LA GRANDE SPERANZA

 

LA GRANDE SPERANZA

 


Il presepe di BANSKY a BETLEMME. Bansky, tra gli artisti contemporanei più famosi del mondo, ha realizzato un presepe nel suo piccolo albergo a Betlemme, in Palestina. La nuova scena della natività mostra Gesù bambino, Maria, Giuseppe, il bue e l’asinello davanti a un muro di cemento che ricorda quello fatto erigere dal governo di Israele per isolare la Cisgiordania. Nel muro c’é una breccia – che simboleggia la cometa – prodotta da un lancio di mortaio. Sul muro vi sono graffiti con le scritte “Love” e Pax”.

Erano passati più di duemila anni dalla nascita di Gesù a Betlemme. Da allora, ogni anno in tutto il mondo Gesù era tornato a nascere nelle chiese, durante la messa di mezzanotte portando il suo messaggio di pace e di speranza.

Da quel lontano dicembre di Betlemme qualcosa era cambiato nel mondo: era sparita la schiavitù, c’era più giustizia per le donne e i bambini, una vita più lunga per i vecchi, ma non dovunque, non abbastanza.

Quell’anno Gesù voleva tornare sulla Terra per portare il suo messaggio agli uomini che, anche tra l’incenso e le candele, sembravano ciechi e sordi.

Dialogò a lungo con il Padre e infine decise così:

- Padre quest’anno vorrei rinascere uomo vero. Non più nascosto nell’ostia  o raffigurato nelle statue. Voglio essere carne, ossa, sangue: uno, dieci, mille uomini e vedere se qualcosa cambierà.-

- Veramente li avevo creati liberi di scegliere il bene o il male. Così facendo Tu limiterai la libertà di quegli uomini nei quali Ti incarnerai. –

- Solo per un giorno, Padre. Il giorno di Natale. Forse qualcosa resterà nella mente e nel cuore di quegli uomini, anzi di quei bambini, perché sceglierò dei bambini per la mia missione, Padre. – implorò Gesù.

Il Padre, come sempre, accondiscese.

Arrivò il giorno di Natale di quell’anno lontano più di duemila anni dalla prima nascita di Gesù.

In Palestina Omar, un ragazzino di undici anni sta osservando il mucchietto di pietre che ha raccolto, le soppesa ad una ad una per capire se sono giuste per un buon lancio. Gli hanno insegnato che bisogna essere sempre pronti a lanciare pietre contro gli Israeliani, se si presentassero con i loro fucili e le loro odiate divise. In verità i grandi capi stanno trattando la pace, ma il capo del villaggio non si fida e vuole che i ragazzini si mantengano allenati.

Omar ha una pietra in mano e la forte tentazione di lanciarla contro il figlio di un colono, un ragazzo antipatico che si avvicina in bicicletta.

-       Omar, apri la mano e lascia cadere quella pietra. –

La voce è strana, comprensibile eppur debolissima. Omar si guarda intorno, ma non vede nessuno. La sua mano però ubbidisce al suggerimento e si apre, lasciando cadere la pietra. Intanto il figlio del colono si sta riavvicinando e, giunto alla sua altezza, sterza di colpo impolverandolo con la ruota posteriore. Omar in un altro momento l’avrebbe rincorso, afferrato e colpito. Questa volta si limita a scrollare via la polvere, scuotendo la testa. Shimon, il ragazzo israeliano, stupito dalla mancanza di reazione, abbandona la bicicletta e, fischiettando, con le mani in tasca, si dirige a zigzag verso di lui.

Omar lo guarda avvicinarsi e, per la prima volta, vede i suoi occhi, il colore dei capelli, una piccola cicatrice sullo zigomo e si stupisce nel constatare quanto gli assomigli. L’altro gli arriva davanti, gli mette una mano sulla spalla e chiede: - Giochiamo? –

Quel giorno, le pietre preparate per ferire servono per giocare a bocce.

Più a nord, nella fredda Sarajevo una donna sta per partorire un figlio, frutto della violenza e destinato all’abbandono. La ragazza non vede l’ora di sbarazzarsi di quell’essere, che l’ha invasa e fatta soffrire oltre ogni immaginazione. E Gesù diventa Irma, una bambina mussulmana, che la madre ha deciso di allontanare da sé senza uno sguardo. Ma Irma, appena nata spalanca due occhi incredibili: innocenti e saggi, come se conoscesse tutta la storia del bene e del male. Con la manina afferra l’indice della madre, che è costretta a voltarsi verso di lei. Allora, come per incanto la rabbia si trasforma in pianto: Il pianto lava via il dolore, l’umiliazione, l’odio e lascia solo la vita. La ragazza si sente mamma e stringe a sé quell’incredibile figlia dagli occhi saggi e innocenti.

E’ l’alba. Un’alba calda e umida alla periferia di Manaus, quando Conchita si sveglia. Conchita ha appena nove anni, ma già lavora. Un lavoraccio pesantissimo: il suo corpo viene usato per il piacere dei minatori della zona. Anche quel giorno il camioncino passerà e la caricherà insieme ad altre bambine e ragazzine di quella città piena di gente e di miseria. Oggi si sente diversa però, più forte e più ribelle, come scossa dal torpore nel quale abitualmente vive.

Mr. O’Connor è già nella strada e strombazza il clacson per sollecitarla. Conchita prima pensa di non andare, di nascondersi, poi pensa alla sua famiglia che ha bisogno di soldi per mangiare e alle sue compagne di sventura e decide di organizzare qualcosa con loro. Vede la situazione chiaramente e capisce che non può più sopportarla. Sale sul camion che si avventura nella foresta. Le ragazzine dietro nel cassone sono assonnate, tristi e intorpidite e si lasciano sballottare come sacchi senza vita. L’autista urla: Cantate qualcosa voi laggiù. Forza, un po’ di allegria. - Le bambine come automi iniziano una nenia, ma Conchita ordina: - Zitte, non abbiamo motivo di cantare.  - Vi piace la vita che facciamo? – La nenia si smorza e qualcuna risponde timidamente: - No. - Altre aggiungono: - Ci fa schifo. – Altre ancora: - Ma moriremo di fame se non lavoriamo. – Ascoltatemi – mormora Conchita Io non ci sto più. Dobbiamo trovare una soluzione. –

Appena il camion rallenta al guado, scappiamo via. – esclama una bimba.

- E poi? Ci perderemo nella foresta. – replica una più grandicella.

- Non c’è scampo – mormora tra le lacrime la più giovane.

- No, non è vero. Non so ancora come fare. – riprende Conchita - Intanto    preghiamo. Lo conoscete quell’inno alla Madonna che ci hanno insegnato alla Missione? Incominciamo a cantare. Forza! –

“Bella sei come il sole

bianca come la luna

e le stelle, le più belle

non son belle

al par di Te…”

Le voci, prima incerte e tremanti acquistano via via forza e sicurezza e le parole dimenticate ritornano in mente sull’onda della musica.

All’autista, per un attimo, sembrò di tornar bambino a Dublino, quando sua madre lo teneva per mano nella chiesa tra i fumi dell’incenso e la musica dell’organo. Quanto tempo era passato?  Più di una vita gli sembrava.  Era talmente cambiato un’altra persona.  Quelle stupidelle gli facevano venire il nodo alla gola, come si permettevano?  Le avrebbe messe a posto lui adesso.

O’ Connor frena, scende dal camion e di nuovo i ricordi lo subissano. E’ Natale oggi. Questo pensiero lo fulmina e gli impedisce di mettere in atto le sue intenzioni. Lentamente guarda le ragazzine ad una ad una, mentre cantano, e vede le loro facce, la loro età, la loro miseria.

Ragazze, torniamo indietro. Oggi ve la pago io la giornata e.. tra quindici giorni non     so. Arrangiatevi perché io non passerò più a prendervi per portarvi alla miniera. -

A Mogadiscio il camion della Croce Rossa distribuisce pane, zucchero, latte e frutta. La ressa e il vociare attorno sono assordanti e permettono solo ai più forti di avvicinarsi.

Alì è stanco morto, cammina non sa più da quanto. Ha abbandonato il villaggio, la sua capanna bruciata, i suoi genitori morti, ha camminato verso la speranza di sopravvivere. Ormai non ha neanche più fame, vorrebbe solo stendersi e dormire. Qualcuno vicino a lui lo fa, cade a terra senza più forze. E’ un bambino più piccolo di lui, più malconcio. Alì si fa forza, si trascina verso quelle donne con la cuffia in testa e il sorriso sul viso. Allunga una mano, riceve pane frutta, latte. Di colpo gli è tornata la fame, vorrebbe mangiare tutto subito, non fare neppure un passo, ma non può. Una forza sconosciuta lo fa tornare indietro. Raggiunge il bambino a terra, a fatica gli bagna le labbra con il latte, poi sempre di più, finché quello apre gli occhi e beve. Ora anche lui può mangiare e bere. Anche Alì sorride, come le donne con la cuffia, chissà perché, si chiede.

E Gesù quell’anno a Natale fu Omar, fu Irma, fu Conchita, fu Alì.. fu Salvatore, Enrico, Annamaria e… Chissà forse Gesù sei stato anche tu. Non te ne dimenticare.

di  DA BOTTINI

 

Rapallo, 23 Dicembre 2019



CHIATTA ARAGOSTIERA IN CEMENTO - GENOVA


UNA CURIOSITA’

LA CHIATTA ARAGOSTIERA


Costruzione navale in cemento nel porto di Genova

Come unica struttura del genere rimasta, è stata definita d'interesse storico-sociale

 

Foto della DARSENA scattata dal Galata - Museo  del Mare. Nella parte bassa si nota la chiatta ARAGOSTIERA tra due imbarcazioni.

 

Ecco come si presenta oggi la chiatta aragostiera

Le strutture navali in cemento venivano realizzate con una tecnica di costruzione che si sviluppò per la mancata reperibilità di acciaio e legno, assorbito dal primo conflitto bellico. Intorno agli anni ’20 nacquero cantieri che utilizzavano questa tecnica per la costruzione di rimorchiatori, imbarcazioni da lavoro e successivamente anche barche da diporto sia a vela che a motore. Il maggior tonnellaggio di queste particolari costruzioni si sviluppò soprattutto in America per la realizzazione di navi per il trasporto e di assistenza alla Marina: già nel 1919, infatti, venne costruita una petroliera di 130 metri.

Nel secondo conflitto mondiale le costruzioni in cemento ebbero poi una nuova impennata, sempre a causa della carenza di materiali. In Italia il Cantiere Navale di Muggia si è specializzato in questo tipo di imbarcazioni, utilizzando un particolare cemento additivato con armatura in acciaio molto resistente. Altri cantieri impiegarono il cemento per rispondere alle esigenze di trasporto, costruendo pontoni e chiatte. Utilizzate per un breve periodo, queste strutture sono ormai scomparse e una sola, presumibilmente realizzata a Lavagna negli anni ’40, è arrivata ai giorni nostri.

Interno

Si tratta di una particolare “chiatta aragostiera” di 21 metri per 5.50, particolare perché priva di motorizzazione. A prua e a poppa aveva una riserva di spinta, mentre nella parte centrale si trovavano sei celle di 2 metri x 2 allagate con fori passanti a scafo per il riciclo dell’acqua di mare: in queste celle venivano messe le aragoste, che arrivavano dalla Sardegna e da altre località. La chiatta, che veniva solitamente ormeggiata nelle vicinanze dell’ingresso del porto di Genova, apparteneva alla ditta “Giolfo e Calcagno“, antica società di commercio del pesce degli anni ’50/’60.

Ufficio

Tuttavia, l’evoluzione dei trasporti aerei decretò la fine del suo utilizzo come aragostiera, per essere sfruttata a lungo come pontone dove posizionare le barche dei barcaioli quando dovevano fare la manutenzione. A fine degli anni ’90 poi l’aragostiera venne totalmente trasformata, chiudendo i fori di circolazione dell’acqua e asciugando le celle (che divennero spogliatoi e docce). A questi cambiamenti si aggiunse la creazione di aule, servizi e uffici: l’aragostiera diventò così un centro diving e una scuola nautica.

Nei Paesi nordici le chiatte trasformate in abitazioni o in strutture a uso commerciale sono all’ordine del giorno, mentre a Genova questa conversione destò molto interesse. L’investimento attuato su questo progetto venne ripianato con l’utilizzo e grazie ai costi di manutenzione contenuti, in quanto l’opera viva non necessita di particolari cure. Il cemento infatti non arrugginisce e la crescita della vegetazione sullo scafo ha un proprio ciclo di vita, nascendo e morendo con il cambio della temperatura del mare. Inoltre, i pesci come saraghi e orate, presenti anche nelle acque portuali, in estate banchettano con la vegetazione che cresce quando l’acqua è più calda.

Come unica costruzione navale in cemento rimasta, la chiatta aragostiera è stata definita d’interesse storico-sociale dall’Assoc. inGE, che rivaluta le antiche strutture industriali portuali e che ha inserito la struttura nei percorsi delle visite guidate svolte dall’associazione quando accompagna i turisti nel porto di Genova. Attualmente la chiatta, ormeggiata nello specchio acqueo della darsena di fronte al Museo Galata, viene utilizzata da associazioni senza scopo di lucro per l’assistenza peritale a marittimi e da cittadini che ne stanno rivalutando anche l’aspetto estetico.

Fonte: LIGURIA NAUTICA

A cura di Carlo GATTI

 

Rapallo, 22 Ottobre 2019

 


INDIVIDUATO IL RELITTO DEL VASCELLO SVEDESE MARS

LA NAVE DA GUERRA MARS (MARTE)

MAKALÖS (l’impareggiabile)


VIENE INDIVIDUATA DOPO 449 ANNI

ALCUNE CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

I Paesi Scandinavi, come li conosciamo oggi, sono civilissimi, politicamente “neutrali”, pacifici e molto invidiati per la loro organizzazione sociale che va dal wellfare all’accoglienza ecc…

Eppure queste monarchie che tuttora sopravvivono, sono state rivali tra loro, espansioniste, molto bellicose e spesso in conflitto armato tra loro.

Oggi si parla sempre più spesso di “sovranismi” in riferimento alle due Guerre mondiali che ci hanno visto coinvolti in quei massacri, ma gli Stati Scandinavi hanno saputo voltar pagina al momento opportuno e sono stati capaci di abbracciare e difendere quella posizione di neutralità, su cui torneremo tra breve, che ha consentito loro di limitare i danni della Seconda guerra mondiale, pur mantenendo tutte le caratteristiche antropologiche legate alle loro tradizioni storiche a cui sono legatissimi.

Qualche “ciccatrice” del passato é ancora presente, per esempio nella Skandia (la parte meridionale della Svezia), che un tempo apparteneva alla Danimarca, stranamente, si parla lo SKÅNSKA, una lingua più danese che svedese. Anche l’isola di Bornholm é molto più vicina alla Svezia che alla madrepatria danese.

In altri articoli del sito di Mare Nostrum ho scritto la storia di Bornholm ed anche dell’isola di Åland che si trova tra Svezia e Finlandia. Ma la cosa più curiosa é che nonostante le rispettive lingue appartengano allo stesso gruppo linguistico Nord Germanico, tra loro preferiscono parlare inglese… e questo la dice lunga sullo spirito di conservazione delle rispettive radici.

Per quanto riguarda la Finlandia il discorso é ancora più complicato, nel senso che i finlandesi appartengono ad una razza completamente diversa da quella scandinava e la loro lingua (incomprensibile) appartiene al gruppo uralo-altaico (ugro-finnico).

La Svezia e la Danimarca sono tra i più antichi e più tipici casi di stato-nazione e di conseguenza vanno studiati, alla pari di Francia, Gran Bretagna e Spagna, più come varianti dello stato-nazione nato nell’Europa moderna che non come casi di “piccoli stati”. I due stati, in competizione tra loro, hanno esercitato una forma di supremazia sulla gran parte del Nord Europa, dal tardo Medioevo in avanti.

Nel tempo furono gradualmente rimpiazzati dall’egemonia russa, prussiana e inglese, e ridotti allo status di piccoli poteri statuali.
In ragione di cambiamenti simultanei nella grande politica durante il XVIII e il XIX secolo, i maggiori conflitti europei si dislocarono lontano dal Nord Europa e ciò produsse una “neutralizzazione” virtuale dei paesi scandinavi a nord del Mar Baltico. Questa situazione di relativa neutralità fa sentire la sua presenza nella memoria collettiva dei danesi e nonostante anni di appartenenza alla Nato e all’Unione Europea l’ideologia neutralista mantiene una forte presa sulla popolazione. Un effetto secondario della propria esperienza di periferia privilegiata del Nord Europa fu la crescita di una identità nordica transnazionale al di sopra delle identificazioni nazionali per cui si sentono solidali nella comune appartenenza alle Nordinska Länder (Terre Nordiche).

LO SCONTRO NAVALE TRA DANIMARCA E SVEZIA

Non sempre nei libri di storia dell’Europa meridionale si racconta di quella guerra (detta dei Sette Anni o delle Tre Corone) che nel XVI secolo fu combattuta nelle fredde acque del nord Europa, dalla Svezia di Erik XIV contro la Danimarca di Federico II e la sua alleata città di Lubecca.

Stemma dell’Unione di Kalmar

Una guerra forse minore a fronte di quelle combattute tra le grandi nazioni europee meridionali ma che forse riserva ancora molte sorprese per gli storici e gli archeologi. Tutto ebbe inizio nel 1523 quando la Svezia uscì dall’Unione di Kalmar, diventando un regno indipendente con il re Gustavo I Wasa. Questa azione suscitò la disapprovazione del re danese Cristiano III che per ripicca incluse nel proprio stemma le Tre Corone (da cui il nome della guerra), che rappresentava i tre regni nordici dell’Unione di Kalmar e che, fino a quel momento, era presente solo nello stemma svedese. Ciò ovviamente non piacque alla Svezia che si senti tradita dopo che avevano avuto interessi comuni quando nella prima guerra del nord, combattuta per arginare l’espansionismo russo sulle coste del Baltico.


Sulla carta é segnata la posizione del relitto della MARS

 


Il XVI secolo fu molto interessante sia dal punto di vista dell’architettura navale sia nello sviluppo degli armamenti, quando videro la nascita dei nuovi cannoni realizzati usando ferro e bronzo. Questo vascello apparteneva alla prima generazione di grandi navi da guerra a tre alberi, armato con oltre cento canne da fuoco. Per poterle approntare fu necessario reperire il bronzo, metallo assai raro sul mercato. L’impiego del Mars in battaglia differisce da quello delle navi precedenti per un’importante novità tattica. Lo scontro di Öland, che gli fu fatale, fu storicamente la prima battaglia navale in cui le navi usarono il fuoco diretto dei cannoni per offendere l’avversario, piuttosto che per perseguire l’abbordaggio classico del nemico. In realtà nel primo giorno di battaglia gli Svedesi comandanti dall’ammiraglio Bagge avevano sbaragliato i Danesi, grazie ad una potenza di fuoco non comparabile, ma il secondo giorno, i Danesi della flotta di Lubecca cambiarono tattica e decisero di concentrarsi sulla grande nave da battaglia, lanciando palle di fuoco incendiarie sul grande vascello.

L’idea era di creare scompiglio al fine di riuscire ad abbordarla mentre era in fiamme. L’incendio si propagò velocemente, alimentato dalle esplosioni dei depositi di polvere da sparo e degli stessi cannoni. Si ritiene che furono proprio le loro esplosioni a causarne l’affondamento. Uno squarcio si apri sulla prua trascinando oltre mille uomini negli abissi. Quel 30 maggio 1564, il Mars scomparve ed iniziò la storia della sua maledizione.

 

IL RITROVAMENTO DEL RELITTO


Il relitto è stato scoperto da un team guidato da Richard Lundgren, uno dei proprietari di Ocean Discovery, una società di subacquei professionisti che assiste il lavoro degli archeologi marittimi e a Johan Rönnby, professore di archeologia marittima all'Università di Södertörn in Svezia, sono state affidate le ricerche per ricostruire la storia della nave.

 

 

La Mars con i suoi 50 metri di lunghezza era uno dei vascelli più grandi della flotta militare svedese, dotata di 107 cannoni e con quasi 1.000 persone di equipaggio, era una delle navi da guerra più famosi della sua epoca. Era il 1564 quando il vascello s’inabissò nel Mar Baltico, nel corso della Guerra dei Sette Anni, probabilmente a causa di una esplosione che la distrusse facendola colare a picco.

 

 





Reperti trovati all’interno del relitto

 

Nel 2011, dopo anni di ininterrotte ricerche, il relitto è stato individuato a 75 metri di profondità al largo dell’isola di Öland, la nave era inclinata sul lato destro sul fondale dove per quasi 450 si è conservata incredibilmente bene, grazie soprattutto a condizioni ambientali favorevoli, come la scarsità di sedimenti e la lentezza delle correnti.

Il relitto è stato scoperto da un team guidato da Richard Lundgren, uno dei proprietari di Ocean Discovery, una società di subacquei professionisti che assiste il lavoro degli archeologi marittimi e a Johan Rönnby, professore di archeologia marittima all'Università di Södertörn in Svezia, sono state affidate le ricerche per ricostruire la storia della nave.

Il team guidato da Rönnby sta ispezionando il relitto millimetro per millimetro e, grazie ai fondi della National Geographic Foundation, gli archeologi subacquei stanno scansionando il relitto per realizzare una foto mosaico e riproduzioni tridimensionali che consentiranno di condividere la Mars con studiosi e appassionati di tutto il mondo. Riportare un relitto in superficie, infatti, è un’operazione finanziariamente onerosa e pericolosa per la sopravvivenza dei resti archeologici, ma oggi grazie ai laser scanner utilizzati dagli studiosi il sito potrà esse esplorato e studiato senza ulteriori costi e rischi.

La tradizione, però, narra una storia leggermente diversa. Rönnby spiega che i sovrani svedesi, all'epoca, erano impegnati a consolidare la propria posizione. "Ma la chiesa cattolica, potente com'era, costituiva un grosso ostacolo". Proprio nel tentativo di sminuire il potere della Chiesa, re Erik XIV - colui che commissionò la MARS – diede ordine di confiscare le campane delle chiese, le fusero e utilizzarono il metallo per forgiare i cannoni delle navi da guerra. A bordo c'erano oltre cento cannoni di svariate dimensioni. Secondo il mito, proprio la "nuova vita" forzata di quelle che erano soltanto campane, portò la nave verso la rovina.

La leggenda narra che dopo l’affondamento uno spettro si alzò dalle profondità degli abissi per proteggere il relitto in modo che non fosse mai più scoperto.

Lundgren e i suoi colleghi recuperarono 50 cannoni di bronzo dell'epoca, ma il fortunato sommozzatore ci tiene a precisare: «Non abbiamo cercato ricchezze, anche perché, secondo una severissima legge svedese, ogni tesoro ritrovato nelle acque territoriali appartiene allo Stato, che a sua volta può rilasciare una "generosa mancia" a chi l'ha trovato. Purtroppo c'è troppa gente senza scrupoli che ha selvaggiamente violato i relitti, asportandone reperti preziosi. E così non può continuare».

Ma è impossibile controllare e tenere d'occhio tutte le imbarcazioni che incrociano nel Golfo di Botnia a caccia di tesori. Di grandi galeoni ricchi di tesori che giacciono sul fondo ne sono stati ritrovati otto, mentre di due non si sono trovate ancora le tracce. Inoltre, nel corso di varie guerre, comprese le ultime due mondiali, sono numerosissime le unità affondate con siluri o cannoneggiamenti. Lo stato di conservazione dei relitti, anche quelli più antichi, è ottimo, anche grazie alla mancanza, nel Golfo di Botnia, del mollusco «Tiridinidae», presente nei mari caldi e temperati, che mangia il legno delle navi. Secondo l'archeologo marittimo Johan Rònnby, sarebbe quindi possibile ritrovare anche relitti risalenti all'epoca vichinga o alla preistoria, perfettamente conservati e forse ricchi di reperti preziosi per gli studiosi di antichità. Sempre che cercatori di tesori senza scrupoli non arrivino prima a saccheggiarli.

Carlo GATTI

Rapallo, giovedì 6 maggio 2019


"ACQUA ALLE CORDE!" ... Domenica delle Palme

ACQUA ALLE CORDE !!!

<aiga æ corde!> (in sanremasco)

<Ægua a-e corde> (in genovese)

 

DOMENICA DELLE PALME


Ancora una volta l’esperienza acquisita in mare è tornata utile, anzi salvifica, anche in terra, come nel caso dell’Obelisco di Piazza San Pietro.

Siamo nel 1586 a Roma, la città che ne conserva più di tutte al mondo, alcuni egizi veri e altri fatti dai romani.

Andiamo con ordine. L’obelisco di cui parliamo, vecchio di più di 3200 anni, era nel 37 d.C. ancora posizionato ad Heliopolis, importante città egiziana, nota per la sua venerazione a Ra, il Dio Sole. lo volle a Roma, utilizzando una nave appositamente attrezzata e carica di lenticchie ove adagiarvelo, ce lo ha scritto Plinio, l’Imperatore Caligola che lo posizionò ad una estremità del Circo di Nerone, area su cui, dopo 1500 anni circa, verrà edificata la basilica di San Pietro. A seguito della posizione della nuova Chiesa l’obelisco si venne a trovare sul retro della stessa: per dargli dignità l’energico Papa Sisto V, francescano e molto stimato da San Filippo Neri e Sant’Ignazio di Lojola, decise di traslarlo sul davanti, dove ancora oggi lo ammiriamo ogni qual volta imbocchiamo Via della Conciliazione.

A dire il vero a quella dislocazione ci aveva già pensato 150 anni prima Papa Nicolò V, visto che sarebbe bastato spostarlo di soli 250 metri, ma le difficoltà tecniche, insormontabili all’epoca, non consentirono di realizzare il progetto. L’obelisco infatti è alto 25 metri e pesa 350 tonnellate; originariamente terminava con un globo dove la credenza popolare, poi smentita, asseriva vi fossero conservate le ceneri di Cesare. Il Papa, una volta preso atto che il globo era vuoto, lo fece togliere sostituendolo con la croce che ancor oggi si può ammirare e fece incidere in latino sul basamento questa dedicatoria <Sisto V Pontefice Massimo fece porre con immenso sforzo l’obelisco vaticano di fronte all’ingresso. Esso era stato originariamente dedicato a divinità pagane attraverso cerimonie profane. Anno 1587 secondo anno del pontificato>.

Disegni tecnici dell'architetto Ticinese Domenico Fontana

Per attuare il suo progetto, Papa Sisto incaricò dello spostamento l’Architetto Ticinese Domenico Fontana. Si costruirono argani, impalcature e carrucole impiegando 900 uomini e 140 cavalli. Tutti questi dati si ricavano dagli Archivi Segreti Vaticani che, minuziosamente, hanno appuntato tutto ciò che veniva speso per qualunque opera afferente il Vaticano. Si pensi che hanno anche la documentazione di quanti alberi furono comprati per approvvigionare il cantiere durante la costruzione della Basilica di San Pietro: interi boschi nel Lazio e nella bassa Toscana o quanti soldi costò far affrescare da Michelangelo la Capella Sistina. Credo sia l’archivio più dettagliato e puntuale del mondo, ante-computer.

Il Cantiere

Finalmente il 10 Settembre 1586, terminati i lavori di traslazione dell’obelisco in Piazza, iniziarono i lavori per erigerlo. Data la pericolosità e l’impegno per compiere quel difficile lavoro, fu diramato l’ordine di osservare il più assoluto silenzio a che gli ordini impartiti giungessero forti e chiari a chi doveva operare. Per chi avesse trasgredito c’era la pena di morte seduta stante: il boia e la forca erano già pronti.

Essendo già stata allestita una gigantesca impalcatura attorno all’obelisco a formare una specie di strada pensile su cui fare scorrere grazie ad uno scivolo il monolite, e realizzato pure il basamento su cui metterlo una volta raddrizzato grazie ad una serie di carrucole e rinvii. Per preparare il tutto ci lavorarono da Aprile a Settembre tutti quegli uomini, i cavalli, 44 argani e una infinità di paranchi appositamente costruiti, coordinati dal Fontana che si era fatto costruire un grande trespolo dall’alto del quale poter vedere i lavori, impartendo ordini che per giungere chiari a tutti, venivano tramutati in squilli di tromba, o rulli di tamburi o segnalazioni con bandierine. Da qui si capisce il perché dell’obbligo all’assoluto silenzio. Siccome i curiosi potevano solo assistere ma da lontano, si volle far capire che il silenzio imposto era assoluto e per meglio convincere gli eventuali riottosi, come abbiamo detto, si allestì sulla Piazza la macchina della forca: a buon intenditor poche parole.

I lavori finali furono suddivisi, diremmo oggi, in 52 “steps”, alla fine dei quali lo si raddrizzò. Una volta raddrizzato bisognava alzarlo e posizionarlo sul predisposto piedistallo. Lì fu il momento più delicato; le corde a causa dell’attrito cominciavano a fumare per poi certamente rompersi, pericolo non avvertito da chi le doveva controllare, impegnato come era a guardare dove e come posizionarlo. Quando se ne accorsero l’allarme arrivò all’Architetto; questi, uomo di terra, si paralizzò non sapendo che fare.


Fu allora che dalla folla ammassata tutto attorno dove poi sorgerà il colonnato, si levò un grido con voce abituata a superare anche l’ululare del vento, che risuonò chiaro <aiga æ corde!>. Come capita a chi sta per annegare che istintivamente si aggrappa al primo oggetto che gli galleggia vicino senza controllare cosa sia ne attendere oltre, così avvenne in quella occasione. Prima che arrivassero gli ordini per via gerarchica, gli addetti ai lavori eseguirono istintivamente quel perentorio ordine risuonato nella Piazza, bagnando subito le corde che, così come capitava a bordo, si raffreddarono e si contrassero ritendendosi, evitando l’inevitabile dramma. Era il frutto dell’esperienza maturata in mare quando si utilizzavano gli stessi canapi.


Il Papa, che seguiva i lavori da un balcone del Palazzo Apostolico, aveva capito che quel trasgredire la norma aveva evitato una tragedia e diede ordine che l’uomo che era stato appena arrestato, gli fosse condotto davanti. Arrivato, quello si qualificò come Comandante marittimo Benedetto Bresca di San Remo.

Invece di condannarlo, come la solita ottusa burocrazia avrebbe fatto per aver fiatato ignorando il divieto, gli concesse larghi privilegi assegnandogli una lauta pensione ed il diritto di issare sulla sua nave il vessillo Pontificio. In compenso il Bresca, sollecitato per ottenere una ricompensa, chiese l’onore per se e i suoi discendenti, di fornire alla Basilica di San Pietro i rami d’ulivo e tralci di palma, i <Palmureli>, per la Settimana Santa, a imperituro ricordo di quanto fece lui, sanremese. Questo impegno viene onorato ancor oggi dai suoi discendenti coadiuvati dal Consorzio “il Cammino” di San Remo, dal Centro Studi e Ricerche per le Palme, dalla Regione Liguria che è subentrata alla ex Provincia di Imperia e dai comuni di Bordighera <Città delle palme> e da San Remo <Città dei fiori>, il tutto sotto gli auspici della Fondazione Bambino Gesù.

Invece la fornitura dei rami di ulivo avviene a rotazione fra le Regioni dove lo si coltiva (quest’anno tocca alla Sardegna) mentre i tanti elaborati palmureli occorrenti, alti un metro e mezzo, vengono distribuiti, oltre che al Papa, anche ai Cardinali e ai Vescovi partecipanti alla cerimonia. Per garantirne la fornitura si è coinvolta anche Bordighera dove esiste il palmeto più settentrionale d’Europa.

Anticamente i palmureli venivano recapitati via mare; quando l’imbarcazione che le trasportava arrivava alla foce del Tevere, godeva del privilegio di avere la precedenza su tutti i natanti e, per farsi riconoscere, ne innalzava uno sull’albero di maestra.

Per la storia, all’Architetto Fontana furono commissionati altri quattro recuperi di obelischi in Roma

Ed ora permetteteci un po’ di campanilismo: se il Comandante fosse stato genovese per impartire l’ordini di dare <acqua alle corde> avrebbe urlato <Ægua a-e corde> e non <Aiga æ Corde>; ma lui era sanremasco !

Renzo BAGNASCO

Foto  e consulenza di Carlo Gatti

Rapallo, 31 Marzo 2017

 

 

 


AMOCO CADIZ - Disastro Ambientale

Petroliera

AMOCO CADIZ

233.564 G.T.

 

QUARTO DISASTRO DEL GIGANTISMO NAVALE

 

16 MARZO 1978

Il relitto della AMOCO CADIZ a Portsall (Finistèrre) Francia

 

Armatore :.... Amoco Transport Company

  1. Lunghezza:334 Mt Larghezza:51 Mt - Puntale:26,18 Mt -Portata Lorda:230.000 T. - Impostata:28/06/1973

    Entrata in linea: 11/05/1974

     

Dopo aver caricato greggio in Golfo Persico, navigava verso la costa da Limebay a Rotterdam, percorso abituale negli ultimi anni.

 

NOTA: Passaggio di Fromveur


Il Passaggio di Fromveur (« Passage du Fromveur » in francese) è situato tra l'arcipelago di Molène e l'isola di Ouessant, nel mer d'Iroise (Finistère, Francia). Questo tratto di mare è percorso da correnti molto violente: fino a 8 o 9 nodi localmente, e circa 7 nodi in mare aperto.

 

La navigazione è molto pericolosa anche perché il vento che vi spira è contrario rispetto alla direzione della corrente, per questo il mare risulta essere sempre molto agitato.

 

Per proteggere e aiutare i naviganti, ci sono due fari, tra i più famosi della Bretagna: la Jument e Kéreon.

 

Prima della creazione della Torre Radar di Ouessant nel 1982, questo luogo è stato teatro di una serie di tragici naufragi, tra cui le petroliere Olympic Bravery (1976) e Amoco Cadiz (1978) che causarono disastri naturali gravissimi.
 Infatti questo tratto di mare è frequentato annualmente da circa 50.000 navi.

Cronaca del disastro

Alle ore 09,45 del 16 Marzo 1978, il timone del “colosso” và fuori uso, tutto l'equipaggio della nave viene messo al corrente della situazione, la navigazione prosegue e il comandante Bardari comunica, via radio, all'armatore il problema. C'è uno scambio di pareri, ma il Comandante rifiuta ogni offerta d'aiuto. Purtroppo la nave senza la possibilità di governare finisce incagliata.

 

Le condizioni del tempo peggiorano, due rimorchiatori Olandesi navigano a tutta velocità verso la Amoco Cadiz. La nave continua ad avvicinarsi pericolosamente verso la costa.

 

Verso le ore 22,00 i rimorchiatori riescono ad agganciare la Amoco Cadiz, che si trova a sole tre miglia della costa di Portsall. Il comandante della Amoco Cadiz lancia un disperato SOS, il vento è tanto forte che rende difficilissimo il salvataggio dei 44 uomini dell'equipaggio, la nave ferita a morte, comincia a perdere greggio e le 230.000 tonnellate di prodotto finiscono in mare. Durante quella forte tempesta la nave si spezza in due e affonda.

 

La sistematica ricerca di trasporti a bassissimo costo spiega la lunga litania di disastri petroliferi, soprattutto nell'Europa occidentale: Torrey-Canyon nel 1967, Olympic-Bravery, Urquiola e Boehlen nel 1976, Amoco-Cadiz nel 1978, Gino nel 1979, Tanio nel 1980, Haven nel 1991, Aegean-Sea nel 1992, Braer nel 1993 e Sea-Empress nel 1996 (anno in cui sono naufragate, in tutto il mondo, 70 petroliere). Ultimo in ordine cronologico, quello della petroliera Erika che, partita da Dunkerque alla volta di un porto italiano, si è spezzata ed è colata a picco in seguito a una tempesta al largo di Penmarch, il 12 dicembre scorso.

 

La "AMOCO TANKER COMPANY", ordinò presso gli stessi cantieri una serie di quattro navi che hanno avuto i seguenti numeri di costruzione:

- C 93 AMOCO MILFORD HAVEN (affondata in rada a Genoa)

 

- C 94 AMOCO SINGAPORE

 

- C 95 AMOCO CADIZ (affondata a Portsall)

 

- C 96 AMOCO EUROPA

Una delle caratteristiche salienti di questa classe è la prua filante con il bulbo molto pronunciato, questo particolare rende subito riconoscibile la nave di questa classe, lunga 334 metri, larga 51, l'altezza della linea di costruzione è di 26,18 metri, la sovrastruttura è alta sette ponti.

 

Il viaggio della nave iniziò nel Golfo Persico con destinazione il porto di Le Havre (Francia) ed il disastro causato è considerato il 5º nella storia delle maree nere. Il carico era di 230.000 tonnellate di petrolio greggio iraniano trasportato, al quale si aggiunsero 3.000 tonnellate di gasolio, che si riversarono insieme lungo 400 km di coste bretoni della Francia.

 

La mattina del 16 marzo del 1978, verso le ore 09.00, le condizioni meteorologiche erano davvero proibitive: mare in burrasca, temporali e forti venti causarono, per le fortissime sollecitazioni, la rottura dell'impianto idraulico del timone. L'equipaggio della nave non ebbe altra scelta che richiedere soccorsi e assistenza alle autorità francesi. Nonostante l'arrivo di un potente rimorchiatore d’altomare, ci fu un ritardo operativo dovuto all’attesa dell’autorizzazione da parte della società Amoco. “Ritardo burocratico” che si protrasse a causa della TRATTATIVA in corso tra le parti sulla formula NO CURE NO PAY (Pago se mi salvi). Il comandante fu costretto ad attendere l'ordine dei dirigenti, ma a causa dei fortissimi venti, la superpetroliera raggiunse in poco tempo gli scogli affioranti in prossimità della costa e qui s'incagliò, si spezzò in due riversando il suo carico inquinante.

 

La mobilitazione

 

 

 

Centinaia di volontari si mossero immediatamente organizzati da Associazioni Ecologiste si rimboccarono le maniche per scongiurare una contaminazione dei litorali. In seguito, le Autorità locali dichiararono che non bastarono sei mesi per pompare e disperdere il petrolio che aveva ricoperto le spiagge colpite. Ben 90 comuni ebbero le spiagge invase dalla marea nera.

 

 

 

Le reazioni

 

 

 

La catastrofe nel paese transalpino suscitò notevole sconcerto e apprensione. Poco dopo l'accaduto, alcune Organizzazioni Ecologiste diramarono un appello per boicottare la SHELL, la società destinataria del carico, anche perché la stessa multinazionale non si era affatto impegnata nelle operazioni di bonifica delle aree contaminate.

 

Le conseguenze all'ambiente e il danno causato

 

 

 

Questo incidente fu il decimo per gravità nella storia dei naufragi di petroliere. I decessi non sono avvenuti immediatamente, bensì la più alta mortalità di animali avvenne nell'arco di due mesi dalla catastrofe. Già dopo un paio di settimane, milioni di molluschi e echinoidee (ricci di mare) morirono, a cui si aggiunsero circa 9.000 tonnellate di ostriche. Per molti mesi i pescatori raccolsero animali con ulcere e tumori alla pelle, e quelli che a "prima vista" apparivano sani, avevano uno sgradevole sapore di petrolio.

 

 

 

Nel 1988 il danno al turismo ed ai pescatori fu stimato in circa 250 milioni di dollari. Il Governo francese presentò un "conto" di 2 miliardi di dollari da destinare ai richiedenti: Stato, Comuni, singoli privati, associazioni professionali e ambientali.

 

 

A seguito di questo incidente, nel 1982 sull'isola di Ouessant fu costruita una Torre Radar che assicura da allora il controllo e l’assistenza ai naviganti che transitano in questo trafficatissimo tratto di mare.

 

 

 

Anziché adoperarsi per impedire che il greggio raggiungesse le coste della Cornovaglia, emerse in modo evidente l’inesistenza di coordinamento tra gli Stati confinanti per la salvaguardia del mare e delle coste, al contrario fu chiaro fin dall’inizio il tentativo estremo di salvare la petroliera con il suo carico. Solo quando fu chiaro che la Torrey Canyon era definitivamente perduta fu presa la decisione di far levare in volo otto aerei Buccaneers della RAF per bombardare la nave provocandone l’affondamento per evitare danni maggiori. L’uso massiccio ed indiscriminato di sostanze chimiche, molte delle quali tossiche, per il trattamento e la bonifica delle coste invase dal petrolio, finì per causare danni peggiori e duraturi all’ambiente. Il naufragio della Torrey Canyon fu un’Apocalisse nel vero senso del termine, cioè una rivelazione: la fiducia pressoché illimitata del pubblico nella possibilità di poter trasportare senza alcun rischio sostanze altamente inquinanti come il petrolio, colò a picco con essa.

 

 

 

Disastri navali e inquinamento da idrocarburi: il bilancio di un quarantennio.

 

Anche se in realtà dal 1959 i disastri navali con conseguente sversamento di idrocarburi erano già stati almeno una quarantina, fu solo nel 1967, cioè all’indomani dell’incidente della Torrey Canyon che l’opinione pubblica mondiale ebbe la reale percezione dei pericoli ambientali legati al trasporto del greggio via mare e che sul piano normativo e della gestione delle emergenze si prese coscienza della necessità di intervenire in modo più incisivo di quanto non si fosse fatto fino a quel momento. Tralasciando la ricostruzione cronachistica dei singoli incidenti e tentando una sia pure sommaria analisi dell’elenco di questi incidenti nell’arco dei decenni successivi al 1967 in base alla quantità di greggio rilasciato in mare e nell’ambiente circostante (Tabella 1), è possibile avanzare alcune interessanti riflessioni.

 

Tabella 1. Elenco dei maggiori disastri petroliferi (in milioni di galloni) (in corsivo gli incidenti provocati da petroliere)

 

1. Guerra del Golfo (1991)

240.0

2. Piattaforma Deepwater Horizon, Golfo del Messico (2010)

205.8

3. Piattaforma Ixtoc, Golfo del Messico (1979)

140.

 

4. Abt Summer, largo della Angola (1991)

80.8

 

5. Nowruz, Arabia Saudita (1980)

80.0

 

6. Fergana, Uzbekistan (1992)

80.0

 

7. Castillo de Bellver, largo del Sudafrica (1983)

78.5

 

8. Amoco Cadiz, Nord Ovest al largo della Francia (1978)

68.7

 

9. Atlantic EmpressAegean Captain, largo di Trinidad e Tobago (1979)

48.8

 

10. MT Haven, largo di Genova (1991)

44.4

 

11. Pozzo petrolifero, 480 miglia a sud-est di Tripoli (1980)

42.0

 

12. Odyssey, largo della Nuova Scozia (1988)

40.7

 

13. Pozzo di Lakeview, California (1910)

37.8

 

14. Irene’s Serenade, Grecia (1980)

36.6

 

15. Torrey Canyon, largo delle isole Scilly (1967)

35.0

 

16. Sea Star, largo dell’Oman (1972)

34.0

 

17. Shuaybat, Kuwait (1981)

31.2

 

18. Urquiola, largo della costa Nord della Spagna (1976)

29.0

 

19. Hawaian Patriot, Nord del Pacifico (1977)

29.0

 

Premesso che quantificare con precisione la effettiva quantità di sostanze nocive, in questo caso idrocarburi, riversate nell’ambiente per cause accidentali è molto difficile e che le stime tendono a divergere, spesso anche notevolmente, a seconda delle fonti, si può infatti affermare che, a dispetto della loro fama le petroliere, pur restando una delle maggiori cause di sversamenti di petrolio (considerati convenzionalmente quei disastri che provocano il rilascio di più di 700 tonnellate di idrocarburi nell’ambiente), non solo non sono responsabili di almeno delle tre più gravi catastrofi della storia, ma che molti degli incidenti più gravi presenti nell’elenco sono prevalentemente concentrati tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta (dalla Torrey Canyon alla Amoco Cadiz e alla Atlantic Empress, fino alla Castillo de Bellver) fino ai primi anni Novanta (la Haven e soprattutto la ABT Summer entrambe affondate nel 1991, vero e proprio annus horribilis nella storia di questo tipo di disastri ambientali).

 

 

Carlo GATTI

8 Aprile 2015


TAGAN - IL COLTELLO GENOVESE

TAGAN

IL COLTELLO GENOVESE

Il coltello é, probabilmente, lo strumento più antico nella storia dell’uomo.

Il coltello (dal latino cultellus, diminutivo di culter (cioè coltello dell’aratro). La lama é stata utilizzata come utensile ed arma dall'età della pietra, all'alba dell'umanità. Gli antropologi ritengono che il coltello sia uno dei primi attrezzi progettati dagli esseri umani per sopravvivere.

Le prime lame erano di selce o di ossidiana, scheggiata o levigata ad un bordo, a volte dotate di un manico. Più tardi con gli sviluppi della fusione e della metallurgia le lame sono state sostituite prima dal rame, poi dal bronzo, dal ferro e infine dall’acciaio.

L'importanza dei coltelli come arma è un po' oscurata dalla nascita di armi più efficienti e specializzate, ma una lama è in dotazione dei militari di qualsiasi esercito al mondo.

Dopo questa inevitabile premessa, si può tranquillamente affermare che ogni nazione al mondo abbia sviluppato nel tempo un proprio originale coltello che sopravvive nella tradizione popolare e nella propria storia.

Lo sapevate che il TAGAN fa parte della Storia di Genova?

A partire dal X secolo, a Genova si formò una

Scuola di Scherma Genovese

che prevedeva l’uso di armi tipiche come appunto il coltello genovese, la spada d’abbordaggio genovese e lo spadone genovese.


Questa é la versione moderna del TAGAN


TAGAN - Coltello genovese  di lusso

Versione originale di un TAGAN ritrovato e restaurato

Fonti archivistiche riportano la presenza, fin dalla seconda metà del XII secolo, di un'arte dei coltellieri.

In latino l'arma veniva chiamata cultellus januensis. Coltelli di foggia simile si trovano anche in altre parti d'Italia e Corsica e nelle colonie genovesi d’oltremare, tanto così che spesso l'arma viene denominata coltello alla genovese o all’uso Genovese. Si tratta di un coltello che, oltre che essere stato utilizzato nelle varie attività della vita quotidiana dei genovesi, rappresentava anche un'arma di facile impiego e che spesso veniva utilizzata, purtroppo, in episodi delittuosi sia da persone comuni che da malavitosi. Proprio per questo il suo uso venne in varie occasioni limitato o proibito dalle autorità cittadine. Ad esempio il 9 settembre 1699 il Consiglio dei X della Serenissima Repubblica di Genova assunse uno specifico provvedimento per rinnovare la proibizione dell'uso di tale coltello nella zona del porto.

I genovesi dell’epoca cercarono di camuffare da utensile questo tipo di coltello, ad esempio facendolo passare da attrezzo per conciatori o sellai, in modo da eludere le leggi che vietavano la produzione nella Repubblica di "ferri taglienti". Tale produzione, nonostante le limitazioni, era però diffusa e anche piuttosto apprezzata. Il coltello genovese è caratterizzato da un manico privo di “guardia” con la base marcatamente stondata (smussata, arrotondata).

La lama può essere di varie lunghezze ed è dritta, appuntita ed in genere a un filo e mezzo, ovvero affilata oltre che nella parte inferiore anche nella zona anteriore di quella superiore. Per realizzarne il manico a volte veniva utilizzato il legno di bosso.

Se volete saperne di più su quest'arma, vi segnaliamo la principale opera sull'argomento: A. Buti, "Il coltello genovese. Storie di lame, di armi proibite e di caruggi", Genova 2011.

Orgoglioso senese della "contrada del Nicchio", genovese d'adozione e collezionista da sempre, il professor Andrea Buti, già docente di tecnica delle costruzioni presso la facoltà di architettura, ha ricostruito attraverso la storia di un oggetto particolare, il coltello genovese, una parte inedita e misconosciuta della storia della Superba.

“Nel 1600 e nel 1700, ma già da prima, Genova fu al vertice della produzione e commercializzazione di armi da taglio proibite. I coltelli genovesi appunto, lame micidiali, simili a stiletti, furono messe al bando dal governo della Repubblica e da molti antichi Stati italiani. Vi fu un tempo in cui l'arte dei coltellieri, fondata a Genova nel 1262, annoverò fino a 329 iscritti. Esisteva in città il molo dei coltellieri in fondo a via S.Lorenzo, ma anche una ripa e una loggia dei coltellieri che pullulavano di botteghe in cui si affilavano le lame forgiate con l'acciaio delle ferriere dell'entroterra, a loro volta rifornite col ferro dell'Elba.

Si può ipotizzare che non ci fosse uomo del popolo o dell'aristocrazia genovese che non possedesse un tipico coltello a stiletto, infilato nei calzoni, o celato dentro un'altra arma a punta stondata e apparentemente inoffensiva, magari camuffato da attrezzo per cucire le vele. Il coltello genovese, fu la "spada del popolo", l'arma dei sicari molto prima delle pistole. La statua della Vergine, posizionata per la prima volta nel 1654, era in bilico. Quando fu rimossa sotto due tonnellate di marmo furono ritrovati incastrati alcuni coltelli. Erano stati lasciati come atto votivo dalle maestranze del '600. Li consegnai al museo Diocesano. Ma è l'unico esempio, - si duole Buti- di coltelli genovesi musealizzati”.
Per il resto nulla, questa città continua a ignorare la storia di una sua antica e significativa industria manifatturiera. Lo ha fatto anche quando ho proposto a enti locali di patrocinare il mio volume che peraltro aveva già un editore. Niente, la città è fatta così.

Buti si riferisce a "Il Coltello genovese: Storia di lame, di armi proibite e di caruggi", il volume di cui è autore, appena pubblicato dalla Casa d'aste San Giorgio (100 €), specializzata in armi antiche. Non un catalogo, ma un "mixage", composto da 146 pagine di testo divulgativo, in cui vengono definite le caratteristiche tipiche del coltello genovese rispetto ad altre armi bianche, si ricostruisce la storia materiale dell'oggetto attraverso documenti, spesso inediti, degli Archivi di Stato di Genova e Savona e si rievocano celebri delitti del passato come gli omicidi del pittore Pellegro Piola e del compositore Alessandro Stradella.

Seguono 263 pagine di schede di esemplari di collezioni private o appartenenti a musei, non genovesi. Il volume è illustrato da foto e raffinati disegni. E' in vendita alla casa d'aste a palazzo Boggiano-Gavotti in via S.Lorenzo.

Nella prefazione Vito Piergiovanni, professore di storia del diritto medievale e moderno alla facoltà di giurisprudenza, scrive:

"Sul pesto non avevamo dubbi, sui cantautori anche, ma che si potesse vantare una peculiarità anche negli oggetti da taglio, utensili ed armi volta a volta, in realtà ci sfuggiva. Davvero Genova antica non finisce di stupire!
Il coltello a lama mobile fu sempre arma popolare: a causa dell'ingombro limitato e del costo ridotto, e a causa delle discriminazioni sociali o legali che riservavano il porto delle armi bianche lunghe ai soli nobili. Il “fenomeno” divenne macroscopico quando le autorità decisero, invocando ragioni di pubblica sicurezza, che il popolo non potesse portare armi. Ma, nel caso dei coltelli, divenne arduo stabilire il limite oltre il quale cessavano di essere utensili e diventavano armi, né dall'altra parte il popolo poteva rinunciare, oltre che a un utensile di indubbia utilità, a un'arma da difesa cui si era ormai abituato. Ne seguì una lunga diatriba che vide l'autorità impegnata a proibire le lame eccedenti una certa lunghezza e il popolo industriarsi per forgiare lame sempre più corte, ma di fogge all'occorrenza estremamente pericolose. Come quelle a foglia di salvia, veri pugnali larghi e a doppio taglio, o quelle a foglia di olivo, strette e molto acuminate. Un tipico esempio fu
il coltello “alla genovese” che ebbe larga diffusione nell'Italia del XVII secolo e che in pratica riprendeva la spada “alla frantopino” bandita in numerosi Paesi d'Europa per l'insidiosità. Il coltello aveva un'impugnatura in legno o corno e una lama larga al tallone, che si assottigliava decisamente nel debole a formare uno stiletto a quattro facce con punta acutissima. Venne bandito anch'esso, ma poi riprese forma con una cruna che attraversava la punta e destinazione d'uso - ufficiale - di strumento da sellaio. Poteva perciò essere portato da chiunque dal momento che il cavallo era l'abituale mezzo di locomozione. In Italia i centri di produzione di coltelli, soprattutto a lama mobile, a causa della frammentazione politica del Paese e anche della scarsa circolazione dei prodotti, furono numerosi e ognuno creò proprie tipologie. La ricchezza di forme “italiane” non trova riscontro in altri Paesi europei, sia per il coltello con caratteristiche offensive sia per quello inteso come strumento di uso quotidiano. La scherma di daga e stiletto, insegnata dai maestri d'armi nel periodo che andava dal XIV secolo all'XIX, nel XVII secolo condizionò la creazione di metodi di maneggio che poi si svilupparono in un'arte raffinata ed efficace, continuando poi a evolversi nei miglioramenti sino ai primi decenni del XX secolo. Le regioni del nord Italia, in parte quelle centrali, alcune meridionali e insulari, erano prive di maestri, ma esistevano persone che possedevano solo la conoscenza di poche, definitive, azioni tecniche. L'apprendimento di tali tecniche era detenuto sia dalla malavita, sia dalla normale popolazione. Lo sviluppo di una vera arte di maneggio del coltello si verificò invece in sei regioni: Lazio, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Corsica. Nelle scuole (ovviamente clandestine) dove s'insegnava ad adoperare il coltello, si seguiva un preciso metodo diverso da regione a regione. Spesso poi gli allievi elaboravano nuove interpretazioni delle azioni tecniche che differivano da quelle dei maestri e capiscuola. Accadeva così che in una stessa città o cittadina, oltre a uno o due metodi principali, ve ne potevano essere altri “contaminati”. Il ritardo, rispetto a vari altri Paesi europei, nel passaggio all'industrializzazione (o almeno a una produzione semi-industriale) nel settore della coltelleria, ha consentito una più lunga sopravvivenza di tipologie legate alla fabbricazione artigianale. I centri di produzione ancora attivi sono Maniago (Pn), sicuramente il più fertile oggi (ma quasi privo di connotazioni tradizionali), nato intorno al 1400, Premana (Co), specializzato soprattutto nelle forbici, Scarperia (Fi), che risale al 1400 fin da principio con la coltelleria, i cosiddetti “ferri taglienti”, Campobasso e Frosolone (Is), anch'essi molto antichi, Pattada (Ss), molto più recente (fine XIX secolo)”.

CARLO GATTI

Rapallo, Mercoledì, 11 Dicembre 2019


PUO’ IL BOW TRHUSTER SOSTITUIRE IL RIMORCHIATORE?

 

PUO’ IL BOW TRHUSTER SOSTITUIRE IL RIMORCHIATORE?

di MAURIZIO GARIPOLI Pilota del porto di Ravenna

 

Non è raro, durante lo scambio di informazioni preliminari alla manovra – ormeggio o disormeggio – di una nave, che il Comandante rifiuti l’uso del rimorchiatore, o ne voglia diminuire il numero qualora ne serva più d’uno, giustificando la scelta con la frase: “Abbiamo il Bow Thruster…” (Elica trasversale di prora).
La domanda che nasce spontanea è: “Il Bow Thruster sostituisce il rimorchiatore?”

Sì… e no…

Mi spiego meglio.

Nel nostro cammino attraverso i lustri, come uomini e “gente di mare”, cerchiamo di stare al passo con i tempi… e i tempi ci propongono continuamente innovazioni di ogni tipo.

Il Bow Thruster (BT) o elica di manovra prodiera, non si può dire sia l’ultimo ritrovato tecnologico, tuttavia non è nemmeno uno strumento antico. Apparve la prima volta su una nave militare russa (Sverdlov) a fine anni ’50, per poi riproporsi in campo civile attorno agli anni ’80.

E come tutte le innovazioni, che in quel periodo di grande fermento si sono proposte nel mondo nautico, ha faticato a imporsi, soprattutto per via dei costi di produzione e di installazione.

Dagli anni ’80 a oggi, il BT si è notevolmente evoluto; all’aumentare delle potenze e al miglioramento dell’affidabilità è seguita una più ampia diffusione.

Spesso associato a Stern Thrusters, (elica trasversale di poppa), timoni ad alta efficienza p.e. Becker, e Shilling), Shottles, Azipod e via discorrendo, l’elica di prua migliora efficacemente la manovrabilità di ogni imbarcazione.

Ma se per una certa tipologia di navi, di dimensioni contenute o iper-tecnologiche, questi nuovi strumenti limitano (ragionevolmente), l’esigenza di avere un rimorchiatore in assistenza, per molte altre la cosa non è né semplice né scontata.

In campo marittimo si è sempre molto attenti a garantire un livello di sicurezza adeguato alle situazioni da affrontare, spesso in aperto conflitto con l’economia pura.

Durante la manovra in porto, in spazi ristretti e con ostacoli di ogni tipo, questo aspetto è curato in modo particolare.

Se da un lato la massima sicurezza si avrebbe con l’assoluto immobilismo e il massimo pericolo con la totale deregolamentazione, ecco che qualche elemento di armonizzazione deve essere introdotto da un soggetto super partes.

Lo Stato, per mezzo delle Capitanerie di porto, svolge questa importante funzione di regolamentazione.

A loro volta le Capitanerie utilizzano i Servizi Tecnico Nautici per tradurre in pratica le disposizioni elaborate.

Tuttavia, questo lavoro per sua natura non è statico e continua a mutare di giorno in giorno, spinto dalla continua evoluzione tecnologica accompagnata dall’imporsi dell’importante fenomeno del “gigantismo navale”, dove classiche mono-elica, dotate di BT, spingono – non di rado – per una limitazione nell’uso dei rimorchiatori a favore dell’economia di gestione.

A inizio articolo ho scritto … e, in effetti, navi di grandi dimensioni che si comportano bene in manovra e la cui elica prodiera è efficace, indubbiamente esistono.

Staccarsi parallelamente da una banchina con un solo rimorchiatore a sorreggere la poppa, non è quasi mai un problema, così come non lo è manovrare in un bacino di evoluzione od ormeggiare a nave quasi ferma, anzi, spesso la sensazione di potenza pronta all’uso e chiaramente direzionata che si ottiene con un Bow Thruster, porta ad apprezzare oltre modo questa splendida invenzione.

A volte, però, non si tiene nella giusta considerazione la totalità della manovra che una nave compie per attraccare o partire da un porto: atterraggio, imbarco del pilota, navigazione verso l’ormeggio, ormeggio e viceversa.

Durante queste fasi le velocità sono variabili e possono salire e scendere per svariati motivi: affrontare una corrente, un groppo di vento o mantenere il governo, può essere necessario fermarsi in qualche punto del tragitto per incrociare un’altra nave o per gestire un imprevisto. Lo stesso ormeggio, quando sfavorevole all’effetto evolutivo del propulsore principale, può comportare problematiche importanti. (A questo proposito dedicheremo un intero articolo di tecnica di manovra).

Ricordo una manovra notturna… “nave di nazionalità turca prevista ormeggiare con il fianco dritto alla banchina assegnata; monoelica tradizionale con effetto sinistrorso, di medie dimensioni – circa 130 metri di lunghezza – provvista di bow trhuster.

Durante il consueto scambio di informazioni decidiamo di comune accordo con il Comandante, viste le caratteristiche della nave e le ottime condizioni meteorologiche, di procedere per l’ormeggio senza alcun rimorchiatore in assistenza. Verso le ultime fasi di avvicinamento, a una velocità di circa 3 nodi, il motore principale decide di non rispondere più ai comandi del Ponte.

L’impostazione della manovra prevedeva un avvicinamento alla banchina con un ampio angolo per sfruttare l’effetto dell’elica; questo ci ha permesso di continuare l’avvicinamento dando fondo all’ancora di sinistra, usandola come freno. Siamo riusciti a dragarla, e ad arrivare a pochi metri dalla banchina, per poi allascarne un’altra mezza, sufficiente a farle fare testa. In questo modo abbiamo impresso la giusta rotazione alla prora e spento il residuo abbrivio.

Utilissimo il Bow trhuster per mantenere la prora nelle diverse fasi, ma ci saremmo sicuramente sentiti più tranquilli se avessimo avuto il nostro buon rimorchiatore legato a poppa.

Purtroppo prevedere sempre ogni imprevisto non è possibile, sicuramente anche questa esperienza ha fornito interessanti spunti di riflessione.

Il BT è efficace solo sotto una certa velocità. La forza laterale che spinge la prora ha la sua massima espressione a nave ferma. Con moto avanti, l’effetto del propulsore di prua si riduce della metà già a 2 nodi. Con velocità tra 1 e 2 nodi si può arrivare a perdite di efficienza anche del 40%.

L’immersione del Bow Thruster è altrettanto importante: se questo lavora poco immerso può trovarsi a spingere una miscela di acqua e aria, determinando un decadimento della spinta prodotta o dell’efficienza dell’elica, causata dalla cavitazione generata dalla poca pressione del battente d’acqua.

Se quindi è vero che un buon BT è utile a tutte le navi, è altrettanto vero che non lo è “sempre  e comunque”.

Per contro, l’utilizzo di un rimorchiatore incrementa la sicurezza proprio quando il rischio aumenta, quando cioè un avaria avviene a nave in movimento.

I rimorchiatori sviluppano potenze difficilmente ottenibili da una singola elica prodiera e possono lavorare su diversi angoli, a tiro o a spinta, risultando particolarmente utili in presenza di venti sostenuti.


Un altro limite del BT è dato dalla sua dipendenza dalla nave e, proprio per questo, un eventuale black out ci priverebbe di questa importante risorsa. In casi come questo il rimorchiatore diventa di vitale importanza.

Immaginiamo sempre lo scenario peggiore e ragioniamo sulle soluzioni che possiamo adottare per prevenire il verificarsi di situazioni ingestibili.

Ricordiamo che a navi grandi corrispondono grandi danni.

Una nave di dimensioni importanti ha meno margine di errore, spazi di arresto maggiori, inerzie enormi e pescaggi che possono vanificare l’uso delle ancore.

Se è vero che un rimorchiatore voltato a poppa può intervenire per rallentare il moto della nave, un rimorchiatore a prora può garantire la stabilità di rotta necessaria a guadagnare tempo e spazio e, questo, soprattutto durante un’emergenza.

Non è poi raro che anche navi di piccole o medie dimensioni, dotate di elica prodiera, si rivelino difficili da manovrare, ciò può essere dovuto alle condizioni meteo-marine in atto, alle doti manovriere intrinseche della nave stessa, alla scarsa potenza sviluppata dall’elica o, ancora, alla posizione errata dell’elica di prua per cattiva progettazione. Nella quasi totalità dei casi il Comandante, profondo conoscitore della propria nave, sa quando può risparmiare o meno sull’uso del rimorchiatore, anche se, a volte, si trova nella condizione di dover mediare tra pressione commerciale e sicurezza.

Quindi, in ultima analisi, la risposta è No!: il BT per quanto comodo, utile e importante non potrà mai sostituire un rimorchiatore o garantire lo stesso standard di sicurezza durante una manovra, a maggior ragione quando si parla di navi di grandi dimensioni.

Rifiutare l’uso del rimorchiatore soltanto perchè “…abbiamo il Bow Thruster…” non è sempre una risposta ragionevole.

 

Rapallo, 10 Ottobre 2019



HORATIO NELSON - EROE E VERO MARINAIO

HORATIO NELSON

EROE E VERO MARINAIO


La Colonna di Nelson domina Trafalgar Square – Londra

Il monumento fu costruito tra il 1840 e il 1843 per commemorare la morte dell'ammiraglio Horatio Nelson alla battaglia di Trafalgar, nel 1805. La statua di Nelson è alta 5,5 m e si trova sopra una colonna di granito alta 46 m di circa 3 m di diametro. La statua di arenaria è orientata verso sud verso il Palazzo di Westminster e il Pall Mall. La cima della colonna ha un capitello corinzio (ispirato alle colonne del tempio di Marte Ultore di Roma) ed è decorato con foglie d’acanto in bronzo ottenute dalla fusione di cannoni britannici. Il piedistallo è decorato da quattro pannelli che raffigurano le quattro grandi vittorie di Nelson ottenuti dalla fusione dei cannoni francesi catturati. Nel 1868 agli angoli del piedistallo furono aggiunti quattro grandi leoni di bronzo.

Horatio Nelson, visconte. - Ammiraglio inglese (Burnham Thorpe, Norfolk, 1758 - Trafalgar 1805). Considerato uno dei più celebri eroi nazionali inglesi, si distinse particolarmente nelle guerre antinapoleoniche. A Napoli (1799) patrocinò la spietata rappresaglia contro gli esponenti della Repubblica partenopea. Comandante supremo della flotta inglese nel mar Mediterraneo, nel 1805 sconfisse i francesi a Trafalgar, dove morì in battaglia.


(Nella foto) - L’ammiraglio britannico Lord Horatio Nelsonprimo visconte Nelsonprimo duca di Bronte (Burnham Thorpe, 29 settembre 1758 – Capo Trafalgar, 21 ottobre 1805)

Per le sue vittorie nelle tre grandi battaglie navali in cui era Comandante in capo è ancora oggi uno dei più amati e celebrati eroi nazionali d'Inghilterra, ma non mancano nella sua vita episodi controversi, come la parte avuta negli orrori seguiti alla fine della Repubblica partenopea nel 1799.


 

BIOGRAFIA

HORATIO NELSON entrò in marina all'età di dodici anni grazie a un suo zio, il Capitano Maurice Suckling. Il suo primo viaggio in mare lo portò a visitare le Indie Occidentali, ed al rientro prese ad esercitarsi, affascinato dal mare, a pilotare piccoli velieri nell'estuario del Tamigi.

Fu promosso Tenente di Vascello nell'aprile del 1777, dopo aver preso parte ad una spedizione nell'Artico agli ordini del Comandante Phipps e dopo aver fatto esperienza nel mare delle Indie.

Avendo portato a termine diverse operazioni ancora nelle Indie Occidentali, all'età di vent'anni fu promosso Capitano di Vascello nel 1778. Nel 1780 partecipò ad una spedizione in Nicaragua dalla quale dovette anticipatamente rientrare a causa di gravi problemi di salute.

Ripresosi dalla malattia, nel 1781 fu pronto per una nuova spedizione in Canada, a bordo della fregata ALBEMARLE, comandata dall'Ammiraglio Hood.

Nel 1783 rientrò in patria dopo la guerra contro le colonie americane che si risolse con la dichiarazione d'indipendenza delle stesse; l'anno seguente operò ancora una volta nelle Indie Occidentali dove conobbe e sposò nel 1787 Frances Nisbet.


Frances Nisbet moglie di Orazio Nelson da una pittura di anonimo

Il primo comando

Nel 1793 a Nelson fu affidato il comando del vascello HMS AGAMENNON durante la guerra contro la Francia rivoluzionaria. Di nuovo agli ordini dell'Ammiraglio Hood, fu inviato nel Mediterraneo dove partecipò all'assedio di Tolone. L'esito positivo di tale operazione contribuì ad accrescere la già elevata popolarità di cui Horatio Nelson godeva in patria. Nel corso di una missione a Napoli, nel settembre del 1793, conobbe Emma Lyon, moglie dell'ambasciatore britannico presso la corte borbonica Sir William Hamilton, con la quale strinse successivamente una intensa relazione sentimentale.


Il vascello HMS AGAMENNON - Da mediadecor.com


Fu poi impegnato nelle operazioni militari che puntavano alla conquista della
Corsica: nel luglio del 1794 durante un attacco a Calvi, perse l'occhio destro. Nel 1795 al comando dell'HMS AGAMENNON si distinse nella battaglia di Genova, attaccando coraggiosamente la nave francese di classe superiore ÇA IRA catturandola assieme alla CENSEUR e impedendo uno sbarco di truppe francesi in Corsica. Nel 1796 fu nominato commodoro e poi gli fu affidato il comando della CAPTAIN, un vascello di linea di terza classe (74 cannoni).

L'anno seguente si distinse nel corso della battaglia di Capo San Vincenzo (14 febbraio 1797), durante la quale una manovra, divenuta poi famosa, che contravveniva apertamente alle Istruzioni per il Combattimento della marina Inglese permise all'ammiraglio John Jervis (nominato poi conte di St. Vincent) di portare in patria due grandi navi catturate, a prova della sua vittoria sulla flotta spagnola.

 

La battaglia di Capo San Vincenzo - Da it.wahooart.com

 

L'esperienza, la fama, l’ASCESA…

 

Promosso Contrammiraglio della "squadra blu” e creato Cavaliere dell'Ordine del Bagno, nel luglio del 1797 partecipò al temerario ma inutile attacco sferrato contro la città di Santa Cruz de Tenerife, nelle Isole Canarie, durante il quale fu gravemente ferito al braccio destro che, divenuto incurabile, gli venne amputato.

Nell'aprile del 1798 riprese servizio dopo un lungo periodo di convalescenza. Gli fu assegnata nel Mediterraneo una divisione incaricata di sorvegliare i movimenti della flotta francese con base a Tolone. Essendosi lasciato sfuggire la flotta comandata dall'Ammiraglio Brueys, diretta in Egitto con la spedizione di Napoleone Bonaparte, iniziò una lunga caccia che lo portò ad inseguire l'armata navale nemica per quasi due mesi dopo i quali, il 1º agosto 1798, sorprese il nemico ancorato nella baia di Abukir e lo annientò (battaglia del Nilo), bloccando in tal modo le truppe di Napoleone sul suolo egiziano.

 

Nelson nella battaglia del Nilo nella baia di Abukir

 

Successivamente fu inviato a Napoli con una flotta congiunta britannico-portoghese, divisa in due flotte comandate dallo stesso Nelson e dall'ammiraglio portoghese Domingos Xavier de Lima noto come il Marchese di Nisa, per colpire gli insorti giacobini e mettere in salvo la corte borbonica, ma al suo arrivo sul teatro di guerra la Repubblica Napoletana, sconfitta su tutti i fronti dal cardinale Fabrizio Ruffo e abbandonata dalle truppe francesi, aveva già capitolato. Tuttavia Nelson non volle rispettare i patti della resa che gli vennero trasmessi dal cardinale Ruffo, consegnando così i capi giacobini ed i fautori della rivolta alla vendetta di Ferdinando IV, tra cui l'ammiraglio Francesco Caracciolo, ritenuto colpevole di alto tradimento e condannato all'impiccagione.

Durante la parentesi napoletana Nelson strinse un legame più intenso con Lady Hamilton.

Nominato Duca di Bronte da Re Ferdinando, Nelson tornò in Inghilterra con Emma Hamilton agli inizi del 1800 dopo alcune divergenze con l'ammiragliato; poco tempo dopo si separò dalla moglie Frances Nisbet per vivere con l'amante, dalla quale lo stesso anno ebbe una figlia, Horatia.

 

Lady Hamilton ritratta come Circe, dipinto di George Romney

 

Le turbolente vicende legate alla sua vita privata non ridussero la stima che l'Ammiragliato e gli alti vertici della marina militare britannica riponevano nei confronti di Nelson: nel 1801 difatti fu promosso dall'Ammiragliato viceammiraglio e comandante in seconda della flotta con la quale il comandante Hyde Parker doveva reprimere le forze della Lega dei Neutri.

L'operazione comandata da Parker e Nelson aveva il compito di sconfiggere le flotte di Danimarca e Svezia; entrambi i paesi infatti appoggiavano economicamente la Francia napoleonica e per questo dovevano essere rapidamente fermate. Il 2 aprile del 1801 Nelson e Parker riportarono una brillante vittoria con la Battaglia di Copenaghen che cancellò in modo definitivo la minaccia navale scandinava.


La Battaglia di Copenhagen di Thomas Luny (1759-1837)


 

L'ultima battaglia

Dopo un periodo di congedo a seguito della Pace di Amiens, Nelson fu nominato comandante in capo della flotta operante nel Mar Mediterraneo, la prestigiosa Mediterranean Fleet. Con queste forze riuscì a bloccare a Tolone la flotta francese che si preparava all'invasione dell'Inghilterra; Nelson assediò la città per due anni, attendendo le mosse della marina avversaria dall'isola de La Maddalena fino al marzo 1805, quando l'ammiraglio Pierre Charles Silvestre de Villeneuve riuscì ad eludere la sorveglianza ed a dirigersi verso le Indie Occidentali.

La manovra avrebbe dovuto far credere ad un attacco francese ai possedimenti inglesi nell'America Centrale mentre Napoleone sarebbe potuto sbarcare in Inghilterra ed in effetti essa riuscì. Ma l'ammiraglio Villeneuve, sfuggito all'inseguimento inglese, anziché dirigersi nel canale della Manica per "coprire" lo sbarco francese in territorio inglese, si lasciò impressionare da uno scontro di poco conto al largo di El Ferrol e riparò a Cadice.

 

 

- La battaglia di Trafalgar (1822) - dipinto di Turner

 

Il 21 ottobre l'ammiraglio Villeneuve, ricongiuntosi con le forze navali spagnole del Gravina, si portò al largo di Capo Trafalgar dove la flotta britannica era pronta alla battaglia: benché le forze navali inglesi fossero numericamente inferiori a quelle franco-spagnole (trentatré navi franco-spagnole contro le ventisette inglesi), NELSON inflisse una decisiva sconfitta alla flotta nemica (battaglia di Trafalgar). Questo evento bellico permise all'Inghilterra di rafforzare la propria supremazia navale su quella francese che da quel momento non ebbe più alcun peso nello scacchiere operativo navale.

Il giorno in cui si svolse la battaglia navale di Trafalgar, Horatio Nelson fece innalzare sull'albero maestro della sua nave ammiraglia, la VICTORY il segnale d'incitamento rivolto a tutta la sua flotta: ("L'Inghilterra si aspetta che ogni uomo compia il proprio dovere").

 

"England expects that every man will do his duty"

 

Trafalgar - Morte di Nelson

 

Tuttavia Nelson non poté godere degli allori della vittoria poiché fu colpito a morte da un tiratore francese che sparò dall'albero maestro della nave Redoutable.

Il cadavere dell'ammiraglio, come confermano i documenti degli archivi britannici, venne conservato in una botte di rum (in quanto a base di alcol) fino al rientro in Inghilterra, dove ricevette i funerali di Stato.

Il suo corpo venne solennemente tumulato nella Cattedrale di San Paolo a Londra, all'interno di una bara ricavata da un pezzo di legno, ripescato in mare, dell'albero maestro de L'Orient. Quest'ultima era ammiraglia francese nella battaglia del Nilo. Prese fuoco e affondò in seguito all'esplosione dei due depositi di polveri situati uno a poppa e l'altro a prua.

Alla vigilia della partenza per la campagna d'oriente, Napoleone aveva appropriatamente fatto cambiare il nome della nave da Sans Culotte a L'Orient, risvegliando la superstizione dei marinai, per i quali cambiare nome ad una nave porta disgrazia. C'è da aggiungere che si trattava del secondo cambio di nome, essendo la nave stata varata col nome di Le Dauphin Royal.



LA PARENTESI GENOVESE DI HORATIO NELSON

Omaggio di Mauro Salucci (storico genovese)

"Era il settembre 1794, Horatio Nelson sbarcava a Genova. Trentaseienne, ancora uno sconosciuto, rossiccio di capelli e mingherlino. Quel 20 settembre scese dalla nave Agamennon ormeggiata nel porto. Vestito in alta uniforme, in mezzo agli sguardi interrogativi di lerci marinai e pendagli da forca nell'ora d'aria dalle galee, imboccò i caruggi da Sottoripa per raggiungere Palazzo Ducale. La sua intenzione era richiedere un'udienza al Doge per spiegare un incidente diplomatico dell'anno precedente, durante il quale una flotta inglese era entrata nel porto di Genova senza permesso, violando la neutralità politica della Superba. Ci volle poco e i genovesi si presero la loro rivincita, perchè negarono la richiesta di permesso d'imbarco nel porto di cinquemila soldati austriaci per la difesa di Tolone strappata ai francesi. Giunto al cospetto del doge, venne accolto con tutti gli onori, ma questi gli disse chiaro e tondo che Genova non avrebbe mai e poi mai preso le armi contro la Francia. Quando uscì dal palazzo lo fece mesto e corrucciato. Mai si sarebbe atteso una risposta tanto risoluta. Alzò gli occhi e giunto sulla nave scrisse alla moglie Fanny una lettera "Questa città è senza eccezione la più bella che io abbia mai visitato, persino superiore a Napoli, sebbene vista dal mare il suo aspetto non le renda giustizia, ma vista da vicino è semplicemente splendida. Tutte le case sono palazzi e dalle dimensioni imponenti". Seguiranno notti bianche per il povero Nelson, che iniziò una rappresaglia verso i genovesi nei mari di tutto il mondo che commerciavano con i nemici, avendo Nelson spesso la peggio. Scrisse "Vedremo chi, tra me e i genovesi, si stancherà prima...". Poi scrive il 29 luglio 1795 "... qui sono parecchio detestato. Non posso più scendere a terra in Genova senza correre probabili rischi..."

 

Come abbiamo già visto, nel maggio 1793, l’ammiraglio della flotta britannica Horatio Nelson soggiornò a Napoli presso la corte borbonica dove conobbe la giovanissima Lady Emma Hamilton, donna controversa, nota al pubblico europeo dell’epoca anche con il nome di Emma Hart, soggetto dei ritratti di George Romney. Nonostante entrambi fossero sposati, intrapresero una relazione amorosa.

In quegli anni Nelson era capitano dell’Agamennon, vascello della flotta britannica nel Mediterraneo. La Rivoluzione Francese imperversava e i giacobini miravano all’occupazione di nuovi territori: fu così che gli inglesi ingaggiarono gli eterni rivali prima nella battaglia di Calvi (Corsica, 1794), nella quale Nelson perse un occhio e un braccio, e poi nella battaglia di Genova, dove la flotta britannica si era diretta dopo l’occupazione dell’isola tirrenica.


Ristorante Panson - Genova

In Piazza delle Erbe ci sono molti locali, tra questi si trova L'Antico Ristorante Panson, che era già in attività nel 1790. Conta due sale da pranzo, una delle quali è detta saletta Nelson.

A noi piace immaginare Nelson e Lady Hamilton a braccetto, come nuovi innamorati, mentre passeggiano ancora in Piazza delle Erbe.

Dopo le mutilazioni subite, Nelson stesso era stato inviato a Genova per instaurare nuovi rapporti diplomatici tra la Repubblica e il Regno Unito. Fu durante questo periodo, prima della battaglia navale del marzo 1795, che soggiornò presso le stanze di quella che allora era l’osteria Panson. E’ da questo episodio che prende nome la sala da pranzo dell’odierno ristorante.

Lady Hamilton raggiunse Nelson a Genova per un breve periodo, poi ritornò nel regno di Ferdinando I, dove proseguiva la sua permanenza a Napoli con il marito. Nel 1798 incontrò di nuovo il suo amato.

I tre in Inghilterra condussero una vita di scandalo, vivendo sotto lo stesso tetto. I due amanti, rispettavano i propri coniugi e non avevano intenzione di chiedere un divorzio che avrebbe disonorato le loro vite per sempre. Horatio ed Emma ebbero due figlie, la primogenita Horatia, nacque nel 1801, mentre la sorella nacque nel 1804, ma morì poche settimane dopo la nascita.


Uno dei tanti ritratti in cui George Romney ha immortalato Emma Hamilton, in arte Emma Hart

Hamilton, Emma, nata Lyon. - Avventuriera inglese (Great Neston, Cheshire, forse 1761 - Calais 1815). Di umile origine, nel 1782 divenne l'amante di Charles Greville, deputato ai Comuni, che la introdusse nella brillante società londinese del tempo, dove la ritrasse più volte, nel fulgore della sua bellezza, il pittore George Romney. Nel 1786 era a Napoli presso Sir William Hamilton, che nel 1791 la sposò; bene accolta alla corte napoletana, in particolare dalla regina, servì da tramite tra questa e l'ambasciatore inglese. Nel settembre del 1793 H. Nelson, di passaggio da Napoli, l'incontrò per la prima volta, ma solo al suo ritorno a Napoli nel settembre 1798, dopo la battaglia di Abukir (al cui felice esito contribuì la concessione fatta dalla regina alla flotta inglese, sembra proprio per intervento della H., di rifornirsi in Sicilia), ebbe inizio la sua passione per lei, che tanta influenza doveva avere sulla sua vita pubblica e privata; quando, poco dopo, la corte borbonica si rifugiò a Palermo  sotto la protezione della flotta inglese, la H. divenne l'amante ufficiale dell'ammiraglio, sulla cui sleale politica di repressione (1799) influì per istigazione della regina. Nelson, alla sua morte (1805), le lasciava una pensione che essa, trasferitasi a Londra in seguito al richiamo del marito fin dal 1800, dilapidò presto; fu anche, sul finire della vita, imprigionata per debiti (1813).

 

Il resto è storia, lui morì a Trafalgar nel 1815, lei disperata si diede al gioco d’azzardo e all’alcol, prima di morire all’età di 49 anni.


L’EPILOGO

Ferito a morte durante la battaglia di Trafalgar, HORATIO NELSON fu riportato in patria dentro un barile di rum inglese.

Capo Trafalgar, Spagna sud-occidentale.

È l’alba del 21 ottobre 1815: 17.000 inglesi stanno per affrontare 25.000 tra francesi e alleati spagnoli, in una delle battaglie navali più famose di sempre.

Al comando della Royal Navy britannica, impeccabile sulla nave ammiraglia VICTORY, Lord Horatio Nelson fa issare una bandiera che passerà alla Storia:

L’Inghilterra si aspetta che ogni uomo compia il proprio dovere

L’inizio della battaglia di Trafalgar fu violentissimo: gli inglesi disponevano di ventisette vascelli, contro le trentatré navi da guerra franco-spagnole. Dopo cinque ore di combattimento, i francesi avevano perso ventidue navi, gli inglesi nemmeno una. L’ammiraglio Villeneuve si arrese così alla flotta di Sua Maestà.

La vittoria era stata indubbiamente merito dell’ammiraglio HORATIO NELSON e delle sue ardite (e innovative) manovre, che avrebbero consegnato alla Gran Bretagna il dominio dei mari fino al secolo successivo. Il Lord inglese non avrebbe però potuto assistere ai festeggiamenti: era morto nella sua cabina poco prima del termine della battaglia, ma in tempo utile per conoscerne l’esito positivo.

I TRAGICI MOMENTI DELLA MORTE DI NELSON

Nelson era una vera e propria leggenda.

- Aveva perso un braccio nella battaglia di Santa Cruz de Tenerife

- l’occhio destro a Calvi

- aveva in fronte una grossa cicatrice risalente alla battaglia di Abukir

- ferite più da semplice marinaio che da ammiraglio di Sua Maestà.

Ma il Lord inglese era fatto così: le cronache raccontano di un uomo sempre al fianco dei suoi marinai, il primo a esporsi ai rischi degli abbordi. E ai tiri dei cecchini avversari, posizionati sulle coffe.


Poco dopo l’inizio delle ostilità un cecchino lo centrò in pieno petto, perforandogli un polmone. Rimasto cosciente per qualche ora, sembra che sia vissuto abbastanza da venire informato della vittoria, ma pochi minuti dopo spirò.

La leggenda narra che la scelta della marsina rosso sangue fosse stata scelta appositamente da Nelson: in caso egli fosse stato ferito (come poi avvenne) la marsina avrebbe nascosto il sangue, così da non demoralizzare le proprie truppe.

L’ultimo trucco di uno dei più grandi strateghi militari della storia.

Anche quella mattina era in coperta – nonostante gli avvertimenti dei suoi attendenti – in alta uniforme, con le decorazioni che scintillavano al sole spagnolo. Durante la battaglia, il suo segretario viene colpito in pieno da una palla di cannone.

Verso le 14, un tiratore scelto nemico lo colpisce alla spalla sinistra: il colpo viene dall’alto: attraversa l’omero, spezza due costole, trancia un’arteria polmonare e frattura due vertebre dorsali. Nelson si accascia in una pozza di sangue, ma quasi nessuno se ne accorge, forse grazie anche alla mantella scarlatta che indossa. La notizia del ferimento così non trapela e nessun marinaio cede allo scoramento. Nelson viene portato sottocoperta, assistito dal capitano Hardy e dal dottor Beatty. Il dolore è insopportabile e le condizioni appaiono subito critiche.

Dopo due ore di agonia, Hardy lo informa che la battaglia sta per essere vinta. È il segnale che Nelson stava aspettando. Fa promettere al capitano di non buttarlo in mare, una volta morto, e lo bacia sulla guancia. Rivolgendosi al cappellano Scott, mormora le sue ultime parole

“Non sono stato un grande peccatore. Grazie a Dio, ho compiuto il mio dovere”.

Alle 17 in punto Nelson muore.


Particolare dell’uniforme di Nelson. In alto si nota il foro di entrata del proiettile mortale.

La notizia della vittoria (e della morte dell’ammiraglio) arriverà a Londra soltanto quindici giorni dopo, il 5 novembre. Il Times intitolerà:

“Non sappiamo se dobbiamo piangere o gioire, il paese ha vinto la più splendida e decisiva battaglia che abbia mai adornato gli annali navali d’Inghilterra, ma è stata acquistata a caro prezzo. Il grande e galante Nelson non è più”.

A bordo, il corpo di Nelson viene denudato e rasato. Per conservarlo fino al ritorno in Inghilterra, si decide di immergerlo in un grosso barile di rum. Qui inizia la leggenda.

IL NELSON’S BLOODY RUM

Da quasi due secoli, sulle navi di Sua Maestà, il rum veniva distribuito ai marinai quotidianamente, diluito con succo di limone per prevenire lo scorbuto. La VICTORY non faceva eccezione. Per la conservazione della salma dell’ammiraglio viene però usato molto liquore e le razioni giornaliere per l’equipaggio diminuiscono. Iniziano i mugugni.

Durante il viaggio di rientro, il barile con all’interno il corpo dell’ammiraglio viene scoperto da un marinaio che, ignaro di ciò che il barile in realtà “ospita”, pratica un foro su un lato e ne spilla a piccole dosi il contenuto, per compensare la penuria di rum distribuito legalmente.

La VICTORY attracca a Portsmouth il 4 dicembre 1815, dopo essere stata riparata a Gibilterra. Quando il barile viene aperto, per concedere al grande ammiraglio degna sepoltura, di rum non ve n’è più neppure una goccia.

L’episodio ispirerà la nascita di un famoso rum dal colore rosso, il Nelson’s Bloody, per l’appunto.


Nelson’s Bloody Rum

Una volta in patria, Nelson viene composto in una bara ricavata dal legno dell’ORIENT, una nave da guerra francese da lui catturata ad Abukir e, dopo solenni funerali, sepolto nella cattedrale di Saint Paul.

L’uniforme indossata da Nelson durante la battaglia è conservata al National Maritime Museum di Londra; il proiettile che lo colpì si trova invece al Castello di Windsor; mentre a Portsmouth è possibile visitare l’Ammiraglia VICTORY.

HONOURS

· Battle of Ushant …………………. 1781

· Battle of the Saintes …………… 1782

· Battle of Genoa....................... 1795

· Battle of the Hyeres Islands 1795

· Battle of Copenhagen …………. 1801

· Battle of Cape Finisterre …….. 1805

· Battle of Trafalgar ………………. 1805

· Battle of San Domingo ………… 1806

· Battle of Copenhagen …………. 1807

Fonti: Wikipedia e Nautica Report

A cura di Carlo GATTI

Rapallo, 15 Maggio 2019


ASCOLTA IL DELFINO

ASCOLTA IL DELFINO

Vivono nel mare, insieme alle balene e alle meduse, anche la Verità, la Vita, la Sapienza.

Lungo i secoli molti marinai, pescatori, bambini le hanno incontrate, ma nessuno ha mai creduto ai loro racconti. Così, ancora oggi, molti ignorano questi tesori del mare.


Un bambino viveva su un’isola del Mediterraneo con il suo papà, che faceva il guardiano del faro. La mamma non aveva resistito a quella vita solitaria ed era ritornata al suo lavoro in città.

Sull’isola non abitava nessun altro, ma il guardiano del faro aveva molti amici. Spesso venivano a trovarlo.


A Carlo, il bambino, piaceva vivere sull’isola. Passava il tempo nell’orto del papà o sulla spiaggia in amicizia con gli animali e la natura. L’unico suo cruccio era la nostalgia della mamma. Quando questo sentimento lo assaliva con più forza, si sedeva sulla spiaggia a buttare pietre in mare e a leccarsi le lacrime, che non riusciva a trattenere.


Un giorno, mentre era in questo stato d’animo, apparve davanti a lui un’onda altissima e trasparente come cristallo.

- Chi sei? – chiese il bambino.

- Sono la Verità- rispose l’onda.

- Allora dimmi, la mia mamma mi vuole bene? – domandò Carlo.

- Sì, non sa neppure lei quanto – disse di rimando l’onda.

- E come faccio a farglielo capire?-

- Io sono la Verità. So come sono le cose e le persone, ma non so cambiarle. – rispose l’onda appiattendosi.


Prima che l’onda scomparisse del tutto, Carlo vide un delfino trapassarla ed agitare la coda in segno di saluto.

- Ciao delfino. – gridò Carlo.

Poco dopo il mare cambiò di nuovo aspetto. Proprio lì, davanti al bambino, si formò una chiazza, un laghetto quasi. Questo specchio d’acqua appariva sempre diverso: liscio e piatto come una lamina d’acciaio, poi increspato e azzurro, verde agitato, blu profondo, trasparente e leggero come aria.

- Come sei bello, mare! – esclamò Carlo.

- Io sono la Vita. Sono mutevole. Ricordati che mi hai trovato bella. Se non cambierai idea, io ti darò molto. – disse la Vita, mentre continuava a cambiare faccia.

- Io rivoglio la mia mamma. – disse Carlo quasi piangendo.

- La riavrai – disse il delfino balzando fuori dallo specchio della Vita.

- Come?- gridò Carlo, ma il delfino e lo specchio della Vita erano già scomparsi.

Tutto rimase tranquillo per un certo periodo, mentre Carlo stava ancora sulla spiaggia. Rifletteva su quanto aveva visto e non si decideva ad andarsene.

Ecco di nuovo il mare mutare. La superficie si appiattì, il colore s’ intensificò in un turchese denso e consistente. Era veramente bello, ma intimoriva quasi: l’acqua sembrava marmo.

Il colore parlò a Carlo: - Io sono la Sapienza. Abito il mare e gli uomini non mi amano. Cosa vuoi da me, Carlo?-

- Io vorrei il ritorno della mia mamma – rispose il bambino intimidito – Mi manca solo questo.-

- E’ un bisogno vero – sentenziò la Sapienza – Non stancarti di ripeterlo alla mamma e al papà. Capiranno. Ricordati, non stancarti, sii tenace. Concluse la Sapienza inabissandosi con il suo colore, mentre il delfino la seguiva verso il fondo.

Carlo tornò al faro contento e agitato. Non vedeva l’ora di raccontare tutto al suo papà, che quella sera aveva a cena parecchi amici.

Appena il bambino incominciò a raccontare, gli adulti si scambiarono occhiate d'incredulità e derisione.

“Bella fantasia” disse uno, “Diventerà un romanziere” aggiunse un altro.

- Dai, Carlo, smettila – gli intimò infine il papà.

Carlo, però, si sentiva forte e sicuro e continuò il suo racconto senza farsi intimidire. Alla fine alcuni amici avevano l’aria seria e preoccupata.

- Questo bambino sta troppo da solo. Devi provvedere, Maurizio. Meglio un collegio, di una vita così isolata.-

I consigli si susseguivano, quando un lampo squarciò le tenebre della notte e sul mare apparvero insieme la Verità, la Vita e la Sapienza, con il delfino che nuotava da una all’altra. Fu un attimo, il tempo di un fulmine, ma tutti zittirono, videro e , forse, qualcosa capirono.

- Domani, telefonerò alla mamma e parleremo di te. – disse il papà a Carlo.


La mamma non vedeva l’ora di essere cercata: il lavoro da solo non le bastava.

- Ho già in mente la soluzione – disse al marito – Tornerò sull’isola. Posso lavorare con il computer e, una volta alla settimana, io e Carlo andremo insieme in città per organizzare il mio lavoro e fare la spesa. Forse così funzionerà. – concluse.


Carlo era felicissimo della decisione della mamma, il suo papà anche.

Stavano correndo insieme sulla spiaggia per festeggiare, quando apparve il delfino.

- Ciao delfino, grazie. – disse Carlo.

- Io ti ho salvato – rispose il delfino – Tu, crescendo, salva il mare.-

- Lo farò, se m'insegnerai – gridò Carlo, mentre il delfino spariva.

E questa volta sentì anche il suo papà.

 

ADA BOTTINI

Rapallo, 26 febbraio 2017

 


TITANIC - Una breve Storia ...

RMS TITANIC - Una breve Storia ...

Secondo di tre transatlantici, il RMS Titanic, assieme ai suoi due gemelli Olympic e Britannic fu progettato per offrire un collegamento settimanale di linea con l'America e garantire il dominio delle rotte oceaniche alla White Star Linne. Costruito presso i cantieri Harland and Wolff di Belfast, il Titanic rappresentava la massima espressione della tecnologia navale di quei tempi ed era il più grande e lussuoso transatlantico del mondo.

 

Durante il suo viaggio inaugurale da Southampton a New York, via Cherbourg e Queensrown, entrò in collisione con un iceberg alle 23,40 (ora di bordo) di domenica 14 aprile 1912. L'impatto provocò alcune falle lungo la fiancata destra del transatlantico, che affondò 2 ore e 40 minuti più tardi (alle 2,20 del 15 aprile) spezzandosi in due tronconi. Nel naufragio persero la vita 1.518 dei 2.223 passeggeri imbarcati compresi i 900 uomini dell'equipaggio; solo 705 persone riuscirono a salvarsi, alcune delle quali morirono subito dopo essere stati salvati dal Carpathia. L'evento suscitò un'enorme impressione sull'opinione pubblica e portò alla convocazione della prima “conferenza sulla sicurezza della vita umana in mare”.

Il Titanic, come le gemelle RMS Olympic e Britannic, era stato progettato per competere con il Lusitania e il Mauretania, transatlantici della compagnia rivale Cunard Line che erano all'epoca le navi più lussuose, veloci e imponenti tra quelle impegnate sulle rotte transatlantiche. Poiché svolgeva anche il servizio postale, le fu assegnato il prefisso RMS (Royal Mail Ship) oltre a SS (Steam ship,nave a vapore). La nave era stata disegnata da William Pirrie, presidente della Harland and Wolff, e dall'architetto navale Thomas Andrews, che era il capo progettista. La costruzione del Titanic, finanziata dall'armatore americanoJohn Pierpont Morgan con la sua società International Mercantile Marine Co., iniziò il 31 marzo 1909; lo scafo fu varato il 31 maggio 1911 e le sovrastrutture furono completate il 31 marzo dell'anno seguente.

 

Venne registrato nel registro navale del porto di Liverpool col numero ufficiale N. 131428 e sigla telegrafica "MGY". Il costo finale del transatlantico fu di 7,5 milioni di dollari del 1912, equivalenti a 180 milioni di dollari del 2012. Il Titanic era lungo 269 metri e largo 28, aveva una stazza di 46.328 tons e l'altezza del ponte sulla linea di galleggiamento era di 18 metri (53 metri l'altezza totale). Sebbene avesse la stessa lunghezza dell'Olympic, aveva un tonnellaggio lordo maggiore per via del maggiore spazio interno, dovuto principalmente alla chiusura di parte della passeggiata sul ponte "A" con finestre parzialmente apribili.

La propulsione era a vapore (era un piroscafo, a differenza delle successive imbarcazioni – definite motonavi – dotate dimotori Diesel), con quattro cilindri contrapposti invertibili a triplice espansione (macchine alternative) più una turbina Parson a bassa pressione. Le macchine alternative del Titanic e dell'Olympic restano le più grandi mai costruite, occupavano quattro piani in altezza sviluppando quasi 38 MW (51 000 CV) di potenza e muovevano le due eliche laterali. La turbina muoveva la sola elica centrale.

 

Le 29 caldaie, aventi un diametro di 5 metri ciascuna, erano in grado di bruciare circa 728 tonnellate di carbone al giorno. La velocità massima era di 23 nodi (43 K/m ), inferiore di tre nodi rispetto alla velocità del Mauretania. Solamente tre dei quattro fumaioli erano funzionanti, il quarto aveva solo la funzione di presa d'aria e fu aggiunto per rendere la figura della nave più imponente; erano dipinti in ocra e nero, come voleva la tradizione della White Star, mentre il rosso era il colore della Cunard Line.

 

La nave aveva una capacità utile di 3.547 persone tra passeggeri ed equipaggio. L'allestimento di bordo comprendeva tra l'altro una piscina coperta di 9 m × 4 m s ul ponte D, sul modello dell'Olympic (per la prima volta su una nave), una palestra, un bagno turco e un campo di squash. Le cabine di prima classe erano rifinite con la massima sfarzosità. C'erano 34 suite, ognuna delle quali dotata di soggiorno, sala di lettura e sala da fumo; ogni suite era arredata in stile diverso. Erano disponibili tre ascensori per la prima classe e, come novità, un ascensore anche per la seconda classe.

 

La terza classe valeva la seconda sulle altre navi, ed era decorata con legno di pino verniciato di bianco, pareti smaltate e sedie di teak. Nel ristorante di terza classe era collocato un pianoforte. Il Titanic era un gioiello di tecnologia ed era ritenuto praticamente inaffondabile. La sua stazione radio era considerata (con l'Olympic) la più moderna e potente mai installata su un bastimento, la sua portata raggiungeva una distanza di 400 miglia (650 km) e le antenne erano collocate sui due alberi maestri ad un'altezza di 60 metri e distanti tra loro 180 metri (in caso di emergenza, il generatore elettrico poteva essere sostituito da un generatore diesel).

 

Il ponte lance era dotato delle nuovissime gru "Welin", in grado di sostenere complessivamente 32 lance di salvataggio e ammainarne 64 (alla fine furono montate soltanto 16 lance). La chiglia della nave aveva un doppio fondo cellulare e lo scafo era suddiviso in 16 compartimenti stagni, le cui porte a ghigliottina si potevano chiudere automaticamente dal ponte di comando (in mancanza di energia elettrica si potevano chiudere sfruttando la forza di gravità). Questi compartimenti, però, non attraversavano tutta l'altezza dello scafo ma si fermavano al ponte E (più o meno a metà dello scafo, per dare più spazio alla disposizione delle sale). Il Titanic avrebbe potuto galleggiare anche con due dei compartimenti intermedi allagati oppure con tutti i primi quattro compartimenti di prua allagati. Lo scontro con l'iceberg causò però l'allagamento dei primi cinque compartimenti prodieri.

I Costi

Alla consegna il transatlantico Titanic costò circa 7,5 milioni di dollari (167 milioni di dollari del 2010 ), il biglietto di sola andata per New York, in suite di prima classe, costava 3.10o dollari dell'epoca, circa 40.000 euro del 2012, mentre in appartamento di prima classe costava 4.350 dollari (o 870 sterline del 1912 pari a 83.200 dollari del 2007, circa 64.100 euro), in cabina di prima classe 150 dollari (o 30 sterline dell'epoca, pari a 2.975 dollari del 2007 o 2300 euro), in cabina di seconda classe 60 dollari (o 12 sterline dell'epoca pari a 1.200 dollari del 2007, ovvero circa 930 euro), mentre un biglietto di terza classe solo 32-40 dollari (6-8 sterline dell'epoca, circa 595-793 dollari del 2007, fra i 458 e i 610 euro); inviare un telegramma privato di 10 parole dal servizio telegrafico di bordo costava 3,12 dollari (12 scellini e 6 pence di allora, l'equivalente di 62 dollari del 2007, 48 euro) e 9 pence per ogni parola aggiuntiva. Una partita asquash 50 cent. ed una seduta al bagno turco 1 dollaro (rispettivamente 9 e 18 dollari odierni)

 

Ed ora il calcolo degli stipendi del personale nel 1912 rapportati al controvalore di un secolo dopo (del 2012). Lo stipendio mensile del capitano Smith ammontava a 105 sterline (circa 6 050 dollari attuali), mentre quello di un marinaio era di 5 sterline al mese (290 dollari attuali), quello di una vedetta era di 5 sterline e 5 scellini (320 dollari attuali) e quello di una hostess era di 3 sterline e 10 scellini (attuali 190 dollari), mentre il salario medio di ciascun operaio addetto alla costruzione della nave era mensilmente pari a poco più d'una sterlina (corrispondente a circa 60 dollari odierni). I telegrafisti avevano stipendi diversi: a Philips spettavano 4 sterline e 5 scellini per il viaggio, mentre a Bride solo 2 sterline, 2 scellini e 6 penny.

 

Il primo e unico viaggio del Titanic

La durata del viaggio inaugurale del grande transatlantico era prevista di dieci giorni. Dopo la sua ultimazione, il 31 marzo 1912, la nave partì da Belfast il 2 aprile per giungere a Southampton due giorni dopo. La nave partì per il suo primo (e ultimo) viaggio il 10 aprile 1912 da Southhampton (Regno Unito) alle 12,00 verso New York, comandata dal capitano Edward John Smith. Per lui, il viaggio del nuovo transatlantico costituiva l'ultimo comando prima del pensionamento, e rappresentava il coronamento di una lunga e brillante carriera durata oltre 40 anni.

 

In una sua celebre dichiarazione aveva affermato di non riuscire a immaginare alcun tipo d'infortunio che potesse accadere a questi nuovi transatlantici, poiché la tecnica di costruzione era andata ben oltre gli incidenti che si potessero allora immaginare. Egli volle al suo fianco un comandante in seconda più esperto di quello che gli era stato assegnato e, all'ultimo momento, chiese alla Compagnia di trasferire Henry Wilde sul Titanic, almeno per il viaggio inaugurale Wilde, che prima si trovava sull'Olympic, subentrò così a William Murdoch, il quale retrocesse al rango di 1° ufficiale; il 1° ufficiale Charles Lightoller diventò il 2°, mentre il 2° fu trasferito (nello svuotare in fretta l'armadietto dei propri effetti personali, egli – inavvertitamente – pose in valigia pure le chiavi dell'armadietto in cui erano custoditi i binocoli). Sembra che Wilde non fosse entusiasta dell'improvviso cambiamento e prima dello scalo a Queenstown scrisse alla sorella: “Questa nave continua a non piacermi, mi dà una strana sensazione”.

 

Molti passeggeri della seconda classe, precedentemente prenotati su altre navi, vennero dirottati sul Titanic a causa di uno sciopero nelle forniture di carbone. Tra loro viaggiava il ceto medio della popolazione: impiegati, insegnanti, commercianti, ecc. La terza classe era affollata di emigranti provenienti da tutte le parti del mondo ed erano coadiuvati dall'interprete di bordo. In prima classe erano imbarcati alcuni degli uomini più in vista dell'epoca. Tra questi vi era il milionario John Jacob Astor IV possessore di 150 milioni di dollari e proprietario di alcuni preziosi immobili tra cui il noto Waldorf-Astoria Hotel di New York. Vi erano inoltre l'industriale Benjamin Guggenheim (il cui fratello era titolare dell'omonima fondazione d'arte), Isidor Straus (proprietario del centro commerciale Macy) e la moglie Ida, Washington Roebling (figlio del costruttore del Ponte di Brooklyn), il Consigliere presidenziale statunitense Archibald Butt (che tornava in America dopo una missione diplomatica in Vaticano insieme al compagno, il pittore Francis Millet), Arthur Ryerson (il magnate americano dell'acciaio), George Widener (figlio del magnate dell'industria tranviaria statunitense), il giornalista William Thomas Stead, la contessa di Rothes, lo scrittore Helen Churchill Candee, lo scrittore Jacques Futrelle, i produttori di Broaway Henry e Irene Harris, l'attrice cinematografica Dorothy Gibson, la milionaria Margaret "Molly" Brown, la contessa Lady Duff Gordon, George Elkins Widener e la moglie Eleonora, John Borland Thayer e molti altri.

 

 

Il capitano Edward John Smith

 

Le ultime ore

L'unica fotografia disponibile dell'iceberg che affondò il Titanic, immortalato pochi giorni dopo il disastro dal marinaio ceco Stephan Rehorek.

Il 14 aprile, dopo quattro giorni di navigazione, verso le 13,30 il capitano consegnò a Bruce Ismay un messaggio appena ricevuto dal vapore Baltic, che segnalava la presenza di ghiaccio a 400 km sulla rotta del Titanic, tuttavia, il capitano non diminuì la velocità. Il direttore della White Star non diede eccessivo peso alla cosa e giudicò sufficiente spostare la rotta del transatlantico sulla Outward Southern Track, un corridoio di navigazione concordato per le navi di linea. I due uomini discussero anche della velocità decidendo di portarla al massimo possibile. Nelle ultime 24 ore, infatti, erano state percorse ben 546 miglia e c'era la possibilità di arrivare a New York con un giorno di anticipo. Non fu mai chiarito di chi fu la responsabilità finale della decisione.

 

Comunque, l'eventualità di incontrare packs era un fatto assolutamente normale e le navi di linea erano solite mantenere alta la velocità per assicurare l'orario. Questa verità fu confermata durante l'inchiesta britannica successiva al disastro, quando parecchi comandanti (John Pritchard, William Stewart, Alexander Fairfull, Andrew Braes e molti altri) furono interrogati al riguardo. La velocità veniva ridotta solo in caso di effettivo avvistamento, ma finché la visibilità era buona e le vedette allertate, si poteva procedere normalmente. Durante il processo sulle cause del naufragio, vi fu chi ipotizzò che la compagnia di navigazione avesse espressamente richiesto di rimanere al di sopra dei 20 nodi di velocità al fine di assicurarsi il prestigioso "Nastro Azzurro" (Blue Ribbon).

 

Alle 13,45 arrivò un messaggio di "segnalazione iceberg" dal piroscafo Amerika, che inspiegabilmente non giunse al ponte di comando, mentre nel pomeriggio un altro avviso, questa volta dal Mesaba, non fu consegnato. I marconisti erano impegnati nell'invio dei numerosi messaggi privati dei passeggeri, che fin dal giorno prima si erano accumulati a causa di un guasto momentaneo all'apparecchiatura radio (i cavi del trasformatore secondario si erano bruciati).

 

Verso le 21,00 la temperatura era scesa a un grado sopra zero e l'ufficiale di turno – Lightoller – aveva avvertito il maestro d'ascia che la scorta d'acqua sarebbe probabilmente gelata. Circa a quell'ora, il comandante salì in plancia e discusse con Lightoller le condizioni eccezionalmente calme del mare. Prima di ritirarsi in cabina, Smith ordinò di chiamarlo se fosse accaduto qualcosa di strano e di diminuire la velocità in caso di foschia. L'abbassamento della temperatura indicava probabilmente che si stavano avvicinando ad un banco di iceberg e Lightoller disse alle vedette di prestare attenzione ai ghiacci galleggianti, soprattutto a quelli di ridotte dimensioni chiamarti growlers.

 

Alle 22,00 il 1° ufficiale Murdoch subentrò a Lightoller, dal quale ricevette gli ordini del Comandante. Mezz'ora più tardi Murdoch rispose ad un messaggio per mezzo di una lampada Morse proveniente dal piroscafo Rappahannock, che incrociò il Titanic alle 22,30. Lo informava di essere appena uscito da una banchisa circondata da iceberg. Lo stesso Murdoch ordinò al “lampista” di chiudere i boccaporti sul castello di prua, in modo che la luce non ostacolasse la visuale delle vedette, senza però risolversi a ridurre la velocità della nave. L'esperienza aveva infatti dimostrato che in condizioni normali una massa di ghiaccio era visibile grazie alle onde che si increspavano alla sua base. Tuttavia, con un mare assolutamente piatto come in quel momento, il margine di sicurezza era molto ridotto. Durante l'inchiesta britannica, Lightoller specificò che “…l'oceano era liscio come la superficie di un tavolo o di un pavimento; era un fatto veramente eccezionale”.

Alle 23,00 un importantissimo marconigramma giunse infine dal mercantile Californian, che sostava bloccato nella banchisa a poche decine di miglia a nord-ovest dal Titanic: nel messaggio veniva segnalata la presenza di un enorme campo di iceberg proprio sulla rotta del transatlantico, ma anche questo messaggio non venne recapitato in plancia. Anzi, il marconista Phillips rimproverò l'operatore del Californian per aver interrotto il suo lavoro con la stazione telegrafica di Capo Race, a Terranova. In generale, il risultato fu un atteggiamento di leggerezza e di eccessiva sicurezza che si impadronì di tutto l'equipaggio.

Collisione

Alle 23,40 (ora locale della nave, UTC-3), le vedette Frederik Fleet e Reginald Lee videro un iceberg di fronte alla nave. Gli iceberg che affollano le rotte atlantiche settentrionali provengono sempre dalla costa occidentale della Groenlandia o dal Labrador ed impiegano 2-3 anni per giungere al 41° di latitudine nord, sospinti prima dalla fredda Corrente del Labrador che li preserva, poi dalla calda Corrente del Golfo che li scioglie lentamente. L'iceberg che affondò il Titanic era praticamente coevo alla nave che ne rimase vittima ed al momento dell'urto – in base a recenti calcoli – dovrebbe aver sviluppato una pressione di almeno 985Kg/cm2 sull'acciaio della fiancata del transatlantico, quando l'acciaio stesso resiste fino ad una pressione di circa 690-750 kg/cm², in base al grado di purezza dalle scorie di fusione.

 

L'avvistamento avvenne “a occhio nudo” a causa della mancanza dei binocoli, e quindi in ritardo: si disse che la portata visiva della vedetta fosse di almeno 1 miglio di distanza, quando recenti simulazioni computerizzate, tenendo conto che quella notte non c'era il chiarore della luna ed il mare era “di calma piatta”, attestano che la portata visiva non poteva superare i 450–550 m di distanza, troppo pochi per evitare la collisione alla velocità di 21 nodi a cui filava il bastimento, per evitare l'urto fatale, la velocità della nave non avrebbe dovuto superare i 9 nodi, il che avrebbe ritardato di tre giorni l'arrivo a New York. La zona in cui avvenne il disastro è nota per essere un'area interessata dagli iceberg durante la primavera e dagli uragani in estate – autunno ed è considerato un fatto eccezionale la contemporanea assenza di luna e di calma piatta del mare, ragion per cui, con la sola illuminazione stellare e senza il frangersi delle onde sulle pareti dell'iceberg, l'iceberg stesso non poteva che esser avvistato a meno di 500 metri dalla prua della nave.

 

La mancanza dei binocoli – si appurò al processo – era imputabile alla fretta di dover salpare da Southampton nei tempi previsti, ragione per cui non furono distribuiti a bordo già alla partenza. Il motivo è anche spiegabile con il rimpasto dell'equipaggio voluto dal Comandante, in quanto il 2º ufficiale Blair (sostituito da Lightoller) prima del trasferimento diede istruzione di togliere dalla coffa i binocoli che lui stesso aveva portato. In pratica, l'iceberg che le vedette si trovarono di fronte era pressoché invisibile, venne avvistato non direttamente, ma indirettamente in quanto la sua sagoma nera interrompeva la linea dell'orizzonte e lasciava una piccola porzione della volta celeste priva apparentemente di stelle.

Dopo l'avvistamento, Fleet suonò tre volte la campana e telefonò sul ponte di comando dicendo: "Iceberg dritto di prua! Iceberg dritto di prua!". Il capitano Edward John Smith era sceso nella sua cabina da mezz'ora ed al comando della nave era in quel momento il secondo ufficiale, Murdoch, che comandò di virare immediatamente a sinistra, ordinando anche di mettere le macchine "indietro tutta", ma la nave viaggiava alla velocità di circa 22,5 nodi (velocità calcolata subito dopo dal 4º ufficiale Boxhall) e non riuscì a rallentare nel tempo necessario ad evitare l'impatto, in virtù dell'abbrivo del transatlantico. Inoltre, erano invertibili soltanto le due eliche laterali della nave, non l'elica centrale che doveva necessariamente essere fermata, impedendo così il supporto della stessa alla manovra in atto.

Dopo il ritrovamento del relitto, in base alla posizione geografica, si scoprì che la velocità effettiva al momento della collisione era di circa 20,5 nodi. Inoltre, a posteriori, è stato ipotizzato che se Murdoch avesse mantenuto la ROTTA, la nave avrebbe subìto un violento impatto frontale contro l'iceberg, danneggiando i primi due compartimenti stagni e potendo probabilmente continuare la traversata verso New York. Il ghiaccio strisciò sulla dritta piegando le lamiere e provocando sei diversi squarci sotto la linea di galleggiamento. L'iceberg fotografato giorni dopo sul luogo del disastro, pare esser proprio quello incriminato in quanto appariva colorato da due strisce, una nera e una sottostante rossa, i colori dell'inaffondabile Titanic. La collisione non fu avvertita in maniera significativa dai passeggeri delle classi prima e seconda in virtù del fatto che le loro cabine erano posizionate al di sopra della linea di galleggiamento e solo chi si trovava sul ponte si accorse della presenza dell'iceberg, pur senza rendersi conto della gravità dell'evento, in quanto piovvero frammenti di ghiaccio distaccatesi dalla massa dell'iceberg in seguito all'avvenuto impatto.

 

Dalle testimonianze dei superstiti, l'impatto non fu avvertito in prima classe, mentre fu descritto dai passeggeri di seconda classe come "una vibrazione ovattata", come "un botto sordo" dai passeggeri di terza classe, come un rumore "assordante di ferraglia" dai fuochisti, i primi che si resero conto dello sventramento della fiancata (testimonianza dell'unico sopravvissuto del locale caldaie N°.6, il compartimento risultato più danneggiato in seguito all'impatto). Lightoller, che in quel momento si trovava lecitamente a letto nella sua cabina, testimoniò di aver avvertito soltanto “…un'interruzione nella monotonia del movimento”. In seguito i superstiti descrissero l'impatto come “…il rotolare di migliaia di biglie”, come “…se qualcuno avesse strusciato un enorme dito contro la fiancata della nave”, o come se “…un pezzo di stoffa si fosse lacerato”. Ben diversa fu la reazione in sala macchine, dove i fuochisti erano intenti ad alimentare le caldaie. Uno di essi diede la seguente testimonianza: “All'improvviso la murata di dritta parve rovinarci addosso. Si sentì come uno scoppio di arma da fuoco e l'acqua cominciò a scorrere intorno; ci gorgogliò tra le gambe e noi ci precipitammo con un balzo nel compartimento successivo chiudendoci alle spalle la porta stagna. Non pensai, e nessuno lo pensò in quel momento, che il Titanic sarebbe potuto affondare”.

 

 

Prime fasi dopo l'impatto

Mentre l'acqua cominciava ad invadere i compartimenti furono immediatamente chiuse le porte stagne e il Capitano Smith ordinò di scandagliare la nave. Secondo gli studi compiuti durante la progettazione, la nave sarebbe potuta rimanere a galla anche con quattro compartimenti allagati in successione ma non se ad essi se ne aggiungeva un quinto (le sei fessure aperte dall'iceberg interessarono infatti i primi cinque compartimenti prodieri). Inoltre, le paratie stagne non superavano il ponte "E", che si trovava all'incirca a metà dell'altezza della nave. A causa di questo, l'affondamento della prua avrebbe fatto tracimare l'acqua verso gli altri comparti rendendo pressoché inutile il lavoro delle pompe idrauliche. La situazione apparve immediatamente drammatica; i 4 compartimenti del carico, situati a prua della nave, in 10 minuti imbarcarono più di 4 metri cubi d'acqua causando un conseguente primo abbassamento della carena frontale di 2° facilitando l'entrata dell'acqua all'interno degli altri compartimenti e del primo dei compartimenti caldaie già colpito dall'iceberg (quinto compartimento da prua). La chiusura istantanea delle paratie non permise, almeno in un primo tempo, il fluire d'acqua nei compartimenti stagni di prua, destinati ad essere allagati completamente.

Sebbene le paratie furono chiuse prontamente, l'intervento delle pompe non facilitò l'evacuazione dei compartimenti caldaie in cui si registrarono le prime vittime, infatti la mancata chiusura di alcuni regolatori di pressione delle caldaie dei primi compartimenti durante le manovre di inversione permise la fuoriuscita di vapori che compromisero maggiormente l'evacuazione stessa. Dopo i primi 15 minuti tutti i locali caldaie furono evacuati, allo stesso tempo alle sale macchine e alle zone turbine fu ordinato di arrestare completamente la propulsione ma non fu detto loro di abbandonare i posti, di conseguenza tutti i banchi elettrici degli alternatori rimasero in funzione sino alle ultime fasi dell'affondamento. Tutti i macchinisti morirono nell'atto di ritardare il più possibile il triste destino della nave con l'ausilio delle pompe, azione che sarà poi ostacolata dall'allagamento dei piani superiori dove si trovavano le stesse. Per tutto il tempo, dopo il contatto con l'iceberg fino all'affondamento, dai 4 fumaioli uscì un forte sibilo dovuto ad una contromisura adottata per evitare lo scoppio delle caldaie ancora attive facendo fuoriuscire vapore in eccesso per ridurre la pressione.

L'allagamento delle sale macchine, ed in particolare la sala delle turbine elettriche, procedette per gradi e fu notevolmente ritardata dalle chiusure delle porte stagne e dalle pompe, questo fornì energia elettrica per il funzionamento delle apparecchiature e per l'illuminazione necessarie per le operazioni di evacuazione della nave. Dopo la completa chiusura del reparto caldaie e di tutte le 16 paratie stagne la situazione risultava essere la seguente: 5 dei 6 compartimenti interessati al contatto con l'iceberg imbarcavano acqua molto rapidamente; 21 delle 29 caldaie erano ancora accese (si vide necessario dunque aprire gli sbocchi per il vapore per evitare l'esplosione); macchine completamente ferme; alternatori ed impianti elettrici funzionanti; inizio inabissamento della prua e della carena frontale con progressivo innalzamento della poppa (ancora poco evidente) e con conseguente inclinazione dello scafo a babordo; progressivo allagamento dei compartimenti stagni, l'ingresso di tale quantità d'acqua avrebbe, infatti, determinato un "effetto domino" con tutti gli altri compartimenti proprio perché le chiusure stagne erano state progettate per raggiungere soltanto metà dell'altezza della nave; inizio procedure d'evacuazione dei passeggeri dalla nave.

 

I calcoli effettuati da Thomas Andrews rivelarono che il transatlantico sarebbe affondato entro un'ora e mezza o due ore al massimo. Fu dato quindi l'ordine di abbandonare la nave secondo le regole: Wilde si occupò delle lance, Murdoch chiamò i passeggeri a raccolta, il 6º ufficiale Moody preparò la lista delle assegnazioni di ogni barca, il 4º fu mandato a svegliare gli altri. Bisognava assolutamente evitare di diffondere il panico, per quanto la situazione sembrasse ancora relativamente sicura. In effetti, l'unica anomalia era costituita dal terribile sibilo del vapore che fuoriusciva dalle valvole dei fumaioli, onde impedire lo scoppio delle caldaie. Lightoller raccontò che il vapore faceva un tale frastuono che mille locomotive rombanti in un tunnel non sarebbero riuscite ad eguagliarlo. Perfino i marconisti, il cui alloggio si trovava dietro la base del fumaiolo n. 1, avevano difficoltà a sentire le trasmissioni radio. «Non sentiamo nulla per il rumore del vapore», fu il messaggio ricevuto una ventina di volte dal piroscafo giapponese Ypiranga. In seguito, il comandante riuscì a farlo diminuire.

Il Titanic era dotato di 3.560 salvagenti individuali ma di sole 16 lance (più 4 pieghevoli) per una capacità totale di 1.178 posti, insufficienti per i passeggeri e l'equipaggio. Le operazioni di carico si svolsero rispettando l'ordine del Capitano, che indicava di far salire "prima le donne e i bambini". L'equipaggio equivocò questo ordine impedendo agli uomini di salire sulle lance, ma in realtà il Capitano intendeva dire che gli uomini avrebbero potuto salire in seguito se fosse rimasto spazio libero. La prima scialuppa fu calata alle 00,40 dal lato destro con sole 28 persone a bordo; poco dopo ne fu calata una con solo 12 persone, sebbene le loro capacità fossero di 65 passeggeri. Sprecando tre quinti dei posti disponibili, molte delle lance vennero calate in mare mezze vuote.

 

Da parte loro i passeggeri tendevano a considerare la faccenda uno scherzo: se qualcuno aveva il salvagente veniva preso in giro, mentre altri esibivano blocchetti di ghiaccio come souvenir. L'orchestra si posizionò addirittura nel salone di prima classe e cominciò a suonare musica sincopata; si spostò poi all'ingresso dello scalone sul ponte lance.

La posizione registrata del Titanic al momento dell'impatto fu Lat. 41° 46' Long.N 50° 14' O. Il relitto fu trovato in Lat. 41° 43' N - Long. 49° 56' O.

I passeggeri di prima e seconda classe ebbero facile accesso al ponte lance tramite le scale che conducevano al ponte, mentre i passeggeri di terza ebbero notevoli difficoltà a trovare il percorso. Del totale dei passeggeri di terza classe se ne salvò solo un terzo, dando origine alla "leggenda" – supportata da alcune testimonianze – secondo cui vennero intenzionalmente trascurati.

 

L'ordine di far salire donne e bambini di terza classe sul ponte lance pare che fosse arrivato alle 00,30, quando un cameriere guidò piccoli gruppi di persone attraverso il dedalo di passaggi e il largo corridoio detto Scotland Road sul ponte E.

 

Intanto, poco dopo mezzanotte, il 4º ufficiale Boxhall scorse le luci di una nave a circa 10 miglia di distanza (si trattava del Californian) e fu autorizzato da Smith a sparare gli otto razzi di segnalazione, uno ogni cinque minuti, senza alcun risultato. Più o meno allo stesso momento, il Comandante si recò personalmente in sala radio a consegnare una richiesta di aiuto ai due marconisti, i quali, dopo aver usato il CQD, a partire dalle 00,45 cominciarono ad inviare l'SOS, il nuovo segnale di soccorso che aveva sostituito ufficialmente dal 1908 il precedente CQD. I marconisti si servivano raramente del nuovo segnale, che cominciò ad essere utilizzato universalmente dopo che Harold Bride lo usò a bordo del Titanic. A quell'epoca, inoltre, non tutte le navi avevano un servizio radio. Diversi bastimenti risposero, tra cui l'Olympic, ma erano tutti troppo lontani per intervenire in tempo.

 

Il primo uomo ad aver ricevuto una richiesta di soccorso è stato Arthur Moore. La nave più vicina era il Carpathia, distante 58 miglia; il marconista Cottam restò allibito quando ricevette un messaggio di soccorso dal celebre transatlantico al viaggio inaugurale e svegliò di corsa il capitano Arthur Rostron per comunicare la notizia. Subito fu dato ordine di invertire la rotta e dare tutto vapore, ma il Carpathia sarebbe giunto sul posto in non meno di quattro ore. Nell'ultimo messaggio captato dal Carpathia, alle 01,45, il marconista inviò: «Vieni il più presto possibile, amico. La nostra sala macchine si sta riempiendo fino alle caldaie.»

 

Un'ora dopo l'impatto con l'iceberg, il Titanic aveva imbarcato almeno 25 milioni di litri d'acqua e la situazione cominciò ad assumere aspetti drammatici; il ponte di prua si stava inondando e tutte le lance tranne due si erano già allontanate. A bordo rimanevano ancora più di 1.500 persone. Alcuni passeggeri tentarono di assaltare le ultime lance e il 5º ufficiale Lowe si vide costretto a sparare alcuni colpi di pistola in aria per allontanare la folla. Anche il Commissario di bordo sparò due colpi di pistola in aria, mentre Murdoch sventava un assalto alla barca n. 15.

 

Archibald Gracie ricorderà in seguito che l'orchestra di bordo continuò a suonare almeno fino all'1,40 circa. Riferì anche che alcuni suoi conoscenti (i signori Millet, Moore, Butt e Ryerson), una volta accortisi che non c'erano più lance, si misero a giocare a carte indifferenti a quel che accadeva. La signorina Katherine Gold (una cameriera che si trovava a bordo di una delle lance), vide da lontano tanti uomini seduti sul ponte A al suono di un ragtime. Udì anche un valzer ma non ricordò quale.

 

L'ultimo brano suonato dall'orchestra fu un inno religioso, forse Autunno o più probabilmente Nearer, My God, to Thee (Più vicino a te, mio Dio).

 

 

Fasi finali dell'affondamento

Secondo le testimonianze dei sopravvissuti, e tramite le ricostruzioni effettuate grazie al relitto, si è stabilito che verso l'1,30 la prua della nave era completamente sommersa, con la poppa fuori dall'acqua. Prima di ritirarsi in plancia, sembra che il capitano avesse invitato i passeggeri ad esser galantuomini: «Be English!», (siate inglesi), diramando poi l'ordine «Save yourselves, if you can!» (si salvi chi può) liberando l'equipaggio dal suo lavoro. Thomas Andrews, il costruttore, aveva trascorso le ultime ore cercando di rassicurare passeggeri e camerieri incitandoli ad indossare i salvagente dicendo: «Giù di sotto è tutto in pezzi ma non affonderà se reggono le paratie poppiere». Alla fine fu visto dal cameriere John Stewart, in piedi, nel salone fumatori, con lo sguardo fisso su un quadro: Il porto di Plymouth, del pittore Norman Wilkinson.

 

Il cameriere (che riuscì a salvarsi) gli chiese se non voleva fare nemmeno un tentativo, ma Andrews restò lì come inebetito. Ida Straus rifiutò di salire sull'ultimo posto dell'ultima scialuppa per restare accanto al marito, Isidor Straus. Anche di Benjamin Guggenheim si ha una testimonianza curiosa, secondo la quale egli rifiutò il salvagente indossando l'abito da sera insieme al suo segretario: «Ci siamo messi gli abiti migliori e affonderemo come gentiluomini.» La frase passò alla storia ma non è chiaro a chi fosse rivolta. Il direttore del ristorante, monsieur Gatti, se ne stava in disparte in mantello e tuba, mentre il milionario J.J. Astor – che si era visto rifiutare da Lightoller un posto nella scialuppa n. 4 accanto alla moglie – rimase sul ponte lance fino alla morte.

 

Si disse che avesse messo in testa ad un ragazzino un cappello da bambina dicendo: «Ecco, adesso puoi andare». Poco dopo le 2,00 Lightoller tentò di calare in mare il battello pieghevole B arrampicandosi sul tetto degli alloggi ufficiali, ma non ci riuscì. Il pieghevole A venne portato via dal risucchio galleggiando capovolto. Il D venne calato in mare con 44 persone a bordo (la capacità era di 47) dopo che Lightoller e i suoi marinai lo difesero dall'assalto dei passeggeri tenendosi per le mani formando una catena umana. Queste lance erano le ultime lance rimaste a disposizione. Il colonnello Gracie riferì che in quel momento una folla immensa proveniente dai piani inferiori emerse coprendo tutto il ponte lance: si trattava dei passeggeri di terza classe rimasti fino ad allora sottocoperta. Circa un centinaio di persone si radunarono intorno a due sacerdoti e cominciarono a recitare il rosario. Con loro arrivarono anche tutti i macchinisti, che avevano lavorato alle pompe ritardando il più possibile l'affondamento e assicurando la luce elettrica fino quasi alla fine.

 

L'affondamento in un dipinto d'epoca di Willy Stower.

I macchinisti morirono tutti. Verso le ore 2,10 la poppa si era sollevata al punto da formare un angolo di 30° con la superficie del mare, stagliandosi contro il cielo stellato. La forza terrificante generata dall'emergere dello scafo provocò il lento schiacciamento della chiglia e la dilatazione delle sovrastrutture, che portarono lo scafo quasi al punto di rottura. Secondo i calcoli effettuati dagli scienziati della spedizione del 1997, sul Titanic agì in quel momento una pressione di tre tonnellate per centimetro quadrato. La ciminiera di prua si staccò, mentre l'acqua ruppe i vetri della cupola e inondò lo scalone riversandosi nella nave.

 

Alle 2,20 anche la parte poppiera si inabissò, portando a termine la breve vita del Titanic.

Le operazioni di salvataggio

La quasi totalità dei 706 superstiti risultò consistere nelle persone che avevano preso posto sulle lance, mentre pochissimi furono i superstiti tra quanti si trovavano a bordo del Titanic nella fase finale dell'affondamento. La temperatura era di circa 0 gradi e tutti coloro che erano in mare avrebbero potuto resistere al massimo 10 minuti prima di assiderarsi. Infatti, gran parte dei naufraghi morì appunto per ipotermia e non per annegamento, dato che quasi tutti indossavano il giubbotto salvagente. Nessuno fu vittima degli squali (peraltro presenti anche a quelle latitudini) e nessuno fu vittima del risucchio verso il fondo che si creò al momento dell'affondamento. Delle circa 1.550 persone che erano a bordo del Titanic, nella fase conclusiva dell'affondamento, quando 18 delle 20 lance erano state calate (le rimanenti due, le pieghevoli «A» e «B», non poterono essere calate e furono trascinate in mare quando la nave affondò), i sopravvissuti furono circa 50-60.

 

Otto membri dell'equipaggio, due dei quali morirono per ipotermia dopo il salvataggio, furono recuperati dalla scialuppa numero 4, la penultima a lasciare la nave, che, al comando del timoniere Walter Perkins, si era trattenuta nei pressi del transatlantico allo scopo di imbarcare altri passeggeri dai portelloni laterali (che però furono trovati chiusi) e che si avvicinò agli uomini in mare, recuperando quelli che riuscirono a raggiungerla a nuoto.

Due lance di salvataggio del Titanic fotografate da bordo del Carpathia; la scialuppa sulla destra è la n. 14, sulla quale si trovava il 5º ufficiale Harold Lowe.

Altri quattro naufraghi, uno dei quali deceduto dopo il recupero, vennero tratti in salvo dalla scialuppa n. 14, che, al comando del quinto ufficiale Harold Godfrey lowe, fu l’unica imbarcazione a tornare verso il gruppo dei naufraghi in cerca di superstiti. Ad eccezione delle persone recuperate dalle lance n.4 e n.14, gli unici altri superstiti tra quanti erano a bordo del Titanic nei suoi minuti finali furono 40-50 persone che riuscirono a raggiungere i relitti delle lance pieghevoli «A» e «B».

 

Venti o trenta naufraghi riuscirono a raggiungere la pieghevole «A», rimasta alla deriva semiallagata (all'interno vi erano 30-35 centimetri d'acqua) e con i fianchi di tela abbassati, tanto che i superstiti dovettero trascorrere ore con l’acqua alle ginocchia, ma molti di essi non erano riusciti a salire sull’imbarcazione, ma solo ad aggrapparsi al suo bordo, in particolare gli ultimi arrivati, già troppo sfiniti ed assiderati per riuscire a salire, morirono di ipotermia nel corso della notte, mentre i sopravvissuti, il cui numero non è mai stato del tutto accertato ma risulterebbe verosimilmente ammontare ad una cifra compresa tra le 14-15 (nove o dieci passeggeri – tre di prima classe e sei o sette di terza classe – e cinque membri dell’equipaggio) e le 18-20 persone, vennero recuperati, la mattina seguente, dalla scialuppa n.14.

 

Tra i superstiti della pieghevole «A» vi fu anche Rhoda Mary Abbott, l’unica donna sopravvissuta a non essere salita su una scialuppa prima del definitivo inabissamento. Alcune decine di superstiti si arrampicarono invece sul relitto della pieghevole «B», che si era capovolta, ma alcuni dei naufraghi, tre o quattro, secondo quanto riferito dai superstiti, tra cui il primo radiotelegrafista John George Phillips e probabilmente anche il passeggero di terza classe David Livshin, morirono anch’essi d’ipotermia nel corso della notte, mentre 30 superstiti (11 passeggeri – tre di prima classe, uno di seconda classe e sette di terza classe – e 19 membri dell’equipaggio) vennero presi a bordo, la mattina successiva, dalle lance 4 e 12. Tra i superstiti della pieghevole «B» vi furono il secondo ufficiale Charles Herbert Lightoller, il secondo radiotelegrafista Harold Sidney Bride ed i passeggeri di prima classe Jack Thayer ed Archibald Gracie, che furono tra i principali testimoni oculari delle fasi finali dell’affondamento del Titanic. Il capo panettiere Charles John Joughin affermò di essere sopravvissuto in acqua per circa due ore, prima di riuscire a raggiungere dapprima la pieghevole «B» ed in seguito la scialuppa n.12, sopravvivendo senza quasi riportare sintomi di congelamento, ma il suo racconto è discusso.

 

L'unica altra scialuppa a recuperare dei superstiti dall'acqua fu la scialuppa pieghevole «D», i cui occupanti trassero in salvo il passeggero di prima classe Frederick Maxfield Hoyt, che era riuscito a raggiungere a nuoto la scialuppa, una delle più vicine al Titanic. Verso le 8 della mattina, giunse sul posto il Carpathia che recuperò i naufraghi sopravvissuti sulle lance. Le salme di quattro vittime decedute a bordo delle lance furono sepolte in mare dal piroscafo. A bordo fu poi tenuta una cerimonia religiosa per i dispersi ed alle 8,50 la nave partì per New York, dove arrivò il 18 aprile con 706 superstiti.

 

Le lance insufficienti

La legge emessa nel 1894 obbligava ad installare un minimo di sedici lance sulle navi eccedenti le 10.000 tons., all'epoca in cui la nave più grande del mondo: il Lucania pesava 13 000 tonnellate. Tuttavia, col passare del tempo, la legge non venne mai adeguata in proporzione all'aumento del tonnellaggio e nessuno si preoccupò di correggere la differenza. Il numero di lance a bordo del Titanic era quindi perfettamente in regola nonostante la nave pesasse 46.000 tonnellate. L'errore era ormai nettamente evidente nell'ambiente navale, tant'è vero che uno dei progettisti della White Star – Alexander Carlisle – fece installare sul Titanic le nuove gru di tipo "Welin", che potevano sostenere complessivamente 32 lance e ammainarne 64 (i bracci delle gru erano rotanti). Tuttavia, le lance aggiuntive non furono mai installate e la White Star si accontentò di aggiungerne soltanto quattro smontabili, più piccole, del tipo "Engelhardt". Pare che le decisioni finali siano state del progettista William Pirrie e di Bruce Ismay, secondo i quali il ponte lance con 16 lance avrebbe avuto un aspetto più dignitoso. Alla fine, Carlisle accettò la situazione dicendo: "A meno che il Board of Trade e i governi non costringano a installare un numero sufficiente di lance, nessun costruttore può permettersi tanto peso inutile".

Il problema delle paratie stagne

Come se non bastasse, la sciagurata decisione di eliminare ben 28 lance dal novero delle 48 previste (ne rimasero 16 in legno e 4 pieghevoli tipo Engelhardt), il presidente della White Star Line, Bruce Ismay, si rese responsabile anche della decisione di abbassare le paratie stagne per far posto ad un salone che avrebbe dovuto essere «…il più maestoso a memoria d'uomo». Prima della partenza, gli ispettori del Ministero del Commercio britannico fecero rilevare che era avventato aver abbassato le paratie stagne, ma concessero ugualmente il nulla osta alla partenza della nave. Le paratie vennero abbassate dai 4,5 m previsti dal progetto originale a 3 m, e questo risulterà fatale alla nave in quanto i compartimenti stagni non lo erano del tutto. Infatti, la riduzione dell'altezza delle singole paratie fece sì che esse non raggiungessero il tetto del compartimento, che stagno – a questo punto – non era più. Il mancato isolamento dei compartimenti danneggiati, durante l'appruamento, originò un sistema a "vasi comunicanti", tale per cui, quando un compartimento stagno si riempiva d'acqua, questa tracimava a cascata, causa il fatto che la paratia non chiudeva ermeticamente il vano non raggiungendo il tetto: si riempiva quindi il successivo e così via fino a che tutto lo scafo della nave si trovò invaso dall'acqua. Questa risultò – con ogni probabilità – esser stata la reale causa del rapido affondamento della nave, nonostante la buona qualità dell'acciaio impiegato.

 

L’affondamento del Titanic rappresentò la fine di un’epoca, il sogno infranto della Belle Epoque. Come per la caduta dell'Impero Babilonese, l’affondamento del Titanic ha rappresentato il simbolo dello sgretolamento di orgogliosi imperi, con una simile mescolanza di ricchi, borghesi e poveri tutti destinati insieme all'abisso. Era la fine di una leggenda che sposava la tecnologia alla ricchezza, il materialismo al romanticismo, l’illusione alla fantasia.

 

Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912 furono – forse per l’ultima volta – rigorosamente applicate le regole di una cavalleria un po’ romantica che costituiva, in senso esteriore, il punto d’arrivo della civiltà occidentale. Furono salvate per primi le donne e i bambini mentre gli uomini (e fra essi miliardari famosi) si rassegnarono a perire con dignità di gentlemen. Tramontò il mito dell’indistruttibilità di un prodotto della tecnologia moderna. Un mondo che sembrava sicuro e inviolabile, soprattutto per i ricchi, affondò insieme col transatlantico.

 

La tragedia che coinvolse la famosa nave non è solo da considerare come uno spiacevole e mortale incidente. Esso ha influito in maniera molto più incisiva nella coscienza dell’intero globo. A partire dagli anni ’30 del XIX secolo si erano diffuse idee di grande fiducia nei confronti della scienza e si credeva che la tecnologia potesse risolvere le problematiche della vita degli uomini. Inoltre, tutto ciò si inseriva in un quadro geo-politico di sostanziale stabilità: era la Belle époque. Si può ben capire come in un siffatto contesto l’affondamento di una nave ritenuta inaffondabile potesse colpire la coscienza generale. Il discorso diviene più chiaro se si tiene presente che solo due anni dopo l’Europa sarà coinvolta nella Grande Guerra che spazzerà via ogni speranza provocando la fine di buona parte delle classi dirigenti.

 

Il Titanic non rappresentò la fine di un'era ma un momento di pausa e riflessione sul fatto che forse non siamo così potenti come crediamo, con l'augurio che non ci sia più una "signora grigia", una "signora elegante" che abbia una così tragica fine.

CRONOLOGIA DELL’AFFONDAMENTO DEL TITANIC

0:30 – Iceberg spotted.

1:05 – Titanic collides with iceberg.

6:06 – The ship has stopped as damage inspections are carried out.

7:44 – Captain Smith orders engines to ‘Half Ahead’.

19:41 – Titanic stops for the last time.

20:04 – Excess steam is vented.

38:08 The Titanic begins taking on a ‘starboard list’.

43:03 – Thomas Andrews estimates 1-2 hours before the ship sinks.

46:23 – The first distress calls are sent out.

48:38 – Lights of another ship are spotted on the horizon.

53:07 – Most lifeboats are prepared to evacuate passengers.

58:20 – Carpathia responds to Titanic’s distress calls.

1:01:29 – Lifeboat 7 is launched.

1:05:03 – Lifeboat 5 is launched.

1:05:21 – The D-Deck gangway doors are opened.

1:06:04 – The telegraph operators begin using ‘SOS’.

1:07:22 – Lifeboat 5 encounters lowering difficulties.

1:08:02 – Officer Boxhall launches the first distress rocket in an attempt to signal the ship on the horizon.

1:10:24 – The Carpathia confirms it is on it’s way.

1:11:03 – Steam stops venting from the funnels.

1:13:20 – The starboard list is eliminated as Boiler Room 5 floods.

1:21:28 – Lifeboat 8 leaves.

1:28:22 – Suction pumps are activated.

1:31:33 – Lifeboat 6 is launched.

1:36:57 – Water is up to the Titanic’s nameplate.

1:39:37 – Titanic begins listing to port.

1:41:43 – Lifeboat 16 is launched.

1:46:54 – Lifeboat 14 is launched.

1:51:18 – Lifeboat 14 is dropped 4 feet into the sea from its falls after they jammed.

1:51:42 – Lifeboat 12 is launched.

1:52:29 – Lifeboat 9 is launched.

1:58:53 – Lifeboat 11 is launched.

2:00:41 – Lifeboat 13 is launched.

2:05:21 – Lifeboat 13 is pushed aft by the discharging condenser, jamming it on the falls.

2:05:50 – Lifeboat 15.

2:05:42 – Lifeboat 13 cannot release itself as Lifeboat 15 comes down on top of it.

2:07:07 – Lifeboat 13 is released and is pulled out from underneath Lifeboat 15 as 15 lands in the water.

2:07:38 – Lifeboat 2 is launched.

2:09:31 – The lights on the horizon disappear.

2:11:52 – Lifeboat 4.

2:12:22 – Lifeboat 10.

2:22:12 – It is now 2AM. The Titanic has 20 minutes left.

2:26:10 – Collapsible Boat D is launched.

2:29:39 – The last messages from the Titanic are heard.

2:30:46 – Collapsible A is slid off the Officers’ Quarters roof.

2:31:03 – The Wireless Room is abandoned.

2:31:42 – Collapsible B is thrown from the roof of the office quarters. It lands upside down in the water.

2:34:01 – Survivors distinctly hear 4 explosions from deep within the ship.

2:39:23 – All remaining power is lost. The ship breaks in two.

2:40:36 Titanic is gone. Rescuers do not arrive for another hour and 40 minutes.

2:40:51 – Titanic is heard below the surface as it breaks apart, implodes and falls to the sea floor.

 

TUTTI I NUMERI DEL TITANIC

http://www.titanicdiclaudiobossi.com/Html/Tutti%20i%20numeri_42.htm 

 

 

 

 

CARLO GATTI

 


30 Marzo 2015

 

 

 

 

ALBUM FOTOGRAFICO

Pino SORIO

Il Titanic ormai libero e pronto per il varo il 31 maggio 1911. Lo scalo lungo il percorso é già stato cosparso di 22 tons di sego, olio di balena e sapone in pasta.


 

Particolare dell'invasatura


Alle 12.15 del 31 maggio 1911 anche la poppa é libera ed il Titanic ormai é pronto per andare incontro al proprio destino

 


 

 

 

Poco dopo mezzogiorno, ad un gesto di Lord William James Pirrie, il Titanic viene lanciato in mare alla velocità di 22 nodi

Il Titanic subito dopo il varo


Il 3 Febbraio il Titanic entra in bacino per terminare i lavori di pitturazione

Il Titanic in allestimento in banchina con soli tre fumaioli

La pitturazione é quasi terminata

Belfast, sabato 6 Aprile 1912, il Titanic parte per prove in mare

Le prove furono effettuate per sole 12 ore


Titanic e Olympic

Successivamente la nave raggiunse il porto di Southampton e partì per il viaggio inaugurale il 10 Aprile 1912

Scala dal cielo a vetri della 1a classe

Veranda caffé vista dall'esterno

Veranda caffé vista dall'interno

Il ponte principale del Titanic in fase di completamento

Imbarco del fumaiolo

Il fumaiolo del Titanic

L'asse dell'elica centrale del Titanic in lavorazione al tornio

Uno dei due assi laterali del Titanic pronto per essere imbarcato

Particolare dell'asse dell'elica laterale carenato allo scafo

Le tre eliche dopo il montaggio

L'elica centrale del Titanic

Montaggio delle eliche

La macchina del timone del Titanic

Il timone del Titanic

Il ponte intermedio in costruzione

Il cielo del doppiofondo ormai stagno del Titanic

Il pistone idraulico allestito in occasione del varo per fornire la spinta iniziale che doveva consentire al Titanic di scorrere lungo lo scalo.

La Sala Macchine del Titanic


Il Motore a 4 cilindri a triplice espansione di vapore del Titanic
in assemblaggio quasi pronto per le prove al banco.

Albero a gomito pronti

Rotore turbina del Titanic in lavorazione

Rotore della turbina del Titanic in lavorazione sul tornio

Involucro contenente il rotore della turbina a vapore

Le 29 caldaie del Titanic

Particolari costruttivi delle porte stagne del Titanic