THOMAS W. LAWSON LA GOLETTA DEI RECORDS
THOMAS W. LAWSON
La Goletta dei records
Thomas Lawson - Viaggio Inaugurale - 1902
UN PO’ DI STORIA:
Mentre la nave a vela in legno tramontava definitivamente, il suo posto veniva preso dal veliero in ferro prima, e poi da quella in acciaio. Con l’apertura del Canale di Suez nel 1869, il mondo della vela accusò un ulteriore colpaccio perché solo le navi a vapore potevano utilizzarlo evitando il periplo dell’Africa. Il lento ma costante progresso della nave a vapore ottenne in quegli anni il monopolio del trasporto passeggeri.
Nel 1890 solo il 10% del naviglio varato dai cantieri inglesi era privo di propulsore a vapore: il rimanente alberava imponenti fumaioli tra la persistente selva di alberi e sartiame.
La navigazione a vela, dopo cinquemila anni di universale pratica, veniva lentamente sconfitta dal nuovo mezzo meccanico. Già! Lentamente, perché la lotta fu aspra e durò ancora nel corso della Prima guerra mondiale, quando gli U-BOOT tedeschi ne fecero scempio con il cannone.
Riservate ai velieri d’altomare rimanevano solo alcune rotte, quelle estreme dei collegamenti con le regioni più lontane (Australia e Cile). Regioni troppo lontane per la limitata autonomia della nave a vapore.
Entriamo ora nel mondo della tipologia windjammer usando la classica definizione: “grandi velieri da trasporto che vennero realizzati tra la fine del XIX e l'inizio del XX Secolo”.
La grande novità costruttiva fu questa: scafo in ferro, e 3 - 5 alberi armati con vele quadre. Questa configurazione dava loro un profilo caratteristico perché furono le più grandi navi a vela mai costruite, avevano grandi stazze e non pochi vantaggi:
- la costruzione in metallo rendeva sia la produzione sia la manutenzione più economica di una nave a vela in legno di pari dimensioni.
- Lo scafo era più resistente e quindi permetteva il trasporto di un carico maggiore di una nave di dimensioni più grandi.
- Il moderno concetto di costruzione in serie sfruttava i rilevanti vantaggi dati dall’economia di scala.
- Lo stesso materiale: ferro prima, acciaio in seguito con il quale venivano realizzate, era di per sé meno costoso del legno. Inoltre lo scafo risultava più sottile e quindi lo spazio interno era maggiore.
- Il disegno costruttivo tipico del windjammer mostrava una particolarità molto importante per l’impiego dei più recenti ritrovati tecnologici. Le vele erano semi meccanizzate, gli alberi erano profilati in acciaio e, quando possibile, anche le manovre e il sartiame erano in acciaio.
- Lo scafo era affilato e rendeva il windjammer molto veloce e, nonostante il peso di quattro alberi, poteva raggiungere velocità media tra 15 e 18 nodi. La Herzogin Cecilie aveva raggiunto la fantastica velocità di 21 nodi.
- Ma c’era un altro aspetto economico di grande rilievo: l'equipaggio tipico di un veliero dell’epoca era composto da: comandante, secondo, nostromo, 15 marinai esperti e 5 apprendisti, mentre l'equipaggio richiesto per governare un windjammer poteva essere di sole 14 persone.
- L'armamento e le attrezzature fornivano prestazioni migliori della goletta e poteva navigare seguendo il vento meglio di una nave a palo, ed infine era più maneggevole di una nave dotata di sole vele quadre. La capacità di carico variava tra le 2.000 e le 5.000 tons. Il tipico carico, come abbiamo già visto, era costituito da guano, legno grezzo, grano e carbone.
Il grande veliero da carico-WINDJAMMER presentava ancora due notevoli vantaggi:
- non doveva fermarsi per caricare carbone
- il vento non costava nulla
Facendo presa e insistendo coraggiosamente su questi due concetti, Francesi, Tedeschi e Scandinavi costruirono velieri sempre più grandi, destinati a caricare una sempre maggiore quantità di merci. Mentre la flotta dei velieri americani andava lentamente declinando, quella inglese divenne la prima al mondo. A questa situazione di disagio… gli americani risposero con la costruzione di una super windjammer:
La Goletta Thomas W. Lawson fu l’unica goletta mai costruita con ben 7 alberi: trinchetto, maestro, mezzana, spanker, jigger, driver, pusher; dato il tipo di velatura, erano tutti delle medesime dimensioni e sopportavano, è il caso di dirlo visto il risultato finale, sette grandi vele auriche (le rande), sette “frecce” o controrande, cioè le vele triangolari poste alle estremità superiori degli alberi, cinque fiocchi a prua e sei vele di straglio, inserite su stralli tesi fra un albero e l’altro.
La Thomas W. Lawson aveva lo scafo in acciaio e, originariamente fu destinato per il commercio del Pacifico, ma poi fu utilizzata principalmente per trasportare il carbone e petrolio lungo la costa orientale degli Stati Uniti. Fu costruita nel 1902 e fu la goletta più grande e la più grande nave a vela pura (senza motore ausiliario)
In questa foto la LAWSON “fully ladden” mostra tutto il suo pescaggio di 10 metri
LE CARATTERISTICHE sono davvero impressionanti:
1- Lunghezza: 145 metri,
2- Larghezza 15 metri;
3- Altezza 58 metri;
4- Pescava ben 10 metri a pieno carico; pochi porti italiani sarebbero tuttora in grado di ospitarla;
5- Dislocamento: 10.860 tonnellate
6- era spinta unicamente dalle 25 vele che coprivano più o meno 4300 metri quadrati di superficie (più o meno un campo da calcio) e da sole pesavano 18 tonnellate.
7- Velocità 16 nodi.
8- Equipaggio: 17 – 18 uomini
9- Capacità di carico: Portata utile 11.000 tonnellat2
10-Proprietà: Coastwise Transportation Company di Boston
11-Cantiere: Fore River Shipyard di Quincy, Massachusetts
12-Impostata: Novembre 1901
13-Varata: Luglio 1902
La velatura a goletta necessitava di pochi marinai e per la manovra fu un grande vantaggio. Sulla Lawson, infatti, gli addetti alle manovre delle vele erano solo 15 uomini, aiutati da 6 verricelli a vapore.
M.Crowninshield fu l’architetto che disegnò lo scafo.
L’EPILOGO
Le isole Schilly
Gli scogli dov'é naufragata la THOMAS W.Lawson
Nella notte tra il 13 ed il 14 dicembre del 1907 la Thomas W. Lawson, di ritorno dal suo primo viaggio transatlantico da Filadelfia (USA) a Londra con un carico di Kerosene, si trovò nel centro di una violentissima tempesta al largo delle isole Schilly vicino alla Cornovaglia (UK). Il capitano George W. Dow, temendo di non riuscire a doppiare le isole, diede fondo entrambe le ancore nel tentativo di frenare lo scarroccio, ma fu tutto inutile: si spezzarono le catene e la grande goletta naufragò sugli scogli. Gli unici superstiti furono il capitano Dow e il tecnico E. Rowe.
Si aprirono numerose falle fino a quando la nave si capovolse ed affondò. Il carico fuoriuscì e migliaia di barili di petrolio finirono in mare.
La nave giace a circa 25 metri di profondità ed è esplorabile dai subacquei.
Il carico di 58.000 barili di kerosene si disperse interamente in mare. Il NAUFRAGIO della LAWSON é tuttora considerato il primo disastro ambientale da versamento di idrocarburi della storia.
Carlo GATTI
Rapallo, 10 novembre 2017
A L'EA GENTE NAVEGÂ,..
A L'EA GENTE NAVEGÂ ...
Le coste italiane hanno uno sviluppo complessivo di 7.456 chilometri per cui si dice che gli italiani siano "NAVIGATORI" oltre che poeti ed eroi ed altro. Il concetto compare sulla facciata del Palazzo della Civiltà Italiana o "COLOSSEO QUADRATO" a Roma.
MA IO HO UN'ALTRA OPINIONE!
La maggior parte degli italiani ancora nel XX secolo non avevano mai visto il mare:
gente dell’entroterra, di pianura, di campagna e di montagna che ne sentiva certamente parlare senza capire bene cosa fosse… interpretandolo, fin dai tempi più lontani, come la via d’accesso più insidiosa a pirati e razziatori da cui occorreva difendersi arroccandosi nel più profondo interno sulle colline tra mura e bastioni armati. Gente di terra che non temeva il maestrale, il libeccio e le tempeste atlantiche… perché non sapeva neppure come immaginarli …
Per i nostri avi, gente della costa, il mare era invece l’unica via di scampo per sopravvivere: l’amico-nemico che fin da piccoli si doveva imparare a rispettare e farselo amico per necessità; era l’orco marino con cui si giocava senza prendersi troppa confidenza perché aveva un carattere imprevedibile: voleva essere ossequiato e temuto perché lui percepiva e gradiva l’odore dei marinai veri. Un tempo si diceva:
Il buon marinaio lo si vede nella burrasca!
Il mare ha sempre punito i suoi sfidanti, quelli con la mentalità da tempo buono, arroganti e saccenti che fin dai tempi antichi costruivano navi, dighe e porti pensando al “mare forza olio”….
Purtroppo questa genia esiste ancora!
Verso Capo Horn...
Da grandi poi occorreva immaginarlo sempre incazzato e furioso. Da prevenuti e guardinghi si era sempre pronti ad affrontarlo con le armi create con l’esperienza dei “sopravvissuti” ai naufragi, alle demolizioni d’interi pezzi di costa, a paesi spariti insieme alle case e i rifugi delle imbarcazioni.
Gente dell’entroterra “condannata” a vivere nelle nebbie di pianura tra le dolci colline o sui monti innevati; gente di mare “condannata” a guardare oltre l’orizzonte per scoprire l’ignoto e conquistarlo per trovare qualcosa che valesse più di quella terra dura da arare e da domare negli esigui spazi tra i muretti a secco.
Pensieri diversi, mentalità talvolta opposte: di apertura e di chiusura, di coraggio estremo nell’affrontare l’ignoto marino, o di paura sulla terraferma per le improvvise guerre fratricide. Orizzonti diversi che hanno forgiato due razze diverse, due Italie che forse non si sono mai capite… non per odio, ma per un destino diverso che li ha posti su pianeti diversi.
Non occorre andare troppo distanti nel tempo. Allora parliamo dei nostri nonni che vissero a cavallo dell’800-900 quando nel Nord Italia si affacciò la Rivoluzione Industriale portando l’elettricità, i prodotti chimici ed il petrolio che sconvolsero il sistema economico e sociale nel suo insieme: una gtrasformazione che dura ancora oggi.
Ma vi siete mai chiesti da quanti secoli la gente della costa costruiva navi per solcare gli oceani e, in modo del tutto autonomo, era impegnata in una rivoluzione industriale indipendente che progrediva sia sul piano civile che militare per tenersi al passo degli altri Paesi concorrenti di tutte le sponde?
Eminenti storici ci hanno tramandato: nei secoli XIII e XIV, i Rapallini svilupparono una rilevante attività commerciale-marittima, soprattutto col Levante, ad opera della numerosa colonia rapallese dislocata a Cipro. In essa emersero naviganti, armatori e commercianti dai nomi ormai dimenticati: i Ruisecco e i Pastene. Un Domenico Pastene (fine del ‘300) diventa il più grande commerciante dell’isola, viaggia molti anni in Egitto, Siria, Asia Minore, Mar Nero, sino al golfo Persico, inviando interessanti relazioni diplomatico-commerciali alla Repubblica di Genova, lasciando infine tutte le sue ricchezze al Banco di San Giorgio. E Rapallo manda persino sulle rive del Lago di Ginevra un Sacolosi ed un Andreani, quali maestri d’ascia per la costruzione di galee sabaude. Pure alla fine del ‘300 un Antonio Colombo di Rapallo è Comandante di galee.
Durante il 1400 un rapallese è consacrato alla storia quale esperto comandante di armate navali: è l’ammiraglio Biagio Assereto, vincitore della battaglia di Ponza, la più grande del secolo XV. Tra gli uomini illustri assume particolare rilievo Giovan Battista Pastene, Almirante del re di Spagna, Pilota Major do Mar do Sud, fondatore di Valparaiso (1544). A questo punto si devono ricordare: Bartolomeo Canessa, Capitano di galeazza con Patente di corsa della Repubblica Genovese; Agostino Canevale, Comandante della galea Lomellina alla battaglia di Lepanto e Gio Bernardo Molfino, Capitano della fregata Il Cacciatore, che a metà del ‘600 corseggiava nei mari del Levante. Pressappoco alla medesima epoca, gli abitanti del Capitanato di Rapallo elargiscono una forte somma per la costruzione di una nuova galea, da incorporarsi col nome di Santa Maria del Monte Allegro, nella flotta genovese.
Durante il periodo conosciuto come “l’Epopea della Vela”, Rapallo diede figure eminenti di Capitani di Lungo Corso, da Emanuele a Giacomo Bontà, a Pietro Felugo e a Cap. Agostino Solari, da Agostino G. B. Macchiavello a Valentino Canessa e a Biagio Arata (comandante di grandi velieri in lunghe navigazioni oceaniche), tutti valenti navigatori sulle rotte oceaniche mondiali. Parecchi rapallesi si contavano anche fra gli equipaggi della Real Marina Sarda.
Génte navegâ …. Questa espressione rimasta nell’uso comune si riferisce ancora all’esperienza internazionale della nostra antica “gente di mare”, veri ambasciatori sparsi nel mondo, Comandanti che sapevano come procurarsi i noli entrando nella politica non solo economica del Paese che li ospitava, ma facendosi apprezzare fino a diventare agenti diplomatici, consoli e consiglieri di Governi.
Questa gente “navegâ” portava in patria informazioni “reali ed affidabili” su risorse naturali da esportare ed importare, notizie su rivoluzioni in corso e sulle varie instabilità che si alternavano con molta frequenza. I nostri equipaggi erano i media dell’epoca, osservatori privilegiati che portavano alla luce scenari altrimenti sconosciuti in Europa. Padri Comandanti che iniziavano i figli alla navigazione tenendoli a bordo quattro anni per lasciargli il Comando, per poi rientrare a casa ed aprire Cantieri Navali e Società di navigazione.
Questa era la gente navegà! Gente che parlava tutte le lingue del mondo marittimo, che conosceva la storia, la geografia e l’economia del mondo di allora. L’esempio tipico di persona navegà é sicuramente Giuseppe Garibaldi, la punta di un immenso iceberg umano se pensate che la sola Camogli armò 1200 velieri e non fu un caso che l’Eroe dei due mondi staccasse il proprio libretto di navigazione su un veliero di Camogli:
Non c’é famiglia nella nostra Riviera di Levante che non abbia o non abbia avuto parenti in Cile e in Perù. Di una cosa siamo certi: occorreva essere uomini di ferro prima che grandi marinai. Quella di Capo Horn fu un’EPOPEA che dovette pagare un prezzo molto alto: due/tre velieri su cinque affondavano; si parla di oltre 800 navi e di 10.000 persone perse in quel mare.
I primi marinai che emigrarono in Sud America furono i nostri avi che per un motivo o per l’altro (paura di ripassare Capo Horn, malattie, incidenti di navigazione ecc....) non rientrarono più a bordo, in pratica si stabilirono nelle principali città del Sud Pacifico e diedero vita ad attività di pesca e vendita del pescato, altri si diedero all’agricoltura, altri ancora diventarono commercianti aprendo negozi o magazzini (ALMACIEN). I più fortunati e intraprendenti iniziarono con piccoli laboratori artigianali che divennero via via fabbrichette sempre più importanti le quali fecero nel corso degli anni da calamita per tanti loro parenti amici che poi lasciarono la Liguria in cerca di fortuna.
A metà ‘800 si passò dal romanticismo dei “Capitani Coraggiosi” ad una classe di professionisti. In quel secolo, quasi ogni paese della Riviera di levante ha ospitato un cantiere navale di piccole o grandi dimensioni, in un angolo del proprio litorale. Molti furono, quindi, i velieri, i pinchi, le tartane, i leudi e i gozzi che nacquero sotto gli occhi dei “mastri geppetto” che, da queste parti, si chiamano maestri (mastri) d’ascia. Il loro ricordo, per fortuna, si perpetua ancora attraverso qualche raro figlio o nipote che professa questa arte, quasi di nascosto, con la stessa maestria di un tempo.
Lungo la passeggiata a mare di Rapallo, prima di arrivare al monumento di Colombo, sorgeva un cantiere navale che nel 1865 raggiunse una notevole importanza. Vi si costruirono non solo tartane, golette e scune, ma anche grossi bastimenti oceanici di oltre 1000 tonnellate, quali l’Iside, l’Espresso, il Genovese, il Ferdinando, il Siffredi, il Giuseppe Emanuele ed il maestoso Caccin di 1500 tonnellate, sotto la direzione di grandi costruttori navali come G. Merello, Graviotto ed Agostino Briasco.
Rapallo ebbe anche una buona e frequentata SCUOLA NAUTICA che esisteva nel 1865, diretta dall’astronomo Salviati (vicino alla porta delle Saline n.d.r.).
Cantieri e Scuole Navali sorgevano dirimpettai, perché legati ai “bisogni” della nuova industria marittima che sentiva avvicinarsi il rombo del motore della Rivoluzione Industriale e quindi la necessità di essere pronti per il passaggio epocale dalla marineria velica a quella moderna in ferro e poi acciaio. Non ci si può quindi meravigliare se anche Rapallo, così vicina a Genova ed alla formidabile tradizione di Camogli, fosse presa dal vortice del rinnovamento e facendo riferimento sulla notevole tradizione dei suoi naviganti ed emigranti si candidasse come sede di una Scuola Nautica Privata che, infatti, ebbe il suo riconoscimento nel 1853 da parte del Ministero dell'Educazione Nazionale.
Le vicissitudini belliche del periodo pre-unitario rinviarono l'apertura della Scuola Nautica al 19.11.1861. Ma fu con l'arrivo del preside Edoardo Salviati che gli alunni salirono dall'esiguo numero di 12 agli 82 iscritti, dei quali il 50% erano residenti a Rapallo.
Ma non erano solo rose e nel 1869 una prima Commissione Governativa invitava l'Amministrazione ad assumere docenti che la potessero rendere “Un'Istituzione vera e seria e non un'illusione come lo è al presente”. Il rigore mostrato dal Governo funzionò e nel 1870-1871 Rapallo divenne sede di esame anche per conseguire il grado di Capitano di Lungo Corso.
Nel 1872-1873 la Scuola Nautica di Rapallo ottenne il tanto atteso Riconoscimento Governativo e raggiunse l'apice della sua esistenza. Un “Rapporto Elogiativo” redatto da Giovanni Ardito, Presidente della Giunta di Vigilanza ne rimarcò la crescita per numero di alunni, oltre 300 e per la promozione, 67%. La Scuola acquisì sussidi straordinari dal Ministero ed un posto di rilievo nel Levante, nonostante l'apertura delle scuole di Recco e Chiavari che erano temibili concorrenti rispetto al potenziale bacino d'utenza.
la Scuola continuò ad essere frequentata da un buon numero di allievi, ed il 14 febbraio 1875 fu dichiarata - SCUOLA GOVERNATIVA - e nel marzo 1876 - REGIO ISTITUTO NAUTICO -.
LA SVOLTA
Rapallo, città turistica già nota all’estero per le sue bellezze naturali e climatiche, fu una delle prime città a scegliersi un destino diverso: il turismo di élite, dotato di strutture alberghiere di altissimo livello. La sua rinuncia alla cantieristica navale fu quindi obbligata dall’impossibile convivenza tra il rumoroso scalo posto sul bagnasciuga e la tranquillità cercata dal turista proveniente dal nord, già pesantemente industrializzato e inquinato dai ‘fumi carboniferi’.
Il tramonto dei velieri rapallesi coincise, quindi, con le crescenti e svariate opportunità che il nuovo secolo andava dispensando. Spesso, i nuovi investitori sul turismo erano emigranti italiani di ritorno dalle Americhe che puntarono sulle località rivierasche, già pubblicizzate nelle Americhe per il clima da sogno, i bagni di mare, le escursioni culturali di arte profana e religiosa, l’arte eno-gastronomica, ma anche per quelle ludiche, con i celebri impianti dei campi da golf, tennis ecc...
Giunti a questo punto, corre l’obbligo di porci parecchie domande. Dove é finita questa immensa tradizione imprenditoriale? Dove é finito quell’enorme patrimonio umano di cui non si parla più ormai dal dopoguerra? Forse abbiamo perso la memoria di quello che eravamo? Perché siamo diventati quasi tutti “terrazzani”? Perché ci siamo “liberati” totalmente della nostra cultura e non riusciamo più a costruire NULLA di efficiente che sappia fronteggiare le nuove sfide del mare?
Oggi, purtroppo, assistiamo al crollo di dighe e di porti… la gente ha paura del mare e persino di sfruttare le vie di collegamento via mare con le località limitrofe. Ci siamo tuffati nel mare dell’assurdità consegnandoci ai grandi professori della parola, dei comunicatori, dei filosofi …. Quasi dimenticando chi siamo “dentro”!
Noi non abbiamo la competenza per rispondere a tutti questi temi. Altri lo faranno…
Noi, come Associazione MARE NOSTRUM RAPALLO , con la blasonata rivista mensile IL MARE, oggi MARE NEWS che ci dà ospitalità, da circa trent’anni tentiamo di tenere accesa la fiaccola della MEMORIA, convinti come siamo che solo in essa possiamo ritrovare I NOSTRI PERDUTI VALORI.
Carlo GATTI
L'articolo é stato pubblicato nel mese di Marzo 2020 sul
MARE NEWS
Rapallo
L’ARSENALE DI VENEZIA
L’ARSENALE DI VENEZIA
I primi arsenali militari marittimi costruiti in Europa nel Medioevo furono quelli che le nostre repubbliche marinare dovettero allestire per potervi fabbricare, armare e riparare le navi alle quali era affidata la loro potenza.
Di questi stabilimenti ci sono rimaste notizie, descrizioni e, per alcuni di essi, anche resti piuttosto cospicui che ci permettono, per quanto modificati in epoche posteriori, di farci un'idea chiara dell'importanza e della funzione di tali costruzioni.
Analogamente a quelli moderni, gli arsenali medievali erano costituiti da un complesso di bacini o darsene, sulle cui banchine erano sistemati scali - coperti o no -, officine, magazzini, fabbriche d'armi, uffici e altre costruzioni. L'insieme era cinto da mura dove si aprivano in genere solamente due aperture: la porta donde transitavano i navigli e quella verso terra, destinata al passaggio delle persone e dei materiali.
Se dell'arsenale amalfitano non ci è rimasto altro che due scali coperti, di quello genovese ci sono restate solamente delle notizie, tra le quali quella della data di costruzione nel sec. XIII e il nome dell'architetto, il genovese Boccanegra.
Dell'arsenale pisano abbiamo alcuni resti seminascosti, deturpati e parzialmente interrati, ma sufficienti a darci un'idea abbastanza chiara dello stabilimento, soprattutto se studiati col sussidio di notizie storiche e con quello della descrizione e dei rilievi che di essi ci ha lasciato l'architetto francese Rohault de Fleury, il quale li studiò nella seconda metà del secolo scorso, quando erano meglio conservati.
Degli Arsenali Repubblicani di Pisa e Genova ce ne siamo già occupati con servizi riportati sul sito di Mare Nostrum Rapallo (allegheremo i LINKS alla fine del presente lavoro).
LA DARSENA DI VENEZIA
Oggi ci occuperemo dell’Arsenale di Venezia, che pare essere ancor più interessante dei precedenti per la parte monumentale ancora esistente, per la sua vastità e per l'importanza storica.
Opera del Canaletto
L’enorme struttura dell’Arsenale vista dall’alto
Per oltre mille anni la Repubblica di Venezia ha rappresentato un punto di riferimento in Europa e nel Mondo.
La Serenissima ha basato per secoli il suo predominio sul commercio e sulla potenza della sua flotta.
Al centro di questo strapotere navale c’era l’Arsenale: un cantiere di 48 ettari che sorgeva nel centro della città e che a pieno regime sfornava una galea (nave da guerra e da commercio) in meno di 24 ore.
La costruzione navale mediterranea si perde nei tempi e l’arsenale di Venezia è soltanto quello che riuscì a passare, in tempi e modi lunghissimi, dalla costruzione artigianale a quella industriale.
L’Arsenale di Venezia era una vera e propria città nella città: recintato da mura e con due porte d’accesso (una di terra e una di mare), ospitava residenze per i lavoratori, forni pubblici e magazzini per i cereali.
Era inoltre organizzato in modo tale che le galee venivano rimorchiate a dei punti di carico prestabiliti. Qui ricevevano tutti i materiali nautici, bellici e logistici necessari alla loro partenza.
Dalle torri della porta d’acqua venivano imbarcati alberi e cannoni, lungo il rio che porta al bacino San Marco ricevevano i remi e, alla fine del percorso, nei pressi della chiesa di San Biagio, venivano caricati i viveri, come farina e gallette salate.
La grande organizzazione veneziana ha portato l’Arsenale ad essere considerata l’antesignana della fabbrica come la conosciamo oggi.
In anticipo di alcuni secoli rispetto al modello della catena di montaggio fordista i veneziani già ai tempi della Serenissima sperimentarono la specializzazione delle mansioni all’interno dell’Arsenale facendo eseguire agli arsenalotti singole operazioni di assemblaggio utilizzando componenti standard.
La grande capacità marinara e l'efficienza nell'organizzazione economica delle imprese mercantili erano solo due dei fattori che determinarono la grandezza della marineria veneziana. Per assicurarsi la supremazia sui mari, Venezia doveva poter contare su un terzo fattore, non meno importante: la possibilità di costruire le sue navi.
Inizialmente, le navi veneziane venivano costruite in piccole officine private, poi, intorno all'anno 1200, queste attività furono raggruppate in un unico, grande cantiere pubblico: l'Arsenale.
In questa immensa struttura si muovevano progettisti, maestri d'ascia, operai specializzati. Gli operai dell'Arsenale, i cosiddetti arsenalotti, costituivano una comunità a parte nella città, depositaria di un patrimonio prezioso, tramandato di generazione in generazione e custodito gelosamente.
La tracciatura del sesto, vale a dire il disegno del profilo dello scafo di una nave, era un'operazione difficilissima, ed era svolta dal proto, la vera autorità dell'arsenale. Da questa fase dipendeva il successo in mare di un'imbarcazione, e richiedeva una grandissima esperienza. L'organizzazione all'interno del cantiere era addirittura all'avanguardia, con tanto di suddivisione del lavoro in reparti diversi, controllo di qualità sulle materie prime, standardizzazione di molte fasi produttive e, come abbiamo appena visto, persino la prima catena di montaggio della storia.
Questo ciclo di produzione, completo e autosufficiente, consentiva di costruire, nei periodi di massima richiesta, fino a tre grandi navi al giorno, e garantiva a Venezia un vero e proprio primato.
Le galere veneziane erano imbarcazioni agili e leggere. Non potevano trasportare un gran carico ma, in compenso, un equipaggio al completo garantiva la presenza a bordo di 180-200 uomini, il che rendeva queste navi piuttosto sicure. Oltre al capitano e ai marinai più esperti, l'equipaggio comprendeva i balestrieri, alcuni mercanti, il cartografo, lo scrivano, il medico che in genere era anche astronomo, e, naturalmente i rematori, i cosiddetti galeotti. L’accezione attuale di questi termini - ha avuto origine proprio da qui, dal fatto che la nave era a volte il luogo dove si scontava la pena ai lavori forzati, da cui il significato di galera, come prigione.
Fare il galeotto per guadagnarsi da vivere era considerato un segno di inferiorità. Tra i marinai, i galeotti erano quelli che si prestavano al lavoro più duro, esponendosi a condizioni di vita difficili e faticose. Nonostante fossero la categoria più umile, i galeotti erano anche i più richiesti. Ogni viaggio verso le Fiandre, o il Mar Nero, o alla volta di Cipro aveva bisogno di almeno una mezza dozzina di galere mercantili e un altissimo numero di rematori.
Per arruolare la ciurma il capitano metteva un tavolo sul molo di fronte a Palazzo Ducale e offriva degli anticipi pari, generalmente, a tre o quattro mesi di paga. Quando la nave stava per salpare, un banditore ne dava l'annuncio per tre giorni di seguito a Rialto e alla Basilica di San Marco. Chi non si presentava, e non erano in pochi a disertare, veniva cercato dai Signori di Notte, una sorta di polizia di quartiere, per essere imbarcato a forza o addirittura arrestato.
Le galere mercantili erano un mezzo di trasporto costoso, perciò occorreva compensare la spesa con carichi preziosi e con navi che tornassero presto in patria. Per ridurre i rischi, la Repubblica mise a punto un semplice ma efficace sistema di controllo sulle imprese mercantili: in pratica, provvedeva a costruire le galere e a organizzarne le rotte commerciali e poi le appaltava al miglior offerente, che naturalmente doveva dare garanzia al Senato sulla propria solvibilità. Dopodichè si mettevano all'asta le quote di partecipazione all'impresa.
Questo sistema ripartiva sia i rischi che gli utili, spingeva i mercanti alla collaborazione per il buon esito dell'impresa, e garantiva alla stessa Repubblica un ritorno economico che ammortizzava i costi delle imbarcazioni.
La Repubblica veneta ebbe in questo gigantesco stabilimento, che essa costruì nel 1104, doge Ordelaffo Falier, uno strumento formidabile della sua prosperità. Intorno alla primitiva piccola darsena, scavata fra le due isolette dette le Gemelle e comunicante per mezzo di un canale col bacino di S. Marco, venne successivamente costruita tutta una serie di opere che resero ben presto l'arsenale di Venezia uno stabilimento occupante, come anche attualmente, ben 32 ettari circa di superficie all'estremità orientale della città. Febbrile vi dovette essere il lavoro in alcune epoche. Così da occupare 16.000 operai e da suscitare nell'animo di Dante, che visitò spesso Venezia, l'ultima volta come ambasciatore di Guido da Polenta, l'impressione di cui son eco le celebri terzine del XXI dell'Inferno:
Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno – in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa;
tal, non per foco ma per divin’arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che ’nviscava la ripa d’ogne parte.
(Dante Alighieri, La divina Commedia, Inferno, Canto XXI, vv. 7-18)su_spacer]
Straordinario il portale d’accesso del 1460 dei tempi del doge Pasquale Malipiero attribuito all’architetto Gambello, a memoria del legame di Venezia con Roma antica e Costantinopoli con un richiamo preciso all’arco dei Sergi di Pola, da dove la famiglia Pola o Castropola era arrivata a Treviso negli stessi anni di erezione del portale in Arsenale.
Le torri d'entrata dell'antico
Arsenale Militare Marittimo di Venezia
Ai primitivi due accessi, quello marittimo e quello terrestre, situati tutt'e due dalla parte più antica dello stabilimento, ne venne aggiunto un terzo nel 1473 nel lato di levante, mettendo in comunicazione diretta la laguna con la parte dell'arsenale allora costruita, allo scopo di assicurare un comodo rifugio alle galee già pronte o in attesa di essere riparate. Quest'ingresso, chiuso al principio del secolo XVI, venne riaperto sotto il dominio napoleonico per poter permettere l'accesso all'arsenale dei potenti vascelli di quell'epoca e ricevette allora il nome di Porta Nuova di Mare. I due ingressi marittimi potevano essere sbarrati da cancelli di legno ed erano difesi da torri. Architettonicamente molto importante è l'ingresso terrestre, ricco portale ad arco, inquadrato da due coppie di colonne con capitelli bizantini e sul quale posa un'edicola a timpano recante in bassorilievo il leone di S. Marco. Questa bella opera architettonica venne eretta sotto il dogato di Pasquale Malipiero (1460) ed è attribuita da taluno al veronese fra' Giocondo, da altri ad Antonio Gambello.
Arsenale a Venezia, Statua della Giustizia
Arsenale a Venezia, Statua di Nettuno
Dopo la vittoria di Lepanto (1571) si conferì a questo portale il valore di monumento commemorativo arricchendolo con vittorie alate, con trofei e con la statua di S. Giustina, nella cui ricorrenza (7 ottobre) era avvenuta la battaglia. Tale carattere di arco trionfale dato al monumento venne accentuato collocan
do attorno alla cancellata che lo ricinge alcune sculture greche di varie epoche, raffiguranti leoni e che erano state portate a Venezia, come bottino di guerra, in più volte, e specialmente da Francesco Morosini dopo la riconquista della Morea (1687).
Veduta dell’Arsenale Vecchio con le Gaggiandre (imponenti tettoie acquatiche adibite al ricovero delle galere a remi)
Nell'interno dell'arsenale si conservano ancora alcuni degli antichi scali, alcune tettoie acquatiche (tra le quali, importanti, quelle cinquecentesche delle Gagiandre cioè "tartarughe" destinate al completamento delle galee già varate), la Tana o Casa del Canevo, lo scalo per la custodia del Bucintoro e l'ampio locale, lungo 150 metri, costruito verso la metà del sec. XVIII da Giuseppe Scalfarotto e destinato agli squadratori delle grandi ossature di navi.
L’interno delle Corderie
La Tana (così chiamata da Tanai, antico nome del fiume Don, alle cui bocche i Veneziani avevano gli stabilimenti commerciali che procuravano loro la canapa necessaria per la marina), ambiente destinato alla costruzione dei cordami e alla conservazione delle canape, venne ricostruita, al posto d'una più antica (1304), tra il I579 e il 1583, da Antonio da Ponte, l'architetto del Ponte di Rialto. Essa era un unico grandioso locale, lungo metri 316 e largo oltre 20, alto quasi altrettanto e diviso in tre navate da 84 colonne con capitelli dorici. Ora la Tana è suddivisa da tramezzi in varî magazzini.
Per la custodia del Bucintoro, il famoso naviglio riccamente adorno che la Repubblica usava nelle occasioni solenni, venne elevato tra il 1544 e il 1547, su disegno di Michele Sammicheli, veronese, un ampio locale con facciata di semplice e maschia architettura.
L'introduzione e il rapido aumentare dell'impiego delle armi da fuoco indussero ben presto le autorità della repubblica veneta a far confezionare e conservare in appositi reparti dell'arsenale sia le armi stesse sia le polveri e i proiettili. Alcuni gravi incendi, che avvennero al principio del sec. XVI nei locali dove si confezionavano e conservavano le polveri, indussero il senato veneto ad allontanare dall'arsenale i servizi pirotecnici, conservando solamente quelli che non presentassero pericoli per l'incolumità dello stabilimento. Tra essi, quello importante della fusione delle artiglierie in bronzo, affidato per più che quattro secoli alla famiglia Alberghetti.
Le armi da fuoco e le munizioni furono allora conservate nelle Nuove sale d'armi, nel Parco delle bombarde e in altre parti dell'arsenale. Nel 1772 venne istituito un Museo d'artiglieria, il quale accolse le armi fuori uso. che avevano un notevole valore artistico.
L'arsenale di Venezia era governato da due magistrati ambedue temporanei, l'uno detto dei sopravveditori e l'altro dei provveditori o patroni; i primi erano senatori, i secondi patrizi: queste due magistrature unite si chiamavano eccellentissima banca. I sopravveditori avevano potestà civile e penale su tutte le persone impiegate nell'arsenale; essi invigilavano gli atti dei patroni, dai quali dipendeva l'ammiraglio dell'arsenale, che sopraintendeva alle costruzioni, riparazioni e armamenti, avendo sotto di sé il primo architetto navale, e anche alle opere idrauliche per l'arsenale. Alla dipendenza di quest'ultimo era pure il capitano dell'arsenale, che aveva incarico di polizia. Le costruzioni navali erano comandate dal senato e intraprese e dirette dai seguenti tecnici: un primo architetto navale, un secondo architetto navale, un aiutante del primo architetto, otto architetti costruttori, sei sottoarchitetti costruttori, quattro aiutanti di sottoarchitetti, otto primi aiutanti delle compagnie, otto secondi aiutanti delle compagnie, otto terzi aiutanti delle compagnie. Ogni ramo d'arte aveva i suoi capi d'opera o proti, i maestri, un certo numero di operai di varie classi e i garzoni. Tutti gli operai erano militarmente ordinati e denominati arsenalotti con impiego a vita trasferibile ai figli.
L'arsenale di Venezia fu utilizzato pure come Arsenale della marina del regno d'Italia sotto Napoleone (1805-14). Indi subentrò l'Austria la quale, nel 1849, preferendo Pola a Venezia, vi intraprese la costruzione dell'arsenale, che divenne poi uno dei migliori e più efficienti arsenali d'Europa e passò, nel 1918 all'Italia, la quale però dopo pochi anni ne cedette molte parti e lo ridusse per il rimanente a semplice base navale.
Bibliografia:
Fuochi ad Est di Candia di Carlo Lucardi
Vascelli e fregate della Serenissima - Guido Ercole
Viva san Marco! Storia di una repubblica marinara - Guido Ercole
Sotto le bandiere di San Marco. Le armate della Serenissima di Alberto Prelli
In Venice today.com
Veneto Storia
Città di Venezia-Storia dell’Arsenale
L’Arsenale militare marittimo di Venezia
Best Venice Guides.it
News Storia: La Darsena Secolare
It.Venezia
Metropolitano.it
Dasa Light Your Life
Venipedia-Arsenale
CARLO GATTI
Rapallo, 29 Gennaio 2020
ANCHE NOI PARLIAMO DI ORCHE ...
ANCHE NOI PARLIAMO DI ORCHE ...
Non siamo degli esperti, ma credo che neppure tutto ciò che si sente e si legge su questi cetacei provenga da gente illuminata…
Tuttavia, tra breve, prendo in prestito da FOCUS che ringrazio, 10 punti che mi sembra gettino non solo un po’ di luce sulla misteriosa apparizione di quattro orche fuori del porto di Voltri-Pra, ma ci aiutano a capirne di più su questi mammiferi dalla pessima fama del tutto gratuita … Ricordate il film “L’ORCA ASSASSINA”?
Di recente una scienziata ha dichiarato che non risulta da alcuna statistica al mondo che un’orca abbia attaccato un essere umano.
L’orca è un affascinante mammifero marino, appartiene alla stessa famiglia dei delfini (Delfinidi, Cetacei Odontoceti) e non è un pesce! L’orca è un cetaceo.
I cetacei sono un infraordine di mammiferi marini che presentano un corpo fusiforme simile a quello dei pesci, il corpo assicura un’ottima idrodinamicità. Tuttavia, i cetacei non hanno le branchie ma sono dotati di respirazione polmonare, per questo emergono spesso dall’acqua per poter incamerare ossigeno. I cetacei sono i delfini, le balene, le orche e il beluga.
Come tutti i mammiferi, anche l’orca partorisce. La “gravidanza” dell’orca dura molto tempo! Dopo circa un anno e mezzo di gestazione, la femmina partorisce un solo piccolo. Il parto avviene nelle acque basse. Dopo il parto, questo incredibile mammifero marino porta subito il piccolo nato dai suoi “parenti”. Già, le orche vivono in gruppo creando delle vere e proprie comunità.
L’orca è un mammifero dall’indubbia intelligenza, tanto da attuare dei veri e proprio comportamenti sociali. Ogni comunità di orche sviluppa dei particolari versi di comunicazione e anche le cure parentali sono peculiari. Non sempre il “papà” riesce a distinguere il suo piccolo, quindi i maschi finiscono per prendersi cura di tutti i piccoli del loro gruppo così come se fossero loro figli.
Ogni femmina affronta un intervallo tra un parto e l’altro, tale pausa varia dai 3 agli 8 anni. Il motivo di questo lungo intervallo? L’orca ha bisogno di tempo perché le cure parentali sono prolungate.
La femmina raggiunge la maturità sessuale a 10 anni, il maschio deve aspettare i 16 anni per potersi riprodurre.
I figli delle orche restano nel loro gruppo di appartenenza fin all’età adulta, a questo punto le madri si assicurano di avere una discendenza aiutando i propri figli a cercare un partner per la riproduzione.
Cosa mangiano?
Le orche sono mammiferi fortemente sociali. La caccia si svolge in gruppo e le prede dipendono dall’habitat che colonizzano. Alcune comunità si nutrono principalmente di pesci, altre orche, invece, si nutrono soprattutto di mammiferi marini come foche, leoni marini o addirittura balene.
La preda più sorprendente è lo squalo. Le orche si nutrono di diverse specie di squalo, tra queste figura anche lo squalo bianco. Per molto tempo lo squalo bianco è stato ritenuto il superpredatore degli oceani, tuttavia, delle recenti osservazioni hanno evidenziato le fragilità di tale predatore.
Anche se lo squalo bianco ha una forza e dei sensi incredibilmente sviluppati, le orche, agendo in branco, riescono ad avere il sopravvento.
1. Socievolezza
Le orche sono animali estremamente socievoli. Si muovono in branchi (detti pod) anche di 40 esemplari. E cooperano nella ricerca del cibo.
2. Dialetto orchese
Usano sofisticati sistemi di comunicazione, sembra addirittura che branchi diversi utilizzino il proprio "dialetto".
3. Misure
Le orche possono arrivare a pesare fino a 8/10 tonnellate. I maschi arrivano anche ai 10 metri di lunghezza. E i cuccioli? Misurano anche 2,5 metri.
4. Aspettative di vita
Un'orca può vivere fino a 80 anni (la media è comunque sui 50 anni). Ma in cattività i tempi si riducono drasticamente a 30 anni.
5. Intelligenza emotiva
Le orche possiedono una parte del cervello che gli esseri umani non possiedono. Secondo gli scienziati, questa parte riguarderebbe l'emozioni e la consapevolezza.
6. Pinna stanca
I maschi di orca sono dotati di una pinna dorsale che nell'1% dei casi può collassare. Secondo i ricercatori questo accade in seguito a combattimenti con altre orche, o a causa della vecchiaia e dello stress. Il film Blackfish asserisce che il 100% dei maschi di orca in cattività presentano questo difetto.
7. Mamma orca
La gravidanza delle orche dura 17 mesi. E nascono cuccioli in un periodo compreso tra i 3 e i 10 anni.
8. Nomi e soprannomi
L'orca è conosciuta (soprattutto nel mondo anglosassone) come balena assassina. Orca viene invece dal latino "orcinus", aggettivo che sta per "appartenente al regno dei morti". Un'altra ipotesi è che derivi dal latino "orca", cioè barile per la forma del corpo.
9. Specie
Il biologo canadese Michael Bigg negli anni 70 avrebbe foto-identificato 10 tipi di orca, diversi tra loro per forma della pinna dorsale, e per le dimensioni.
10. Dentoni
L'orca ha denti lunghi 10 cm che le servono per nutrirsi di foche, leoni e tartarughe marine e persino balene. Alcuni esemplari come il maschio dell'orca di Patagonia sono particolarmente temerari e si spingono fin sulla spiaggia, rischiando di arenarsi, per catturare le otarie che poi offriranno in pasto ai cuccioli che li aspettano al largo (vedi video in basso).
John Gatti, Pilota del porto di Genova é l'autore delle tre foto che seguono.
L'evento eccezionale non si verificava dal 1985 quando, esemplari della stessa specie, furono avvistati a Sanremo e Finale Ligure.
Il 23 maggio del 2015 ho pubblicato sul sito di Mare Nostrum Rapallo una ricerca sul SANTUARIO DEI CETACEI da cui ne riporto alcuni stralci che potrebbero spiegare la presenza delle orche a ponente di Genova.
Il Settore viola della carta sopra riportata mostra IL SANTUARIO DEI CETACEI nel Mar Mediterraneo che bagna le coste della Toscana, Liguria, Provenza e Corsica.
Il 9 maggio partecipai al convegno AMA IL TUO MARE, vedi locandina. Nella sua introduzione, il relatore dott. Guido Gnone ci spiegò che il Torrente Polcevera (tra Ge-Sampierdarena e Ge-Sestri Ponente) segna il confine tra le due Riviere della Liguria, almeno per quanto riguarda il Santuario dei Cetacei.
A Levante la piattaforma continentale, che comprende metà Liguria e buona parte della Toscana (Fosso Chiarone), é ampia e degrada lentamente verso il mare aperto. In questo habitat sabbioso si sono adattati i delfini Tursiopi che sono presenti in gran numero e si possono ritenere stanziali.
A Ponente del Polcevera, la piattaforma continentale é molto stretta e precipita subito verso fondali che raggiungono e superano talvolta i 2.000 metri. Questo habitat, caratterizzato da fiordi abissali, costituisce il polo d’attrazione per molti mammiferi marini che dispongono di grande capacità polmonare e sono adatti alla caccia in apnea.
Una serie di fattori caratterizzano l’area del SANTUARIO DEI CETACEI:
- l’azione dei venti di maestrale e di tramontana
- del gioco delle correnti
- la condizione di omeotermia invernale consentono il rimescolamento delle acque e la conseguente risalita in superficie dei sali nutritivi, che in altri mari rimangono in gran parte confinati nelle acque profonde.
L'apporto di tali sostanze permette lo sviluppo del fitoplancton, che si trova alla base della rete alimentare e costituisce il nutrimento dello zooplancton, a sua volta preda di pesci, cefalopodi e mammiferi marini. Il gamberetto Eufasiaceo Meganyctiphanes norvegica, infatti è l'alimento principale della Balenottera comune (Balaenoptera physalus), la quale, insieme ad altre sei specie di cetacei, frequenta regolarmente le acque del Mar Ligure.
L'abbondanza di nutrimento fa sì che, nell'ambito del Mar Mediterraneo, le acque alto-tirreniche rappresentino una delle aree a maggior concentrazione di cetacei. Ognuna delle specie presenti è caratterizzata da un habitat preferenziale, strettamente correlato alla profondità del fondale; possiamo così distinguere specie costiere, di scarpata, pelagiche. Tuttavia, non esistendo in mare confini precisi, i mammiferi marini possono spostarsi liberamente ed essere talvolta avvistati in zone inusuali.
In altre parole si può dire che le particolari caratteristiche chimico-fisiche indotte dalla morfologia e dalla circolazione delle acque, rendono il tratto di mare tra Sardegna, Toscana, Liguria, Principato di Monaco e Francia una delle zone più ricche di vita del Mediterraneo.
Si tratta di un’altissima concentrazione di mammiferi marini che sono rappresentati da dodici specie : la balenottera comune (Balaenoptera physalus) il secondo animale più grande al mondo (secondo solo alla balenottera azzurra), il capodoglio (Physerter macrocephalus), il delfino comune (Delphinus delphis), il tursiope (Tursiops truncatus), la stenella striata (Stenella coeruleoalba) , il globicefalo (Globicephalua melas), il grampo (Grampus griseus), lo zifio (Ziphius cavirostris). Più rari, la balenottera minore (Balaenoptera acutorostrata), lo steno (Steno bredanensis), l’orca (Orcinus Orca) e la pseudorca (Pseudorca crassidens).
Ci sono voluti dieci lunghi anni, ci spiegarono nel 2015, affinché si giungesse alla creazione del Santuario Internazionale dei Cetacei del Mediterraneo. Sono stati anni di lavoro e impegno per molte persone che hanno creduto in un progetto e insieme sono riuscite a realizzarlo.
Nel 1992 venne effettuato un censimento sulla superficie di quello che sarebbe divenuto il Santuario dei cetacei da parte dell'Istituto Tethys, da Greenpeace e dall'Università di Barcellona , che consentì la stima numerica delle stenelle (32.800 esemplari) e delle balenottere comuni (830 esemplari) presenti nella zona nel periodo estivo.
Da quanto riportato sopra (ricerca che feci nel maggio 2015) non appare così strano che quattro orche possano essere arrivate nelle acque dell’Alto Tirreno attratte, non solo da circa 800 balenottere stanziali, ma anche da quel cibo prediletto da tutti i cetacei che si trova negli alti fondali del ponente ligure e che é stato spiegato molto efficacemente dal dott. Guido Gnone, coordinatore della ricerca-scientifica dell'Acquario di Genova, responsabile del progetto di ricerca Delfini Metropolitani.
Questo particolare, a mio avviso tutt’altro che insignificante, spiegherebbe anche la circostanza per cui le quattro orche, in questi 18 giorni, non siano mai state avvistate a levante del Porto di Voltri-Prà.
CARLO GATTI
Rapallo, Martedì 17 Dicembre 2019
I POSTINI DEL MARE
I POSTINI DEL MARE
Il biglietto da visita “ecumenico” dei frati cattolici del monastero delle Isole Shetland è, paradossalmente, rappresentato da una rustica targa di legno che riporta una frase pronunciata da un famoso tedesco luterano, ed è in bella vista per chi approda alla darsena dello scoglio.
“L’Europa è nata in pellegrinaggio e la sua lingua materna è il Cristianesimo” J.W.Goethe
I Frati e la Posta
Le malelingue esistono dalla notte dei tempi, ma stranamente ristagnano sulla terraferma e mai sul mare, dove la solidarietà è più praticata che promessa. I naviganti adorano quei dodici frati che gli indicano sempre la via di casa; ma tanto affetto risale anche ad una vecchia pratica che si perde nei ricordi più remoti dei marinai della vela e che ora vi raccontiamo.
Se il tempo è sereno, il veliero in arrivo dall’America avvista la scopa luminosa del faro a moltissime miglia di distanza e s’avvicina bordeggiando a cuor leggero verso quella magica luce bianca. Nell’attesa dell’alba, temporeggia navigando a spirale per capire il giro del vento e della corrente intorno al Monastero, evitando con maestria d’incagliare sulle sue secche. Infine ammaina la lancia che, cautamente, dirige verso la piccola darsena. Da questo momento, a bordo, iniziano a battere le campane e se il vento allontana i rintocchi, sparano qualche colpo di falconetto (cannoncino di piccolo calibro) per attirare l’attenzione. I frati rispondono con i gravi rintocchi delle grosse campane che spuntano da ciascun lato del campanile, poco al disotto della lanterna. Suonano a festa in segno di saluto. I marinai s’arrampicano sulle sartie cantando inni di gioia e rimangono a lungo con le gambe divaricate sui marciapiedi dei pennoni, aggrappati alle vele gonfie di vento. In questa cornice di pura poesia, comincia il rito della posta. Quando il montacarichi scende dalla rupe, s’avvicina il momento più atteso dall’equipaggio del veliero e l’ansia si trasforma in autentica felicità. I frati consegnano le lettere al capo-barca e ritirano la posta dei marinai da spedire alle famiglie.
Ma La scialuppa non viaggia mai vuota verso il faro...
Gli equipaggi dei velieri che solcano abitualmente queste latitudini difficili, sono molto generosi e considerano quei frati come gli avamposti delle loro famiglie che sperano di vedere al più presto.
Dei religiosi conoscono nomi, abitudini, gusti, punti deboli e ben sanno quanto un po’ di tabacco, una torta fresca ed una bottiglia di Rhum, siano graditi al Convento, che non lesina benedizioni, preghiere e qualche canto gregoriano che, si sa, sono un po’ difficili da imparare...
Il servizio che i Carmelitani prestano come faristi, non è retribuito con denaro, ma il Comune da cui dipendono, invia loro, settimanalmente, l’occorrente per sopravvivere e curarsi, e con lo stesso cutter che li collega alla terraferma, l’Ufficio Postale spedisce al Frate Guardiano la posta destinata agli equipaggi dei velieri. Persino i grandi e piccoli armatori approfittano della loro disponibilità per consegnare le istruzioni del viaggio ai loro comandanti: porti di destinazione, noli, tipi di carico, cambio equipaggio, rifornimenti ecc…
Navigare necesse est... ma a volte ne vale la pena!
Per chi proviene dal largo, il faro-Monastero appare come una nave vista di prora, che al posto del Jack(l’asta della bandiera sulla prua) mostra il faro che, a sua volta, sembra un minareto ai mussulmani ed un campanile ai cristiani; insomma, è un esempio architettonico di sincretismo religioso, una costruzione sui generis, che offre un misto di sacro e profano, che non è arte pura, ma è sicuramente funzionale, e per chi giunge ai suoi piedi all’alba oppure al tramonto, ricorda un rosso palcoscenico dove si esibisce un Illustre Mago disceso dall’alto e venuto da lontano.
Carlo GATTI
IL SERVIZIO POSTALE (dei volontari) NELLO STRETTO DI MESSINA
Il nostro amico Comandante Nunzio Catena ha dei ricordi vivissimi di quando transitava lo Stretto di Messina ed entrava in contatto con
I POSTINI DEL MARE
Di recente Nunzio ha scoperto un bellissimo articolo apparso su:
FAMIGLIA CRISTIANA
firmato da Franca Zambonini che vi segnalo.
A cura di Carlo Gatti e Nunzio Catena
Rapallo, 5 Marzo 2018
GENOVA, Tragico INCENDIO, M/n LINDAROSA
Genova, 27.7.1998
TRAGICO INCENDIO
a bordo del traghetto da carico italiano
“LINDA ROSA”
Nave |
Bandiera Compartimento |
Stazza Lorda |
Lunghezza-Larghezza |
|
LINDA ROSA
|
ItalianaBari |
18.469 tonn. |
198 metri 26 metri |
I FATTI
Il traghetto LINDA ROSA della “Società Levante Trasporti” era ormeggiato nel nostro porto a Ponte Canepa.
Alle 14.20 del 27.7.1998, la nave, con il Pilota a bordo, muoveva verso il Bacino n°5 con una bava di vento da sud.
Il Comandante Crescenzo Mendella aveva un problema:
OTTO CLANDESTINI A BORDO
erano stati scoperti in un container a bordo della nave. La Polizia italiana aveva però deciso di respingerli, nonostante le rimostranze del Comandante del traghetto, il quale denunciò alle Autorità la difficoltà della loro custodia, dovendo la nave entrare in bacino di carenaggio per le visite periodiche.
L’INCENDIO
Forse fu proprio la prospettiva di una sosta lunga e laboriosa che indusse i clandestini ad appiccare il fuoco ai materassi delle cabine dove si trovavano rinchiusi. La loro strategia doveva essere semplice ma efficace:
- creare uno stato d’allarme a bordo
- attirare l’attenzione dei guardiani e dei marinai
- uscire dalle cabine
- attuare un piano di fuga
TESTIMONE
Lasciamo ora la parola al pilota di turno Roberto Zucchi:
“In prossimità della testata Ponte Eritrea scattava l’allarme di Incendio a bordo e quasi contemporaneamente del fumo raggiungeva il ponte di comando.”
Mentre a bordo venivano prese immediatamente le misure del caso, il Pilota allertava le Autorità e quindi tutti i servizi di terra: VVFF-Ambulanze ecc…
Il Pilota prosegue così la sua testimonianza:
“…il rimorchiatore Giappone era a prora, il Brasile a spingere e il Francia a poppa. Con il ponte di comando completamente avvolto da un fumo nero e denso ed i motori principali fermi si continuava la manovra dalla controplancia e si decideva di attraccare al pontile OARN- CNR, che era la banchina libera più vicina. Durante la fase d’attracco, l’elicottero dei VV. FF. atterrava sulla coperta della nave con personale medico, mentre i VV.FF. di terra iniziavano l’opera di spegnimento”.
Quando divamparono le fiamme dalle cabine dei clandestini, scattò l’allarme antincendio a bordo della LINDA ROSA ed il nostromo, visto il pericolo, fu il più rapido ad abbattere le porte. Troppo tardi.
LE VITTIME
La tragedia, perché di questo si trattò, apparve in tutta la sua gravità quando l’equipaggio dovette prendere atto che: Cinque degli otto extracomunitari erano già morti per soffocamento.
L’incendio veniva completamente domato intorno alle Ore 16.15.
Il Capo Pilota Ottavio Lanzola, ad operazioni terminate, così si espresse:
“Il pilota di turno R.Zucchi ha lavorato con grande professionalità e tempestività nel rendersi conto della gravità di quanto poi sarebbe accaduto dando immediato allarme a tutti gli Enti interessati e collaborando al massimo col Comandante della nave con la calma e la freddezza indispensabili in queste circostanze. Inoltre ci siamo resi conto dell’inestimabile funzionalità della Torre di Controllo e di tutta la sua innovativa strumentazione, che ci ha consentito di coordinare e dirigere a distanza, sin dall’inizio, le operazioni in corso tramite le telecamere a circuito chiuso. Forse abbiamo salvato una nave con la rapidità dei nostri interventi, ma dentro ci sentiamo un vuoto, una specie di fallimento per non essere stati in grado di evitare, tra tutti, quell’orrenda tragedia che ancora una volta ha insanguinato il nostro porto.”
Carlo GATTI
Rapallo, 1 Novembre 2017
PIETRO ARDITO a 15 Anni dalla morte
PIETRO ARDITO
a 15 anni dalla morte
LA VIGNETTA: UNA VERA ARTE
La vignetta è il disegno di una breve storia, con o senza testo, che può a volte assumere, in due o tre casi, la forma di un fumetto. I vignettisti sono degli artisti, ma ugualmente giornalisti, titolari di una tessera di stampa. Rispecchiano la realtà sotto forma di illustrazione, umoristica in generale. La vignetta gioca anche il ruolo di effetto visivo.
La finalità della vignetta? Far ridere.
Di fronte alle polemiche, lo dimentichiamo troppo spesso. Pertanto, i vignettisti illustrano l’attualità con uno sguardo umoristico, ironico, sarcastico…Gli aggettivi sono numerosi! La vignetta piace per il suo lato spinto, rivelatore e incisivo. Rivelare, commentare, spiegare, denunciare, criticare, far reagire, scioccare, provocare un dibattito…Fanno anche parte degli obiettivi della vignetta a vari livelli. In ogni caso, la vignetta risveglia il senso critico dei lettori.
Tra disegno umoristico e satirico, c’è una linea sottile. Bisogna riconoscerla.
Il disegno umoristico non userà gli stessi codici. Può essere realizzato solamente per far ridere, rilassare il lettore di un giornale ad esempio. Scoprire l’ultimo disegno del proprio giornale preferito, fa parte delle attese dei lettori. La vignetta satirica è spesso scioccante. Non avrà lo stesso effetto su tutti in base ai temi trattati. Questo dipende in effetti dalle opinioni di ognuno. La satira tocca elementi tabù, persino sacri. È per queste ragioni che fa male ed è spesso soggetta a polemiche. Ad esempio le caricature di Maometto in Charlie Hebdo.
Come disegnare per la stampa?
I disegnatori usano molti metodi per raggiungere il loro obiettivo: la caricatura, la provocazione, gli stereotipi, l’ironia, i giochi di parole, l’umorismo nero, il confronto, l’allegoria, l’esagerazione. L’autoironia, la risata e l’umorismo permettono anche di sdrammatizzare una notizia, fare un passo indietro, usare il buon senso ed esprimere un’opinione. I vignettisti non per questo sono tutti “ingaggiati” in senso stretto. Sono prima di tutto degli osservatori del mondo che ci circonda. Si ispirano alla realtà per far ridere.
Come affermava Cabu:
“Non siamo portatori di messaggi. Siamo semplicemente dei clown, degli intrattenitori (…). L’umorismo è un linguaggio che ho sempre amato. Il nostro compito e di denunciare la stupidità facendo ridere.”
Dopo questa premessa è il momento di RICORDARE un vignettista di altissimo livello a cui teniamo in modo particolare perché ha dato tanto PRESTIGIO alla nostra Rapallo.
PIETRO ARDITO
15 ANNI SENZA IL GRANDE ARDITO...
Sono passati 15 anni dalla tua dipartita, ma noi conserviamo nel nostro cuore tutte le centinaia di vignette che ci hai donato nel corso di 30 lunghi anni di collaborazione.
Caro Pietro Ardito, continua a far divertire gli angeli in Cielo... (e ricordati di inviarci qualche caricatura del buon Dio... Lo sai che Lui è Persona di... Spirito, e non si offende...).
Ringrazio Nadia Molinaris a nome della ASSOCIAZIONE MARE NOSTRUM RAPALLO per averci ricordato un anniversario triste, ma molto significativo per i rapallini, i rapallesi… e per la storia di Rapallo.
OGGI 28.02.20 il Circolo della Pulce vuol ricordare i 15 ANNI della morte di un nostro grande: PIETRO ARDITO, con qualcosa di inedito grazie a Paolo Melani, che spero vogliate leggere perché gli uomini che han fatto la storia e la cultura devono essere conosciuti e ricordati. Grazie
Un quadernone datato 1945, con la copertina scura e quel profumo che ormai ha solo la carta ingiallita dal tempo. Appena lo apri hai quasi timore a toccarlo e sfogliarlo, ma da subito comprendi di avere tra le mani qualcosa di raro valore leggendo la dedica: “al Signor Nespolo con stima e riconoscenza Pietro Ardito – Rapallo 15 gennaio 1946”
Non nascondo che è stato emozionante, ogni volta nel girar pagina, trovare i capolavori inediti delle prime vignette giovanili del pittore, scrittore e caricaturista “Rapallino”.
Già perché il 28 febbraio ricorrono i 15 anni dalla morte di Pietro Ardito, così Paolo Melani, oggi erede del quaderno, ha pensato che era giusto ricordarlo e si è rivolto al Circolo della Pulce portando “in dote” uno spezzone di vita privata e di disegni inediti del grande artista. Un quaderno ricevuto in dono da Dora, la sua madrina di battesimo, figlia guarda caso, proprio di quel Nespolo della dedica.
Siamo negli anni ’40 quando nasce l’amicizia divenuta poi fraterna tra Nespolo ed Ardito, entrambi figli di emigrati della nostra città, arrivano dal sud America, il primo dal Cile e Pietro dall’Argentina, con una lingua che li accomuna, insieme a quell’ indissolubile sentimento molto Ligure, di orgoglio delle proprie radici che li fa sentire entrambi Rapallini. Una immagine di una Rapallo ben diversa da oggi, dove ci appare Nespolo come titolare dell’Agenzia Riviera di Piazza Cavour, ma anche costruttore dei due bei palazzi di Corso Assereto di fronte all’odierno Scarpamondo, il nonno “Dino” di Paolo Melani, con la sua officina di maniscalco, in mezzo agli orti di S. Anna (di fronte all’attuale Croce Bianca), gestita durante la guerra dalla moglie Cesarina e, Pietro, giovane magro col cappello e col suo quaderno in mano a disegnare i primi personaggi delle sue famose vignette. Non sapremo mai le confidenze che, magari in lingua spagnola, si scambiarono i due amici, ma di una cosa siam certi, entrambi vennero a Rapallo perché si sentirono Rapallini, nella nostra città lasciarono un segno importante e per quella conoscenza comune con Cesarina, oggi abbiamo la fortuna, nel ricordare doverosamente il nostro illustre concittadino Pietro Ardito, nel 15° anno della sua morte, di ammirare alcune delle sue prime e inedite caricature. Un grazie a Pietro Ardito, ma anche a Paolo che ci ha permesso di condividere una pagina di vita del grande vignettista.
Pulce Nadia Molinaris
Un po’ di biografia
PIETRO ARDITO (Buenos Aires, 21 marzo 1919 – Rapallo, 28 febbraio 2005)
E’ stato un pittore, disegnatore e caricaturista italiano. Nato in Argentina da genitori italiani emigrati, si trasferì giovanissimo a Rapallo, paese d'origine dei familiari.
Adempiuti gli obblighi di leva in Libia, iniziò la sua carriera professionale negli anni quaranta come collaboratore per spettacoli teatrali e disegnatore di tessuti per importanti ditte nel settore tessile di Como e della Toscana.
Successivamente, intraprese la carriera di caricaturista, un'attività che lo renderà famoso per la spiccata creatività che lo ha portato a collaborare con giornali e riviste italiane come Nazione Sera, Il Girondino, Settimana Incom, Rivista Milano, Il Lavoro, Il Secolo XIX e Il Quaderno del Sale.
Famose sono le sue caricature di intellettuali e scrittori realizzate per l'inserto Mercurio del quotidiano La Repubblica e la pubblicazione di alcune vignette sul giornale tedesco Die Tageszeitung.
Nel corso della sua carriera, Ardito ha approfondito la propria attività di pittore in senso stretto realizzando opere esposte in musei locali e nazionali.
Nel 1984 collaborò con la RAI alla trasmissione Prisma, trasmessa su Raiuno.
Negli stessi anni Indro Montanelli lo invitò a partecipare quotidianamente con le sue caricature alla illustrazione di un fatto del giorno de Il Giornale.
La pubblicazione in Germania di un suo libro - Psicografie - contribuì ad accrescere poi la sua popolarità anche all'estero.
Le opere di Ardito sono esposte in diversi musei italiani, come il Museo Internazionale della Caricatura di Tolentino e il Museo del Cinema di Torino, nonché in altri siti culturali esteri a Basilea, Istanbul e al Kunstsammlung di Düsseldorf.
Molti i riconoscimenti internazionali ricevuti da Ardito in carriera: nel 1985 e nel 1989 è stato premiato al Salone Internazionale dell'Umorismo di Bordighera;
L'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha organizzato nella sede di Palazzo serra di Cassano, nel 1997, una mostra delle sue caricature dal titolo: "I Filosofi e il Caos", a cura del filosofo Alessandro Di Chiara. Nel centenario della morte di F. Nietzsche la città di Rapallo ha patrocinato, insieme al Dipartimento di Filosofia dell'Università di Genova, con la direzione scientifica di Alessandro Di Chiara e la collaborazione di Carlo Angelino, un Simposio Internazionale dal titolo "F.Nietzsche 1900-2000", al quale hanno partecipato alcuni tra i più noti pensatori contemporanei; tra le attività collaterali al Simposio anche la Mostra di Ardito intitolata " Nietzsche precursori e epigoni" e curata dallo stesso filosofo della mostra napoletana.
Nel 1997 ha realizzato il volume Caricature in linea e, nel 2003, il libro Le caricature di Pietro Ardito, entrambe dedicate alle sue umoristiche caricature.
A Rapallo ha dedicato un originale volume umoristico, Rapallini & Rapallesi, raffigurante personalità di rilievo della città ruentina disegnate con semplici tratti di china, tipici del suo stile artistico.
Il 15 febbraio del 2005 il comune di Rapallo ha dedicato all'umorista una mostra personale al Castello sul mare, presentando al pubblico il suo volume Biografia e bibliografia di quel genio della caricatura che risponde al nome di Pietro Ardito. La mostra fu peraltro funestata la mattina del 28 febbraio (ovvero tredici giorni dopo l'apertura) dalla notizia dell'improvvisa morte del disegnatore.
Un anno dopo, il 28 febbraio 2006, il comune rapallese gli ha intitolato la piazzetta antistante la sua abitazione.
La fama di Ardito nasce dal suo modo di lavorare che consisteva prima nel fare uno studio del personaggio, poi eseguire una prima caricatura, alla quale togliere ciò che non è saliente: una sorta di ermetismo del disegno. Arrivato giovanissimo a Rapallo dall’Argentina, Ardito per la sua abilità ottiene che le sue opere vengano pubblicate su riviste in Italia e all’estero: Girondino, Settimana Incom, Le Ore, Nazione Sera, Mercurio. Suoi lavori sono esposti in musei di Basilea, Berlino, Baiardo, Istanbul, Tolentino e Torino.
A Rapallo, che lo ha accolto e valorizzato, ha dedicato un originale volume umoristico «Rapallini & Rapallesi» raffigurante personalità di rilievo della città ruentina disegnate con semplici tratti di china, tipici del suo stile artistico.
ALCUNE DELLE VIGNETTE FAMOSE DI PIETRO ARDITO
Il vignettista Pietro Ardito colui che “ha raccontato l’Italia attraverso trent’anni di satira”
Pietro Ardito (Buenos Aires, 1919 – Rapallo, 2005), è stato pittore e disegnatore. Come caricaturista ha raggiunto una sintesi efficacissima e una stilizzazione molto personale: il suo tratto ricorda il grande artista Olaf Gulbransson del quale si dice che ricorresse più alla gomma che al pennino.
I disegni originali qui esposti, con arguzia, ma senza cattiveria, ritraggono illustri personaggi italiani e stranieri (Rapallo, 1982).
Sandro Pertini
Giovanni Spadolini
Enrico Berlinguer
Amintore Fanfani
Giorgio Almirante
Filippo Maria Pandolfi
Ronald Reagan
Ayatollah Khomeyni
Mao Zedong
Gandhi
Giovanni Paolo II
Preti sulla barca
Churchill
San Totò
Onassis
Napoleone
Buster Keaton
Dalla Raccolta Govi
a.c. di
CARLO GATTI
Rapallo, 2 Marzo 2020
FUOCHI AD EST DI CANDIA - Romanzo storico
FUOCHI AD EST DI CANDIA
Romanzo storico - Di Carlo Giuseppe LUCARDI
Maometto II°, Sultano dell’Impero Ottomano – (ritratto da Gentile Bellini)
Alla morte del padre, Maometto II° salì di nuovo al trono e nel giro di soli due anni arrivò a porre fine all’Impero Bizantino conquistando il 29 maggio 1453 Costantinopoli (che era diventata per lui un'ossessione, tanto che cominciò a paragonarla ad una donna che aveva rifiutato il matrimonio di molti principi musulmani e che doveva diventare per forza sposa). L'assedio fu condotto con enorme spiegamento di forze, usando i più grandi cannoni allora esistenti al mondo e addirittura trasportando decine di navi sulla terra, trascinate a forza di braccia dagli schiavi dal Bosforo fino al Corno d’oro scavalcando le erte alture di Galata, per aggirare la celebre catena che bloccava l'imboccatura del Corno d'oro dal Mar di Marmara. Presa la città, Maometto II ne fece la nuova capitale dell'Impero ottomano col nome di Kostantîniyye, poté così fregiarsi oltre al titolo di "Sultano" anche di quello di "Qaysar-ı Rum", ovvero Cesare dei Romei, anche se risulta già attestato in particolar modo a livello popolare l'attuale nome di İstanbul.
Dopo questa conquista, il padişa dei turchi prese anche gli ultimi territori bizantini, il Despotato di Morea nel Peloponneso (1460) e l’Impero di Trebisonda sul Mar Nero (1461) A quel punto, nonostante lo sgomento dilagato in tutto l'Occidente, lo stato ottomano fu definitivamente riconosciuto nel mondo come un grande Impero.
La caduta di Costantinopoli nel 1453 aveva mostrato per la prima volta la vera potenza navale, oltreché terrestre, del nuovo Impero ottomano.
Venezia, sebbene sino all'ultimo fosse alleata con il morente Impero Romano d’Oriente, dopo la caduta dell'antica capitale imperiale si affrettò a mostrarsi compiacente coi nuovi padroni delle vie d'Oriente. Il 18 aprile 1454, l’ambasciatore Bartolomeo Marcello sottoscrisse infatti con il Sultano Maometto II° un trattato di reciproco riconoscimento.
Nonostante le apparenze, si trattò però di una tregua fragile, costantemente minacciata da piccole violazioni che potevano, in qualunque momento, essere sfruttate dai Turchi per scatenare un conflitto. La stessa Venezia, dal canto suo, dichiarava apertamente per bocca dei propri rappresentanti, in un concilio tenutosi a Mantova nel 1460, che l'accordo era stato costituito per necessità di difesa degli interessi in Oriente, ma che, qualora si fosse creata contro il Gran Turco una lega cristiana, Venezia sarebbe stata disponibile a parteciparvi.
In questa situazione veramente ingarbugliata, Venezia - Repubblica Marinara si trova a percorrere rotte difficili e insidiose per la sopravvivenza della stessa SERENISSIMA e delle sue basi medio-orientali.
Gli storici di professione, quando suggeriscono libri per l’approfondimento di un argomento di rilevanza storica, del tipo che stiamo trattando, raccomandano sempre la lettura di un Romanzo Storico che, sapendosi calare nella realtà del tempo, arricchisce e facilita la comprensione degli avvenimenti attraverso i personaggi di quel tempo che rispecchiano i fattori ambientali, politici, religiosi, linguistici, psicologici e comportamentali che ben poco hanno in comune con gli attuali parametri di valutazione in nostro possesso.
Ed ecco venirci in soccorso il romanzo storico di CARLO LUCARDI
Carlo Giuseppe Lucardi, nato a Genova il 21 maggio 1953, é un medico ex-ospedaliero, con la passione per la scrittura fin dai tempi dell’Università.
Carlo é socio di Mare Nostrum Rapallo da circa un anno e fa parte del gruppo:
Il suo libro, di cui ci occupiamo oggi, verrà presentato il 1°di febbraio dagli SCRITTORI IN RIVA AL MARE presso la Biblioteca di Rapallo. Seguirà la locandina.
La trama:
Il Sultano Maometto II° ha conquistato l’impero romano d’Oriente.
La sua fama d’invincibilità terrorizza tutto il mondo cristiano. Venezia deve concludere una pace svantaggiosa con lui per conservare le terre e i commerci che ancora possiede. A sugello del trattato il Sultano pretende che un carico d’armi da fuoco gli sia venduto in cambio di oro e gemme.
Maometto II pensa che coi rivoluzionari Hachen-Buchse (archibugi) a pietra focaia gli sarà facile togliere di mezzo i cavalieri di Rodi che gli impediscono la conquista di Roma.
Per essere sicuro del risultato, affida l’operazione al suo migliore fiduciario, Misha Pasha il Crudele.
Caracche a 3 e 4 alberi.
I veneziani chiedono che lo scambio avvenga in mare e caricano le armi su una caracca genovese-provenzale, la Dalfin.
Poseidone, Colui-che–scuote–il-mare, scatena una tempesta che disperde le navi, sicché la Dalfin viene catturata dalla galea del cavalier Vendramin.
(Cavaliere dell'Ordine dell'Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, detti anche Cavalieri di Cipro, Cavalieri di Rodi e noti come Cavalieri di Malta), è un ordine religioso cavalleresco nato intorno alla prima metà dell'XI secolo a Gerusalemme).
Giovanni, figlioccio del cavaliere, ne assume il comando e fa vela su Rodi, sfidando le squadre del Pasha.
Un laido vecchio imbarcato sulla nave (medico oscuro dei Savi di Alessandria), trama per impedirglielo, e la sua bellissima schiava–strega irretisce il giovane comandante. Tutto sembra perduto, ma l’Egeo degli antichi Eroi ancora una volta mischia le carte…
L’archibugio può essere considerata la prima vera arma da fuoco portatile capace di garantire una certa precisione nel tiro. Evoluzione del più primitivo e pericoloso “scoppietto”, anche noto come "cannone a mano" (handgun in lingua inglese) l'archibugio trovò poi sviluppo nel moschetto, dando origine al fucile moderno.
Data di produzione: 1450-1650
Un romanzo rosso come le fiamme degli Hachen-Buchse e verde come il mare delle isole greche.
Il primo di un ciclo di storie di mare fra l’Oriente e il Rinascimento, il Magnifico Lorenzo e Maometto II°, i corrotti cardinali e la magia oscura dei Savi di Alessandria.
L’autore del romanzo ha fatto una scelta precisa: quella d’imbarcarsi, di volta in volta, come cronista, sulle navi in cui si svolge un’azione bellica. A noi ricorda un novello Pigafetta che descrive la storia che vive in prima persona e che ci riferisce puntualmente con il linguaggio di bordo, talvolta rozzo e crudele, talvolta raffinato a seconda del palcoscenico che può essere turco, veneziano, genovese, ma anche misto…anzi molto eterogeno! Quindi ci s’imbatte in termini assolutamente veri, pittoreschi, rocamboleschi, ironici che ancora ora rifioriscono e risuonano negli angiporti più famosi del Mediterraneo.
Il vocabolario usato dallo scrittore é molto ampio… non solo nelle simpaticissime imprecazioni che non risparmiano neppure gli dei di varie provenienze…, ma dilaga persino nella terminologia tecnico-nautica che si estende ai bordi veneziani, genovesi, turchi, arabi, levantini ecc…
Lo stesso tipo di linguaggio, talvolta esilarante, é usato anche per illustrare le armi e persino istruendo il lettore sull’uso delle stesse durante le battaglie navali che sono descritte puntigliosamente sulla base di strategie studiate e praticate con estrema efficacia!
La presenza dell’autore a bordo dà al lettore la strana sensazione di essere imbarcato e guidato nelle varie esperienze di bordo e, i personaggi che via via incontra appaiono a prima vista meno strani, anzi più umani del previsto. Talvolta é persino più facile capire come oggi, rispetto al 1400, non sia cambiato così tanto il senso della vita, dell’umanità, del dolore, dell’onore, del bello e del brutto. Infine, anche la simpatia e l’antipatia dei personaggi di queste imbarcazioni “rinascimentali”, che sono spesso espressioni dell’ignoranza profonda mista a superstizione, diventano funzionali alla genialità che essi sanno esprimere nei momenti difficili. E’ l’epoca nello stupore per le nuove invenzioni che rendono il mondo pieno di speranze e gli uomini in arme validi attori sulla scena della modernità.
La lettura del romanzo é molto scorrevole anche se, a prima vista, potrebbe essere apprezzato come un testo esclusivo per appassionati di storia, un libro di nicchia per studenti di liceo ed anche universitari. Ma non é così, il romanzo é indubbiamente “erudito” emergendo in modo inequivocabile la preparazione culturale di alto livello con cui l’autore si é avvicinato a questo progetto storico profondamente marinaro, sia nelle descrizioni particolari delle caracche, delle galee di vario tipo, ma anche nella conoscenza del linguaggio di bordo, che passa dal veneziano all’arabo, dal turco a quello usato dai Cavalieri di Rodi, ma non é tutto perché ci desta altresì meraviglia anche l’esatta descrizione delle armature del tempo, l’uso delle armi bianche, ma anche di bombarde, colubrine, basilischi e soprattutto dei micidiali archibugi veneziani al loro esordio nella storia.
L’autore tratta con molta competenza il debutto della CARACCA genovese, una torre molto alta sulla superficie del mare, figlia della COCCA con le murate e le estremità progettate per cavalcare le onde atlantiche. Ricordiamo che la cocca genovese fu progettata per uscire da Gibilterra e raggiungere i mari del Nord Europa.
La storia ci ha insegnato, e lo fa tuttora, che la nazione con la tecnologia più avanzata in materia di costruzioni navali e di armamenti é candidata alla vittoria finale.
Venezia, nella realtà del XV secolo possiede l’Arsenale militare più famoso e potente del mondo di allora. Da quella realtà, come ci spiega più volte l’autore, escono le migliori navi e le migliori armi navali che sono il frutto di secoli di studi, d’esperimenti e di grandi innovazioni in tutti i campi da parte di celebri ingegneri, fonditori e navigatori.
Tuttavia il nemico che ha di fronte rappresenta la più forte potenza militare del mondo di allora. Come finirà questa storia?
Buona lettura!
Piccola caracca - ill. del XVI secolo.
Caracca - particolare da Caduta di Icaro di Pieter Bruegel il Vecchio (circa 1558)
Battaglia navale tra caracche e galee.
Il “galeone” NEPTUNE ormeggiato nel porto Antico di Genova é finto, ma rende l’idea e soprattutto l’atmosfera marinara di un’epoca ormai lontana che il nostro capoluogo non ha dimenticato. Forse, anche il nostro amico Carlo LUCARDI n’é stato “contagiato”??Chissà! Ce lo racconterà a voce… Per il momento gli rivolgiamo i nostri sinceri complimenti per la sua opera che potete trovare presso qualsiasi libraio.
Carlo GATTI
Rapallo, 23 Gennaio 2020
QUALI SONO LE NAVI PIU’ DIFFICILI DA MANOVRARE?
QUALI SONO LE NAVI PIU’ DIFFICILI DA MANOVRARE?
PASSANDO IL MOUSE SOPRA LE PAROLE SOTTOLINEATE , APPARE UNA FINESTRA A TENDINA CHE NE SPIEGA IL SIGNIFICATO.
Questa è una delle domande che mi sono sentito rivolgere più spesso, e la risposta non è né semplice né scontata.
Sono troppi i fattori che influenzano una statistica di questo tipo e vanno da quelli psicologici a quelli pratici.
In più di vent’anni di pilotaggio mi è capitato di manovrare una grande varietà di navi, pontoni, scafi particolari (vedi Concordia), manovre sperimentali, velieri, yachts, ecc., in situazioni estremamente diverse.
Tra le variabili più frequenti mi vengono in mente le condizioni meteomarine, i pescaggi, le superfici veliche, gli assetti, i tipi di timone e di propulsori, le avarie, gli equipaggi affidabili e quelli meno, ecc.
Anche le valutazioni soggettive influiscono notevolmente e variano con l’esperienza. Ricordo, per esempio, che i primi anni di pilotaggio arrivavano a Genova due navi Ro-Ro tunisine nuovissime e dalle ottime prestazioni: il Salammbo 7 e l’Ulysse. Nonostante occupassero onorevolmente i primi posti nella lista delle navi affidabili, per me erano sempre “vapori” da manovrare con grande attenzione. Il motivo: prima di diventare pilota navigavo sulle petroliere, le cui caratteristiche erano completamente diverse. Trovarmi su di un Ponte prodiero cambiava i parametri di evoluzione e le differenze nelle proporzioni tra masse e propulsori erano abissali. Intendo dire, che nelle prime esperienze da pilota un peso non trascurabile è dato dalla familiarità che si ha con i mezzi da manovrare.
Ponte di Comando della nave “Salammbo 7”
Vent’anni fa i thrusters erano optional poco diffusi. Ricordo un pilota, ora in pensione, che gli ultimi anni di navigazione, prima di diventare pilota, li aveva trascorsi a bordo delle bettoline per il bunker; risultato: era bravissimo nella manovra delle navi di piccole dimensioni, e un mago in quelle dove un buon uso delle ancore permetteva acrobazie piuttosto complesse.
Bettolina del bunker
E così, almeno per i primi tempi, ognuno ha preferenze che influenzano il metro di giudizio nella scala delle difficoltà di una manovra rispetto a un’altra.
Con il tempo la competenza e l’abilità si livellano; l’esperienza aiuta a riempire la personale cassetta degli attrezzi di strumenti che diventano utili in tutte le occasioni.
A questo punto entrano in campo i fattori caratteriali.
Tutti, prima o poi, raggiungono un livello che permette di operare in una ben definita zona di comfort.
Questo non vuol dire manovrare bene, significa semplicemente aver capito i propri limiti e aver trovato un equilibrio – più o meno forzato – che permette di portare le navi in banchina. Ovviamente c’è chi eccede nelle precauzioni, chi trova un limite più basso degli altri nelle differenti condizioni meteomarine e chi opera con tempi più lunghi.
È normale, fa parte del percorso di formazione. Il fatto diventa negativo quando ci si arresta al traguardo raggiunto, quando si ripetono le stesse manovre senza cercare di migliorare, quando ci si trova ad applicare sempre la stessa procedura senza adeguare il metro di valutazione al progredire dell’esperienza.
Mi rendo conto che, per riuscire a spiegarmi bene, devo precisare alcune cose:
- La teoria studiata sui libri, le manovre provate sui simulatori e i corsi in generale, sono utilissimi per costruire le basi da cui fare decollare in seguito la professionalità spinta dalla pratica e dall’esperienza.
- Le “procedure“, in generale, servono a mitigare i rischi che in questo lavoro non possono essere esclusi, ma devono essere viste come “linee guida”, “suggerimenti operativi” da adattare alle circostanze. Questo perché, come dicevo prima, le situazioni possibili sono infinite e imbrigliarsi in troppe regole può aiutare a scaricare parte delle responsabilità da in lato (se vogliamo dare un peso all’accezione negativa del pensiero burocratico), ma dall’altro condiziona il metro valutativo sulle variabili non previste.
- Uscire dalla “zona di comfort” non deve esser visto come un azzardo, ma piuttosto il passaggio al paragrafo successivo nel testo della preparazione personale.
- Una delle qualità fondamentali, richiesta a un buon pilota, è la capacità di giudicare le situazioni senza lasciarsi condizionare dalle pressioni esterne (commerciali, di traffico, personali, ecc.): se una cosa la si può fare, adottando tutti gli accorgimenti del caso, la si fa, altrimenti no. Facile a dirsi, difficile a farsi. Quando si lavora vicino al limite, il confine tra “il possibile” e “il rischioso” è veramente labile e la valutazione strettamente personale. Anche in questo caso il tempo e l’esperienza diventano gli occhiali che servono a mettere a fuoco un concetto inizialmente sbiadito.
Bene! Ritengo di aver tracciato in maniera efficace i confini entro i quali mi muoverò per rispondere alla domanda iniziale.
Dando quindi per scontata una sufficiente esperienza e preparazione, una maturità di giudizio consapevole e lasciando da parte le variabili eccezionali, elencherò le difficoltà principali per tipologia di nave.
- Navi di piccole dimensioni, senza bow thruster e ad avviamenti, ormai ce ne sono poche. Mi viene da dire “peccato”: erano davvero un’ottima palestra di manovra! Il fatto di avere i problemi ben focalizzati e le risorse ridotte al minimo, permette di concentrarsi sulla gestione di poche cose per volta. Mi spiego meglio. Per “problemi focalizzati”, intendo carenze talmente evidenti da non rivelarsi, al momento meno opportuno, come insidie nascoste, e quindi prevedibili in quanto dichiarate. Vi racconto un episodio di tanti anni fa per trasferire il concetto astratto alla pratica.
“Ero allievo pilota da circa sei mesi e accompagnavo alla partenza di una piccola Ro-Ro il Comandante Veglio. La nave, dotata di bow thruster e due eliche outwards a passo variabile, era ormeggiata sulle ancore con la poppa in banchina (andana).
Un vento di media intensità, circa 15/18 nodi, scivolava da poppa verso prora, rendendo frizzante l’aria mattutina di quella giornata di marzo.
Quel giorno, forte della mia inesperienza, ho inanellato una serie di errori incredibile.
Sulla lavagna dove venivano segnati i lavori, posta nella sala operativa, erano segnate due manovre a poca distanza l’una dall’altra: l’arrivo di una nave di merce varia di media grandezza e la partenza di una Ro-Ro ormeggiata di punta. Il Comandante Veglio mi chiese di andare con lui alla partenza ed io, dopo un breve confronto, acconsentii riluttante.
Pensavo fosse più interessante la manovra d’arrivo.
Mi convinse dicendomi che, seppure stretti con i tempi, probabilmente sarei riuscito a fare sia l’una che l’altra.
Nella mia testa la partenza della Ro-Ro era meno interessante: sarebbe bastato salpare le ancore, fare un po’ di coppia con le macchine, mettere il bow thruster a sinistra e voilá, il gioco era fatto. Con questa idea in testa affrontai la manovra di disormeggio… e poi dovevo fare presto, se volevo finire in tempo per l’arrivo della “merce varia”.
Feci mollare tutti i cavi di poppa e salpare le ancore. Arrivate a tre lunghezze in acqua feci fermare il salpa ancore di sinistra.
Quasi subito il vento, che nella prima fase sembrava non avere alcuna influenza, cominciò a farsi sentire, costringendomi a compensare utilizzando le macchine e il timone. Per farla breve, mi trovai, una volta salpate le ancore, con la nave troppo vicina alla banchina di dritta. Per riuscire a mantenere il controllo aumentai la velocità, con il risultato che mi trovai ad affrontare l’accostata a sinistra per entrare in canale troppo abbrivato, troppo vicino alla banchina di dritta (e quindi senza il giro libero per accostare) e con il vento che mi spingeva verso la diga… Intervenne il Comandante Veglio, che mi tolse la manovra dalle mani e, non senza difficoltà, rimediò a una situazione che – errore dopo errore – avevo portato a un livello di criticità molto alto.
Manovra partenza nave in andana
Questo racconto vuole introdurre un concetto che ho vissuto e che ho riscontrato successivamente tra gli allievi entrati dopo di me:
- L’inesperienza porta a riconoscere, valutare e ad affrontare i problemi uno per volta, mano a mano che si presentano.
Cosa c’è di sbagliato in questo? A volte la soluzione migliore per il primo problema rende più complessa la risoluzione di quello successivo, scatenando una serie di reazioni che possono portare al disastro.
L’atteggiamento giusto è quello di individuare il “nocciolo”, ovvero il punto più delicato della manovra, e costruire la strategia in funzione di quello.
Nel caso della storia che vi ho raccontato, mi sarei dovuto focalizzare sulla necessità di affrontare l’entrata in canale sufficientemente sopravventato e con un’andatura tale da permettermi di conservare una riserva di macchina sufficiente a vincere le forze contrastanti.
Termino qui la prima parte dell’articolo. Nella seconda, che pubblicherò a breve, riporterò considerazioni e racconti sulle altre tipologie di navi. A presto.
di JOHN GATTI
Rapallo, 24 Novembre 2019
ATTENTI A QUEI DUE...!
ATTENTI A QUEI DUE.....!
Il motto era: " Sempre amici anche in tempo di guerra..."
Era il 1958, frequentavamo il IV Nautico Macchinisti. Un pomeriggio, in occasione di un ricevimento delle famiglie, si sono incontrati mio padre e la madre di Terrenzio. A quel tempo, si rientrava quasi tutti i giorni a scuola di pomeriggio e quindi per mangiare, a pranzo, si andava avanti a forza di panini, sempre se non li avevi finiti prima… Parlando di questo disagio, i due genitori pensarono di farci mangiare almeno due volte la settimana al Ristorante: l'unico di Ortona, sito a metà della via principale, il Corso, di ottima qualità.
Ortona - Il corso
Approfittarono così per parlare subito con il proprietario. Queste erano le condizioni: il pranzo normale costava 600 Lire, una cifra importante all’epoca, ma siccome noi non avremmo preso vino e caffè e siccome si trattava di un abbonamento, si pattuì per 500Lire a Pranzo. I clienti erano pochi: un commesso di stoffe che periodicamente si fermava ad Ortona e un nostro Insegnante, ex Uff.le di Marina, single, proprietario di una fornace ai Saraceni. Questo per inquadrare la quasi esclusività del locale. In precedenza, andavamo qualche volta dai genitori di un nostro compagno di classe, Mariani, i quali gestivano una cantina e, quando cucinavano qualche piatto per loro che a noi andava bene, ci univamo alla famiglia. Ricordo, per esempio, dell'ottima pasta e piselli. Trionfavano gli odori di vino e tabacco. Tutto era avvolto in fitta una penombra dovuta alle volte del locale che erano 'a cielo di carrozza'. Per intenderci, si mangiava con sole 120 Lire.
Da destra: Nunzio, Terrenzio, e "Porcellino"
Le prime settimane andammo regolarmente al ristorante e molte persone restavano stupite di questo trattamento che avevamo.., eravamo considerati miliardari! Ma in uno di quei giorni in cui quando suonava la sirena ed eravamo già un po’ lontani c'era il rito di posare la borsa per terra e, con tutta calma, fare il gesto 'dell'ombrello', arrivavamo sotto il faro alla testata del porto, dove a volte ragionavamo sui 'massimi sistemi', ci chiedemmo se era il caso di continuare a spendere tutti quei soldi 'inutilmente'. In effetti avevamo anche altre spese vive giornaliere come le sigarette, qualche rivista il giovedì, e altro tenuto conto che la legge Merlin non era ancora in vigore. Si convenne allora di rallentare la frequenza al ristorante per disporre di moneta 'frusciante'.
Solo che un giorno, mio padre, mentre andava alla Banca sita nei pressi del ristorante, vide la proprietaria sulla porta e si fermò. Dopo averla salutata, chiese dei ragazzi e del loro comportamento. La Signora rispose la verità: "veramente in questo ultimo periodo li stiamo vedendo poco, forse non sono contenti del trattamento!" al che mio padre rispose: "Signora, mi faccia la gentilezza, lei prenda un quadernino, quando viene mio figlio a pranzo, gli faccia apporre la propria firma e poi quando passo io, regoleremo il conto, se vuole, le anticipo i soldi." “Va benissimo! Ossequi.”
Quando tornai la sera a casa, mio padre al solito, non disse nulla, solo: "Quando vai al ristorante, non serve dare i soldi. Metti solo una firma sul quaderno che ti porge la Signora.” Cazzo, ci aveva fregato! E la faccia di mio padre non mi piaceva affatto…
Ore 7.00 del mattino successivo. Monto sull'Auto Forlini, posto riservato da Terrenzio: rimorchio, sedili davanti, carte già mischiate, le mie tre già pronte, allegria di sempre… Arrivo, guardo il mio amico con una faccia veramente diversa e lui: "ca success frà??"
E io: "che t'a vist Sciannapupa?", soprannome affibbiato a un professore perché il poveretto quando camminava ondeggiando a destra e sinistra sembrava uno che culla un bambino.
"No pecchè oggi avem da parlà!" il prof. Nominato viaggiava con lo stesso nostro auto e quel giorno, martedì, avevamo compito in classe!!! Quel giorno non si giocò a carte.
Veduta aerea del porto di Ortona
Arrivati a Ortona, prendemmo la solita via del porto, ma in un angosciante silenzio. Arrivammo sotto il faro, accesa la sigaretta, si inizia con la relazione del fatto e la discussione sui provvedimenti da prendere. Alla fine si decide di parlare con la Signora in questi termini: "Causa cambiate condizioni economiche del mio amico figlio di commercianti, e lei può ben capire i manrovesci della fortuna, verremo a mangiare in due. Io metterò la firma e lei ci darà due primi. Poi lei vedrà se è possibile un solo secondo ed eventualmente la somma da integrare volta per volta. Se le va bene è così, altrimenti io non verrò più perché non posso lasciare un amico fraterno con un panino mentre io me la scialo al ristorante!!!”
All'ora di pranzo, ci presentiamo al ristorante ed esponiamo il problema alla Signora, la quale solo a vedere la faccia di circostanza di Terrenzio, disse: "Ma si, non vi preoccupate, va bene così.., purtroppo il commercio è così.." Neanche a farlo apposta il Ristorante si chiamava per l’appunto "Il Commercio"...
Nunzio a sinistra e Terrenzio con la gambetta ...
Era fatta! Avevamo contante sufficiente per tutto. Potevamo fare anche qualche opera di bene a qualche amico e abbiamo potuto constatare che non sempre a fare del bene se ne riceve altrettanto.
Il giovedì pomeriggio, spesso durante le ore di officina, con la complicità del buon 'Bob', dopo l'appello, uscivamo dalla finestra per andare a vedere la Rivista. Portavamo con noi, spesso, Vittorio Bisignani, con il quale conservo tutt’oggi un contratto stipulato su carta igienica, in cui si impegnava a portare i libri tutti i giorni per lire 50 al mese. Quando eravamo davanti al cinema, noi gli dicevamo: "Dai Vittò, n'nte preoccupà: ce stà la polvere!" e lui era un po’ restio dicendo: "ma mo' pecchè avet da paà vu!"... "E dai!” lo prendevamo per un braccio e lo portavamo dentro!"
Avevamo dimenticato che proprio dirimpetto a noi, a 20 mt. di distanza, da dietro la tendina, DON ANTONIO ci osservava. Era il nostro Insegnante di Religione, il quale abitava lì e credeva che Vittorio non volesse cadere in tentazione. Quindi risultava che noi lo inducessimo al peccato. Così, quando entrava in aula, con i suoi giri di parole ci faceva sempre capire che eravamo dei degenerati…
E poi vai a fidarti di fare del bene!!!
Nunzio CATENA
Rapallo, 8 Febbraio 2018