MODELLISTI RAPALLO 2016
MARE NOSTRUM RAPALLO
XXXV Edizione
2016
MODELLISMO: ARTE E PASSIONE
Modellisti Rapallesi
GALEA GENOVESE - Simbolo della Mostra monotematica
Silvano Porcile - Nave scuola ETOILE
Mauro Rocca: VASCELLO
Sacco Benito: SOVEREIGN OF THE SEA
Seguono i particolari dell'opera
Benito Sacco: sciabecco Francese INDISCRET 1750
SCIABECCO 1763
Neri Alessandro - PINCO GENOVESE 1750
Neri Alessandro - GOZZO
Olivieri Roberto - GOZZO
Olivieri Roberto - PESCHERECCIO
Olivieri Roberto - PINCO GENOVESE
Olivieri Roberto - Plastico Attesa dello Sbarco in Normandia
6 giugno 1944
Passaponti Gilberto: Nave da Battaglia CAVOUR 1915
Passaponti Gilberto: Traghetti FFSS di Messina
§§§
Modello della corvetta classe "Flower" in origine "K-73 Arabis" riprodotta all'atto della consegna alla US Navy nell'Aprile 1942 ed esposto alla mostra Mare Nostrum 2016.
Poco dopo averla ricevuta, la US Navy l'ha riclassificata "PG" (Patrol Gunboat) con nome "Saucy" e pennant number PG-65, nel contempo ha operato diversi cambiamenti tra i quali il tipo e disposizione dell'armamento che ne hanno modificato l'aspetto.
Modello della PG (Patrol Gunboat) SAUCY esposta a Rapallo
Modellista ALBINO BENEDETTO
A cura di CARLO GATTI
Rapallo, 24 Novembre 2016
RAFFAELE RUBATTINO, NON FU SOLO UN ARMATORE...
Il Genovese
RAFFAELE RUBATTINO
Non fu solo un Armatore illuminato…
Raffaele Rubattino (Genova, 10 ottobre 1810 – Genova, 2 novembre 1881) fu uno dei più importanti pionieri dell’armamento marittimo che prese le mosse dal porto di Genova.
Per tutta la parte centrale dell’800 la sua presenza influenzò la politica italiana recitando una parte importantissima durante le battaglie per l’Unità d’Italia e, come vedremo, si mosse anche come un ECCELLENTE DIPLOMATICO nella vicenda dell’acquisto della Baia di ASSAB, (Mar Rosso meridionale).
Il sito di MARE NOSTRUM RAPALLO, nella sezione STORIA NAVALE, ospita alcuni articoli in cui si narra del coraggio, del patriottismo e delle importanti intuizioni strategiche che ebbe Raffaele RUBATTINO, illustrissimo personaggio a tutto campo della nostra Liguria marinara. Ne citiamo i titoli e riportiamo i LINKS per chi volesse approfondirne le varie fasi della sua intensa vita armatoriale e politica.
- LA SAGA DEI FLORIO (Le strategiche fusioni armatoriali…)
- GIUSEPPE GARIBALDI - UN UOMO DI MARE (La Spedizione dei MILLE)
- LE NAVI PASSEGGERI DI LINEA ITALIANE - DAL 1900 AL 1970
Un po’ di storia
Tra le prime attività imprenditoriali di Raffaele Rubattino si registra l’inaugurazione del collegamento navale con la Sardegna, diventando socio della Compagnia delle Saline della Sardegna. Era il 1852.
Ma, la più importante delle partecipazioni imprenditoriali del Rubattino, si verificò quando intuì che il vero business mondiale dell’epoca era quello legato al mercato dell'industria pesante fortemente coinvolta nella crescente domanda di motori marini, nuove costruzioni navali, nuovi e moderni armamenti e la motorizzazione generale del Paese. Infatti, insieme a Giovanni Ansaldo e al banchiere Carlo Bombrini, fu fra i soci fondatori delle OFFICINE ANSALDO di Ge-Sampierdarena.
La statura politica di Raffaele Rubattino va misurata anche e soprattutto per il suo impegno come fervente patriota nella difficile lotta per l’Unità d’Italia.
Fu amico personale di Cavour e di Nino Bixio col quale condivise l'estensione delle attività marittime italiane sui mari con Giuseppe Bianchieri, Paolo Boselli.
Fornì prima a Carlo Pisacane e poi a Giuseppe Garibaldi le navi per le spedizioni nel Mezzogiorno d'Italia, fra cui la storica Spedizione dei Mille. In questo caso il suo apporto alla causa volle rimanere segreto almeno in apparenza, per non indebolire la sua attività industriale.
Piroscafo CAGLIARI
Pertanto, nel caso di Pisacane con il piroscafo Cagliari, come in quello di Garibaldi con il Piemonte e il Lombardo, si finse un furto di nave. Da qui le accuse di essersi mosso per esclusivi interessi personali anziché per idealismo.
I piroscafi Piemonte e Lombardo, di sua proprietà, che rappresentavano l'innovazione nella navigazione con il passaggio dalla vela al piroscafo a vapore, furono acquisiti attraverso la mediazione di un dipendente della compagnia, Giovanni Battista Fauché.
Dopo la "rivoluzione parlamentare" che portò al potere la sinistra storica di Agostino Depretis, Rubattino si candidò nelle file del nuovo schieramento di governo alle Elezioni del 1876 quando:
Venne eletto deputato nella XIII Legislatura del Regno d’Italia.
LE ROTTE DEL MEDIORIENTE
Negli anni sessanta dell'Ottocento, l'Italia si trovò al centro dell'area coinvolta da lavori “storici”, infatti sulle Alpi erano in corso i lavori di perforazione delle gallerie ferroviarie del Frejus e del San Gottardo, che sarebbero stati aperti rispettivamente nel 1871 e nel 1882.
D'altra parte, nel 1869 fu ufficialmente inaugurato il Canale di SUEZ che, congiungendo direttamente il Mediterraneo ed il Mar Rosso, permetteva di abbreviare notevolmente la rotta dell'India (strategica per l'Impero Britannico) e dell'Estremo Oriente.
Pochi anni prima, dopo l’Unità d’Italia, con lo sviluppo delle linee ferroviarie su tutto il territorio, la navigazione di cabotaggio costiera perse d’importanza e il governo decise di interrompere le sovvenzioni ai servizi postali lungo tali rotte.
Rubattino capì che lo scenario era in rapida evoluzione e se voleva sopravvivere come armatore, doveva inserirsi in un contesto ormai internazionale. Questa sua intuizione, nel luglio 1868, lo portò ad inaugurare la linea commerciale Genova-Livorno-Alessandria-Porto Said.
Nel 1870 la linea di Alessandria fu estesa fino a Bombay: era la prima volta che un piroscafo italiano arrivava in India.
I tempi erano ormai maturi per un altro gigantesco
“passo in avanti” nella Storia dei Trasporti Marittimi Italiani
Il 4 settembre 1881 fu costituita, finalmente, a Genova la
Navigazione Generale Italiana (Società riunite FLORIO E RUBATTINO)
il cui capitale sociale era ripartito per un 40% agli ex-soci della Rubattino, un altro 40% agli ex-soci della Flotta Florio, e per il restante 20% al Credito Mobiliare. La sede fu fissata inizialmente a Palermo e successivamente spostata a Roma, mentre Genova e Palermo erano i compartimenti operativi. Coi suoi 83 piroscafi (subito passati ad oltre 100), la Navigazione generale italiana si presentava come il più grande cpmplesso armatoriale mai sorto in Italia.
IL CONTRIBUTO DI RAFFAELE RUBATTINO ALL’ESPANSIONE COLONIALE
Raffaele RUBATTINO si convinse che l’apertura del Canale di Suez, avvenuta solennemente il 17 novembre 1869, avrebbe dato un largo impulso ai traffici con l’India e con l’Estremo Oriente e che l’Italia, data la sua posizione geografica avrebbe potuto trarne notevoli benefici. L’armatore genovese, come abbiamo già visto, programmò di prolungare il servizio dei trasporti marittimi con l’Egitto fino a Bombay una volta al mese, e a tale scopo volle acquistare nel Mar Rosso una base di rifornimenti, base che in seguito avrebbe potuta essere ceduta al Governo e costituire così la nostra prima colonia in Africa.
La località prescelta fu Assab e Giovanni Sapeto, delegato del Governo in veste di procuratore del Rubattino, stipulò il 15 novembre 1869, con i sultani Hassan ben Ahmad e Ibrahim ben Ahmad, per la somma di 6.000 talleri di Maria Teresa, il contratto di acquisto di un primo lotto di terreno nella baia di Assab la quale, annessa ufficialmente tredici anni dopo, divenne il primo embrione del futuro Impero Coloniale Italiano.
Giovanni Sapeto
Dopo l'apertura del Canale di Suez, nel 1869 il governo italiano, ormai avviato verso l'espansione coloniale, aveva acquistato attraverso l'opera del missionario-esploratore Giuseppe Sapeto la Baia di Assab in Eritrea.
LA BAIA DI ASSAB - PUNTO STRATEGICO DI VITALE IMPORTANZA
Assab è una città portuale dell’Eritrea, nella regione della Dancalia meridionale, sulla costa occidentale del Mar Rosso. Nel 1929 contava 1.500 abitanti (di cui 15 italiani), saliti a 3.500 nel 1933, a 8.000 nel 1938 (di cui 800 italiani) e a 39.600 nel 1989.
Carta del Mar Rosso meridionale. La base di ASSAB controlla lo strategico Stretto di Bab al Mandab (in basso nella foto)
La baia di ASSAB è visibile sulla carta geografica in basso a destra
Piroscafo AFRICA
Il 14 febbraio 1870 lo stesso Sapeto lasciò GENOVA a bordo del piroscafo AFRICA, comandato dal cap. Andrea Bussolino, giungendo ad ASSAB il 9 marzo per istituirvi un deposito di carbone, non appena fosse stato definito l’atto di acquisto di un secondo lotto di terreno, che venne sottoscritto l’11 marzo 1870, a bordo dello stesso AFRICA, per la somma di 8.100 talleri. L’AFRICA fu il primo vapore di bandiera italiana che transitò per il Canale di Suez e rientrò a Genova il 22 aprile 1870 con 75 passeggeri e 2.000 balle di cotone. In ogni modo il 25 dicembre 1879 le truppe italiane occuparono definitivamente la Baia di Assab.
FINE DELLA COLONIA ITALIANA
L'esercito inglese sconfisse gli Italiani nella primavera del 1941 dopo la sanguinosa Battaglia di Cheren ed occupò tutta l'Eritrea italiana, mettendola sotto amministrazione militare fino al 1949. Il primo Atto che fecero gli Alleati fu di smantellare il sistema industriale eritreo come bottino di guerra. Persino la ferrovia Asmara-Massaua fu smantellata e spedita parzialmente in Sud Africa. La stessa fine fece la teleferica che collegava Asmara con il Mar Rosso.
Pertanto nel 1949 Assab divenne protettorato britannico, avendo l’ONU bocciato (per un voto) un’Amministrazione Fiduciaria all’Italia fino all’indipendenza. Nel 1952 l’Eritrea fu consegnata ufficialmente all’Etiopia, formalmente come paese federato, provocando l’inizio dell’esodo della comunità italiana dall’Eritrea.
Ancora nel 1949 la popolazione di Asmara era di 127.579 abitanti di cui 17.183 italiani, ma il loro numero si andò assottigliando negli anni cinquanta. Nel 1975, con l’inizio dei conflitti tra gli indipendentisti eritrei e l’Etiopia, il governo italiano istituì un ponte aereo per portare a Roma quasi tutti i membri della comunità italiana di Asmara.
Vivono in Eritrea circa 700 Italiani.
Il monumento a Raffaele RUBATTINO
Piazza Caricamento
GENOVA
A Raffaele Rubattino venne innalzato un monumento bronzeo presso Banco S. Giorgio, opera di Francesco Rivalta; Antonio Crocco dettò la seguente epigrafe che si legge ai lati del basamento:
A RAFFAELE RUBATTINO / INIZIATORE DEL PIRONAVIGLIO MERCANTILE ITALIANO / GLI AMICI ED AMMIRATORI / QUI TROVI L’ITALIA GLI AUSIPICI / DI PROSPERITA’ E DI GRANDEZZA / PERCHE’ DURI IL RICORDO DEL PATTRIOTTISMO OPEROSO
Aggiungo una nota personale:
Il Ponte Rubattino fa parte del bacino della Lanterna, realizzato con i lavori d’ampliamento del porto verso ponente, eseguiti dal 1923 al 1929.
Il ponte aveva 13 elevatori elettrici, è lungo 806 metri. Era adibito fino a pochi anni fa allo sbarco di navi con carichi alla rinfusa (carboni e rottami ferrosi).
A proposito dell’avventura italiana in Eritrea, desidero concludere questa ricerca proponendo ai lettori e followers il saggio intitolato:
Ing. Giuseppe PETTAZZI – Un rapallese da ricordare
di ERNANI ANDREATTA – Simonetta Pettazzi e famiglia
Rapallo, 4 Agosto 2017
Carlo GATTI
Rapallo, 18 Settembre 2021
STRETTO DI MESSINA-CACCIA AL PESCE SPADA
STRETTO DI MESSINA
SECONDA PARTE
LA CACCIA AL PESCE SPADA
LO SCHERMITORE DEL MARE
Il leggendario Stretto di Messina, di cui ci siamo occupati nella PRIMA PARTE, è da secoli l’ARENA naturale in cui si svolge l’eterna lotta tra gli uomini dello Stretto e il Pesce Spada. Una lotta in cui entrano in gioco elementi antichi che trasudano misteri, superstizioni, canti propiziatori e personaggi mutuati da favole e leggende che risalgono ad Omero, Polibio e Strabone. Lo "lo achermidore del mare" sempre stato un bottino ambito dai pescatori, non solo per il suo elevato potere nutritivo, ma anche per le sue dimensioni, che possono raggiungere i 4,5 mt di lunghezza per più di 400 kg. Queste caratteristiche, però, sono combinate ad una forza fisica, una resistenza e una furbizia tali da rendere questo pesce una preda difficile da catturare.
La caratteristica FELUCA usata nello Stretto di Messina per arpionare i pescespada. A prescindere da come le dimensioni e l’allestimento delle barche adibite alla caccia al pesce spada siano variati nel tempo, la tattica di base è rimasta una costante: avvistare il pesce, inseguirlo o attenderlo, lanciargli un arpione addosso e lottare fino alla resa. Con le moderne feluche questa resa è quasi sempre dell’animale, ma anticamente il duello terminava spesso con quella del pescatore, che rischiava addirittura la morte.
La pesca con l'arpione per la cattura del pesce spada è ancora praticata nello stretto di Messina. Questa pesca avviene nel periodo della riproduzione che nello Stretto di Messina va da maggio ad agosto, quando gli esemplari si avvicinano alla costa.
Si tratta di una “caccia” che nei secoli ha visto cambiare le imbarcazioni, la propulsione e l’attrezzatura ma non il coraggio e la personalità di chi, per affrontare un mostro potente e velocissimo di 4/5 metri, deve conoscerlo nella più profonda intimità per affrontarlo, vincerlo e catturarlo. Ciò avviene ancora oggi, ma solo sul piano di strategie antiche che non s’imparano nei manuali di pesca e neppure servendosi di strumenti moderni super tecnologici. Nulla di tutto questo!
Il duello è regolato dall’intelligenza e dall’astuzia dei contendenti che prima s’individuano, poi si studiano come due pugili che s’inseguono sul ring senza toccarsi, infine, s’affrontano ognuno con le proprie armi sino alla fine del confronto che non è mai scontato.
IL PESCE SENTIMENTALE - Non si lega facilmente, se si innamora è per sempre. Con la spada difende la compagna a costo della vita
A questo punto ci viene in mente Domenico Modugno quando nel 1954 portò sulle scene della neonata Televisione un brano che racconta questa incredibile storia: LU PISCE SPADA
“…..E pigliaru la fimminedda, drittu drittu ‘n tra lu cori, //E chiangia di duluri.//Ahai ahai ai.
E la varca la strascinava //E lu sangu ci curriva, //E lu masculu chiangiva, Ahai ahai ai…..”
La femmina del pesce spada viene arpionata al cuore, il maschio cerca di liberarla dalle reti. Le sta accanto fino all’ultimo istante offrendosi di morire insieme a lei, allo stesso modo.
Impazzisce il pesce spada che per bocca di Modugno urla che “si tu mori, vogghiu murìri ‘nzemi a ttia”.
Morirà anche lui arpionato dall’uomo che dalla lunga passerella della “feluca” non lo perdona ma ogni volta si commuove inchinandosi a questo cavaliere romantico, avversario coraggioso che merita rispetto e ammirazione perchè si fa uccidere per amore.
Non è una storia inventata. E’ una storia maledettamente vera che nel basso tirreno si ripropone intatta da millenni. Lo sanno bene i pescatori dello Stretto di Messina, tra Scilla, Bagnara Calabra, Palmi e Torre Faro.
Purtroppo la legge di natura non è così romantica: è sempre la femmina del pesce spada che va colpita per prima, non solo perché di dimensioni più grandi, ma perché in questo modo si potrà essere certi di catturare anche il maschio, che mai abbandona il suo amore.
UN PO’ DI STORIA
Le prime fonti che c’informano sulla pesca del pesce spada di cui abbiamo accennato all’inizio, risalgono al II secolo a.C. Le imbarcazioni erano di dimensioni ridotte ed erano per così dire “pilotate” da terra, da una rupe alta a sufficienza per avvistare la preda. Ciò avveniva specialmente sulla sponda calabrese più alta della dirimpettaia costa pianeggiante della Sicilia. L’avvistatore segnalava gli spostamenti del pesce spada con diversi sistemi: con bandiere o a voce.
Tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500, si realizzò l’idea di affiancare al luntru una barca accessoria che, opportunamente zavorrata e ormeggiata vicino o lontano dalla costa, fungeva da “osservatorio galleggiante”, con la stessa funzione di vedetta delle rupi calabresi.
La feluca è una barca piccola, lunga dai 5 ai 7 metri, senza chiglia, alla quale veniva richiesta la massima stabilità, con un equipaggio di cinque rematori e un arpioniere. Questi cambiavano a volte disposizione, ad eccezione del quinto uomo che saliva sull'albero maestro per avvistare la preda.
Questa nuova imbarcazione di origine messinese, venne denominata Feluca e considerata una barca da posta, proprio per la sua mansione. Per adempiere al suo compito, l’avvistatore necessitava di una posizione più elevata possibile: per questo motivo, a centro-nave, venne innalzata una torretta (detta ‘ntinna) alta dai 15 ai 22 m e dotata di opportuna scaletta, dalla quale era facile segnalare la posizione del pesce agli uomini dei luntri associati. Essi, rimasti in attesa del segnale, si lanciavano veloci all’inseguimento della preda utilizzando la stessa collaudata tecnica dei pescatori calabresi. Solitamente le feluche da posta erano due o tre, ancorate su zone diverse, in modo da ricoprire un più vasto campo d’avvistamento.
Dovendo fungere da osservatori fissi, le feluche non necessitavano di un proprio mezzo propulsivo; i luntri corrispondenti, quindi, le rimorchiavano sulle posteprestabilite.
Luntru GANZIRRI
“Il luntru, partendo dalla base delle pendici calabresi, si dirigeva rapido verso il pesce indicato, grazie a 4 rematori in piedi (introdotti a fine 800); una caratteristica di questa fase (inseguimento) era l’avanzamento di poppa del natante, il quale presentava ottime capacità manovriere anche contro corrente. I 4 remi erano, infatti, di grandi dimensioni in proporzione allo scafo: i due remi a poppavia erano lunghi entrambi 4.68 m; quelli a pruavia 5.46 e 5.72 m.
L’efficacia dell’inseguimento era garantita da un altro pescatore che, al vertice di un piccolo albero (detto farere) alto 3÷3.5 m e posto a centro-nave, dirigeva i rematori e il lanzaturi munito di fiocina”.
Questa bellissima foto scattata ai primi del ‘900, non ha bisogno di tanti commenti in quanto riprende il LUNTRE, una barca lunga 5,49 mt. larga 2,44 mt. ed alta 1,22 mt., al cui centro vi era un albero La FARIERA con tanto di fermapiedi, dove in piedi il VARDIANO stava di vedetta e IL LANZATURI era appostato di prora. L’imbarcazione, originariamente, era a remi, ed il suo equipaggio era costituito da 6-8 marinai.
Ci spiegano che per issare a bordo il pesce spada catturato, servivano un paio di uncini ed una corda; l’armamento era costituito anche da due “cannistri”, vari tipi di coltelli, e il cosiddetto “bumbulu” per conservare l’acqua utile ai marinai per rinfrescarsi.
Tuttavia per entrare nello spirito vero di questa antica “caccia” al pesce spada, non possiamo che affidarci al racconto di chi VIVE da vicino la mattanza nel rispetto delle tradizioni e degli antichi rituali.
Da alcuni prestigiosi siti web locali riportiamo:
… ad esempio, nelle ultime sparute antiche palamitare, sopravvive l'uso di porre a prua un'asta con alla sommità una palla azzurra o rossa in legno, su cui erano dipinte le stelle dell'Orsa maggiore, separate da una fascia bianca, con probabile riferimento alla cultura fenicia.
Un rituale ormai svanito, anche se molte parole permangono nell'espressione dialettale, era quello di accompagnare la pesca con cantilene in greco, perchè la superstizione voleva che se si fosse cantato in altra lingua il pesce sarebbe andato perduto.
Meno intellettuale è il rituale della "runzata", che consisteva nel fare urinare le reti dai bambini, per augurio di una buona pesca.
Un altro rituale, che è divenuto col tempo una specie di diritto territoriale, era quello di suddividere le zone di mare in aree (posta) da assegnare agli equipaggi e in cui pescare.
Lo schiticchio o scialata era un pranzo o una cena abbondantissima che i padroni delle barche offrivano ai marinai nelle feste dei mesi invernali, per sopperire, specie nei tempi in cui la fame si faceva più sentire, alle necessità alimentari della famiglie, che potevano, fra l'altro, rifornirsi per un po' di tempo con il cibo non consumato. Era anche l'occasione per contrattare gli uomini dell'equipaggio per la stagione successiva.
La tradizione dello schiticchio permane ancora oggi, ma al solo scopo di incontrarsi con gli amici in uno spirito di convivialità.
Cardata da cruci
La tradizione vuole che uno dei pescatori, ed esclusione del lanzaturi, cioè di colui che ha lanciato l’arpione, faccia la “cardata da cruci”, segni cioè con le unghie della mano, quattro croci accanto al foro dell’orecchio destro del pesce appena issato sulla barca. Si ritiene fosse un segno augurale, di prosperità o una sorta di riconoscimento “dell’onore delle armi” al pesce per il suo nobile valore di combattente.
In relazione alla cattura, la carne attorno al punto in cui si è conficcato l'arpione (botta) andava al ferraiolo (mestiere pressoché sparito), in qualità di proprietario dell'attrezzo, che veniva dato in affitto. Il taglio del ciuffo spettava invece al fiocinatore.
Ancora adesso, se si avvista una parigghia (un maschio e una femmina), la tradizione vuole che il primo pesce ad essere fiocinato sia la femmina, in modo che si possa fiocinare successivamente il maschio, in quanto questi resta nei paraggi nella ricerca della compagna.
Anche la nomenclatura volgare del pescespada è legata in qualche modo alla stagionalità della pesca, tanto che i pescatori, con un po' di fantasia, riescono ancora distinguere diverse varietà. Così c'è un ipotetico pisci i jùsu, un pisci 'i San Giuvanni, un pisci niru e addirittura un pisci invisibili.
Se per molto tempo non si riusciva a pescare pescespada, il rituale era quella della benedizione della barca da parte di un prete o nei casi più ostinati bisognava fare ricorso a formule magiche e pozioni le più disparate. Se la pesca tardava ancora ad essere proficua una ragazzina doveva fare la pipì sulla prua (questa pratica era in auge specie in Calabria).
In entrambe le sponde dello Stretto (Sicilia e Calabria), si era soliti ringraziare, una volta pescato il pesce, il Santo protettore del “faliere” gridando “San Marco è binidittu”. Un ulteriore antico “rituale” era quello di tracciare con le unghie un croce quadrupla sul pesce spada, precisamente sulla guancia destra, simbolo di benedizione, di scongiura al malocchio, e di una pesca fruttuosa. Alcuni pescatori posizionavano nella bocca del pesce un pezzo di pane, mangiando delle parti crude dello stesso pescato.
Come si evince, si credeva molto al malocchio: anche i colori dell’imbarcazione, nero, verde e rosso, erano scelti come forma di scongiura.
PRIMI ANNI ’60 – LA SVOLTA
Evoluzione ed innovazione della feluca spadara:
La passerella
Quando il pesce spada veniva avvistato veniva segnalato da urla e sbandieramenti, diventava proprietà dell’equipaggio che l’aveva individuato, e la barca guadagnava così il diritto di “sconfinare” nei settori assegnati alle altre barche, fino alla eventuale cattura. Fino agli anni 50’ per la pesca al pesce spada si usava, come abbiamo visto, il “luntre”.
Oggi nello stretto e lungo la costa Calabra del Tirreno, per la pesca del pescespada si usano barche a motore che hanno un traliccio alto 20-25 m, alla cui sommità si trovano avvistatori e timonieri, e una passarella molto lunga, alla cui estremità va il fiocinatore (fureri).
FELUCA SPADARA MODERNA
1. dall’alto della ‘ntinna l’avvistatore individua il pesce spada e lo comunica sia al resto dell’equipaggio, che si trova sulla barca, sia al lanciatore a prua (sul luntru era poppa) appostato sulla passerella. Grazie ad un sistema di trasmissione, l’avvistatore manovra la feluca, potendo disporre di tutti i comandi necessari direttamente sulla cima della torretta (marcia avanti/indietro, acceleratore, timone). Quindi egli si occupa sia dell’avvistamento che dell’inseguimento del pesce spada, motivo per il quale il luntru ha lasciato il posto.
2. in perfetta armonia con l’azione dell’avvistatore (dettaglio non scontato), il fiocinatore si prepara al lancio dell’arma, spostandosi sulla passerella. Quest’ultima, a differenza dello scafo, risulta invisibile al pesce, grazie ad una struttura a traliccio (non genera ombra), e alla posizione emersa dall’acqua. Ciò permette al pescatore di avvicinarsi o addirittura trovarsi perfettamente al di sopra della preda.
Nel 1952 il pescatore Antonio Mancuso inventò la passerella per l’arpionaggio, un’innovazione che ha completato definitivamente l’aspetto funzionale della feluca, la barca moderna che ancora oggi si può ammirare in azione sullo stretto di Messina od ormeggiata sulla riviera dell’antico borgo di Torre Faro (Messina).
Con l’introduzione della passerella e l’avvento del motore, le tre fasi della strategia sono oggi tutte eseguite da un’unica imbarcazione. Poiché essa assume non solo il ruolo originario di barca da posta, ma anche di luntru aumentando il profitto globale dell’attività.
La ‘ntinna, un traliccio metallico, è stata elevata fino a 30÷35 m, dotata di collegamenti e leve di controllo del timone e del motore (dagli 80 ai 350 CV) ed equipaggiata di una coffa, dove si apposta l’avvistatore-timoniere.
Come a simulare la spada del pesce, la passerella(traliccio metallico orizzontale) si estende a pruavia della feluca per una lunghezza di 35÷40 m . Essa è in parte retrattile, sicchè può essere ritirata in caso di necessità.
Riguardo l’installazione dei due tralicci tra essi ortogonali, sono saldamente collegati tra loro e allo scafo tramite cavi d’acciaio e tiranti. Con questo complesso sistema di funi, i due oggetti si bilanciano, garantendo l’equilibrio strutturale del natante.
La lunghezza dello scafo della feluca spadara è di circa 25 m (esclusa la passerella) ed è ancora realizzata in legno. Rispetto al luntru, i colori scelti sono più vivaci (tradizionalmente il verde, il bianco, il rosso e l’azzurro). La feluca, quindi, si rivela essere un’incredibile macchina da pesca ed un simbolo della storia marittima siciliana.
Elenco dei siti consultati
L’antica pesca del pesce spada nello Stretto di Messina.
L’ecodelsud.it
Caccia al pesce spada, una tradizione della Costa Viola
Un viaggio tra Calabria e Sicilia alla scoperta delle antiche usanze dei pescatori
Rituali nella pesca del Pescespada nello Stretto di Messina
https://www.colapisci.it › Cola-Ricerca › Luoghi › Ritua...
La prima, veloce e maneggevole, era per la pesca diurna e veniva chiamata luntru. Luntru - Ganzirri. Luntru con il classico equipaggio. Il luntro aveva un ...
Ricerche correlate
pesce spada stretto di messinafeluca pesce spadabarca per pesce spada
pesce spada periodo di pesca 2020pesca al pesce spadapasserella pesce spada
Pesca del pesce spada nello stretto di Messina - Taccuini ...
https://www.taccuinigastrosofici.it › antica › usi-costumi
Gli originari posti di avvistamento (torrette che si trovavano specie sulla costa calabra) sono stati, quindi, abbandonati e la caccia al pesce spada, dopo ...
La caccia al pesce spada nello Stretto di Messina
https://www.edas.it › Collana Messina e la sua storia
BATTUTA DI CACCIA AL PESCE SPADA - PAN Travel ...
https://www.pantravelsolution.com › servizi › servizio-1
Ringrazio sentitamente gli Amici siciliani che ci hanno concesso la divulgazione al NORD di questa meravigliosa AVVENTURA!
Carlo GATTI
Associazione MARE NOSTRUM RAPALLO
Rapallo, 7 Settembre 2021
IL PRIMATO DELLA MOTONAVE ROMAGNA
IL PRIMATO DELLA MOTONAVE ROMAGNA
La M/n ROMAGNA (nella foto) fu la prima nave italiana su cui fu installato il motore Diesel. Contemporanea dell'olandese Vulcanus, precedette la più famosa MS Selandia. Fu costruita nel 1911 dai Cantieri Navali Riuniti di Ancona per la Società Romagnola di Navigazione di Ravenna.
1911: viene varata la MS SELANDIA (nella foto), è la più grande nave transoceanica equipaggiata di motore diesel fino ad allora, il suo viaggio inaugurale nel 1912 ha risonanza mondiale.
L’apparato motore della M/n ROMAGNA era composto di due motori Diesel a due tempi reversibili da otto cilindri a 35 atm della Fratelli Sulzer, Winterthur, Svizzera. Effettuava il servizio tra Ravenna, Trieste e Fiume ma pochi mesi dal suo varo, il 23 novembre 1911 naufragò vicino alla Isole Brioni per uno spostamento del carico durante una tempesta morirono sessanta persone, si salvano solo otto marinai e due passeggeri.
Parentesi storica:
MOTORE DIESEL NAVALE
· 1903: prima applicazione su un'imbarcazione, il battello francese "Petit Pierre", operante nel canale Marna-Reno
· 1904: il francese Aigrette è il primo sottomarino ad utilizzare un motore Diesel per la navigazione di superficie ed elettrico in immersione
· 1909: l'ingegnere tedesco di origine libanese Prosper L’Orange, in forza alla Benz & Cie, brevetta la precamera di combustione (DPR 230517 del 14 marzo 1909)
· 1910: un motore ausiliario Diesel viene installato sul veliero FRAM utilizzato per la Sopedizione Amundsen in Antartide
· 1910: vengono varate il cargo italiano MN Romagna con motore Sulzer, affondato nel 1911, e la nave cisterna olandese "Vulcanus" con motore Werkspoor, rimasta in servizio fino al 1932
Il motore Diesel è stato usato inizialmente per i mezzi d'opera, esteso poi ai mezzi industriali e infine, nel terzo millennio con la sua continua evoluzione, sta sempre più dominando il mercato dell'automobile
M/N ROMAGNA
CARATTERISTICHE
Motonave mercantile italiana varata nel 1911, è affondata nello stesso anno il 24 novembre, a causa dello spostamento del carico durante una tempesta.
Tipo: motonave - Anno costruzione: 1911 - Cantiere: Cantieri Navali Riuniti – Ancona
Dimensioni: 57.63 x 8.03 x 3.06 m. - Stazza: 677 t. - Motore: diesel Fratelli Sultzer – Wenterthur – Svizzera - Armatore: Società Romagnola di Navigazione di Ravenna
Porto di armamento: Ancona - Data affondamento: 24 novembre 1911
Causa affondamento: Spostamento del carico causa tempesta
Note storiche: 60 vittime, si salvano solo 2 passeggeri su 49 e 8 membri dell’equipaggio su 20 (se ne sono infischiati dei passeggeri e se la sono filata). Causa la forte libecciata il carico di riso in balle si sposta sfondando dei divisori. La nave si inclina fino a che il mare entra dal camino.
I passeggeri muoiono come topi, si salva solo uno con il figlio di 5 anni che si butta a mare con un salvagente e poi viene raccolto da una lancia con i marinai che se la erano filata…
Il relitto è ricoperto da reti.
BREVE STORIA DELLA:
MEDITERRANEA DI NAVIGAZIONE S.P.A.
M/N ROMAGNA
La Compagnia è stata fondata nel 1908 con la creazione di un collegamento marittimo tra Ravenna / Cherso / Fiume / Trieste, impiegando sia navi passeggeri che navi cargo (la "Ravenna", la "Candiano" e la "Romagna"). La "Romagna" è stata la prima nave in Europa – e forse nel mondo – a passare dal motore a vapore al motore a propulsione diesel, impiegando un motore costruito dalla società svizzera Sulzer. La Compagnia aveva inoltre alcune navi per il trasporto di legname dalla Yugoslavia all’Italia.
Durante il periodo fascista, la compagnia di navigazione fu nazionalizzata. La direzione dell’attività, tuttavia, rimase nelle mani della nostra compagnia fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, quando tutte le attività di navigazione cessarono.
Nel 1960, uscita dal controllo statale, la Compagnia è stata rifondata e ha costruito una piccola petroliera, che fu denominata "RAVENNA" a ricordo del vecchio piroscafo.
Dal 1963, il lento e costante sviluppo nel settore petrolifero ha portato alla fondazione di una compagnia di navigazione dotata di una moderna flotta di 10 navi per il trasporto di prodotti petroliferi, chimici e gas. Le navi, tra le 3000 e 35.000 DWT sono gestite dagli uffici commerciali e operativi di Ravenna. La continuità e la lealtà dell'azienda hanno portato alla sua crescita progressiva e di successo.
N.B. – Il 20 Aprile 2021, nell’articolo: I RELITTI DEL PORTO DI CAGLIARI, ci siamo occupati di un’altra cisterna armata denominata ROMAGNA di 1.416 tons. Che affondò il 2 Agosto 1943 dopo aver urtato una mina.
Carlo GATTI
Rapallo, Agosto 2021
UN RAPALLINO NELLE STEPPE DEL DON
UN RAPALLINO NELLE STEPPE DEL DON
LUCIO MASCARDI
ULTIMO EX VOTO A MONTALLEGRO
Il Santuario di Nostra Signora di Montallegro nasce dopo l’Apparizione della Madonna del 2 luglio 1557 al contadino Giovanni Chichizola, nativo della vicina San Giacomo di Canevale; da quel giorno ormai lontano il Tempio, tanto caro alla gente tigullina emana, proprio come un FARO MARITTIMO, una forte luce diuturna per migliaia di naviganti che prima o poi lassù salgono in pellegrinaggio per pregare e lasciare una testimonianza di fede alla Madonna: un voto per GRAZIA Ricevuta durante il passaggio di un viaggio nell'inferno di CAPO HORN; ne abbiamo le testimonianze: tre velieri su cinque erano disalberati dai venti ruggenti e urlanti di quelle latitudini e si perdevano nei gelidi abissi dell’emisfero australe.
Tavolette, dipinti rustici, cuori argentati, grucce, vecchi fucili, proiettili, bombe a mano e molti altri attrezzi marinareschi ancora salati: pezzi di salvagente, di cimette e bozzelli che oggi sono scatti fotografici che fermano il tempo e ci rendono partecipi di quei tragici momenti sofferti dalla gente di mare. Testimonianze che nell’assumere valore religioso, esprimono la fede, la speranza di salvezza e di protezione, ma sono anche l’espressione di una gratitudine profonda ed indicibile.
Il sottile filo del tempo corre dalla preistoria fino ai giorni nostri unendo questi figli del mare immersi in tutte le attività ad esso collegate. Marinai che dopo aver affrontato bonacce insidiose e tempeste estremamente pericolose, combattevano spesso a mani nude contro i frequenti attacchi dei pirati barbareschi che li depredavano, li sequestravano e li tenevano prigionieri nelle loro cale barbaresche in attesa del riscatto che veniva concordato con il “Magistrato genovese del riscatto degli schiavi”.
Dalle avventure di tal genere nascono spontanei gli ex voto raccolti a Montallegro e nei santuari mariani della nostra riviera, quale atto di devozione e di gratitudine per lo scampato pericolo, ma anche come manifestazione di religiosità, di quel senso spirituale che ogni uomo ha radicato in sé e che si estrinseca nei momenti difficili della vita.
Tra gli Ex voto vi sono alcuni capolavori che riflettono il talento ed il genio dell’esecutore e la profonda civiltà dell’ambiente in cui nascono e ci sono opere che, pur nella loro estrema semplicità, possono avere una loro sincerità ingenua e significativa, ma tutti trasmettono il palpito di una vita vissuta, intrecciata di pericoli di ogni genere, c’è insomma la vera arte popolare, un’arte forse minore, ma sublime e che talvolta può apparire primitiva, ma non per questo meno intensa e meno autentica dell’arte “colta”, per i valori artistici che vi si riscontrano.
Tra i tanti per lo più anonimi Ex Voto, oggi ne scelgo uno a me tanto caro: quello di un AMICO speciale: LUCIO MASCARDI che ci lasciò addolorati ed increduli a causa di un incidente. Ma cosa accadde?
Era il 13 ottobre 2004. In compagnia di un nipote, Lucio cercava funghi a Pratomollo nel Comune di Borzonasca, improvvisamente perse l’equilibrio e batté la testa su una pietra. Morì sul colpo. Lucio aveva 88 anni possedeva una fibra molto forte, se si pensa che pochi giorni prima aveva gareggiato per i Masters Nuotatori Rapallesi. Era l’amato decano della Società per la quale vinceva, da oltre 30 anni, le sue gare da ranista. Lucio era noto in città come ex dipendente (Archivista) del Comune.
Le Feste Solenni di Luglio incombono e, ricordando la sua Devozione per la Madonna di Montallegro, mi è venuto in mente che Lucio, poco tempo prima di morire, portò il suo ex voto di Ringraziamento alla MADRE CELESTE di Montallegro per tutte le volte che lo aveva salvato dai cannoni dei Russi sul Don durante la Seconda guerra mondiale.
Foto di Ettore Pellosin
Nella parte superiore del quadretto c’è scritto:
Vicende belliche 1940/1945 –
FRONTE RUSSO 1941-1942 Panteleimonowka – Gorlow 1° Novembre 1941
Petropalowka – Rapsinaya – Stanzia – S.Natale 1941
Nella parte inferiore del quadretto c’è scritto:
Ho sempre invocato la protezione della Ns Signora di Montallegro e sempre sono stato esaudito
Lucio Mascardi Sbarbaro classe 1916 – 3° Regg.to Bersaglieri – XLVII° Btg. Motociclisti – 3° Comp.
Nei giorni che precedettero il S.Natale 1941 il nostro Cappellano don Giovanni Mazzoni (parroco di Loro Ciuffena-Siena) ci portò la S.Eucaristia nel caposaldo di prima linea, ma proprio il giorno di Natale moriva eroicamente nel tentativo di soccorrere e confortare, sotto il fuoco nemico, un bersagliere gravemente ferito.
La foto riportata nel quadretto è molto datata, tuttavia s’intravede il Cappellano in piedi sullo sfondo che distribuisce l’Eucaristia ai soldati inginocchiati in preghiera.
LUCIO MASCARDI
Un rapallino da ricordare!
1951 - In piedi da sinistra: Renato Bacigalupo (Lan), Michele Truffa, Luisito Bacigalupo, Capellini, Raimondo Papadato, accosciati: Lucio Mascardi, Vittorio Vexina, Pippo Ottonello, Luigi Baracco.
2002, Riccione - Campionati Italiani Masters - Medaglie d’oro e record con gli intramontabili (da sinistra): Lorenzo Marugo, Carlo Gatti, Cristina Grugni, Lucio Mascardi e Alba Caffarena. In questa foto Lucio, classe 1916, aveva compiuto 86 anni da vero Campione Italiano sui 50-100-200 metri rana. CHE TEMPRA!
Una ventina d’anni fa o forse più, con l’intento di proporre al pubblico di “Mare Nostrum Rapallo” una ricerca sugli emigranti rapallini nelle Americhe, mi accorsi quasi per caso d’aver avuto, per tanti anni, come compagno di squadra nella RAPALLO NUOTO, un autentico personaggio: Lucio Mascardi, un signore d’altri tempi… con un passato “straordinario” che era noto soltanto ai suoi familiari. Lucio era geloso dei suoi ricordi personali e pur avendo una memoria di ferro - era stato archivista del Comune di Rapallo - non amava rivivere certi episodi che avevano segnato dolorosamente la sua vita. Per la verità, Lucio, anche quando raccontava le sue imprese a volte veramente drammatiche, riusciva ad insaporirle con aneddoti succosi e ricchi d’ilarità, perché il suo umorismo era tale che, in qualche modo, doveva prevalere persino sulla ferocia dei tedeschi, sul freddo delle steppe russe e sui mitragliamenti a raffica dei tovarish che sibilavano a pochi centimetri dalla sua moto da bersagliere motorizzato. Lucio se n’è andato 17 anni fa, all’età di 88 anni, in modo avventuroso, così come aveva vissuto, scivolando su una pietra mentre cercava funghi sul Monte AIONA con i suoi nipoti. Lucio aveva collaborato ad importanti testate come giornalista sportivo ed era soprattutto un autentico campione di nuoto. Il suo record sui 200 rana è tuttora imbattuto ed è visibile sul display del sito della Federazione Italiana Nuoto.
Lucio Mascardi, nacque nel 1916 a Rapallo. Quando era ancora in fasce, come si diceva un tempo, emigrò con la mamma Clorinda Sbarbaro ed il papà Antonio verso il Cile, dove il nonno Tommaso era emigrato a fine ‘800 ed era morto prematuramente nel 1907 sulle Ande, in treno, per malattia. Anche Gerolamo, fratello della mamma Clorinda era emigrato in Cile nei primi anni del ‘900 ed aveva iniziato la sua attività negli Almacien, diventandone proprietario, in seguito fondò una prima fabbrica di tessuti e poi un’altra ancora più grande a Tomé. Gli Almacien erano i supermercati ante litteram: c’era di tutto e per tutti, ma erano tempi difficili e quando si trovavano decentrati per ragioni strategiche, non mancavano le rapine e gli assalti tipo far-west. La vita di questi nostri emigranti era improntata al coraggio, all’iniziativa ed alla sfida dei mercati. Gli Sbarbaro, fedeli alle loro origini costiere, fondarono anche una fabbrica di prodotti ittici, la SIAP. Questa società ebbe due rapallesi come soci: Gasparini e Peruggi. Queste fabbriche, per le note vicende politiche, vennero in seguito nazionalizzate e tanti sacrifici svanirono improvvisamente nel nulla. L’impegno, il coraggio, l’operosità di molte generazioni di emigranti, che portarono tecnologia, progresso, lavoro e amore nel “nuovo mondo”, s’immolarono sull’altare delle nuove infauste ideologie.
Il destino di Lucio, tuttavia, era stato scritto per essere compiuto sull’altra sponda dell’oceano.
“Tomaso di Savoia” – Lloyd Sabaudo /1907-1928)
“Re Vittorio” – N.G.I. (1907-1929)
Nel 1919, tre anni dopo l’arrivo della famigliola in Cile con il p.fo “Tomaso di Savoia”, il padre Antonio moriva e la madre Clorinda, decideva di rientrare in Italia con il piccolo Lucio di 4 anni, contro il parere del fratello e di tutti gli altri parenti; tre giorni di treno sulle Ande e poi il triste imbarco a Buenos Aires sul p.fo “Re Vittorio”.
A quel tempo Rapallo era certamente più bella di oggi, ma la vita in Riviera non era così facile e le opportunità di lavoro erano molte scarse e quando Clorinda, ancora giovanissima, rimase completamente cieca, per lei e per il suo unico figlio, il sopravvivere diventò ancora più difficile. Nel frattempo, le nubi nere del regime facevano presagire tempi ancora più duri e, con l’avvicinarsi della Seconda guerra mondiale, a nulla valsero le rimostranze di Lucio che si opponeva all’arruolamento per non abbandonare la madre in quella penosa condizione. Lucio era diventato un atleta: buon nuotatore-pallanuotista in estate, ed ottimo calciatore d’inverno, aveva un fisico robusto e la Patria, minacciandolo di diserzione, lo inquadrò inderogabilmente nel Corpo dei Bersaglieri.
Le truppe italiane inviate sul Fronte orientale Russo tra il 1941 e il gennaio del 1943
La Campagna di Russia era l’occasione per pagare l’obbligo morale che Mussolini sentiva nei confronti di Hitler dai tempi della non belligeranza.
“Il Duce era sicuro circa il buon esito dell’impresa e confidava nella potenza tedesca e nella scarsa capacità di resistenza sovietica” - Sosteneva Lucio che amava spesso analizzare, da storico appassionato, le vicende della 2° Guerra mondiale - “Mussolini ignorò la pur minima valutazione logistica e ordinò in tempi ristrettissimi la formazione e l’invio al fronte del CSIR (Corpo di Spedizione Italiano Russia) di cui feci parte insieme a più di 60.000 soldati italiani già operativi nell’agosto del 1941 sotto il comando del generale G. Messe. Nel giugno del 1942 questo Corpo iniziale venne rinforzato ed inglobato in un secondo corpo di Spedizione chiamato ARMIR - Armata Italiana in Russia”.
Dopo circa un anno speso a difendere un fronte di 270 chilometri lungo il fiume Don, Lucio riuscì a rientrare fortunosamente in Italia per le note ragioni familiari.
“Giunto a Rapallo – mi raccontò Lucio - Ero intenzionato a rimanervi per sempre. Ne avevo già viste fin troppe… In un primo tempo mi nascosi nei boschi, poi mi consigliarono di darmi ammalato e, grazie al Dott. Bruno, riuscii ad ottenere due settimane di cure mediche, ma poi fui preso dai carabinieri ed inviato con la forza, per la seconda volta, sul fronte russo.
La situazione, quando rientrai nei ranghi, era ancora abbastanza stabile, poi, tra il dicembre del 1942 e il gennaio del 1943 si scatenò la grande offensiva invernale dell’Armata rossa. Fummo investiti in pieno dall’urto degli attaccanti e, inferiori di uomini e di mezzi, fummo costretti alla ritirata (vedi foto) e a marciare per centinaia di chilometri nelle terribili condizioni climatiche dell’inverno russo. Il numero delle vittime tra i nostri soldati italiani fu di 84.830 tra caduti e dispersi; se sono ancora qui a raccontare questi fatti è perché durante la famosa ritirata, io e pochi altri compagni riuscimmo a salvarci rifugiandoci ogni notte nelle Isbe, (erano le case di legno dei contadini russi) dove c’erano solo donne, che ci sfamavano e poi ci ripulivano anche dei pidocchi ed altri insetti che ci torturavano peggio dei P.P.Sh (Pepescia) e delle baionette dei loro mariti in guerra contro di noi”.
Isba russa degli anni ‘40
La lunga notte buia di Lucio si concluse con lo svanire degli ultimi bagliori di guerra e, grazie alla sua forte fibra cominciò a costruire il suo futuro. Un posto in Comune, un felicissimo matrimonio con Rina, la nascita di Antonella e poi i nipoti Francesco e Tommaso. Una vita che è proseguita serena e metodica dopo il pensionamento e che iniziava ogni mattina con la visita al cimitero alla mamma Clorinda e alla suocera…. che aveva coccolato e protetto fino alla soglia dei cent’anni. Il suo giro giornaliero proseguiva poi con l’ormeggio della bicicletta vicino alla porta principale della parrocchia, un salto al Bar Colombo per salutare gli amici Nebbia e Gallo, un po’ di spesa al mercato e poi il rientro a Costaguta, nel suo regno, nel suo bosco sopra villa Sbarbaro, dove si era rifugiato durante la guerra, dove cercava funghi, dove si “allenava” con il suo fidato rastrello ogni giorno e con qualsiasi tempo. In questo suo paradiso, ogni tanto radunava gli amici, stappava il suo vino migliore e trasmetteva loro, inconsapevolmente, l’amore per le cose “semplici” come la modestia, il culto per la famiglia, per lo sport e per tutto ciò che emanava con naturalezza da ogni suo poro: l’onestà pratica nel quotidiano e quella intellettuale nei valori etici e morali. Lo spirito religioso era per lui talmente naturale e scontato da non sentirne mai la necessità di esibirlo o nasconderlo.
Lucio è stato un grande maestro di vita!
Carlo GATTI
Rapallo, Luglio 2021
ATHENIAN VENTURE Un naufragio tuttora oscuro...
ATHENIAN VENTURE
Un naufragio tuttora oscuro...
Nell’accingermi a raccontare l’ennesimo naufragio…mi sono accorto che buona parte di essi si sono verificati nel mese di APRILE.
In ordine sparso ne cito alcuni di cui ho scritto per il sito di Mare Nostrum Rapallo: S/S TITANIC, T/n HAVEN, M/n SCANDINAVIAN STAR, M/n BOCCACCIO, RO-RO TRAPANI, P.fo RAVENNA, P.fo FRANCESCO CRISPI, T/n MIRAFLORES, M/n MOBY PRINCE, T/n LONDON VALOUR e chissà quanti altri che dobbiamo ancora scoprire e raccontare … !
Oggi ne aggiungiamo un altro:
Il 22 aprile 1988 affondò la petroliera ATHENIAN VENTURE.
A bordo c'erano 29 persone, 24 membri dell'equipaggio di cui cinque con le rispettive mogli. Nessun sopravvissuto. Solo il corpo di un marinaio fu trovato in mare dopo l'incidente. I resti di altri marinai furono successivamente trovati nella sezione di poppa rimasta galleggiante dopo che l'incendio si spense.
La causa dell'incidente non fu mai chiarita, anche se si parlò insistentemente di un’esplosione, probabilmente causata dalle pessime condizioni strutturali in cui si trovava la nave. Più precisamente, si disse che la violenta esplosione generò un incendio e la rottura in due parti dell'imbarcazione. La poppa continuò a galleggiare e a bruciare per molte settimane prima di inabissarsi a ponente delle isole Azzorre.
Storia della nave:
La ATHENIAN VENTURE fu costruita nel 1975 dal Cantiere Navale Oskarshamnsvarvet di Oskarshamn (Svezia) (vedi foto). Costruita come petroliera monoscafo con il nome: “Karkonosze” per la compagnia di navigazione polacca Polskiej Zeglugi Morskiej. La nave era azionata da un motore diesel, aveva una lunghezza di 152,4 metri ed una velocità di circa 15 nodi.
Nel 1983 la petroliera fu incorporata nella nuova Compagnia Patron Marine Co. di “bandiera ombra” cipriota con il nome di ATHENIAN VENTURE.
DINAMICA DELL’INCIDENTE
Nella notte tra il 21 e il 22 aprile 1988 ci fu un'esplosione a bordo. La nave era in viaggio da Amsterdam a New York con un carico di circa 10,5 milioni di galloni di benzina e al momento dell'incidente si trovava a circa 400 miglia nautiche a sud-est di Cape Race (Isola di Terranova). Nell'esplosione lo scafo si spaccò in due parti e prese fuoco. La sezione di prua della nave affondò il 22 aprile 1988 alle 14:00 ora locale. La sezione poppiera andò alla deriva per diverse settimane e infine affondò il 17 giugno 1988 a circa 200 miglia nautiche dalle Azzorre, dopo essere stata precedentemente rimorchiata da alcuni pescherecci spagnoli per circa 1.000 miglia nautiche verso la costa spagnola.
Le drammatiche immagini sopra riportate, vennero scattate dalla HUDSON, unità della Coast Guard canadese che arrivò sul posto dopo aver ricevuto l’SOS della Athenian Venture mentre operava per il Bedford Institute of Oceanography di Dartmouth-NS., in una zona di mare non lontana dalla posizione ricevuta via radio.
Da bordo della nave della Guardia Costiera videro ben presto, da molto distante, colonne di denso fumo nero alzarsi dalla petroliera quando ancora si trovava sotto l’orizzonte ottico.
Il suo carico di 10 milioni di galloni di benzina senza piombo si riversò nell'Oceano Atlantico, alimentando enormi lingue di fuoco che si estendevano per circa 200 metri di diametro.
Inizialmente, sulla HUDSON si pensò ad una collisione tra due navi. Purtroppo, sia a causa dell’oscurità sia a causa del fumo, i potenti riflettori della nave soccorritrice nulla poterono rivelare, neppure il nome della nave…
Alla luce del giorno, apparve il relitto ancora fumante in tutto il suo tragico orrore. Purtroppo l’accurata ricerca di eventuali sopravvissuti non diede alcun esito. Il relitto ormai privo di vita era la Athenian Venture, una petroliera di proprietà greca con equipaggio polacco e bandiera cipriota. La nave si era spaccata in due parti dopo aver preso fuoco a 350 miglia nautiche a sud-est di Cape Race mentre era in viaggio da Amsterdam a New York.
Nel pomeriggio la prua si era inabissata in un vortice di fumo e fiamme. Secondo un primo rapporto della Reuters, un alto membro dei Lloyd's di Londra dichiarò: "È uno dei peggiori incidenti di petroliere di cui abbia mai sentito parlare".
Il naufragio della petroliera Athenian Venture causò la morte di 29 persone - 24 membri dell'equipaggio e cinque mogli che si aggiunsero per quel viaggio al seguito dei rispettivi mariti arruolati regolarmente. Quarantatré bambini rimasero orfani.
Le inchieste aperte dalle Autorità polacche durarono più di due decenni e si rivelarono tanto complicate quanto infruttuose. Il disastro colpì particolarmente la città polacca di Gdynia, dove nacquero cinque membri dell'equipaggio.
Quattro giorni dopo l’esplosione, ci fu la possibilità di ottenere qualche informazione sull’accaduto. La sezione di poppa ormai carbonizzata fu presa a rimorchio da due pescherecci d’altomare spagnoli con l'intenzione di trainarla nella baia di Vigo, in Spagna.
Durante un’ispezione dei pescatori spagnoli furono trovati i resti di sette membri dell'equipaggio, il registro della sala macchine, altra documentazione tra cui alcune lettere scritte da due membri dell'equipaggio alle loro mogli.
Purtroppo, il 17 giugno il relitto affondò improvvisamente negando definitivamente ai periti nominati la possibilità di poter indagare e risalire alle cause del disastro.
Rimasero da quel momento inevase tutte le risposte alle domande, specialmente quelle degli orfani che le urlarono per 20 lunghi anni in tutte le direzioni.
Fu tutto INUTILE! La versione ufficiale degli eventi rimasta agli atti ufficiali fu sempre la stessa: che i problemi fossero sorti durante il maltempo, nonostante le dichiarazioni contrarie del Comandante della HUDSON ed il fatto evidente che la poppa della nave fosse rimasta a galla per sei settimane.
Una delle verità può essere questa:
Gli anni '80 furono un periodo economicamente difficile per l'industria petrolifera, specialmente quando il prezzo del petrolio crollò a 10 dollari al barile – le società di Navigazione petrolifere di un certo tipo… e con certe bandiere… si allinearono per risparmiare denaro a scapito della sicurezza e della manutenzione dello scafo e del motore.
Fu così che le aziende interessate al mondo petrolifero tagliarono le spese ritenute superflue: ridussero gli equipaggi delle petroliere e iniziarono ad allungare le permanenze in mare rinviando i lavori urgenti e le soste in bacino per i regolari controlli periodici.
Secondo un rapporto del Wall Street Journal, Paul Slater, l'ex presidente della società finanziaria di navi First International Financial Corp., dichiarò: "La maggior parte delle grandi petroliere sono obsolete, invecchiate e in molti casi mal mantenute".
A proposito del disastro della ATHENIAN VENTURE, nel 1992 il Marine Casualty Report, completato dal governo cipriota e rilasciato all'Organizzazione marittima internazionale, concludeva che "le condizioni meteorologiche imponevano carichi sullo scafo che non potevano essere sostenuti".
I risultati del rapporto contraddicono le testimonianze oculari rese disponibili agli assicuratori della nave.
Intervistato dai Lloyd's di Londra, anche un altro membro dell'equipaggio della HUDSON affermò che la notte dell'esplosione il mare era relativamente calmo.
Il rappresentante designato dal governo alle udienze era il professor Jerzy Doerffer, un esperto di fama mondiale nella costruzione di navi, sintetizzò così la sua opinione informale su quanto accaduto:
“La tragedia della ATHENIAN VENTURE è avvenuta perché la nave era in cattive condizioni di manutenzione. Questo è certo."
Ogni volta che ci troviamo a commentare un disastro navale, l’attenzione dei media si limita agli episodi di cronaca, alla dinamica dei naufragi o degli assalti o alle perdite per l'armatore, senza curarsi molto delle conseguenze sui marittimi e sulle loro famiglie, così come delle condizioni di vita e di lavoro di questa categoria, pressoché invisibile all’opinione pubblica.
Eppure, si tratta di lavoratori che hanno un ruolo centrale nel sistema economico internazionale. Basti pensare che il trasporto marittimo muove il 90 per cento del commercio mondiale ed è affidato al lavoro di appena un milione e duecento mila persone. Sono soprattutto uomini e vengono nella maggior parte dei casi dai paesi in via di sviluppo.
Nella categoria dei marittimi oggi rientrano sia quelli che lavorano sulle navi mercantili sia quelli impiegati sulle navi da crociera. Ciò che li accomuna sono le condizioni di lavoro difficili, non solo per i lunghi periodi in mare, per l’estraniamento dalla vita sulla terra ferma e dalla famiglia, ma anche per il mancato rispetto dei diritti e degli standard minimi di tutela.
GATTI CARLO
Rapallo, giovedì 6 Maggio 2021
I RELITTI DEL GOLFO DI CAGLIARI
I RELITTI DEL GOLFO DI CAGLIARI
Il progresso è un viaggio con molti più naufraghi che naviganti.
(Eduardo Galeano)
La Sardegna, meta preferita per le vacanze di milioni di turisti, è anche in testa alle classifiche dei subacquei doc. E i motivi di questo successo non sono difficili da trovare; tra questi la morfologia varia e spesso contrastata delle sue coste, che ne movimentano i contorni, e le lunghe e bellissime spiagge, perle incastonate nella distesa smeraldina che è il mare, ancora molto ricco di vita: se le spugne e le gorgonie fanno da tappezzeria alle sue pareti, cernie, murene, polpi e, in stagione, i veloci predatori ne popolano le stanze, mentre nei bui ripostigli trovano rifugio piccolissimi e colorati nudibranchi, diafani gamberetti, insospettabili granchietti. Questa distesa liquida nasconde nel suo ventre innumerevoli gioielli preziosi e scintillanti: parliamo dei relitti, fantasmi affondati nel corso degli anni, spesso dei secoli. Ce ne sono tanti in Sardegna, ma se si vuole restare in un’area circoscritta ci si può immergere nel Golfo di Cagliari e scendere poi verso Capo Teulada. Si incontreranno i resti dell’Entella, una nave da carico a soli diciotto metri di profondità, dell’Isonzo, nave da guerra che giace a circa 56 metri, dell’Egle, affondata da un sottomarino durante la Seconda Guerra Mondiale, del Romagna, famoso per i gronghi giganti che abitano nella prua, del Dino, una nave italiana colata a picco una ventina di anni fa per una forte mareggiata. Tantissimi gli spunti per il fotosub, che può giocare con i contro luce che si creano tra le lamiere e il pesce, che spesso si avvicina sperando in un boccone. Ecco una piccola guida per chi vuole visitare queste testimonianze di un passato sempre misterioso.
Un po’ di Storia
Il golfo di Cagliari (in sardo: su golfu de Casteddu), noto anche come golfo degli Angeli, è un tratto ai limiti del Mar Tirreno sul quale si affaccia la costa meridionale della Sardegna.
“Gli italiani perdono le le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio".
“Il vero guaio della guerra moderna è che non dà a nessuno l’opportunità di uccidere la gente giusta.”
Fotografie dei sommergibili citati nel testo
Sommergibile britannico HMS SAFARI (classe S)
Il cannone da 76 mm del SUNFISH durante un'esercitazione
Sommergibile britannico HMS TRUANT (N68)
Sommergibile britannico HMS CLYDE (12)
Smg italiano MALACHITE
Smg olandese DOLFJIN
Un po’ di Storia
I sommergibili che infestavano le acque di Villasimius nella Seconda guerra mondiale.
Non sono molto lontani i tempi in cui il Golfo di Carbonara era infestato da “squali di metallo”, che attendevano silenziosi il passaggio delle navi nemiche per affondarle. Durante la Seconda guerra mondiale il tratto di mare su cui si affaccia il Capo Carbonara, punto strategico nelle rotte aeree e navali del Mediterraneo, fu infatti teatro di drammatici affondamenti che videro come protagonisti dell’azione proprio i temibili strumenti da guerra.
Il 9 febbraio, il Dolfjin aveva silurato ed affondato il sommergibile della Regia Marina italiana Malachite che, mentre navigava tre miglia a sud di Capo Spartivento, venne colpito a poppa da uno dei quattro siluri lanciati dal sommergibile olandese ed affondò con la prua a perpendicolo sulla superficie del mare. Trentacinque membri dell’equipaggio affondarono con esso, solo dodici si salvarono.
Altro terribile “squalo armato” che navigava nei nostri mari era il sommergibile della Reale Marina inglese Clyde.
Il primo giugno del 1941, alle 8.50, il Clyde silurò, al largo dell’isola di Serpentara, il piroscafo San Marco che trasportava un carico di carbone ed era in navigazione da Civitavecchia a Cagliari. Di stazza imponente e lungo oltre un centinaio metri, affondò nel giro di pochi minuti, trascinando con sé tutti i membri dell’equipaggio. Un altro terribile predatore dei mari che si appostava nelle nostre acque era il sommergibile della Reale Marina inglese Truant.
Il 6 maggio del 1941, alle ore 7.35, al largo dell’isola dei Cavoli, il Truant silurò ed affondò il Bengasi, piroscafo a vapore di proprietà della Società di Navigazione Tirrenia, diretto da Napoli a Cagliari. L’intera sezione di prua del piroscafo venne devastata dai siluri, che ne causarono l’affondamento. Nello specchio di mare limitrofo, dinnanzi a Torre delle Stelle, il 10 aprile del 1943 un altro terribile mostro dei mari era in agguato, il famigerato sommergibile della Reale Marina inglese Safari, al comando del tenente di vascello Ben Bryant.
Quel giorno passò di lì l’lsonzo, (piroscafo armato) requisito all’utilizzo commerciale e destinato a nave di scorta per convogli. La nave era diretta da Cagliari a La Maddalena e trasportava un carico di acqua dolce destinato all’alimentazione del naviglio, oltre che alle esigenze di acqua potabile dell’isola. Con l’Isonzo erano in navigazione la motonave Loredan ed il piroscafo Entella.
La loro scorta era costituita da un MAS 507, da un idrovolante in ricognizione aerea e da un dragamine RD 29. Alle 18.20, davanti a Torre delle Stelle, il Safari lanciò quattro siluri: due colpirono l’Isonzo, affondandolo immediatamente, uno colpì il Loredan, mentre l’Entella, nel disperato tentativo di fuga, si andò ad incagliare nella secca della Torre del Finocchio. Episodi di guerra, questi e tanti altri, di cui sono muti testimoni i relitti del nostro mare.
…. alla ricerca dei Relitti citati nel Golfo degli Angeli
Tra il 1940 ed il 1944 si ha notizia di oltre un centinaio di unità navali affondate in attacchi aerei sui porti isolani, in azioni di pattugliamento da sommergibili inglesi e olandesi o per l'impatto contro sbarramenti di mine.
Oggi si conosce la posizione di 73 relitti moderni, ma soltanto di una ventina si può tracciarne la storia. Restando in un'area circoscritta ci si può immergere nel Golfo di Cagliari.
Partendo da est verso ovest si incontreranno i resti dell`Egle, affondata dal sottomarino olandese Dolfjin durante la Seconda guerra mondiale, dell’Entella, una nave da carico a soli diciotto metri di profondità, del Loredan, nave ad uso misto misto di 71 mt che giace alla profondità di 50 mt, dell`Isonzo, nave cisterna armata che giace a circa 56 metri, questi ultimi tre affondati dal sommergibile britannico Safari mentre in convoglio si dirigevano da Cagliari a La Maddalena, del Romagna, famoso per i gronghi giganti che abitano nella prua, del LT 221, un rimorchiatore posamine che si trova ad oltre 40 mt. di profondità al centro del Golfo degli Angeli. Proseguendo verso occidente verso Capo Teulada troviamo il Dino, una nave italiana colata a picco una ventina di anni fa per una forte mareggiata.
P.fo EGLE
Iniziamo la nostra esplorazione subacquea a caccia di relitti nel Golfo di Cagliari con l’Egle.
L’Egle era un piroscafo da carico, misurava 71,7 mt di lunghezza e 9,6 di larghezza costruito nel 1893, venne silurato dal sommergibile olandese Dolfjin a circa un miglio da Capo Carbonara il 29 marzo 1943. L’Egle trasportava carbone come testimonierebbero i resti che si trovano sul relitto, ma non è sicuro, era armata con equipaggiamento da autodifesa che evidentemente non ha assolto perfettamente al suo scopo.
Localitá: Capo Boi - Posizione: Si trova al traverso di Cala Caterina Capo Carbonara segnalato da un pedagno - Profondità: 35 mt. in posizione di navigazione su un fondale di sabbia, scogli e posidonia - Temperatura dell’acqua: tra i 10 e i 15 gradi - Correnti: di Maestrale e Scirocco non molto forti - Distanza terra: 2 miglia circa.
Note: zona di mare interdetta all’immersione con l’Ara, è possibile immergersi soltanto rivolgendosi ai diving dotati di permesso.
P.fo ENTELLA
Un nome a noi famigliare…
E’ il mattino del 10 Aprile 1943 quando il piroscafo da carico Entella esce dal porto di Cagliari in convoglio assieme all’incrociatore Loredan e al piroscafo armato Isonzo per dirigersi alla Maddalena.
L'Entella trasportava carbone, misurava 95 mt. di lunghezza e 12,3 di larghezza costruita nel 1899, venne silurata dal sommergibile inglese Safari.
Così viene raccontato l’agguato: Giunto all’altezza del promontorio di Torre delle Stelle il convoglio viene sorpreso e attaccato dal sommergibile britannico Safari. I primi due siluri lanciati da quest’ultimo vanno a segno facendo affondare quasi immediatamente le altre due navi mentre il comandante dell’Entella, con un’abile e rapida accostata verso terra, riesce ad evitare l’impatto con il terzo siluro e ad incagliare la nave su un basso fondale mettendo in salvo sé stesso e tutto l’equipaggio. Tuttavia, nonostante l’abile manovra del suo comandante, la sorte del piroscafo era segnata: il mattino del giorno successivo infatti il comandante Bryant diresse di nuovo sul Safari completando la sua opera di distruzione sulla nave incagliata, divenuta ormai un facile bersaglio dei suoi siluri.
Oggi ciò che rimane del piroscafo Entella è un cumulo di lamiere e qualche residuo delle sovrastrutture, il tutto sparso su un basso fondale di composizione mista sabbia/roccia e circondato da rigogliose chiazze di posidonia. E’ ancora presente buona parte del carico di carbone, il quale è ben visibile sotto forma dei caratteristici ciottoli scuri sparsi sul fondale tutto attorno alla zona del disastro.
Si trova alla profondità di 15 metri e quindi è un'ottima nave-scuola per i fotobus alle prime armi, ma anche per i sub che iniziano a pinneggiare per la prima volta.
Localitá: Torre delle Stelle – Posizione: Si trova pochi metri dal Capo di Torre delle Stelle - Profondità: 15 mt. in posizione di navigazione su un fondale di sabbia e posidonia con il carico di carbone disperso sul fondo - Temperatura dell’acqua: tra i 12 e i 18 gradi - Correnti: di Maestrale e Scirocco non molto forti.
Distanza terra: pochi metri.
P.fo LOREDAN
Il Loredan era una motonave-armata ad uso misto, lunga 71 mt. e larga 10,7 mt costruita nel 1936.
Faceva parte, con compiti di scorta, del medesimo convoglio che venne silurato dal sommergibile inglese Safari il 10 aprile 1943, e così come l'Entella e l'Isonzo subì la stessa sorte e colò a picco al largo di Torre Finocchio, oggi nota come Torre delle Stelle.
Il Loredan è posato sul fondo con la murata sinistra, la prua verso il largo e la coperta rivolta verso Capo Carbonara.
L'immersione sul Loredan è abbastanza impegnativa per la profondità e talvolta per la presenza di correnti, ma è ripagata dall' incredibile varietà di vita e di colori che accolgono il subacqueo, il lato destro della nave e completamente coperto da gorgonie rosse e gialle e da spugne multicolori.
E' possibile accedere, con le dovute precauzioni, alle stive ed alla sala macchine.
Localitá: Torre delle Stelle - Posizione: Si trova al largo del Capo di Torre delle Stelle - Profondità: 45 mt. è adagiata sul fianco sinistro su un fondale di sabbia e posidonia - Temperatura dell’acqua: tra i 10 e i 14 gradi - Correnti: di Maestrale e Scirocco forti - Distanza terra: a circa un miglio e mezzo.
P.fo ISONZO
Questa grande cisterna militare armata, (misura un’ottantina di metri), il 10 aprile del 1943 ha subito la stessa sorte dell’Entella e del Loredan, venne silurata dal medesimo sottomarino inglese mentre in convoglio si dirigeva dal Porto di Cagliari a La Maddalena.
L’immersione è piuttosto impegnativa perché l’Isonzo si trova alla profondità di circa 50 metri in una zona spesso percorsa da forti correnti, soprattutto di maestrale e scirocco presenti alla profondità di 20/25 mt. e che poi spariscono.
Bisogna comunque essere buoni subacquei per affrontare un’immersione sull’Isonzo, anche perché è sempre necessario fare decompressione (più o meno lunga). Vi sono numerosi banchi di pesci che frequentano questo relitto; è facile incontrare gronghi giganteschi, astici, aragoste. Si può entrare in sala macchine (usando la massima precauzione), e ci si trova circondati da tantissime varietà di pesci, uno spettacolo indimenticabile.
Localitá: Torre delle Stelle - Posizione: Si trova al largo del Capo di Torre delle Stelle - Profondità: 45/56 mt. è adagiata sul fianco su un fondale di sabbia -Temperatura dell’acqua: tra i 10 e i 14 gradi - Correnti: di Maestrale e Scirocco forti tra i 20 e i 25 mt di profondità - Distanza terra: a circa un miglio e mezzo. - Note: Porta tuttora i due cannoni e le due mitragliatrici.
Tutta la nave è percorsa da una sagola che sale fino a tre metri dalla superficie, dove una boa galleggiante indica il punto del relitto. Serve come guida per l’intera immersione, ma anche come utile punto di riferimento per la decompressione.
P.fo ROMAGNA
Siamo a Capitana, sempre nel Golfo di Cagliari. Purtroppo anche il Romagna ha subito la stessa sorte dell’Entella, dell’Isonzo e dell’Egle e quindi è andato a fondo nel 1943 ferito a morte e spezzato spezzato in due tronconi: oggi la prora si trova addirittura a un miglio di distanza dal resto.
La cisterna Romagna era un piroscafo armato di 1.416 tonnellate di stazza costruito nel 1899. Affondò il 2 agosto del 1943 a seguito dell' urto con una mina di sbarramento al largo di Capitana spezzandosi in due tronconi, la prua andò immediatamente a picco, mentre il resto della nave proseguì la sua rotta andando alla deriva e inabissandosi a circa 1 km dal punto dell'impatto. Infatti la prua si trova a circa a un miglio di distanza dal resto, e costituisce un' immersione a sé stante.
Il relitto è lungo una cinquantina di metri, si trova a una profondità tra i 34 e i 48 metri, in posizione di perfetta navigazione. Non è rovinato, se non la coperta, ed è possibile entrare nella sala macchine e nella stiva. C’è di tutto: aragoste e, in generale, molti crostacei, e pesci anthias nelle camere interne, muri di re di triglie e poi tantissimo pesce di passo. Se si è particolarmente fortunati si possono perfino incontrare i delfini. All’interno ci sono ancora scarpe, valigie, insomma tracce dell’equipaggio
Localitá: Capitana - Posizione: Si trova al largo di Capitana - Profondità: 34/48 mt. Si trova in posizione di navigazione su un fondale di sabbia - Temperatura dell’acqua: tra i 10 e i 15 gradi.
Correnti: con venti di Maestrale e Scirocco forti - Distanza terra: a circa un miglio e mezzo.
LT 221
L' LT 221 era un rimorchiatore posamine americano che, ironia della sorte, affondò il 15 ottobre 1944 a seguito dell'urto con una mina.
Il relitto è stato scoperto recentemente e identificato grazie alla sigla incisa nella campana di bordo.
Lo scafo è posato sul fianco destro su un fondale sabbioso a 50 mt. di profondità ed è pedagnato.
In caso di buona visibilità il relitto si intravede già dopo i primi metri di discesa, lo scafo è coperto di spugne coloratissime e la presenza di tanta vita allieta l'immersione
Localitá: Golfo di Cagliari - Posizione: Si trova al largo di Capo Sant' Elia - Profondità: 50 mt. - Temperatura dell’acqua: tra i 10 e i 15 gradi. - Correnti: con venti di Maestrale e Scirocco forti. - Distanza terra: a un miglio e mezzo.
P.fo DINO
Ci spostiamo leggermente dal Golfo di Cagliari e arriviamo a Punta Zafferano (Capo Teulada), dove a 25 metri di fondo giace il Dino.
Era una nave (un'ottantina di metri di lunghezza) un tempo adibita al trasporto dell'argilla e successivamente dismessa e usata come sagoma di tiro nel poligono di Capo Teulada. Affondò mentre si trovava all'ancora a Porto Zafferano, durante una mareggiata di scirocco. È un celebrato sito d'immersione subacquea (necessaria autorizzazione, si trova in area militare).
n.b. il poligono rappresenta l'orientamento preciso del relitto.
Si presenta molto inclinata, praticamente appoggiata sulla fiancata di dritta. Si trova su un fondale di sabbia e posidonia in posizione, potremmo dire, a candela. È infatti esattamente in piedi conficcata nel fondo. Se si entra nelle stive e nella sala macchine si trovano ancora tracce dell’equipaggio. Sul soffitto, ad esempio, si vedono ancora, ben stivate, le cassette di vino.
La nave aveva anche alberi lunghissimi che però ora le giacciono accanto perché sono stati abbattuti dalla Nato, che adduceva problemi di interferenze alle sue esercitazioni.
Le navi hanno un’anima e una voce, e quando affondano salutano con un ultimo gemito straziante il loro comandante, prima di morire.
(Valerio Massimo Manfredi)
VILLASIMIUS
(Cagliari)
LA FESTA DELLA MADONNA DEL NAUFRAGO
L'opera fu scolpita dall’artista Pinuccio Sciola
La SS. Vergine è celebrata in suffragio dei marinai, vittime delle guerre e delle tempeste intorno all'isola ma anche per proteggere tutti i naviganti.
Ogni anno, il terzo sabato di luglio, nelle acque di Villasimius, paese in provincia di Cagliari, famosissimo per le sue spiagge caraibiche e il mare trasparente, si svolge la Festa della Madonna del Naufrago. L'evento, molto sentito dagli abitanti e frequentatissimo dai turisti che soggiornano nelle zone circostanti in questo periodo, ha il suo momento più suggestivo nella processione che parte dalla parrocchia di San Raffaele sino al porto e poi in mare con la benedizione, la preghiera subacquea ed il getto in mare di corone di fiori.
La statua, una rappresentazione della Vergine con Bambino, è opera di Pinuccio Sciola che l'ha realizzata in trachite rosa di Ozieri e collocata sui fondali antistanti l'isola. La si può vedere anche dalla superficie con una semplice maschera da sub e venne sistemata a 12 metri di profondità nel 1979 da un gruppo di amanti del mare, appassionati di immersioni.
Nella serata, oltre alla degustazione del pesce, ci sono delle esibizioni di gruppi folk che mettono in scena balli in costumi sardi tradizionali, musiche e componimenti poetici.
Suggestiva è la celebrazione della Santa Messa nel piazzale del porto cui fa seguito una processione di barche addobbate di fiori che si dirige verso l'isola. Il sacerdote del paese, con una squadra di sub, si immerge ad una profondità di dieci metri, dove ai piedi della Madonna, recita la preghiera rituale, udita, tramite altoparlanti, dai fedeli in acqua e nelle imbarcazioni che in segno di saluto suonano le sirene e gettano in acqua corone di fiori dai mille colori.
La festa prosegue con gli immancabili fuochi artificiali.
Per chi ha la possibilità di andarci la festa rappresenta una bellissima occasione, al di là del sentimento religioso, per scoprire le tradizioni locali e il mare stupendo di Villasimius!
CARLO GATTI
Rapallo, 20 Aprile 2021
GAMBIER BAY CVE-73
Gruppo Modellistico Sestese
Sesto San Giovanni (Milano)
Progetto Gambier Bay CVE-73
MARZO 2005
E’ stato lanciato il “progetto Gambier Bay”, obiettivo: costruire un modello della portaerei di scorta della 2^GM classe “Casablanca”, in scala 1:72. Un progetto collettivo, a cui possono partecipare tutti i Soci del Gruppo Modellistico Sestese, ognuno per la parte che meglio conosce. Il modello è previsto essere navigante, completo con effetti speciali e finito, e questa è la novità più importante, con la stessa cura e precisione di un modello statico.
Le prime fasi del progetto sono state costituite da una approfondita ricerca tecnico-storica, al fine di meglio rappresentare, con la maggior fedeltà possibile il soggetto scelto. I risultati di questa ricerca sono sinteticamente riportati nelle pagine seguenti.
Tutto il materiale raccolto è stato raggruppato in un CD che è stato dato a ciascun partecipante al progetto per migliorare la conoscenza comune della nave e degli avvenimenti che l’hanno riguardata.
Storia della portaerei CVA-73 GAMBIER BAY La “Gambier bay” prende il nome da una baia sulla costa dell’Alaska. La Gambier Bay, fu originariamente classificata AVG-73, poi riclassificata ACV 73 il 20 Agosto 1942 e finalmente CVE-73 il 15 Luglio 1943; è stata varata dai cantieri Kaiser Shipbuilding Co., di Vancouver, Washington, con contratto della Commissione Marittima il 22 Novembre 1943; madrina del varo è stata la signora H.C. Zitzewitz di Oswego, Oregon.; è stata posta in servizio il 28 Dicembre 1943 ad Astoria, Oregon con il Capitano Hugh H. Goodwin al comando. La nave inizialmente era dipinta secondo lo schema mimetico (measure) “MS 21”, successivamente modificato (1944) nel “MS 32/15A”, uno schema geometrico che prevedeva diversi toni di blu-grigio e nero.
Il numero di riconoscimento “73” era riportato in piccolo, in bianco, sui due lati della prua ed in blu scurissimo, con cifre di grandi dimensioni, alla estremità di prua del ponte di volo, posta in modo da essere letta arrivando in volo da poppa. Dopo un turno di collaudi e prove la nave è salpata il 7 Febbraio 1944 con 400 soldati diretti a Pearl Harbor, e 84 aerei di rimpiazzo destinati alla famosa portaerei Enterprise (CV 6). La consegna è avvenuta con un incontro presso le isole Marshall tra le due navi. Il logoramento da battaglia per una portaerei, infatti, consisteva principalmente nella perdita di aerei. Così ogniqualvolta una nave portaerei salpava da un porto USA, era prassi caricarla al massimo di aerei destinati al fronte per rifornire le altre sul posto.
In questa configurazione, il ponte di volo e l'hangar erano totalmente ingombri di aerei ed era conservata solo la capacità di far decollare gli aerei, i quali si trasferivano da una nave all'altra con i propri mezzi, in volo. Dopo questo primo giro, la Gambier Bay è ritornata a San Diego California, via Pearl Harbor, trasportando aerei danneggiati per le opportune riparazioni. E’ stata in seguito impiegata per le qualificazioni di piloti di marina lungo le coste della California meridionale. Nel Febbraio 1944, la Gambier Bay è stata utilizzata per le prove definitive di appontaggio del nuovo caccia Vought F4U Corsair grazie alle quali il famoso caccia è riuscito ad ottenere la qualificazione per impiego da portaerei che fino ad allora la US Navy gli aveva negato a causa di numerosi problemi, poi risolti.
La Gambier Bay imbarcava gli aerei del VC-10 costituiti da 18 caccia Goodyear FM-2 Wildcat e da 12 bombardieri-siluranti Grumman TBM-1C Avenger. Come per la maggior parte degli aerei della US Navy, essi non portavano particolari segni decorativi, tranne il segno di riconoscimento che, nel nostro caso, era una “B” bianca dipinta sulla deriva ed un numero progressivo, anch'esso bianco apposto in fusoliera. Gli aerei erano dipinti sia nello schema interamente blu, sia nello schema a tre toni di blu. Il “call sign” o segnale di chiamata, costituito da quattro lettere, assegnato alla Gambier Bay (univoco per ogni nave USA) era “NKWU”. Tale schema, nel codice colorato delle bandiere di segnalazione, è quello riportato nel titolo in alto. Il 1° Maggio 1944 la CVE-73 è partita per raggiungere il Carrier Support Group 2 (TG 52.11) comandato dal Contrammiraglio H.B. Sallada, stazionante alle Marshall, in vista dell’invasione delle isole Marianne. Durante le fasi iniziali degli sbarchi a Saipan, la Gambier Bay ha fornito supporto aereo ravvicinato ai Marines il 15 Giugno 1944, distruggendo postazioni nemiche, truppe, mezzi corazzati e trasporti.
Il 17 Giugno il centro di controllo di combattimento aereo ha respinto un attacco di 47 aerei giapponesi diretti contro il proprio gruppo di attacco, l’artiglieria di bordo ha direttamente abbattuto 3 aerei nemici che erano riusciti a superare lo sbarramento dei caccia.
Il giorno seguente l’allarme aereo suonava di nuovo. Gli aerei da caccia si preparavano al decollo, ma un intensissimo fuoco contraereo amico copriva tutti i settori, ivi compreso il percorso di decollo. Nonostante le difficoltà, otto riuscivano a decollare per contrastare l’attacco nemico.
La Gambier Bay rimase fuori Saipan, respingendo attacchi aerei e lanciando offensive per battere le postazioni nemiche e dare supporto ai Marines che stavano combattendo a terra.
Nel frattempo, le navi e le portaerei di squadra avevano sconfitto le navi e gli aerei giapponesi in quella che è stata chiamata la battaglia del mar delle Filippine.
La nostra nave continuò la sua opera di supporto dele truppe da sbarco a Tinian (19 – 31 Luglio) per poi dirigersi a Guam per dare lo stesso supporto alle truppe dei Marines fino all’11 Agosto 1944.
Dopo questa fase la nave è stata spostata alle isole Marshall per le necessarie riparazioni e ripristini.
Dal 15 al 28 Settembre la Gambier Bay riprendeva le azioni di attacco anfibio contro Pepeliu, Angaur e le Palau meridionali.
Successivamente la nave venne diretta verso Hollandia (Nuova Guinea) fino a Manus (isole dell’Ammiragliato), dove erano in corso altre operazioni di sbarco.
Protette da quattro cacciatorpediniere di scorta, le due portaerei di scorta Gambier Bay e Kitkun Bay (CVE 71) hanno scortato i trasporti e i mezzi da sbarco fino al golfo di Leyte, aggiungendosi alla squadra del Contrammoraglio Clifton A. F. Sprague, il 19 Settembre 1944.
Questa squadra comprendeva sei portaerei di scorta, tre cacciatorpediniere e quattro cacciatorpediniere di scorta – il codice di riconoscimento radio era “Taffy 3”.
La “Task Force” era suddivisa in tre “Taffy”, e complessivamente contava, tra l’altro, diciotto portaerei di scorta per mantenere la supremazia aerea sopra il golfo di Leyte e su Leyte Est.
Durante l’invasione gli aerei distrussero postazioni nemiche, convogli, aereoporti e concentrazioni di truppe, fornendo così un vitale aiuto alle truppe da sbarco nei combattimenti nell’entroterra. Allo stesso tempo gli aerei garantivano il mantenimento di un ombrello protettivo sopra le navi amiche che stazionavano nel golfo di Leyte.
Le tre squadre erano disposte nel seguente ordine: Taffy 1 a nord di Mindanao, Taffy 2 all’entrata del golfo di Leyte e Taffy 3 al largo dell’isola di Samar.
Nel frattempo le forze giapponesi lanciavano la loro intera flotta contro gli americani nel disperato tentativo di distruggere la più alta concentrazione di navi nel golfo di Leyte.
Potenti forze nemiche, costituite da portaerei, navi da battaglia, incrociatori e cacciatorpediniere si diressero verso l’obiettivo da tre diverse direzioni da Sud, dal centro e da Nord.
La forza d’attacco giapponese del Sud andò incontro al disastro la tramonto del 25 Ottobre nel tentativo di forzare lo stretto di Surigao per ricongiungersi con la forza di centro al largo del golfo di Leyte.
La forza di centro fu colpita duramente il giorno 24 da centinaia di aerei del Contrammiraglio Halsey, partiti dalle portaerei d’attacco, nel mare di Subiyan, mentre si dirigevano verso lo stretto di S. Bernardino.
Dopo la battaglia del mare di Subiyan, Halsey, giudicando le forze nemiche ormai fuori causa, diresse le sue forze a Nord nel tentativo di intercettare le portaerei giapponesi al largo di capo Engano.
Questa veloce mossa lasciò la squadra Taffy 3 abbandonata a se stessa a guardia di Samar, per giunta ignara dei movimenti notturni dei resti della forza di centro.
La mattina del giorno 25 Ottobre, una leggera schiarita nella nebbia del mattino scoprì le sagome delle navi giapponesi che scivolavano attraverso lo stretto di S. Bernardino, diretta verso il golfo di Leyte.
La flotta di centro, lontana dell’essere stata messa fuori combattimento, contava ancora più di 20 navi.
Nonostante la differenza di forze, abbondantemente a favore dei giapponesi in quanto a forze di superficie, il gruppo Taffy 3 decise di dare battaglia, nel contempo chiedendo disperato aiuto al resto della flotta americana.
Contemporaneamente le poche navi di Taffy 3 diressero verso il nemico lanciando tutti i propri aerei all’attacco.
Nell’impari battaglia seguente la Gambier Bay fu colpita numerose volte dal fuoco dei cannoni giapponesi; immobile sull’acqua, venne finita con altri colpi provenienti da tre incrociatori, mentre attorno i caccia tentavano disperatamente di coprirla con cortine di fumo e recuperando i naufraghi.
La Gambier Bay si è capovolta ed è affondata alle 09.07 del 25 ottobre 1944; circa 800 sopravissuti sono stati raccolti dalle navi giunte in soccorso da Leyte.
Qualche ora più tardi, nel corso dello stesso scontro, anche la gemella St. Lo (CVE 63) andrà perduta, vittima di attacchi kamikaze.
Per questa azione eroica la Gambier Bay ha condiviso con tutto il Taffy 3 la “Presidential Unit Citation”. Durante la sua carriera aveva ricevuto quattro stelle per servizio in zona di guerra.
Albino BENEDETTO
Nel complimentarmi con il nostro socio Albino Benedetto e con il Gruppo Modellistico Sestese, invito i nostri "followers" a visitare i siti:
http://www.modelsesto.org
http://www.giemmesesto.org
Carlo GATTI (webmaster )
5 Gennaio 2013
ALBUM FOTOGRAFICO
di Albino BENEDETTO
STRETTO DI MESSINA-ULISSE - MITI E LEGGENDE
STRETTO DI MESSINA
PRIMA PARTE
ULISSE - MITI E LEGGENDE
Lo Stretto di Messina (u Strittu), chiamato nell'antichità Stretto di Scilla e Cariddi, è un braccio di mare che collega il Mar Ionio con il Mar Tirreno, separa la Sicilia dalla Calabria e l'Italia peninsulare dal continente.
Perché parlare di ULISSE nel 2021?
Perché il difficile passaggio dello Stretto di Messina, appartiene alla storia dell’eroe omerico, al suo mare minacciato da Scilla e Cariddi, dalle Sirene e dai Mostri che oggi portano nomi scientifici, ma sono ancora il retaggio di superstizioni vive che ci riportano all’Ulisse uomo di mare che ancora ci illumina come un faro.
ULISSE è uno dei personaggi più amati della letteratura di tutte le epoche, uno dei pochi “miti” capace di passare da un’opera all’altra nella perenne “odissea” della vita, tanto che questo celebre nome è diventato sinonimo del “viaggio” terreno dell’umanità tra le infinite difficoltà che incontra ogni giorno. E si può ancora dire che dai secoli di Omero, 800 avanti Cristo fino al Terzo Millennio, Ulisse c’è, e sta ancora viaggiando perché è dentro ognuno di noi!
La sua fama, così duratura nel tempo, è indice della sua innata modernità imbevuta di malizia, individualismo e intelligenza. Il suo sempre attuale carisma è il riflesso di tante capacità che entrano in gioco nei momenti più difficili: sopportazione, curiosità, diffidenza, pazienza, coraggio e astuzia militare. Non solo! Perché Ulisse è l’emblema dell’ingegno, della calcolata freddezza che gli permette d’uscire sempre indenne dalle tempeste della vita usando qualsiasi mezzo, anche estremo.
Ma prima di immergerci nelle “acque infide dello Stretto” ci è caro fare una breve premessa da uomini di mare ...
Chi ha navigato nello Stretto di Messina più volte nelle due direzioni, in tutte le stagioni e con qualsiasi tempo, sa quanto possano sembrare "impressioni di realtà" le leggende che avvolgono quel passaggio. Oggi, naturalmente, quelle leggende hanno una spiegazione scientifica che vieta ogni riferimento ai mostri marini, alle sirene, ai miraggi ed altro, tuttavia i pericoli nello Stretto ci sono sempre e si chiamano vortici, scontro di correnti di marea, differenza di temperatura tra il mar Ionio ed il Tirreno che tra poco approfondiremo, infine c’è il traffico intenso di navi che incrociano da tutti i quadranti della bussola e che oggi, nonostante il transito sia regolamentato e controllato, è più sicuro ma non per questo è privo di pericoli.
Per entrare ancor più nell’attualità dell’argomento, chi scrive può testimoniare d’aver perso il controllo del governo di una petroliera di 30.000 tonnellate nell’attraversamento dello Stretto per almeno 30 lunghi secondi, a causa dei vortici di Cariddi. In un’altra occasione, per la stessa causa, sempre risalendo lo Stretto da Sud a Nord, con a rimorchio una nave da carico, con il cavo ridotto a 600 metri, perdemmo il controllo della rotta e fummo costretti ad issare i fanali rossi di non governo, ad emettere un Avviso radio di Sicurezza circolare a tutte le navi in transito ed infine a compiere un cerchio in un momento di traffico intenso…
Chi conosce la realtà dello Stretto ha le sue avventure da raccontare…
Posso inoltre confermare che molti Comandanti stranieri che navigano in direzione Suez-porti tirrenici e viceversa, preferiscono evitare il transito dello Stretto per motivi di sicurezza.
Non so esattamente quante siano state le collisioni avvenute nello Stretto nel tempo, ma ormai da parecchi anni, ogni nave si stazza superiore alle 15.000 tons deve prendere obbligatoriamente il Pilota di Messina per il transito nelle due direzioni.
Un po’ di Storia…
Lo Stretto era probabilmente praticato in epoca preistorica dai Sicani e poi dai Siculi, che in tempi diversi dovettero passare dal continente nell’isola. Dopo l’VIII secolo a.C., in seguito alla conquista dei Greci, lo Stretto divenne più noto, perché transitato dai fondatori di Cuma e di altre città. In seguito gli Ioni, fondatori di Zancle (Messina), vollero che sulla riva opposta sorgesse una città sorella, in modo da controllare questo vitale passaggio. Gli Etruschi ottennero il libero transito finché, dopo la sconfitta subita a Cuma (474 a.C.), perdettero il dominio del mare. Subito dopo lo Stretto divenne oggetto di fiere contese tra Reggio e Siracusa, alleata di Locri. In seguito alla distruzione, da parte dei Cartaginesi, di Messana (396 a.C.), rapidamente risorta e divenuta siracusana, la questione dello Stretto, che per tre secoli aveva indotto le città achee a trovarsi scali sul Tirreno attraversando i monti, venne finalmente risolta da Dionisio il Vecchio dopo che questi ebbe conquistato Reggio (387 a.C.). Nel III secolo a.C. fu Roma a mirare alla padronanza dello Stretto (Fretum Siculum), per la lotta contro Cartagine e il possesso della Sicilia. Con il predominio romano del Mediterraneo, l’importanza dello Stretto diminuì, rimanendo però sempre notevole, anche nel medioevo, per i commerci col Levante e per le imprese militari, allorché la Sicilia passò via via ai Bizantini, agli Arabi, ai Normanni e agli Svevi.
Guida d’Italia. Basilicata e Calabria, Touring Club Italiano, Milano 1980
Ma ora ritorniamo ad ULISSE e alla sua STORIA mitologica
Uno degli episodi più celebri è raccontato nel libro XII, dell’Odissea di Omero, quando Ulisse e la sua ciurma, provenienti dall’Isola di Circe (Circeo) navigano verso Sud per ritornare ad Itaca. Lo Stretto si mostra dinanzi ai loro occhi, e per proseguire il viaggio devono attraversarlo; tuttavia, sulla sponda sinistra, sopra uno scoglio, si erge un terribile mostro a sei teste, Scilla, (lato Calabria) mentre sul lato destro risiede un letale mostro marino, Cariddi (lato Sicilia).
La necessità di percorrere la via di mezzo, o quasi, è diventata proverbiale: infatti, quando si afferma di ‘essere tra Scilla e Cariddi’, s’intende il trovarsi in una posizione problematica.
Ulisse sa (perché la maga Circe glielo aveva rivelato) che sebbene Scilla possa attaccarlo con le sue sei mostruose teste (ognuna delle quali contiene tre file di denti aguzzi), e quindi afferrare e uccidere sei dei suoi uomini, Cariddi rappresenta una minaccia ancora più letale, poiché essere risucchiati dai vortici marini che il mostro marino provoca tre volte al giorno, si rivelerebbe fatale per l’intera nave e tutti gli uomini a bordo.
Perciò Ulisse deve navigare nel mezzo, consapevole che se ci dovesse essere un margine di errore sarebbe meglio tendere leggermente a sinistra, verso il lato di Scilla, piuttosto che a destra, poiché in quest’ultimo caso andrebbe incontro alla distruzione totale. Emozionante! Questa difficile situazione è senz’altro una metafora della vita stessa.
“Da una parte ci sono rupi aggettanti, contro cui si frange
con grande fragore l’onda di Anfitrite dagli occhi scuri:
gli dèi beati le chiamano Le erranti.
Di lì non passano neppure gli uccelli, né le trepidanti
colombe, quelle che a Zeus padre portano ambrosia.
Sempre qualcuna ne toglie la roccia liscia,
e il padre un’altra ne manda che ristabilisca il numero.
Di lì mai sfuggì nave di uomini che vi fosse giunta,
ma tavole di navi e insieme corpi di uomini trascinano via
le ondate del mare e i vortici di fuoco funesto.
Una sola nave di lungo corso di lì è riuscita a passare,
Argo da tutti celebrata, che tornava dal paese di Aieta”.
Lì dentro abita Scilla dal latrato inquietante:
la sua voce è pari a quella di una cagnetta poppante,
ma essa è invece un mostro malvagio, e nessuno
a vedersela di fronte gioirebbe, nemmeno un dio.
Dodici sono i suoi piedi, e tutti malformati,
ha sei colli lunghissimi, e ciascuno ha una orrida
testa, e in ognuna ci sono tre file di denti,
moltissimi e fitti, pieni del nero della morte.
Per metà sta sprofondata nell’antro profondo,
ma dal terribile baratro tiene fuori le teste.
Qui pesca, frugando lo scoglio all’intorno,
delfini, pescicani e mostri più grandi, se càpita,
afferra, quanti innumerevoli nutre la mugghiante Anfitrite.
Di lì con la nave nessuno si vanta di esser fuggito
indenne da morte; con ogni singola testa un uomo si prende:
lo afferra da sopra le navi dalla prora scura.
L’altro scoglio vedrai, Ulisse, molto basso, l’un all’altro
vicini: un tiro di freccia la distanza percorre.
Su di esso è un gran fico selvatico, fiorente di foglie.
Sotto, Cariddi divina risucchia l’acqua scura.
Tre volte al giorno emette, tre volte risucchia,
terribile. Che tu non sia lì quando inghiotte:
nemmeno l’Enosictono ti salverebbe da morte.
Accòstati molto allo scoglio di Scilla e presto
porta fuori la nave. Molto meglio sei compagni
piangere sulla nave che non piangerli tutti’.
“Solcavamo gemendo l’angusto passaggio:/ da una parte era Scilla, dall’altra Cariddi/ divina, che l’acqua salata inghiottiva del mare/ con suono tremendo, che poi rigettava di fuori/ e tutta in gorgoglio travolta bolliva/ come una caldaia sul fuoco che arde:/ la schiuma in alto lanciata giù ricadeva/ battendo le cime d’entrambi gli scogli./ E quando di nuovo l’acqua salata inghiottiva/ del mare pareva sconvolgersi dentro;/ […] lo sguardo era fisso a Cariddi, fisso alla morte./ Fu allora che Scilla ghermì dalla nave/ concava sei dei compagni, i più forti;”
Ulisse (Odisseo) tenta di superare i mostri Scilla e Cariddi. Scilla mangia sei volte sei compagni di Ulisse, mentre Cariddi risucchia le acque. Dopo aver affrontato i due mostri, Odisseo, approdato con i suoi compagni sull'isola di Trinacria, non riesce a frenare la voglia dei compagni di banchettare con le invitanti mucche di Elio (altre versioni dicono di Era o Apolo). Per questo Odisseo racconta di essere stato per nove giorni in balia di terribili tempeste scatenate da Zeus, con la nave e i compagni uccisi da Scilla.
Ulisse riesce così ad evitare il naufragio dell’intera nave sacrificando però sei dei suoi compagni, e tristemente continua il suo viaggio fino a Itaca.
In realtà, proprio dove il mito si fonde con la leggenda e dove i racconti antichi trovano poi riscontro, ecco che ci si chiede: ma chi erano Scilla e Cariddi?
Due ninfe diventate mostri
Le statue di Scilla e Cariddi scolpite da Giovanni Angelo
Montorsoli sulla fontana di Orione a Piazza Duomo.
Ci sono diversi racconti popolari tradizionali che hanno fatto nascere molte leggende attorno a Scilla e Cariddi, ma è certo che prima di essere tramutate in due mostri, esse erano due bellissime ninfe del mare.
SCILLA
Scilla, dagli occhi azzurri, era figlia di Forcis e Ceto, figlia di Gea e Ponto, anch’esso un mostro simile ad una balena. Secondo il mito, Scilla vive presso le rive di Zancle, in Calabria, e lì che incontrò Glauco, figlio di Poseidone, che s’innamorò perdutamente di lei.
Ciò nonostante la ninfa respinse il dio marino e quest’ultimo chiese aiuto a Circe, per conquistarla. La maga, però s’innamorò di Glauco e gli chiese di diventare il suo compagno, ma egli rifiutò, perché era completamente rapito da Scilla. Allora la maga trovò il modo di rifilare alla bella ninfa un filtro, che la trasformò in un essere mostruoso, dalle molte gambe serpentine, alle cui estremità si trovano delle bocche con cui divorava i marinai. Scilla, allora, si rifugiò in una grotta, nello stretto di Messina, insieme a Cariddi. Una immagine spaventosa che ha alimentato la loro fama.
La storia è diversa per Cariddi, una naiade figlia di Poseidone e di Gea, ma a differenza della prima, lei era dedita alle rapine prima di diventare un mostro, ed era nota per la sua voracità. Zeus, dopo che ella rubò dei buoi a suo figlio Eracle e a Gerione, il gigante a tre teste, decise di punirla gettandola in mare e trasformandola in un mostro orrendo, simile a una lampreda.
Si dice che per risucchiare le sue vittime, Cariddi creava dei veri e propri vortici nel mare, dove le navi affondavano e lei poteva soddisfare la sua voracità. Lo stesso avvenne poi nei racconti narrati nell’Odissea, dove lo stesso Ulisse si trovò ad affrontare i due terribili mostri.
Geograficamente Cariddi è collocabile sulla punta messinese della Sicilia, a Capo Peloro.
Scilla è sulla spiaggia calabrese, da Punto Pizzo ad Alta Fiumara.
OMERO - ODISSEA
SCILLA E CARIDDI
L’altro scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo, / vicini uno all’altro, / dall’uno potresti colpir l’altro di freccia. / Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie; / e sotto Cariddi gloriosamente l’acqua livida assorbe. / Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe / paurosamente. Ah, che tu non sia là quando riassorbe.
A rendere un’Odissea il passaggio nello Stretto, sin dai tempi in cui Messina era una perla della Magna Grecia, erano soprattutto le correnti irregolari e imprevedibili, capaci di raggiungere una velocità di svariati km/h e di generare vortici letali. Fra questi, due in particolare avevano le sembianze mostruose di esseri ultraterreni, Cariddi (“Colei che risucchia”) sul versante siculo, nei pressi di Torre Faro, e la dirimpettaia Scilla (“Colei che dilania”), nello specchio d’acqua su cui si specchia Cannitello, fra Alta Fiumara a Punto Pezzo.
Figlia di Poseidone (dio il mare) e di Gea (dea la terra), Cariddi. Punita da Zeus per la sua insaziabile voracità e trasformata in un mostro marino, funestava le imbarcazioni in transito sullo Stretto, ingoiando tre volte al giorno un enorme quantità d’acqua per poi sputarla, “deglutendo” barche e marinai. A parlare di Cariddi sono Omero, nel canto XII dell’Odissea, Virgilio, nell’Eneide, e anche Dante, che nell’Inferno si serve dell’immagine del mostro marino per descrivere l’eterno scontrarsi degli avari e dei prodighi: era una delle Naiadi (ninfe che presiedono a tutte le acque dolci della terra) che secondo alcune versioni avrebbe prima rubato e poi divorato i buoi.
(«Come fa l’onda là sovra Cariddi, / che si frange con quella in cui s’intoppa, così convien che qui la gente riddi»).
LA LEGGENDA DELLA FATA MORGANA
Stretto di Messina - La leggenda di Fata Morgana
Una illusione Ottica
di Carlo GATTI
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Dalla costa reggina molto di rado, per breve tempo e di solito in giornate calde e con aria e mare calmi, si produce il noto fenomeno di miraggio detto fata morgana, che dà l’impressione di un avvicinamento della costa sicula, gli edifici della quale si prospettano in mare o nell’aria con immagini stranamente allungate, deformate, sempre nuove, simulando città fantastiche e anche schiere di uomini in moto.
La leggenda ci tramanda che, dopo aver condotto suo fratello Artù ai piedi dell'Etna, Morgana si trasferisce in Sicilia tra l'Etna e lo stretto di Messina, dove i marinai non si avvicinano a causa delle forti tempeste, e si costruisce un palazzo di cristallo.
Sempre in base alla leggenda, Morgana esce dall'acqua con un cocchio tirato da sette cavalli e getta nell'acqua tre sassi, il mare diventa di cristallo e riflette immagini di città.
Grazie alle sue abilità, la Fata Morgana riesce ad ingannare il navigante che, illuso dal movimento dei castelli aerei, crede di approdare a Messina o a Reggio, ma in realtà naufraga nelle braccia della fata.
Guardando da Messina verso la Calabria, si vede come sospesa nell'aria l'immagine di Messina e, viceversa, guardando da Reggio Calabria verso Capo Peloro, si vede Reggio nello stretto.
RIENTRIAMO ORA NEL TERZO MILLENNIO
Siamo nel 2021 e dobbiamo precipitosamente ritornare con i piedi sulla terraferma per rivolgerci alla SCIENZA che ci spiega in breve cosa succede da sempre nello Stretto:
Il braccio di mare che separa la Calabria dalla Sicilia è largo oltre 3 chilometri a nord, fra Torre Cavallaro e il Capo Peloro, e 16 chilometri circa a sud, fra la Punta Péllaro e il Capo d’Alì; nel senso della lunghezza si estende per 33 chilometri. La profondità varia da 120 a 150 metri nel punto più stretto. Contrariamente all’opinione, diffusa nell’antichità dai filosofi greci, che lo Stretto fosse stato aperto da un terremoto o dalla furia del mare agli albori della storia, i moderni studi geologici hanno dimostrato ch’esso esiste da tempi molto remoti: per lo meno dall’epoca in cui ebbero luogo quei movimenti della crosta terrestre che furono alla base della struttura dell’Appennino; lo Stretto, anzi, doveva essere più largo di oggi. La navigazione in esso fu ritenuta pericolosa fin dall’antichità e in effetti presenta difficoltà soprattutto per le correnti rapide e irregolari e per i venti che vi spirano violenti e talvolta in conflitto.
La corrente principale, dovuta al livellamento dei bacini tirrenico e ionico attraverso lo Stretto e al relativo flusso, va da sud a nord col nome di rema montante; quella determinata dal riflusso, con direzione opposta, si chiama rema scendente. Queste correnti toccano una velocità massima di oltre 9 chilometri all’ora e si alternano di sei in sei ore; di norma raggiungono l’intensità massima dopo 4 ore dall’inizio e diminuiscono fino a mezz’ora prima della corrente opposta. Ogni corrente ha ai lati i bastardi, cioè controcorrenti, che si sviluppano in località note circa un’ora dopo l’inizio della corrente. Nei punti d’incontro di correnti opposte, oppure dove una corrente trova notevoli differenze di fondo, si formano vortici detti garófali o réfoli, di cui i principali sono quelli chiamati dagli antichi Scilla e Cariddi, che si formano con la montante, il primo sulla costa calabrese da Alta Fiumara a Punta Pezzo, il secondo alla spiaggia del Faro. I due famosi vortici derivano dall’urto delle acque contro la Punta Torre Cavallo e il Capo Peloro. Cariddi talvolta è accompagnato da un rimescolio delle acque così violento da mettere in pericolo le piccole imbarcazioni. Notevole è anche il vortice che si forma, con la scendente, davanti al faro di Messina e con i venti sciroccali e in giorni di luna piena o nuova rende il mare agitato tra la Grotta e le acque di San Ranieri. Altri garófali sono a Sant’Agata, Punta Grotta, San Salvatore dei Greci, Punta Pezzo e Catona.
Le acque dello Stretto con la montante si abbassano di circa 15 o 20 centimetri; con la scendente si alzano di altrettanto, con un dislivello massimo di mezzo metro. Le depressioni maggiori si hanno in agosto, le elevazioni massime in novembre, dicembre e parte di febbraio. Nei giorni di maggior forza delle correnti, la montante è sempre più violenta della scendente e riesce a strappare dal fondo erbe e alghe. Quando è rafforzata da particolari condizioni meteorologiche getta sulle spiagge di Ganzirri, del Faro e anche di San Ranieri, pesci abissali dagli occhi atrofizzati, con organi produttori di fosforescenza e di forme inconsuete.
Si conclude così il nostro breve viaggio virtuale nello STRITTU che ci ha portato a ritroso nel tempo, quando il breve tratto di mare era “popolato” da mostri, divinità e strane creature, fra misteri, prodigi e fenomeni atmosferici (all’epoca) inspiegabili. Una leggenda siciliana che ispira la fantasia e ci riporta alla memoria viaggi e avventure che hanno reso l’attraversamento dello Stretto di Messina una prova di coraggio nell'immaginario collettivo.
Possiamo definirlo lo Stretto del Mito, reso immortale da alcuni dei più grandi scrittori di sempre, affascinati dalla suggestione di un luogo che nei secoli ha terrorizzato viaggiatori e marinai a causa soprattutto della sua variegata fauna e del perenne scontro fra lo Jonio e il Tirreno.
Millenni di storia e leggenda in un luogo unico al mondo.
Carlo GATTI
Rapallo, 1 Settembre 2021
NEL NOME DEI CICALA…
NEL NOME DEI CICALA…
Fabrizio De André scrisse una famosa canzone ispirandosi ad un personaggio della famiglia
CICALA
I Cicala, originaria della Germania furono presenti a Genova dall’893. Divenne ben presto una famiglia patrizia, le cui prime memorie si fanno risalire all'anno 924, quando sarebbe passata da Lerici a Genova.
E' leggendaria tradizione che, avendo sorvolato il capo di tal Pompeo di questa stirpe uno sciame di cicale quand'egli era per attaccare coi suoi Genovesi i Pisani, conseguita la vittoria, volle celebrare il prodigio dipingendo quegli insetti sullo scudo e assumendone il nome.
Venne conservato lo stemma con le cicale fino al 1432 quando il re di Polonia concesse a Giobatta Cicala in premio per le sue vittorie contro i Tatari l'uso del proprio stemma rosso con aquila coronata d'argento. Nel 1528, a seguito della riforma voluta da Andrea Doria, formarono il 7° Albergo*.
*Albergo - Nome che nel Medioevo servì a designare consorterie di famiglie nobili, in particolare a Genova. Qui l'ordinamento aristocratico stabilito da Andrea Doria nel 1528 fissò a 28 il numero degli Alberghi. (che erano 74 nel 1414); fino al 1576, le famiglie nobili presero tutte cognome dall'Albergo.
Questa famiglia, una delle consolari di Genova, divenne importante per i vasti commerci, viaggi e navigazioni importanti, per le armi, per le lettere, per le cariche civili ed ecclesiastiche, non solamente a Genova, anche in moltissimi altri paesi d'Italia e all’estero: Lerici, Ventimiglia, Albenga, Piacenza, Roma, Napoli, Aquila, Lecce, Cosenza (1391) in Messina, in Lentini (nobile 1458), Palermo e poi in Turchia e in Persia.
Uno dei rami passati nel Regno di Napoli fu a Genova sin dal X secolo. Vincenzo fu avventuriero a bordo delle galee di Giacomo Grimaldi. I Cicala o Cigala, dal XII secolo, erano presenti nella politica cittadina della Repubblica di Genova. Guglielmo fu tra i primi consoli tra il 1155 ed il 1161. Nel corso del secolo successivo la famiglia dette altri uomini di governo, tutti esponenti ghibellini. Le case dell'Albergo erano situate tra la Cattedrale di San Lorenzo di Genova ed il mercato di San Pietro in Banchi.
Nei secoli XIV e XV, i Cicala si concentrarono nei commerci internazionali e sull'amministrazione dei domini orientali.
Figura di spicco fu Meliaduce Cicala, tesoriere di Papa Sisto IV, che destinò 5.000 lire al Banco di San Giorgio nel 1481, da impiegare per le doti delle fanciulle povere di Genova.
Inoltre, nominò erede universale la Camera Apostolica con l'obbligo di istituire l'Ospedale di San Giovanni Battista dei Genovesi, destinato all'assistenza dei connazionali che si trovavano nell'Urbe.
I Cicala entrarono a far parte delle famiglie nobili vicine al Cardinale Giovanni Battista Cibo, salito al Soglio Pontificio nel 1484 con il nome di Innocenzo VIII ricevendone benefici ed onori.
Come si è già visto, la famiglia si diramò in numerose città del Mezzogiorno d’Italia tra cui Lentini, Messina, Lecce e Napoli, ove fu aggregata ad uno dei Sedili di Napoli*, quello di Portanuova.
*I Sedili (o Seggi o Piazze) erano delle istituzioni amministrative della città di Napoli i cui rappresentanti, detti gli Eletti, dal XIII al XIX secolo, si riunivano nella Chiesa di San Lorenzo Maggiore per cercare di raggiungere il bene comune della Città. A cinque di essi avevano diritto di partecipare i nobili, mentre il resto dei cittadini era aggregato nel sesto seggio, quello del popolo.
Cronistoria
ZIGALA - GASSA - CAPITANO DEL MARE
Sulla rotta tra Genova e Istanbul si giocò, nel ‘500, il destino dei Cicala, del padre Vincenzo e del figlio Scipione, entrambi corsari ma su fronti contrapposti. Discendente da una nobile famiglia di origini germaniche, presente a Genova sin dal X secolo, Vincenzo fu avventuriero a bordo delle galee di Giacomo Grimaldi al soldo dell’ordine Gerosolimitano*, poi al servizio di Muley Hassan, bey di Tunisi, contro il feroce Barbarossa.
Conquistati i gradi di capitano e la fama di validissimo uomo di mare, nel 1538 Cicala partecipò alla presa di Castelnuovo, alle bocche di Cattaro, in Montenegro, spedizione dalla quale tornò a Genova con una prigioniera d’eccellenza, la figlia di un nobile musulmano che fece battezzare con il nome di Lucrezia e dalla quale ebbe il figlio naturale Scipione, destinato a calcare le sue orme. Messosi finalmente in proprio e diventato corsaro per conto dei genovesi e dei siciliani, Cicala interpretò la guerra sul mare con eccessiva disinvoltura: spesso si lasciava andare a episodi di pura pirateria, facendo schiavi a centinaia e attaccando, nell’Egeo, praticamente ogni natante che gli venisse a tiro senza curarsi della bandiera che issava.
Imbarcatosi con il figlio Scipione per raggiungere la Spagna, nel 1561 venne catturato dagli uomini di Uccialì presso le Egadi, condotto a Tripoli e poi a Istanbul alla corte del Sultano. Qui riuscì, pagando un salatissimo riscatto, ad acquistare la propria libertà ma non quella di Scipione, che durante la prigionia, forse convinto dalle lusinghe del Sultano che lo voleva tra i suoi favoriti, o perché pensava così di poter salvare la vita al padre, abiurò la fede cristiana e abbracciò l’Islam con il nome di Cigalazade Yusuf Sinan Pascià. Lo smacco fu insopportabile per il vecchio corsaro genovese, che disconobbe il figlio. Ma che sia stata una libera scelta o un’imposizione, l’abiura concesse a Scipione una carriera folgorante, tanto da essere nominato per ben 2 volte Grand’Ammiraglio della flotta musulmana e perfino Gran Visir, di fatto il primo ministro dell’impero. Nonostante avesse indossato il turbante, Scipione Cigala dimostrò di essere un corsaro degno del suo illustre e cristianissimo padre, ma un talento politico nettamente superiore.
*Ordini gerosolimitai: Gli ordini gerosolimitani, o gerosolomitani, sono quegli antichi ordini religiosi cavallereschi nati nel periodo delle crociate lanciate dalla Chiesa cattolica per liberare il Santo Sepolcro dal controllo dell'Islam, inizialmente nel regno di Gerusalemme.
Personalità - Sintesi
· Guglielmo, nel secolo XII, fu più volte console a Genova e più precisamente negli anni 1152, 1155, 1157, 1161, 1165 ed Ambasciatore presso Federico Barbarossa nel 1158.
· Lanfranco Cicala o Cicala (Genova, 1200 circa-1258) figlio di Gerolamo, prese parte alla vita politica della Repubblica di Genova) in qualità di giudice prima di dedicarsi alla poetica. Fu tra i massimi poeti genovesi del XIII secolo in lingua provenzale antica.
· Giovanni Battista Cicala Zoagli (Genova 1486-Genova 1566) nel 1530 rientrò a Genova dopo numerose missioni in Mediterraneo per conto della Repubblica di Genova. Nel 1528, la sua famiglia, Zoagli, si era iscritta nell’Albergo dei Nobili genovesi dei Cicala o Cigala, assumendone il nome. Nel 1537 fu nominato Governatore di Corsica per mandato del Banco di San Giorgio e successivamente Ambasciatore presso la corte papale di Papa Paolo III. Nel 1561 fu elevato a Doge, sessantatreesimo nella carica.
· Vincenzo Cicala (Genova,1504-Istanbul,1564) o più propriamente Visconte Cicala condottiero e corsaro genovese. Al servizio di Andrea Doria, partecipò a numerose battaglie e conquiste in tutto il Mar Mediterraneo. In proprio, con la patente di corsaro riconosciutagli dai genovesi e dai siciliani, imperversò sul mar Egeo depredando navi che non fossero genovesi. Mercenario, poi, al soldo dei Gonzaga e successivamente dei Cavalieri di Malta, fu infine sconfitto e catturato dagli Ottomani. Morì a Pera, Istanbul nel 1564.
· Suo figlio Scipione Cicala (Messina, 1552- Diyarbakir, 1605) nel 1561, in uno scontro alle isole Egadi (Marettimo) tra la flotta della Repubblica di Genova e quella turca di Dragut, fu preso prigioniero con il padre e condotto ad Istambul. Successivamente si convertì all’Islam e come giannizzero fece carriera nell'esercito ottomano, elevato alla carica di GRAN VISIR e Serraschiere del Sultano con il nome di:
Sinan Capudan Pascia'
LINK - LIBRO D’ORO DELLA NOBILTA’ MEDITERRANEA
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Ed eccoci a Fabrizio De André
A ME ZENA
Nel 1984 esce l’album capolavoro in lingua genovese di Fabrizio De Andrè “Creuza de ma”.
Sette tracce che, fondendo in maniera irripetibile e magistrale suoni e parole, celebrano Genova, il mare e le culture del Mediterraneo.
Fra queste canzoni emerge da un lontano passato la storia del nostro nobile concittadino Scipione Cicala che, imprigionato dai turchi, ne divenne condottiero e corsaro fino ad ottenere il massimo degli onori possibili per un infedele, ovvero il titolo di Pascià.
“E questa a l’è a ma stöia, e t’ä veuggiu cuntâ”…
“Sinan Capudan Pascià” racconta appunto le vicende del genovese Cicala (“sinan”, dato che in turco ottomano antico Genova si dice “Sina”, significa genovese) che fu catturato nel 1560 a bordo della nave del padre Vincenzo dopo la disfatta della battaglia di Gerba.
Nei pressi dell’isola tunisina ebbe luogo infatti lo scontro che permise ai Turchi di riprendere il sopravvento nel Mediterraneo dopo che per quasi 50 anni Andrea D’Oria vi aveva imposto la propria legge.
In quell’occasione il corsaro Dragut aveva sconfitto la flotta cristiana da pochi anni ereditata, insieme al titolo di Admiral Mayor spagnolo, dal nipote Gian Andrea.
Secondo alcune interpretazioni a quasi 94 anni Andrea si spense nel suo palazzo, corroso dai dolori e soprattutto dalla delusione per la notizia della perdita delle sue invitte galee.
Non tutti gli storici però concordano su tale antefatto: per alcuni invece Sinan sarebbe stato catturato da Dragut non nei pressi dell’isola tunisina, ma al largo di Marettimo, alle Egadi, mentre con il padre Vincenzo veleggiava verso la Spagna. Era il 18 marzo del 1561 e Scipione aveva appena 17 anni.
Quale che sia la versione corretta di certo il giovane Scipione e il padre Vincenzo vennero catturati entrambi e tradotti prigionieri ad Instanbul.
Vincenzo pagò il proprio riscatto e venne liberato ma, per carenza di fondi, non quello del figlio. Fu così che Scipione per non finire ridotto in schiavitù, legato a qualche banco di voga a remare, abiurò la propria fede e si arruolò nel corpo scelto dei Giannizzeri.
Per via di questo suo opportunistico cambio di campo religioso, venne disprezzato e battezzato dai Cristiani “rénegôu”:
“E digghe a chi me ciamma rénegôu
che a tûtte ë ricchesse a l’argentu e l’öu
Sinán gh’a lasciòu de luxî au sü
giastemmandu Mumä au postu du Segnü”.
Ma Scipione bestemmiando Maometto al posto del Signore fece presto carriera dimostrando coraggio e abilità nautiche salvò la vita ad un importante e potente Bey (nobile ottomano).
Le sue vicende incrociarono con alterne fortune i sultanati di Solimano I il Magnifico, Selim II, Murad III e Maometto III.
Cicala si distinse in numerose scorribande piratesche lungo le coste del sud in generale e della Calabria in particolare fino ad ottenere il massimo dei riconoscimenti dal Sultano Maometto III: Sinán Capudán Pasciá, cioè “il genovese grande ammiraglio della flotta ottomana”.
Cağaloğlu Sinan Kapudan Paşa conosciuto anche per assonanze fonetiche come Sinan Bassà diventerà persino per breve tempo Gran Visir e Serraschiere del Sultano di Costantinopoli.
Teste fascië ‘nscià galéa
ë sciabbre se zeugan a lûn-a
a mæ a l’è restà duv’a a l’éa
pe nu remenalu ä furtûn-a
Teste fasciate sulla galea
le sciabole si giocano la luna
la mia è rimasta dov’era
per non stuzzicare la fortuna
intu mezu du mä
gh’è ‘n pesciu tundu
che quandu u vedde ë brûtte
u va ‘nsciù fundu
in mezzo al mare
c’è un pesce tondo
che quando vede le brutte
va sul fondo
intu mezu du mä
gh’è ‘n pesciu palla
che quandu u vedde ë belle
u vegne a galla
in mezzo al mare
c’è un pesce palla
che quando vede le belle
viene a galla
E au postu d’i anni ch’ean dedexenueve
se sun piggiaë ë gambe e a mæ brasse neuve
d’allua a cansún l’à cantà u tambûu
e u lou s’è gangiou in travaggiu dûu
E al posto degli anni che erano diciannove
si sono presi le gambe e le mie braccia
da allora la canzone l’ha cantata il tamburo
e il lavoro è diventato fatica
vuga t’è da vugâ prexuné
e spuncia spuncia u remu fin au pë
vuga t’è da vugâ turtaiéu
e tia tia u remmu fin a u cheu
voga devi vogare prigioniero
e spingi spingi il remo fino al piede
voga devi vogare imbuto mangione
e tira tira il remo fino al cuore
e questa a l’è a ma stöia
e t’ä veuggiu cuntâ
‘n po’ primma ch’à vegiàià
a me peste ‘ntu murtä
e questa è la mia storia
e te la voglio raccontare
un po’ prima che la vecchiaia
mi pesti nel mortaio
e questa a l’è a memöia
a memöia du Cigä
ma ‘nsci libbri de stöia
Sinán Capudán Pasciá
e questa è la memoria
la memoria del Cicala
ma sui libri di storia
Sinán Capudán Pasciá
E suttu u timun du gran cäru
c’u muru ‘nte ‘n broddu de fàru
‘na neutte ch’u freidu u te morde
u te giàscia u te spûa e u te remorde
e sotto il timone del gran carro
con la faccia in un brodo di farro
una notte che il freddo ti morde
ti mastica ti sputa e ti rimorde
e u Bey assettòu u pensa ä Mecca
e u vedde ë Urì ‘nsce ‘na secca
ghe giu u timùn a lebecciu
sarvàndughe a vitta e u sciabeccu
e il Bey seduto pensa alla Mecca
e vede le Uri su una secca
gli giro il timone a libeccio
salvandogli la vita e lo sciabecco
amü me bell’amü
a sfurtûn-a a l’è ‘n grifun
ch’u gia ‘ngiu ä testa du belinun
amü me bell’amü
amore mio bell’amore
la sfortuna è un avvoltoio
che gira intorno alla testa dell’imbecille
amore mio bell’amore
a sfurtûn-a a l’è ‘n belin
ch’ù xeua ‘ngiu au cû ciû vixín
e questa a l’è a ma stöia
e t’ä veuggiu cuntâ
la sfortuna è un cazzo
che vola intorno al sedere più vicino
e questa è la mia storia
e te la voglio raccontare
‘n po’ primma ch’à a vegiàià
a me peste ‘ntu murtä
e questa a l’è a memöia
a memöia du Cigä
ma ‘nsci libbri de stöia
Sinán Capudán Pasciá.
un po’ prima che la vecchiaia
mi pesti nel mortaio
e questa è la memoria
la memoria di Cicala
ma sui libri di storia
Sinán Capudán Pasciá
E digghe a chi me ciamma rénegôu
che a tûtte ë ricchesse a l’argentu e l’öu
Sinán gh’a lasciòu de luxî au sü
giastemmandu Mumä au postu du Segnü
E digli a chi mi chiama rinnegato
che a tutte le ricchezze all’argento e all’oro
Sinán ha concesso di luccicare al sole
bestemmiando Maometto al posto del Signore
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu tundu
che quandu u vedde ë brûtte u va ‘nsciù fundu
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu palla
che quandu u vedde ë belle u vegne a galla
in mezzo al mare c’e un pesce tondo
che quando vede le brutte va sul fondo
in mezzo al mare c’è un pesce palla
che quando vede le belle viene a galla.
A Istanbul il prestigio dei genovesi è testimoniato non solo dal quartiere Galata con relativa torre simbolo tuttora della città ma anche dalla contrada che ancora oggi, portandone il nome, celebra il nostro eroe:
Cağaloğlu (poiché oglu significa figlio, il figlio di Cigala).
Carlo GATTI
Rapallo, Agosto 2021