ricoverati quando i bolscevichi, dopo la pace di Brest Litvosk, permisero il loro rimpatrio attraverso gli Urali e la Siberia fino al porto di Vladivostok. Cercavo la Seconda guerra mondiale e mi trovai nel mezzo della Prima.
Sergio ROMANO
NOTE
KIRSANOV è una città della Russia sudoccidentale, situata sulla sponda sinistra del fiume Vorona. La città venne fondata nella prima metà del XVII secolo con il nome di Kirsanovo, a sua volta derivato dal nome del primo colonizzatore della zona Kirsan Zubakin; ottenne lo statu di città nel 1779, durante il regno di Caterina II.
Durante la Prima guerra mondiale ospitò un campo di prigionia in cui furono internati numerosi ex-soldati austro-ungarici di origine trentina e friulana (detti "Kirsanover"). Alcuni di loro, attraverso una complessa missione militare, scelsero di venire portati in Italia come cittadini "redenti".
VLADIVOSTOK è una citta della Russia (606.561 abitanti), situata nell’estremo oriente russo, capoluogo del Territorio del Litorale, in prossimità del confine con Cina e Corea del Nord. È un importante nodo per i trasporti: possiede il più grande porto russo sull’Oceano Pacifico, sede della Flotta del Pacifico, e vi termina la Transiberiana. Dal 2019 è capoluogo del circondario federale dell’Estremo Oriente in sostituzione di Chabarovsk.
Conclusione
Nell'agosto del 1921 Cosma Manera tornò a Roma, dove venne assegnato al Battaglione mobile dei Carabinieri Reali, prestando poi servizio nelle Legioni di Salerno, Roma e Ancona.
Il 30 aprile 1923 sposò Amelia Maria Pozzolo, da cui ebbe due figlie. Lo stesso anno ricevette dal re l'onorificenza del collare dei santi Maurizio e Lazzaro. Dopo altre missioni in Francia, Grecia, Inghilterra, Austria, Germania, Spagna, Portogallo, Bulgaria, Cina, Egitto e Russia, il 1º aprile 1927 fu promosso a colonnello e comandante della Legione di Roma, mentre nel 1929 fu trasferito al comando della Legione di Milano. Per breve tempo indagò sull'incidente al Polo Nord di Umberto Nobile, ma in seguito le autorità fasciste gli revocarono l'indagine. Sventato l'attentato al re presso la fiera campionaria di Milano, venne però accusato di non essere riuscito a trovare la bomba anarchica che era scoppiata tra la folla, per cui fu mandato a dirigere la Legione di Livorno e poi quella di Bologna.
Su sua richiesta, a dicembre 1932 fu collocato in ausiliaria, mentre l'anno successivo fu promosso a generale di brigata.
Nel 1940 fu trasferito nella riserva e promosso a generale di divisione, ma data la sua scarsa simpatia al fascismo in questo periodo si occupò maggiormente della famiglia e dei bisognosi, oltre a scrivere articoli per giornali e riviste.
Morì nella sua residenza di Rivalta a 81 anni, ricevendo i solenni funerali di Stato.
Ripensando alle difficoltà dell'epoca, e alla crudezza del primo conflitto mondiale in terre come la Siberia, non si può fare a meno di comprendere quale forza interiore dovesse avere Cosma Manera per restare tre anni tra la Siberia, la Manciuria e il Giappone, e trovare, addestrare, ridare fiducia a uomini che forse avrebbero volentieri disertato.
Era un operativo, ma anche un buon diplomatico: comunque una persona di forte spessore umano e professionale, qualità alle quali si aggiungeva, secondo gli scritti d'epoca, una serena modestia.
LIBRI CONSIGLIATI
Marco Mondini – Disertare a Vladivostok
Quinto Antonelli - I dimenticati della Grande Guerra
Carlo GATTI
Rapallo, 10 Agosto 2020
UN FIOCCO DI NEVE SUL MARE D’AGOSTO
UN FIOCCO DI NEVE SUL MARE D’AGOSTO
L'autrice Marinella Gagliardi Santi
«Finalmente un’acqua con una temperatura gradevole!»
È il commento di mio marito mentre nuotiamo all’inizio di agosto, per raggiungere la nostra barca ormeggiata nella rada di Bosa in Sardegna. Mi godo la piacevolezza di questo bagno, quando all’improvviso mi prende alla pancia un dolore acuto: sensazione di morso e forte bruciore, non posso sbagliarmi, ho incrociato una medusa! Prima o poi doveva succedere, quest’anno ce n’è una vera invasione, non ci si può distrarre un attimo.
Mentre salgo rapidamente in barca alla ricerca della pomata giusta, rifletto a quant’era cretino il nome della barca a vela presso la quale ho fatto lo spiacevole incontro, “Fiocco di neve”, si chiamava. Che nome assurdo, mi mette freddo solo a pensarci, evoca boline gelide, per carità! Per me mena anche gramo.
E infatti… mentre più tardi dormiamo, avverto due colpi secchi, che mi fanno balzare in piedi.
Esco rapidamente dalla tuga e vedo che proprio Fiocco di neve sta picchiando contro la nostra prua.
Mi viene un accidente. Devo spingerla via, è un po’ più piccola della nostra, ci riesco a fatica. Cerco come posso, di tenerla a bada, perché, naturalmente, tende a riaccostarsi, venendo a picchiare di continuo sulla fiancata.
«Dado, Dado, vieni fuori!» Lo chiamo più volte a gran voce, ma è immerso in un sonno pesantissimo, questa notte. Picchio sulla tuga con i piedi e urlo con tutte le mie forze. Sente, mi risponde! Ma mi pare che ci metta un secolo a uscire, tanta è la fatica che devo fare per tenere a bada l’altra barca.
Che stress, sono in camicia da notte, ho freddo, soprattutto alle estremità, sono tutta proiettata in fuori per cercare di controllare Fiocco di neve, che ballonzola di qua e di là sull’acqua, venendo a sbatterci contro. Avevo proprio ragione, ha un nome che mena gramo.
Finalmente che – sollievo ! ecco Rinaldo armato di parabordi. Con uno di questi in mano seguo la vela nei suoi tentativi di speronarci, ma anche così non è poi tanto facile cercare di evitare il contatto tra le due barche.
A bordo, ovviamente, non c’è nessuno. Il ragazzo che abbiamo visto ormeggiare Fiocco di neve nel pomeriggio deve essere a godersi il carnevale che si festeggia a Bosa. Il mio previdente skipper l’aveva ben detto che si era messo troppo vicino a noi, sarebbe stato meglio dirglielo subito, litigarci magari, ma costringerlo a spostarsi. E invece…
«Cribbio, se è nottambulo come nostro figlio, chissà a che ora arriva!» Osservo piuttosto inquieta.
«Accidenti, e noi che eravamo andati a dormire presto per partire all’alba domani mattina! Adesso provo a dare un po’ di catena all’ancora, ma non posso darne tanta, ho un’altra barca dietro. Non so se nemmeno se è una buona idea, se questa davanti sta arando, ci seguirà…»
In ogni caso siamo costretti a stare fuori per tenerla sott’occhio. E a prestare attenzione anche alla barca dietro, alla quale ci siamo avvicinati, dopo aver lasciato andare un po’ di catena.
Bella prospettiva, ma altro non si può fare. Vado a vestirmi visto che devo rimanere in attesa sotto le stelle.
Rimaniamo seduti vicini sulla tuga, al buio, Rinaldo e io, pronti a entrare in azione. Passa un’ora… ne passano due.
Ogni gommone che si muove dal porto, speriamo sia quello giusto. Ne passano tre, ma niente da fare. A parte questi spostamenti, per il resto tutto tace sulle barche nella rada, non si vede una luce, sono tutti al carnevale a divertirsi. Mentre noi due…
Grazie al cielo, però, che siamo qui, meno male, perché il primo impatto ci ha danneggiato le luci di navigazione, dopo di che, il nostro intervento ha evitato altri danni. Ora Fiocco di neve brandeggia di qua e di là davanti alla nostra prua e le passa vicinissima, quasi sfiorandola.
Questo fa parte delle gioie degli ormeggi nelle rade… Dov’è l’incanto della notte stellata sui promontori e sul mare? E la luna che spezza la sua luce in mille riverberi sulla superficie dell’acqua?
Questa notte non possiamo davvero goderceli, la noia dell’attesa e l’attenzione costante che dobbiamo prestare alle due barche prevalgono su ogni possibile attrattiva.
Parte un altro gommone da riva, avanza… ci supera? No, si ferma! Evviva, l’attesa è finita, vediamo arrivare il proprietario della vela con due ragazze a bordo.
Lo chiamiamo: ha poca voglia di ascoltarci, anzi tenta di liquidarci rimandando tutto al mattino seguente.
Quando afferma: «Perché non potete essere voi ad aver ormeggiato troppo vicino a me?» ce lo mangeremmo vivo, visto che noi siamo arrivati alle undici del mattino e lui alle cinque del pomeriggio…
Mi domando se ha capito che siamo stati a sorvegliare la sua barca per ore, dopo essere stati svegliati dai primi colpi della sua poppa contro la nostra prua. Glielo spieghiamo con decisione e con estrema chiarezza…
Solo in questo modo lo convinciamo a salire a bordo per darci i dati dell’assicurazione, caso mai di giorno rilevassimo danni che non si vedono col buio.
Lo squadro mentre sale su Vizcaya: tipo sportivo, biondo, occhi verdi, fare deciso, piede “marino”, aria da navigatore. Sembra sveglio e spigliato, non ha niente dell’imbranato, come ha fatto a lasciare Fiocco di neve ormeggiata così male? Se non altro, alla buon’ora, ha realizzato e si scusa del disturbo che ci ha arrecato.
Mi sbolle un po’ di rabbia, tutti possono sbagliare, peccato solo che non mi ricordo di domandargli perché mai abbia scelto un nome così del cavolo per la sua barca.
Ma Fiocco di neve doveva crearci ancora dei problemi all’alba del mattino seguente, quando siamo pronti alla partenza. È leggera e ha parecchia cima, oltre alla catena, perciò continua a brandeggiare davanti alla nostra prua, coprendo una vasta superficie d’acqua, e correndo senza sosta da sinistra a destra e da destra a sinistra. Come faranno quei tre a sopportare questo moto perpetuo?
«E noi come facciamo a uscire, con questo pendolino impazzito che ci ondeggia davanti?» Si sente l’ansia nella mia voce.
«Tu devi dirmi quando è tutta di qua o tutta di là, in quel momento io recupererò al volo l’ancora per avanzare il più in fretta possibile, se no ce la portiamo via con noi!»
«Va bene, ma lasciami studiare un attimo come si muove!»
La osservo bene nel suo movimento, si ferma un istante alla fine della corsa e poi riparte a palla… ecco, ora è tutta a sinistra, è il momento, ma, ce la faremo a passare?
«Adesso, Dado, vai con l’ancora!»
L’adrenalina è già a mille alle sei del mattino.
Sono pronta a schizzare via dal timone, caso mai ci fosse qualche intoppo nel recuperare la catena, ma questa volta la barca è lanciata e ha anche tre persone a bordo, pesa di più, cosa penso di poter fermare con le mie scarse energie?
Per fortuna Vizcaya risucchia velocemente la catena e noi scappiamo giusto in tempo mentre Fiocco di neve passa al filo sfiorando la nostra poppa.
È andata, addio a mai più, spero. È già abbastanza fredda la stagione, quest’anno, inutile evocare immagini di gelo!
E infatti come al solito siamo tutti imbacuccati per ripararci da un venticello al traverso un po’ tagliente, ma, se non altro, la barca avanza a vele spiegate con un passo davvero soddisfacente…
Brano tratto dal libro di Marinella GAGLIARDI SANTI
"NON COMPRATE QUELLA BARCA"
Rapallo, venerdì 12 Aprile 2019
L’INCENDIO SULLA NORMAN ATLANTIC
L’INCENDIO SULLA NORMAN ATLANTIC
28 dicembre 2014
NORMAN ATLANTIC
Caratteristiche della nave:
Il traghetto apparteneva alla categoria Ro-Pax di ultima generazione.
Capacità merci di oltre 2.000 metri lineari di carico, 850 passeggeri, velocità di crociera di oltre 23 nodi, ideale per il servizio "autostrade del mare".
Il traghetto NORMAN ATLANTIC fu costruito nel 2009 presso i Cantieri Visentini di Porto Viuro per la stessa società marittima (VISEMAR) e battezzato con il nome di Akeman Street, il traghetto fu inizialmente noleggiato dalla compagnia di navigazione T-Link lines per la gestione della rotta Genova–Termini Imerese nell'ambito del progetto denominato “Autostrade del Mare”.
Nel 2011 la compagnia noleggiatrice venne liquidata e la nave passò di mano alla Regione Sardegna tramite la controllata società marittima Saremar: il traghetto, rinominato Scintu (in onore dell'eroe Raimondo Scintu), venne impiegato dal 15 giugno 2011 al 15 settembre 2011 sulla tratta tra Golfo Aranci e Civitavecchia, e dal 16 gennaio 2012 su quella Olbia-Civitavecchia insieme al gemello Dimonios, dal nome dato ai soldati della Brigata meccanizzata “Sassari”.
Dal settembre 2012 la nave è rimasta in disarmo nel porto di Oristano. Scaduto il noleggio con la Saremar per le corse da e per Civitavecchia, gli armatori Visentini hanno firmato il contratto con la Grandi Navi Veloci per la rotta Genova-Palermo in sostituzione dello Splendid, ferma per manutenzione nei cantieri San Giorgio di Genova e lo Scintu ha ripreso il mare senza le insegne dei "quattro mori", sostituite dal logo GNV. Dal marzo 2013 la nave è stata noleggiata alla Moby; dall'estate 2013 la nave effettuò la rotta Livorno-Olbia in servizio merci e passeggeri.
Dal gennaio 2014 il traghetto ha cambiato nome in Norman Atlantic: da settembre a novembre dello stesso anno presta servizio per Carontes&Tourist sulla rotta Messina-Salerno, per poi effettuare da dicembre servizio sulla tratta Ancona-Igoumenitsa-Patrasso per conto della compagnia greca Anek Lines (il contratto sarebbe scaduto il 17 o il 22 gennaio 2015), in sostituzione della Hellenic Spirit, fuori servizio per regolare manutenzione annuale alla carena e ai motori.
LA ROTTA PREVISTA
La Norman Atlantic, al comando di Argilio Giacomazzi, sessantaduenne spezzino, proveniva da Igoumenitsa (Grecia-Epiro) ed era diretta ad Ancona con a bordo 443 passeggeri, 56 membri dell'equipaggio.
LA ZONA DELL’INCENDIO
Giunti verso le 04.30 del 28 dicembre 2014 a 33 miglia da Fano nel Canale di Otranto, improvvisamente divamparono le fiamme nel garage della nave dove si trovavano 128 autocarri, 90 automobili, due autobus ed una moto. Il mayday fu lanciato alle 4h47m.
L’incendio grave si diffuse rapidamente a causa di una burrasca forza 7/8.
Sono passati 4 anni esatti dal grave disastro navale. Un incidente sulle cui cause sta ancora indagando la Procura di Bari che sta vagliando la posizione del capitano Argilio Giacomazzi, dell’addetto al carico Pavlos Fantakis, dell’armatore Carlo Visentini, dei due responsabili legali della Anek Lines che aveva noleggiato la nave e di 7 membri dell’equipaggio per cooperazione colposa in lesioni, naufragio e omicidio plurimo. Un lavoro complicato, quello dei pm Ettore Cardinali e Federico Perrone Capano: sono ancora tanti e diversi gli aspetti da chiarire, sia sulle cause dell’incendio sia sulla gestione dell’emergenza a bordo. La combustione ad alte temperature andata avanti per oltre una settimana, anche dopo il rimorchio nel porto di Brindisi, non aiuta poiché ha distrutto il “cuore” del disastro, lì dove tutto sarebbe iniziato in quella notte di mare in tempesta: ponte 4, ordinata 156.
Le vittime accertate: 9 morti, 60 feriti e 19 dispersi. Secondo testimonianze attendibili, un imprecisato numero di clandestini mediorientali forse sei, sarebbe imbarcato prima della partenza della nave. Di loro non si ebbero più notizie.
Grazie ad una vasta operazione di soccorso mai tentata prima e che ha coinvolto oltre
20 navi mercantili e militari di diverse nazionalità, numerosi elicotteri di soccorso italiani e greci, sono state tratte in salvo 477 persone affrontando condizioni meteomarine estremamente difficili come testimoniano le foto sotto.
La burrasca in corso con mare forza 7/8 - onde alte sei metri – vento a 80km/h, ha impedito, almeno nella fase iniziale, che le operazioni di salvataggio potessero effettuarsi con i mezzi di bordo. Infatti, dopo l’ordine di “abbandono nave”, subentrò tra i passeggeri una fase di grande confusione anche perché la lancia di salvataggio di dritta prese fuoco insieme al MES. Due passeggeri greci perirono a causa di un incidente verificatosi con lo scivolo del sistema d'evacuazione MES. Alcuni passeggeri morirono per ipotermia dopo essersi gettati od essere caduti in mare. Qualcuno, senza l’ordine diretto del Comandante, prese l’iniziativa di ammainare la lancia di sinistra, ma con solo 49 persone, un terzo della sua capienza. Questi naufraghi furono recuperati dalla m/n Spirit of Piraeus. Disastrosa fu la messa a mare di alcune zattere gonfiabili che si capovolsero provocando la morte per annegamento o ipotermia di diversi occupanti, mentre altri, rimasti aggrappati a delle cime, sono stati recuperati dagli elicotteri. Un’altra drammatica operazione si verificò durante l’avvicinamento di una zattera alla nave per prendere altri passeggeri che purtroppo non ressero lo sforzo e caddero dalle biscagline di bordo scomparendo in mare; quelli rimasti sulla zattere furono recuperati dalla M/N Aby Jeannette la quale nella stessa operazione riuscì a salvarne altri per un totale di 39 naufraghi.
Il primo ufficiale di macchina Gianluca Assante, anch'egli caduto in mare, fu recuperato dalla petroliera Genmar Argus. Solo un centinaio di persone abbandonò la nave su zattere e lance o gettandosi in acqua, mentre le rimanenti furono recuperate dagli elicotteri con manovre davvero ardite.
Queste furono le navi dirottate per portare soccorso alla nave sotto incendio:
i traghetti Forza e Cruise Europa, la portacontainer Spirit of Piraeus, le portarinfuse Aby Jeannette, Stelios B., Plana e Salvinia, le petroliere Genmar Argus e Nissos Serifos, le chimichiere Evinos e Canneto M.)
Provvidenziale fu l’immediato invio di due potenti rimorchiatori da Brindisi: TENAX e MARIETTA BARRETTA con due squadre di Vigili del Fuoco e di due motovedette della Guardia Costiera. Altre due motovedette salparano immediatamente da Otranto e Santa Maria di Leuca. Da Corfù e Igoumenitza partirono 3 vedette della Guardia Costiera greca, uno dei quali era un mezzo antincendio. Decollarono anche 7 elicotteri della Marina, 3 dell’Aeronautica e 2 della Guardia Costiera Italiana, nonché delle analoghe forze elleniche (5 dell'Aeronautica greca, due della Marina e 4 dell'Esercito).
A causa delle pessime, anzi estreme condizioni meteorologiche, esaurite le possibilità di salvataggio via mare, gli elicotteri procedettero ad un lento ma sicuro recupero dei passeggeri, uno alla volta, che si erano ammassati sui ponti superiori della nave come bene illustra la foto sotto.
L’arrivo della nave militare San Giorgio, in veste di OSC (On Scene Commander) ovvero comandante sul posto delle operazioni SAR, ha dato grande fiducia ai passeggeri che dovevano difendersi dal fuoco, dal vento freddo, dalla pioggia ed anche dai cannoni antincendio dei rimorchiatori. Getti mirati con grande abilità eseguendo gli ordini e le istruzioni direttamente dagli elicotteri, come si può osservare nelle foto in successione.
Per gli appassionati di marineria e di questo genere d’imprese, ho recuperato un autorevole RAPPORTO COMPLETO delle operazioni di salvataggio.
Inizialmente, i superstiti recuperati dagli elicotteri sono stati trasferiti sul traghetto Cruise Europa (per un totale di 69), mentre in seguito all'arrivo della nave anfibia San Giorgio è divenuta quest'ultima la piattaforma di atterraggio per gli elicotteri. Il Cruise Europa non ha potuto recuperare nessuno dal mare a causa delle condizioni meteomarine fortemente avverse, che hanno anzi causato la perdita di una delle sue lance di salvataggio, la numero 4, precedentemente calata in mare nel tentativo di soccorso poi arenatasi danneggiata sulla costa albanese al pari della lancia di sinistra del Norman Atlantic.
Il primo naufrago recuperato da elicotteri, un passeggero in ipotermia che si trovava in mare aggrappato ad una zattera capovolta, è stato recuperato e portato all’aeroporto militare di Galatina alle ore 10; durante i soccorsi un uomo della Guardia Costiera ha riportato lievi ferite, mentre un elicottero è dovuto rientrare a causa della rottura di un verricello. Alle 11.46 il coordinamento delle operazioni di soccorso è stato assunto dalle autorità italiane (Maritime Rescue Sub Center di Bari, poi Maritime Rescue Coordination Center di Roma). A mezzogiorno, con il salvataggio di un primo gruppo di 8 persone, trasportate a Galatina, ha avuto inizio il recupero dei passeggeri a bordo della nave mediante elicotteri del 36º Stormo di Gioia del Colle e del 61º Stormo di Galatina, che hanno costituito un ponte aereo. Alle 13:12 ed alle 13:16 sono stati fatti partire da Brindisi, rispettivamente, la nave anfibia San Giorgio ed il rimorchiatore Asmara, precedute alle 11:30 da un altro rimorchiatore, l'Aline B.. Nel frattempo accorrevano sul luogo anche il pattugliatore albanese Butrinti, che, giunto sul posto alle 10:45, ha partecipato allo spegnimento dell’incendio insieme al Marietta Barretta a partire dalle 12:40 (opera nella quale è giunto ad assisterlo il gemello Lissus il giorno seguente), e la fregata greca Navarino (da Salamina hanno preso il mare anche la FAC Daniolos e la nave supporto logistico Axios). Alle 14:06 i superstiti recuperati erano complessivamente 111; 26 dei quali recuperati da elicotteri (9 portati in Puglia e 17 sul Cruise Europa); alle 15:09 risultavano tratte in salvo 131 persone, 45 delle quali con elicotteri (36 sul Cruise Europa e le altre a terra), divenute 146 alle 16:10. Alle 15:30, intanto, il pattugliatore albanese Butrinti ha recuperato un passeggero greco caduto in mare. Alle 17:31 il rimorchiatore Marietta Barretta (impegnato con il Tenax anche ad arginare l’incendio con gli idranti di bordo), dopo diversi tentativi e con l'assistenza di un elicottero, è riuscito a prendere a rimorchio il Norman Atlantic. Alle 19:30, mentre arrivava sul posto il San Giorgio, sulla quale hanno iniziato ad essere portati, invece che sul Cruise Europa (dove erano stati sino ad allora trasferiti 69 naufraghi), i superstiti, il numero dei salvati era salito a 165, divenuti 169 alle 21:02, quando il San Giorgio ha assunto il coordinamento dei soccorsi, e 172 alle 21:25. Essendosi spezzato il cavo di rimorchio, alle 21:55 del 28 dicembre il Marietta Barretta ha dovuto sostituire il cavo, riuscendo a riprendere il rimorchio. Il recupero dei naufraghi, trasportati dagli elicotteri sul San Giorgio, è proseguito anche durante la notte, dopo l’arrivo in tarda serata del cacciatorpediniere lanciamissili Luigi Durand de la Penne, dotato di un ulteriore elicottero, che ha preso a bordo 31 naufraghi (successivamente trasferiti sul San Giorgio, sul quale ne erano precedentemente stati depositati 184). Alle 4:56 del 29 dicembre i naufraghi recuperati risultavano 221; poco dopo personale medico è stato depositato dagli elicotteri a bordo del Norman Atlantic. Alle 6:17 erano 251 le persone tratte in salvo, salite a 265 alle 7:02, a 290 alle 7:52, a 310 alle 8:41 e a 316 alle 9:15. Alle 9:35 i superstiti recuperati erano 329, saliti a 345 alle 9:49, 356 alle 10:17 e 379 alle 11:26. Alle 11:55 erano stati recuperati 391 sopravvissuti ed anche i corpi di quattro vittime (un primo passeggero era deceduto durante il recupero da parte di un elicottero il giorno precedente e la salma era stata portata a Brindisi). Durante tali operazioni è sopraggiunto anche un secondo pattugliatore albanese, il Lisus, che si è unito al gemello Butrinti ed ai rimorchiatori italiani nel gettare acqua per spegnere l'incendio. Alle 13:10 407 persone risultavano tratte in salvo ed alle 13:35 solo nove membri dell’equipaggio erano rimasti sul Norman Atlantic, per effettuare un’ultima ispezione. Alle 14:10 solo il comandante Giacomazzi, assieme a quattro ufficiali della Marina Militare, era ancora a bordo del traghetto; alle 14:50 anche il comandante Giacomazzi ha lasciato per ultimo la nave. Oltre a tutti i passeggeri e membri dell'equipaggio presenti sul traghetto dopo l'iniziale concitato abbandono della nave sulle imbarcazioni, gli elicotteri hanno portato in salvo anche due cani che si trovavano sulla nave. Alle 15:37 sono state recuperate altre due salme, portando il numero delle vittime a sette, ed alle 20:06 altre due.
Complessivamente sono stati tratti in salvo 477 naufraghi (l'intero equipaggio, 418 passeggeri e tre clandestini), con operazioni aeree e navali durate 36 ore, mentre al 15 gennaio le vittime accertate risultavano 11 (9 tra i passeggeri del Norman Atlantic, tutti morti dopo essere finiti in mare durante l'iniziale abbandono della nave e prima dell'arrivo dei soccorsi, più 2 marinai albanesi del rimorchiatore Iliria, morti per la rottura del cavo di traino nel tentativo di rimorchiare il Norman Atlantic), e rimanevano 19 dispersi (due autotrasportatori italiani, nove passeggeri greci, una passeggera tedesca di origini libanesi, quattro passeggeri turchi ed almeno due clandestini siriani ed un iracheno. Cinque salme sono state recuperate dalla nave anfibia San Giorgio tra il 29 ed il 30 dicembre, mentre quattro sono state recuperate tra il 28 ed il 30 da motovedette della Guardia Costiera, che le hanno trasportate in Puglia. Altre due salme, avvistate in mare durante i soccorsi, non hanno potuto essere recuperate. A bordo del traghetto era presente anche un imprecisato numero di clandestini provenienti dal Medio Oriente, nascosti tra i camion nei garage, alcuni dei quali tratti in salvo. L'incertezza al 30 dicembre dipendeva anche dalla possibilità che alcuni passeggeri fossero a bordo senza risultare nelle liste di imbarco, nonostante non sia stato di certo praticato overbooking essendo la capienza nominale del traghetto di 850 passeggeri.
Delle navi soccorritrici, la Spirit of Piraeus, dopo aver dovuto rinunciare ad entrare a Brindisi alle 3 di notte del 29 dicembre (a seguito del ferimento di un pilota del porto durante il tentativo di trasbordare), è giunta a Bari alle 7:30 dello stesso giorno con 49 naufraghi. Il Cruise Europa ha raggiunto Igoumenitsa con 69 superstiti il medesimo giorno, mentre il San Giorgio, dopo aver recuperato altre due salme nella giornata del 30 (e dopo il trasferimento a bordo di 31 naufraghi presenti sul Durand de la Penne e di uno proveniente dalla Genmar Argus), è giunta a Brindisi poco dopo le 20 del 30 dicembre, con a bordo in tutto 212 sopravvissuti ed i corpi di 5 vittime. L'Aby Jeannette, dopo aver dovuto rinunciare ad attraccare dapprima a Brindisi, poi a Bari ed infine anche a Manfredonia a causa del mare molto mosso e di una tormenta di neve, ha dovuto fare rotta per Taranto, dov'è arrivata con 39 naufraghi (tra cui 3 feriti lievi) alle 14:15 del 31 dicembre. Più tardi, durante la giornata del 31, sono giunti in Grecia un peschereccio ed un elicottero con rispettivamente 73 e 7 naufraghi ed infine un'altra nave con l'ultimo gruppo di superstiti.
IL RIMORCHIO A BRINDISI – ISPEZIONI SUL RELITTO
STORIA IN IMMAGINI
Concludiamo il racconto di questa tragica operazione di salvataggio rimarcando la professionalità dei cinque rimorchiatori italiani (Marietta Barretta, Tenax, Asmara, Aline B. e A.H.Varazze) i quali, per il coraggio dimostrato si sono guadagnati il plauso dello shipping internazionale ed anche le meritatissime decorazioni per il salvataggio compiuto di molti passeggeri e per lo spegnimento dell’incendio della Norman Atlantic realizzato in condizioni meteo difficilissime.
Non altrettanto si può dire dei due rimorchiatori albanesi Adriatik e Illiria che non tennero conto delle decisioni concordate e prese dalle Autorità dei Paesi interessati al disastro: rimorchiare il relitto verso un porto italiano adatto ed attrezzato per ospitare i naufraghi e la nave stessa.
I fatti presero una piega inaspettata quando, il 30 dicembre, a seguito di una nuova rottura del cavo da rimorchio del Marietta Barretta, il rimorchiatore albanese Iliria tentò, con un colpo di mano improvviso, di prendere il traghetto a rimorchio per portarlo a Valona (Albania) e consegnarlo alle proprie Autorità come un trofeo di guerra…!
In quella “manovra piratesca” effettuata con molta fretta e imperizia marinara, il cavo si spezzò ferendo gravemente due marinai albanesi, deceduti poco dopo nonostante l'invio a bordo di un medico della nave militare italiana San Giorgio.
Dinanzi alla morte di due incolpevoli marinai albanesi ci fermiamo a meditare in preghiera!
Tuttavia, consentite allo scrivente, che ha esercitato il comando di queste unità per molti anni, di manifestare le proprie perplessità dinnanzi a tanta arroganza, ignoranza delle leggi in vigore, di una totale assenza di etica professionale e di solidarietà umana in circostanze così particolarmente difficili e delicate quando il successo dell’impresa dipendeva soltanto dalla interazione tra tutti i mezzi di salvataggio, come i fatti hanno dimostrato!
Foto del Comandante Nunzio Catena
Concludo con un positivo avvenimento: a bordo, tra i passeggeri, vi era il soprano Dimitra Theodossiou che doveva cantare a Capodanno il celebre "Nabucco" di Giuseppe Verdi a Rimini. Per quanto la cantante fosse stata salvata con l'elicottero e portata all'ospedale di Lecce, cantò regolarmente ed ebbe un grande successo!
Carlo GATTI
Rapallo, 19 dicembre 2018