MATRIOSKA - Poesia

 

MATRIOSKA

 


Dipinto di Marco LOCCI

 

Non so quando nascerai figlio mio

E se sarai sano, forte, amato.

Posso solo tenerti qui. Avvolto. Con ogni tempo. Con ogni vento.

Nascosto agli sguardi.

Germoglio di vita.

Da quando le gru scavano la terra e le prime timide radici si scrivevano di te tra le zolle, io c’ero. E sto qui.

Stiracchiati tranquillo anche stamattina.

Allungati, trave su trave, un mattone sull’altro.

Punta il ditino al cielo, mentre gli sorridi.

Non vedo l’ora di scomparire.

Perché solo allora tu apparirai.

E sarai madre e padre di risvegli e colazioni e addii.

Risate e urla ti squarceranno le mura. I baci sulle scale te le scalderanno.

Ti coloreranno l’aria i vasi di fiori sui pianerottoli.

E i panni stesi ti accarezzeranno i balconi.

Quando sarai tu spazio per l’altro.

Allora sarai vivo, figlio mio.

 

SELENE CATENA

Rapallo, 20 Novembre 2019


 


PIONEERING SPIRIT-LA NAVE CHE RIMUOVE PIATTAFORME PETROLIFERE DAL MARE

 

LA NAVE CHE RIMUOVE PIATTAFORME PETROLIFERE DAL MARE

PIONEERING SPIRIT

CRANE SHIP

CARATTERISTICHE PIONEERING SPIRIT

 

•               Lunghezza fuori tutto (incl. lo stinger): 477 m (1,565 ft)

•                  Lunghezza fuori tutto (escl. Lo stinger): 382 m (1,253 ft)

•                  Lunghezza  tra le  perpendicolari: 370 m (1,214 ft)

•                  Larghezza  124 m (407 ft)

•                  Altezza al ponte principale: 30 m (98 ft)

•                  Capacità sollevamento Moduli piattaforma : 48,000 t

•                   Capacità sollevamento Jacket : 25,000 t

•                   Pescaggio operativo : 27 m

•                   Velocità massima : 14 knots

•                   Potenza totale installata : 95,000 kW

•                   Propulsori : 12 x 6050 kW non-retrattili, passo fisso, velocità   variabile, tipo azimutale

•                   Sistema posizionamento: LR DP (AAA), 100% ridondante Kongsberg K-Pos DP-22 and 2 x cJoy system

•                  Alloggi : 571 persone  Helideck: Peso max sopportabile : 12.8 t, adatto x     elicotteri Sikorsky S-61 a S-92

•                           Gru di coperta : Gru x operazioni speciali da 5000 t (11,000 kips)
Gru speciali da 600 t (1300 kips)
3 x gru x trasferimento tubi da 50 t (110 kips)

•                   Stazioni di lavoro: doppio- giunto (con 5 stazioni + 2 stazioni  x
saldature  combinate esterne e interne )
Riscaldamento con  6  stazioni per doppi giunti, 1 stazione NDT  e 6 stazioni di coibentazione

•                  Capacità  tensionatori : 4 x 500 t (4 x 1100 kips)

•                  Capacità di carico  tubi sul ponte pricipale: 27,000 t

•                  Diametro tubi : da  2″ a 68″ diametro.esterno

•                  Classificazioni: 100 A1 Heavy lift and heavy cargo ship, upper deck aft of frame 43 strengthened for load of 15 t/m²; helicopter landing area, LA, *IWS, LI, EP (B, G, N, O, P, S), ice class 1C FS LMC, DP (AAA), PSMR* wcon le seguenti descrizioni : Nave posatubi Shipright (BWMP), prue separate all’ordinata 99

•                  Porto di registro: Valletta

D.M. PINO SORIO

 

 

FONTE: Il Blog di JACOPO RANIERI – Arte . Tecnologia . Scienze Naturali

FOTO: DI PINO SORIO (D.M.)

Oltre la tenebra nel mare delle onde, una torre di metallo giace. C’è stata un’epoca in cui era utile. C’è stato un tempo in cui venne finanziata. Risorse ingenti furono investite, dalla Shell UK nell’ormai remoto 1976, per disporne in serie quattro, più un’altra finalizzata alla logistica, in una linea irregolare lungo il Bacino Est delle isole Shetland, nel Mare del Nord. Come una mostruosa zanzara, il parallelepipedo “Delta” a tre zampe ha quindi conficcato una trivella nel fondale del giacimento Brent, per dissetarsi del petrolio nascosto sotto i granchi e le aragoste. Per decadi, e decadi, si è abbeverato a questa fonte. E ora che non c’è più nulla, tranne il desiderio…. Abbandonata e arrugginita dal 2011, nel silenzio delle circostanze e senza la speranza di un domani, la piattaforma si è cristallizzata come una crisalide dismessa; finché le leggi internazionali, i decreti del governo inglese, o uno di quei rari sprazzi ragionevoli all’interno di una corporation con finalità di profitto, non avessero evocato l’epilogo di questa storia. Cessata la necessità, ciò che abbiamo è solamente il potenziale di un problema. Ma ci sono persone che vengono pagate, per risolvere i problemi.
Se lo scorso 28 aprile del 2017, per uno scherzo inappropriato del destino, qualcuno si fosse trovato ancora a bordo della piattaforma, ciò che avrebbe visto lo avrebbe portato a dubitare della propria stessa sanità mentale. Emergendo all’orizzonte, visibilmente schiarita per l’effetto dell’atmosfera, un’intera città che avanza, con due braccia sovradimensionate tese in avanti. Non era questa un’invasione aliena, o un miraggio sul modello delle fata Morgana, bensì l’inizio di una lotta fra titani, nella quale, in ultima analisi, avrebbe vinto quello dall’imponenza maggiore. Come poteva essere altrimenti? 23,500 Vs. 362.000 tonnellate, spinte innanzi da 12 motori diesel direzionabili da 8.225 cavalli ciascuno. In un universo parallelo, dove non esistono le considerazioni e ragionevolezza, la procedura in questo frangente sarebbe consistita unicamente nell’andargli contro e frantumarla, per poi divorare i pezzi e rigurgitarli nel mare. Mentre l’approccio materiale alla questione, attentamente pianificato per un periodo più che decennale dalla compagnia partner svizzera Allseas, fu ovviamente destinato ad assumere una strategia più ragionevole e risolutiva. Il nome dell’imbarcazione semisommergibile: Pieter Sch…anzi no, Pioneering Spirit. La sua funzione: sradicare cose enormi, quindi sollevarle e trasportarle fino a riva. Oppure metterne di nuove in posizione, per dare i natali a un nuovo capitolo di questa storia. Perché mai, vi chiederete…. Beh, le ragioni sono molte. Smontare una piattaforma petrolifera in alto mare è costoso, difficile e potenzialmente lesivo per l’ambiente. Se possibile, chiunque ne farebbe a meno e non sono in effetti niente affatto pochi, i rimasugli degli antichi giacimenti ancora adesso sparsi per il mondo, in attesa di un Rinascimento energetico che non arriverà mai. A partire dal 2017 quindi l’azienda in questione, principalmente operativa nel settore delle costruzioni marittime e la posa dei tubi sommersi, ha iniziato a concepire una sua personale arma di mercato, talmente inusitata da crearsi l’esclusiva di una nuova mansione.
Quindi, bando ai giri di parole. La Pioneering Spirit è allo stato dei fatti la nave (intesa come battello in grado di muoversi col suo motore) più grande del mondo dal punto di vista di tre criteri: larghezza (123,47 metri) capacità massima di trasporto (900.000 tonnellate) e volume (403,342 gt). Ma non è neanche questa, la ragione che la rende maggiormente originale. Bensì il metodo di funzionamento, ovvero la ragione stessa della sua costruzione…

Originariamente la Pioneering Spirit doveva chiamarsi Pieter Schelte, dal nome del padre della compagnia Allseas. Questo fu però immediatamente cambiato tra le proteste generali, quando fu fatto notare che costui aveva simpatizzato con le SS naziste durante la seconda guerra mondiale, prima di unirsi alla Resistenza olandese nel 1943.

Nonostante l’apparenza ed invero, anche il progetto originario, la Pioneering Spirit non è un catamarano. Negli anni tra il 2000 e il 2004 la Allseas stava infatti valutando il progetto di riconversione di due superpetroliere unite lateralmente, per creare la forma ad U che gli avrebbe permesso di rimuovere o spostare l’intera parte superiore di una piattaforma, quando si rese conto che al mondo semplicemente non esistevano battelli disponibili da acquistare a tal fine. E che se anche ci fossero stati, tale metodo avrebbe portato a spese estremamente proibitive. Fu quindi concepita l’alternativa di un singolo enorme scafo, iniziando nel 2007 a commissionare alla Daewoo Shipbuilding della Corea del Sud la produzione dell’acciaio e del sistema di sollevamento. La Deltamarin finlandese, nel frattempo, ricevette l’appalto ingegneristico dei sistemi.
Per il sopraggiungere della crisi economica mondiale, a quel punto, il progetto subì un ritardo temporaneo, prima di tornare prontamente in carreggiata 2010, con l’attribuzione del mandato principale alla stessa Daewoo. In corso d’opera, venne deciso di ampliare lo scafo dagli originariamente previsti 117 metri, per poter disporre di uno spazio centrale di 59 metri. La nave avrebbe quindi raggiunto la condizione di navigabilità nel 2014, quando fu spostata presso il porto di Rotterdam per assemblare tutti i componenti residui. Soltanto ad agosto del 2016, quindi, sarebbe stata giudicata finalmente operativa, ed inviata verso la sua prima missione nel mare del Nord: la rimozione del MOPU STOR (impianto di stoccaggio) del giacimento petrolifero di Yme, nel bacino norvegese di Egersund, che negli ultimi anni aveva sviluppato alcune preoccupanti crepe nelle sue fondamenta sommersa. A quel punto, la nave avrebbe avuto un costo complessivo di circa 3 miliardi di dollari. Ma ancor più significativi propositi di guadagno…

La rimozione della piattaforma da 13.500 tonnellate del MOPU di Yme, portata a termine il 22 agosto del 2016, avrebbe costituito in quel preciso momento il record mondiale del massimo carico mai sollevato in una sola soluzione. Come da precisa prassi progettuale, la nave colossale si avvicinò da davanti, imbarcando acqua nei suoi galleggianti per abbassare la linea di galleggiamento. Quindi, usando la gru in dotazione, ha posizionato i meccanismi necessari ad effettuare il taglio delle tre zampe della piattaforma, che avrebbe richiesto un’intera giornata di lavoro. Durante questa intera fase, la Pioneering Spirit ha potuto fare affidamento sul suo speciale sistema di stabilizzazione automatica tramite l’impiego dei motori, finalizzato a mantenerla perfettamente immobile anche nel caso di eventuali tempeste in mare. Completata la prima fase, tutto quello che restava era navigare le svariate decine di metri rimanenti fino ad inforcare la grande struttura, esattamente come il dispositivo di un comune carrello elevatore. E scaricare l’acqua, per riportare in alto la nave. Ed a quel punto, come si dice, i giochi sono fatti.
Una volta dimostrata la sua efficacia in questa difficile missione, il carnet della vasta semisommergibile si è riempito di possibili impegni futuri nel campo dell’offshore. Tra cui quello, appena portato a termine e qui sopra descritto, relativo alla rimozione della piattaforma Brent Delta vicino le Shetland, ma anche la possibilità futura di installarne tre del tutto nuove per la Statoil, presso il giacimento Johan Sverdrup nelle acque norvegesi. Una delle massime prerogative di un simile gigante, dopo tutto, è la versatilità. Tanto che durante la navigazione, a seconda dei casi, la nave può essere accompagnata da due battelli di supporto: la Iron Lady, grossa chiatta in grado di caricare e scaricare quanto richiesto nei porti troppo piccoli per permettere l’accesso della controparte; e Bumblebee, uno scafo costruito a misura per rimuovere e custodire lo stinger (palo usato per la posa dei tubi) della Spirit, che costituirebbe un significativo impaccio frontale durante le operazioni di sollevamento.

Assediati dalla preoccupante consapevolezza del progressivo esaurimento dei giacimenti fossili, raramente pensiamo al domani. Quando ogni goccia di carburante sarà preziosa, e simili imprese ingegneristiche, una vista decisamente rara. Verrà un giorno, neppure troppo lontano, in cui l’intera concezione moderna della tecnologia farà la fine di queste piattaforme: un residuato di antiche abbondanze, ormai dimenticate. Sarà ancora possibile, a quel punto, togliere i detriti dal mare? Assai probabilmente… No. Tanto meglio, dunque, iniziare subito a farlo. In quest’ottica, la nave della Allseas non è semplicemente una venture commerciale. Quanto piuttosto, una preziosa risorsa al servizio della (ricca) collettività. Del resto avete mai sentito parlare di una compagnia energetica che non lo fosse abbastanza, da fare almeno un po’ pulizia? (Ricca, intendo.) È semmai l’intenzione, o per meglio dire l’interesse, che tanto spesso viene a mancare!

ALBUM FOTOGRAFICO

PIONEERING SPIRIT

CRANE SHIP

di Pino SORIO

 

A cura di Carlo GATTI

Rapallo, 19 Settembre 2019

 

 


LE NAVI ROMANE DI PISA

LE NAVI ROMANE DI PISA


Vent’anni fa, nel dicembre 1998, durante i lavori di un nuovo centro delle Ferrovie dello Stato presso la stazione di Pisa - San Rossore, venne alla luce un eccezionale sito archeologico, a cinquecento metri dalla Torre pendente di PISA, cioè in pieno centro storico.

Dopo alcuni anni di scavi il tesoro arrivò a contare ben 31 navi romane di ogni tipo e misura, appartenente a differenti epoche storiche.

All’epoca in cui queste navi solcavano i mari, tra il II a.C. e il VII d.CPisa era un insediamento di media importanza nel Mediterraneo occidentale e si trovava in una zona cosiddetta di “porto diffuso”. L'area era solcata da canali navigabili e ricca di vie d’acqua simili a quelle che oggi si trovano ad Anversa e in altre siti del Nord Europa. Non c’era alcun porto a San Rossore, ma solo una estesa rada, un punto intermedio in cui le barche sostavano o partivano verso l’interno navigando in un dedalo di canali. Proprio per muoversi lungo questi corsi erano necessari piccoli barchini, ben tre sono oggi esposti nel Museo. Parliamo di un lontano periodo in cui Pisa era un porto militare distribuito su di un esteso porto fluviale canalizzato.

Già dopo i primi scavi promossi da Soprintendenza, gli archeologi si trovarono dinanzi a strutture banchinate, un pontile e una grande quantità di oggetti mobili, tra cui anfore, coperchi, ceramiche, manufatti, lucerne e attrezzature per la pesca. Gli esperti spiegarono che l’arretramento del mare aveva fatto sì che già nel Medioevo il porto di Pisa (che a quel tempo era una delle quattro Repubbliche marinare) fosse costruito più lontano dalla città, ma il trasporto dei detriti è proseguito, soprattutto per opera dell’Arno, e anche quel porto è stato inglobato dalla terraferma.

Pisa ha dunque perso nel tempo il suo forte legame col mare, ma il passato ogni tanto riaffiora dalla terra e rende testimonianza dei fatti che hanno scandito la storia di questa Repubblica marinara. Questo ritrovamento presentò fin dall’inizio caratteristiche di assoluta eccezionalità non solo per il gran numero di materiali finora individuati, ma per le stesse condizioni di conservazione delle imbarcazioni, alcune delle quali praticamente intatte, che restituiscono lo spettro di varie tipologie navali: dalle navi da carico alle barche fluviali, dai barconi a remi ai navicelli lagunari.

Le guide ci hanno spiegato che si tratta di relitti, rinvenuti in ottimo stato di conservazione in un’area dove un tempo un canale confluiva nel Serchio (Auser) e dove nel corso dei secoli affondarono numerose imbarcazioni a seguito di alluvioni.  La denominazione “Navi Romane” è un po’ impropria in quanto nel sito sono stati rinvenuti relitti non solo di epoca romana ma anche di quella ellenistica e medioevale e nello scavo sono stati portati alla luce reperti che risalgono fin dall’epoca etrusca (VII secolo A.C.)”.

IL MUSEO DELLE NAVI ROMANE

Dopo 18 anni d'attesa, dal 25 novembre scorso è aperto al pubblico il "Museo delle Navi Antiche" di Pisa, un primo nucleo di quella che sarà una delle più importanti e grandi esposizioni archeologiche sulla marineria antica, la cosiddetta "Pompei del mare", con 30 imbarcazioni di epoca romana e altomedievale (di cui 13 integre), risalenti ad un periodo che va dal I secolo d.C. e il VII d.C.

 

 

Nel disegno le varie navi in base alla loro posizione di ritrovamento contrassegnate dalla lettera corrispondente. I relitti rinvenuti permetteranno agli studiosi di ricostruire, grazie al ricco reperimento di “materiali”, una pagina di storia non solo pisana con le tecniche di allestimento delle imbarcazioni, il tipo di navigazione, nonché gli usi e le abitudini degli uomini che su tali mezzi si muovevano e vivevano insieme ai rapporti commerciali che intrattenevano lungo le rotte nel Mediterraneo.

 

GLI ARSENALI MEDICEI

 

Gli Arsenali medicei che accolgono le antiche navi di Pisa.

 




MASCHERA APOTROPAICA (primo piano)

I locali degli antichi Arsenali medicei voluti da Cosimo I Medici, per la costruzione delle galere dei Cavalieri dell’Ordine di Santo Stefano da lui istituito, e affidati all’opera dell’architetto Bernardo Buontalenti, accolgono quattro delle imbarcazioni ritrovate a pochi passi dalla Torre pendente, nell’area ferroviaria di Pisa-San Rossore, nel 1998.

Museo navi romane Pisa - Interno

 


Il traghetto I durante l'allestimento del Museo.


Nave contrassegnata con la lettera C

 

Museo - la nave C


Museo di Pisa - la nave C

 

Il pezzo più affascinante è sicuramente la ricostruzione a grandezza naturale della nave contrassegnata con la lettera C datata degli inizi del I secolo d.C. e affondata mentre era ancora ormeggiata in banchina. Notevole il suo ritrovamento per l’eccellente stato di conservazione. Splendida ancora con i suoi colori originali di cui conservava notevole traccia: bianco con rifiniture in rosso e il simbolo, in nero, dell’occhio, il portafortuna di chi andava per mare. La chiglia di leccio, il fasciame, ovvero il rivestimento esterno, di pino, ma anche fico, frassino, leccio, olmo e ontano per le ordinate o costole, le parti che si incastrano trasversalmente sulla chiglia.

 

Museo delle navi antiche di Pisa, la nave C

Nello scafo sei banchi di voga su uno dei quali in caratteri greci la scritta “alkedo”, probabilmente la trascrizione della parola latina alcedo, gabbiano.


la nave C

Una delle navi restaurate ed esposte nella Sala V

 

La sala IV è dedicata alla tecnica di costruzioni delle navi

 

LE ANFORE GRECO-ROMANE


L'anfora è un vaso di terracotta a due manici, definiti anse, di forma affusolata o globulare utilizzato nell'antichità per il trasporto di derrate alimentari liquide o semiliquide, come vino, olio, salse di pesce (garu) conserve di frutta, miele, ecc. Le anfore si possono classificare in fenicie o puniche, greche, etrusche, della Magna Grecia  (greco-italiche antiche) e romane.

Dall'anfora greco arcaica si giunge alla romana di età repubblicana, attraverso una serie di passaggi ben descritti dall'archeologo francese Jean Pierre Joncheray. L'anfora greco arcaica del VII secolo a.C. si evolve nelle sue forme nella greco recente (V-IV secolo) e poi nella greco italica (III secolo a.C.) usata in età ellenistica dai coloni greci in Italia e adottata in seguito dai Romani; mi è capitato di vedere delle greco italiche con bolli romani. Il passaggio continua con la greco italica di transizione (II secolo a.C.) e arriva alla romana di età repubblicana 18).


L'orlo dapprima a ciambella circolare o piatto e orizzontale della greco arcaica, si sviluppa e si inclina progressivamente nell'anfora greco italica, greco italica di transizione, fino diventare verticale nella forma romana. Il collo si allunga: dai 15 centimetri si passa ai 40 nei più recenti, le anse si allungano seguendo il collo. La pancia a forma di trottola, nei tipi più antichi, diventa un'ogiva sempre più affusolata. La lunghezza totale arriva a 120 centimetri: e' forma tipica dell'anfora romana di età repubblicana varietà Dressel lA (II Sec. a.C.), lB (I secolo a.C.) e 1C (I secolo a.C.), conosciute come anfora di Marsiglia, anfora di Albenga, anfora di Capo Mele, dal nome dei luoghi dove sono state principalmente rinvenute. Questo tipo è detta vinaria, per distinguerla da quella di forma più panciuta, chiamata olearia (Dressel 6).

Comunque le anfore vinarie, come è stato constatato dai residui del contenuto, portavano olio e, viceversa, molte olearie contenevano vino.

LE ANFORE DEL MUSEO DELLE NAVI ROMANE DI PISA



UNA LUCERNA perfettamente conservata

 

La nave D in fase di allestimento

È una grande imbarcazione fluviale utilizzata per il trasporto della sabbia che veniva trainata da riva con due cavalli. Gli archeologi collocano il suo affondamento in età tardo gotica quando, travolta dall’ennesima alluvione, affondò nei pressi della sponda su fondali bassi, capovolgendosi.

 

Museo delle navi antiche di Pisa, il barchino F

 

Diversa non solo per dimensioni la nave indicata con la lettera F e con il numero 46. È stata datata II secolo d.C. ed appartiene alla categoria delle piccole imbarcazioni fluviali. Ripropone nella forma e nel tipo di pilotaggio la struttura di una gondola, facendoci intuire meglio quanto l’ambiente naturale e l’apparato portuale pisano assomigliassero a quelli della laguna veneta. Lo scafo, realizzato con legno di ontano e quercia, appare infatti deformato su di un lato proprio per la manovra di un solo rematore. Lo studio dei legnami utilizzati per la costruzione delle varie parti delle imbarcazioni ha confermato le antiche fonti che tramandano l’uso della quercia per le parti strutturali, come la chiglia, che devono essere più resistenti, ma anche frassino, olmo, leccio; per il fasciame invece prevale l’abete o il pino, più leggeri.

LA NAVE 1

Museo delle navi antiche di Pisa

il traghetto, la nave I

 

(Sopra e sotto)

Interamente in quercia il traghetto a fondo piatto per il trasporto del bestiame, contrassegnato dalla lettera I e dal numero 45. Datato IV-V secolo d.C., era rivestito da fasce chiodate in ferro in modo da proteggere lo scafo dai bassi fondali in cui manovrava, mossa dalla riva per mezzo di un argano.

 

Il traghetto per i bassi fondali, nave I

 

LA NAVE A

Museo delle navi antiche di Pisa

La nave A nella ricostruzione della Sala IV

Ultima sorpresa del nostro viaggio la grande Sala IV, con la prima nave, enorme, anche se ne manca una buona metà rimasta sotto i fabbricati della ferrovia, contrassegnata dalla lettera A, quella che ha dato il via a tutta la ricerca. Giace con i suoi grandi legni su un mare di sabbia che riproduce il cantiere di ritrovamento.

 

IMPERO ROMANO - CARTA STORICA


BIREME ROMANA – LIBURNA


 

TERMINOLOGIA TECNICO - NAVALE

NAVE ONERARIA


 

MODELLINO DEL TIPO NAVE - C (Museo Navi Romane Pisa)

Carlo GATTI

Rapallo, 6 Marzo 2019

 

 


IL TEMPERINO E IL TONNO

 

IL TEMPERINO E IL TONNO

Una volta un temperino cadde in mare dall'astuccio di un bambino svogliato che faceva i compiti delle vacanze. Plof, plof, plof, che strano ambiente e che strani personaggi: tutti viaggiavano in orizzontale.

Il temperino era un tipo molto attivo e baldanzoso e, non trovando matite si rivolse ad una acciuga: «Ciao, hai la coda un po' larga, vuoi che te la temperi?». «Ma cosa dici?» borbottò quella «io sono bella affusolata». E fuggì via con un guizzo. Ondeggiando, ondeggiando, il temperino si posò sul fondo sabbioso dove riposava una magnifica sogliola. «Come sei piatta, che ne diresti di un temperatina alla coda?». «No, No», rispose la sogliola insabbiandosi. «Uffa, che noia!», pensò il temperino, «qui mi arrugginisco». Venne la sera, venne lo scirocco che portò con sé potenti onde: una, compatta e maestosa, si arrotolò su se stessa e precipitò sul fondo con la forza di mille schiaffi. Il temperino si era quasi assopito, quando si sentì sollevare, capovolgere, trasportare con tanta irruenza da non distinguere più né il sopra né il sotto. Dopo un'altalena che gli parve eterna andò a sbattere contro uno scoglio tra le cui fessure si nascondeva una triglia tutta rossa e impaurita, che dimenava la coda per non farsi portare via. «Posso rendermi utile?» strillò il temperino ancora un po' intontito. «Se ti fai temperare la coda, questa si allunga e ti serve meglio». «No, si  assottiglia e non mi serve più». «No, si allunga». «No, si  assottiglia». Il battibecco finì presto, perché un'altra ondata strappò il povero temperino dal suo rifugio e se lo portò in alto mare.

Il poveretto fece appena in tempo a capire dov'era, che si vide davanti un tonnetto vivace ed affamato, con la bocca spalancata, pronto ad ingoiarlo. «No, ti prego, non mi mangiare, sono indigesto! Ti posso rendere un servizio eccezionale: guarda che coda hai, così non si usa più, lasciatela temperare, vedrai come sarai elegante». Il tonno inesperto e vanitoso acconsentì e il temperino si mise al lavoro di buona lena. «Ahi, mi fai male!», urlò il tonno. «Chi bello vuole apparire, deve soffrire», replicò il temperino continuando a lavorare. «Ecco fatto», esclamò soddisfatto il temperino, «sei bellissimo».

Il tonno cercò di voltarsi per guardarsi la coda, ma non ci, riuscì e, visto che nei dintorni non c'erano specchi, dovette fidarsi delle parole del temperino. Era ancora dolorante, ma incominciò a muoversi incontro ad altri pesci per sentire i loro commenti. Che disastro! Si dava un gran daffare con le pinne, ma non riusciva più a dirigersi dove voleva: la coda temperata non funzionava come la precedente. «Aiuto, aiuto», cominciò a lamentarsi. «Mamma mia, aiuto! Come farò a raggiungere i miei compagni?». Più si dimenava e più girava su se stesso come una trottola. Il tonno era ormai esausto e disperato, quando Nettuno, il dio dei pesci e del mare, udì le sue implorazioni. «Chi mi disturba a quest'’ora?» gridò con voce di tuono, «ah, sei tu piccolo incosciente, cos'hai combinato?». «Io veramente niente... è stato il temperino, mi ha detto che la mia coda era fuori moda, allora io... ». «Ma bene, bravo, non ti piaceva la tua coda, ora tieniti quella nuova, servirai da esempio agli altri sciocchi come te». «No, ti prego» pianse umilmente il piccolo tonno, «potente dio di tutti i pesci, aiutami non lo farò più». «D'accordo», rispose Nettuno impietosito, «ora ti toccherò con il mio magico scettro e ritornerai come prima, ma ricordati: con la natura non si scherza, altrimenti sono guai». E mentre con la mano destra ricomponeva la coda del tonno, con la sinistra Nettuno scagliò il temperino fuori dal mare, perché non facesse altre stupidaggini. Così il temperino tornò nell'astuccio di Claudio a compiere il lavoro al quale era stato destinato.


ADA BOTTINI

Rapallo, 22 novembre 2016



TORREY CANYON - Primo Disastro del Gigantismo Navale -

Petroliera TORREY CANYON 121.000 G.T.

PRIMO DISASTRO DEL GIGANTISMO NAVALE

18 MARZO 1967

 

CANALE DELLA MANICA

TORREY CANYON: Petroliera monoscafo

Varo: 28 ottobre 1958 – Affondata il 18 marzo 1967

Portata lorda: 118.285 tpl

Lunghezza f.t.: 296,90 mt

Larghezza: 31,70 mt

Pescaggio: 17,20 mt

Velocità: 17 nodi

Alle 08.40, il Comandante si rese conto che vi era stato un errore nella posizione calcolata dal 3° Ufficiale, e che la nave si trovava troppo vicina al Seven Stones Reef. Ordinò al timoniere di passare dal pilota automatico al manuale e di portare la barra a sinistra, ma da questo momento, per una serie di concause dovute all’urgenza ed alla conseguente perdita della necessaria lucidità, il passaggio al manuale non avvenne, o avvenne in ritardo, per cui ritenendo il timone in avaria si ripassò sull’automatico e successivamente ancora al manuale, con la perdita del governo della nave, sino all’inevitabile disastro.

 

La Torrey Canyon, alla velocità di 17 nodi andò a urtare Pollard’s Rock, nella parte più occidentale di Seven Stones Reef, producendo un’enorme squarcio a sei tanche: ebbe così inizio il primo dei grandi disastri ecologici provocati dal naufragio di superpetroliere.

 

I tentativi di disincagliare la nave e portarla in mare aperto, messi in opera da alcuni rimorchiatori olandesi giunti rapidamente sul luogo del disastro, risultarono vani e nelle fasi convulse di queste operazioni perse la vita il marinaio di uno dei rimorchiatori.

 

Il 18 marzo 1967 la petroliera ” Torrey Canyon naufraga nel canale della Manica: 120.000 tonnellate di grezzo si riversano su 180 Km di coste inglesi e francesi. Distrutte 35.000 tonnellate di pesci, crostacei, conchiglie, oltre a 100.000 tonnellate di alghe.

In questa cartina, la macchia scura rappresenta la fascia d’inquinamento che ha minacciato il Canale della Manica, le coste della Normandia e della Bretagna.

Alle ore 03,30 del 18 marzo 1967, la M/N “Torrey Canyon” lanciò l’ S.O.S. seguito dal seguente messaggio: “Siamo incagliati sulle Isles of Shilly – Chiediamo assistenza immediata”. I soccorsi si attivarono subito. Iniziò la trattativa tra la società armatrice della petroliera e la Compagnia dei rimorchiatori Olandesi che rispose per prima alla chiamata di soccorso. Anche in questo caso, le parti si accordarono sull’applicazione della ben nota: “No cure, No Pay”. La OPEN FORM degli Assicuratori  Lloyd di Londra – Tuttavia si dovette registrare un increscioso ritardo nelle operazioni di salvataggio, perché la società armatrice dei rimorchiatori, inizialmente, si sarebbe rifiutata di firmare il contratto. Come al solito si pensò prima agli interessi economici...

Numerosi e complessi furono i tentativi di disincagliare e salvare la nave, ma tutti con esito negativo. Dai numerosi squarci nello scafo, l’intero carico composto di “crude oil” finì praticamente tutto in mare. Unità della Marina Britannica versarono in mare 10.000 tonnellate di solventi nel tentativo di emulsionare e disperdere il petrolio, purtroppo questi prodotti chimici erano però altamente tossici e produssero a loro volta molti danni alla fauna ittica. Dopo alcuni giorni di strenua lotta su tutti i versanti, le condizioni meteo peggiorarono raggiungendo forza 8  a causa del vento e del mare da Sud Ovest. La conseguenza più immediata fu che la Torrey Canyon cessò di essere una nave, si spezzò in più parti, e divenne un ammasso di relitti in un mare inquinato ed in tempesta. Si dovette anche registrare la morte di un marinaio imbarcato su un rimorchiatore di salvataggio. In seguito a questo scenario ormai irrecuperabile e diventato pericolosissimo per la navigazione, oltre che per l’ambiente, le Autorità Britanniche decisero di bombardare la nave, ormai ridotta in pezzi alla deriva, con aerei della Royal Air Force per farla affondare ed incendiare il petrolio fuoriuscito. Per giustificare il proprio comportamento, le autorità inglesi fecero riferimento allo "stato di necessità". Non vi fu quindi il salvataggio della nave, non vi fu quindi il “no cure no pay” per i partecipanti alle operazioni di salvataggio.

La Torrey Canyon fu la prima petroliera (battente bandiera liberiana) capace di trasportare 120,000 tonnellate di petrolio grezzo.

 

Si può soltanto dire che il tragico evento della TORREY CANYON fu una sconfitta per tutti: Stati, trasporti, armatori, turismo, pesca, fauna di ogni tipo.... Si arenò al largo dellaCornovaglia nel 1967 causando il primo rilevantedisastro ambientale dovuto allo sversamento in mare di grandi quantità di petrolio e successiva contaminazione costiera da parte del petrolio fuoriuscito.

 

L’equipaggio, composto interamente da italiani, fu miracolosamente tratto in salvo.

La causa dell’incaglio: secondo i risultati di numerose inchieste effettuate dalle Autorità competenti, é da imputarsi al difettoso funzionamento degli apparati di conversione dal passaggio automatico a quello manuale del timone.

ALBUM FOTOGRAFICO

I Rimorchiatori che risposero alla chiamata di soccorso della TORREY CANYON

Rimorchiatore di salvataggio UTRECHT

Rimorchiatore di salvataggio STENTOR

Rimorchiatore di salvataggio TITAN


Carlo GATTI

Rapallo, 23 Febbraio 2015

 

 

 

 

 


IL QUIETO AZZURRO -Poesia-

 

Vecchia immagine del Golfo di Rapallo

 

"IL QUIETO AZZURRO..."

 

Il quieto azzurro

della mattina di settembre

dilaga nel marino specchio

in un sospeso tempo

di fiori perduti

al maturar dei frutti.

Più lente

le vele scorrono

sul velario dell’orizzonte.

Nella conchiglia di silenzio

sosta la memoria

in finzione

di immobile presente.

 



di Maria Grazia BERTORA

Rapallo, settembre 2016

 

 



UN SIGNOR COLTELLO

UN SIGNOR COLTELLO

di John GATTI

Il coltello è uno dei primi attrezzi pensati e utilizzati dall’uomo per la sopravvivenza.

Un oggetto semplice eppure specifico, nelle sue differenze, per gli usi più disparati è certamente utile, se non indispensabile, in moltissime situazioni.

Parecchi anni fa con un mio caro amico, inseparabile compagno di pesca subacquea e immersioni, avevamo organizzato un’uscita alla ricerca di qualche rametto di corallo. A quei tempi le procedure, le attrezzature e, più in generale, la sicurezza, erano concetti “pionieristici” molto legati alle esperienze personali e parecchio distanti da quanto oggi insegnato nelle numerose scuole dislocate in tutto il mondo.

Avevamo iniziato la pesca subacquea da bambini, uitlizzando un lenzuolo arrotolato, contenente pietre, assicurato in vita: ottima alternativa alla troppo costosa cintura dei piombi. Come arma usavamo arco e frecce ricavati dalle stecche di vecchi ombrelli. Con il passare degli anni abbiamo imparato sulla nostra pelle i pericoli dell’iperventilazione e l’insidioso rischio della sincope, le trappole letali nascoste nei relitti e nelle grotte, la necessità di tener conto della propria resistenza e dell’umore del mare.

È con questo tipo di formazione, con tanto spirito di avventura e con una buona dose d’incoscienza che organizzammo la nostra giornata da “corallari”.

Serviva parecchia aria e ci attrezzammo con un bibombola da 20 litri e un mono da 18 per uno. Il tempo non era dei migliori: vento discreto da scirocco e mare increspato, condizioni comunque insufficienti per farci desistere. A bordo del nostro fedele Zodiac raggiungemmo il primo punto. Sotto di noi la parete rocciosa scendeva con una leggera inclinazione fino a -58 metri. Lui avrebbe esplorato quella zona, mentre io avrei portato il gommone in una baia più protetta e mi sarei immerso a circa 35 metri di profondità. La mia permanenza in acqua sarebbe stata più breve e, secondo i nostri calcoli, sarei dovuto arrivare sopra di lui in tempo per appendere il bilancino per la decompressione.

Le cose non andarono come previsto.

Il mio amico si immerse e cominciò la discesa. A circa 35 metri trovò i primi rametti di corallo rosso che raccolse e infilò nel retino che portava in cintura. L’acqua era chiara e, sebbene la profondità restituisse visioni di nero e scale di grigio, l’assoluto silenzio, interrotto soltanto dalla ritmica uscita dell’aria dall’erogatore, infondeva calma, serenità e pace. Continuò a scendere quasi in stato di trance fino a quando si rese conto di non essere distante dal fondo. A quel punto, improvvisamente, si spense l’interruttore. Quando aprí nuovamente gli occhi non aveva idea di quanto tempo fosse passato e neanche di cosa fosse successo. Era sdraiato sul fondo a 58 metri di profondità e l’unica cosa che vedeva era una distesa infinita di acqua sopra di lui. Gli ci volle qualche minuto per rimettere insieme i pezzi del puzzle che gli giravano in testa, ma alla fine realizzò di essere stato vittima dell'”ebrezza da profondità”. Cercò, senza successo, di ruotare su se stesso. Ancora confuso decise di dare una pomapata al GAV (giubbotto ad assetto variabile) per staccarsi dal fondo, ma la situazione non cambiava. Immise altra aria nel giubbotto, di nuovo senza alcun risultato. Provò a recuperare la calma e, dopo alcuni istanti, tastò con le mani per vedere cosa gli impediva di muoversi. Trovò quasi subito la lenza madre di un palamito che, agganciato alla rubinetteria del mono, lo teneva bloccato. Senza pensarci troppo su prese il coltello e tagliò il nylon. La partenza dal fondo fu immediata.

Ancora intontito si rese conto di quello che stava succedendo: una pallonata in superficie senza fermarsi alle tappe previste per la decompressione.

Si concentrò sull’aria da espellere per evitare un’embolia traumatica da sovradistensione polmonare, mentre cercava di armeggiare con il tubo corrugato per sgonfiare il GAV. Ma l’azione fu troppo veloce e, in men che non si dica, si trovò in superficie. Niente embolia traumatica, anche se l’embolia gassosa era praticamente garantita. Si guardò intorno alla ricerca del gommone, ma le onde si erano fatte più alte e il suo punto di vista non era dei migliori… Dopo qualche secondo intravide la sagoma di un gozzo non troppo distante, ma il vecchio, alle prese con un segnale da pesca, non lo aveva ancora visto. Il fischietto del mio amico attirò l’attenzione del pescatore che lo raggiunse in pochi minuti. Gli chiese di cercarmi e di dirmi di raggiungerlo perché aveva avuto un problema e di dirmi di aspettare lí la sua emersione. Dopo di che ritornò sott’acqua, raggiunse in diagonale la parete rocciosa e riprese la discesa. Il suo scopo era quello di riportare le bolle gassose che aveva in circolo allo stato liquido.

Raggiunse i 48 metri di profondità, si fermò per qualche minuto e ricominciò una lenta risalita. La prima tappa la fece a 12 metri, la seconda a 9, la terza a 6, dove trovò il bilancino ad attenderlo. La quarta e ultima sosta la fece a 3 metri. Finalmente uscí dall’acqua e, nonostante un lungo periodo di paura e di attenzione ai sintomi, l’avventura si concluse per il meglio.


Lasciando da parte i commenti di disapprovazione – che peraltro condivido – resta il fatto che mi viene facile, in questa storia, legare la buona sorte alla presenza di quel coltello.

Quando vado sott’acqua ho sembre una buona lama affilata assicurata al mio braccio sinistro (personalmente mi trovo bene con il Predator della Cressi); quando vado a fare fuoristrada con la Jeep ho sempre un coltello dotato di tagliacintura e di punta per spaccare il parabrezza; quando vado nei boschi ho sempre con me un coltello a lama fissa (Viper Masai, cui sono affezionato anche per altri motivi che un giorno, forse, racconterò), mentre un multifunzione mi aiuta nei casi più disparati (Wenger Alinghi); al lavoro, invece, ho un fantastico BF2V, della Extrema Ratio, che porto assicurato in cintura.

Mi è stato chiesto qual’é l’oggetto che più degli altri voglio avere con me nello svolgimento del mio lavoro.

Ovviamente non esiste una risposta semplice, perché – a partire dall’abbigliamento fino ad arrivare alle dotazioni di sicurezza – sono numerosi gli accessori utili e quelli indispensabili. Probabilmente dedicherò altri articoli alla descrizioni di alcuni di essi ma, in questo momento, ritengo giusto parlare per primo di quello che, probabilmente, è uno tra i più trascurati: il coltello.

Come scrivevo all’inizio, i coltelli si differenziano moltissimo a seconda della destinazione d’uso. Nei lavori che si svolgono sul mare, bisogna sceglierne uno adatto a sopportare le condizioni più estreme e, nel tempo, ho capito che una buona lama deve avere delle caratteristiche particolari, essere costruito con materiali eccezionali e lavorato con grande maestria. Un attrezzo di questo tipo non è a buon mercato, ma garantisce affidabilità nel momento del bisogno e durata nel tempo.

Dopo tanti anni di utilizzo quotidiano – e tante prove – sono approdato al BF2V della Extrema Ratio.

Perché mi ha convinto?

Prima di tutto perché possiedo altri coltelli della stessa casa e non ho dubbi sulla qualità espressa dal marchio e poi perché, entrando nel dettaglio, la lama è fatta con uno dei migliori acciai presenti sul mercato, l’N690Co, di provenienza austriaca, contiene una quantità doppia di molibdeno rispetto all’AISI 440 C che migliora le caratteristiche di taglio e la resistenza alla corrosione. Anche il valore che indica la sua durezza, 58HRC, garantisce una buona tenuta del filo della lama.

L’impugnatura é eccezionale: bella, ruvida, ergonomica, antiscivolo e curata nei minimi particolari. Persino la clip per assicurarla in cintura è perfetta: stretta al punto giusto, agevole da infilare, lo rende comodo da estrarre ma difficile da perdere. Consiglio comunque l’accessorio di sicurezza che, anche una volta impugnato, lo tiene assicurato alla cintura. È inoltre dotato di ferma vite di regolazione per la chiusura e l’apertura della lama e di una caviglia d’acciaio.

A mio parere un coltello può essere utilissimo in tanti frangenti e dovrebbe essere considerato nelle dotazioni di sicurezza. Vedo, infatti, la sua principale possibilità di utilizzo proprio nella gestione di un imprevisto.

Va anche detto che è un attrezzo estremamente soggettivo che deve aderire perfettamente alle aspettative e alle caratteristiche del proprietario. Questo significa che non esiste il coltello perfetto per tutti, ma il BF2V è sicuramente quello che fa per me.

Rapallo, 23 Agosto 2019

 


GESTI DI GRANDE MARINERIA: L'ULTIMA TEMPESTA

GESTI DI GRANDE MARINERIA

L’ULTIMA TEMPESTA

L’argomento “marinaro” del giorno, a giudicare dai video proiettati sui “social”, riguarda le “arrampicate” dei piloti portuali con cattivo tempo, ma che solo in epoca di smartphone hanno trovato la loro puntuale visibilità “riprendendosi” tra loro in piena autonomia. Per esperienza sappiamo che nessun fotografo specializzato si é mai voluto prendere il rischio d’avventurarsi in mare aperto con cattivo tempo e rischiare la propria incolumità … Tuttavia occorre precisare che le qualità acrobatiche di tempismo dei piloti sono cresciute nel tempo insieme all’abilità dei loro Timonieri/Pilotini che sono manovratori eccezionali e persone che dimostrano freddezza assoluta e coraggio da vendere… Doti che emergono specialmente quando le pilotine raggiungono vette ragguardevoli di 6/8 metri, a volte anche di più e la vita del pilota é nelle loro mani!

Alcuni di loro sono stati anche decorati per aver collaborato insieme al pilota in numerose operazioni di salvataggio: Vedi London Valour, Haven, Hakuyo Maru dei quali trovo utile riportare i LINK dei miei scritti ripresi dal nostro sito di Mare Nostrum.

Dopo questa premessa dedicata alla perizia dei Timonieri/Pilotini, oggi dedico il nostro scritto settimanale ad un fatto vero che ha avuto la massima visibilità grazie al film: L’ULTIMA TEMPESTA che, come vedremo, racconta l’eccezionale impresa di salvataggio compiuta proprio da un Conduttore/Timoniere della Guardia Costiera USA. Ma prima di “partire” desidero spendere qualche parola sulle petroliere T2 che furono per molti anni la “casa” di molti marittimi italiani e che in questo racconto due di esse si sono inabissate davanti alle coste USA.


Una petroliera T2 - 1943

La petroliera T2, o più semplicemente T2, era una nave per il trasporto di petrolio e suoi derivati, progettata e realizzata, in numeri rilevanti, negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale.

Le petroliere T2 avevano per l'epoca delle dimensioni rilevanti, superate solo dalle petroliere T3 che però furono costruite solo in cinque esemplari. Alla fine del conflitto furono 500 le T2 costruite tra il 1940 e il 1945. Molte furono utilizzate per decenni dopo la fine della guerra. Come altre navi realizzate in questo periodo andarono incontro a problemi di sicurezza. Dopo che nel 1952 due di queste navi - la SS Pendleton e la SS Fort Mercer - andarono perdute a distanza di poche ore, lo U.S. Coast Guard Marine Board of Investigation dichiarò che queste navi erano inclini a spezzarsi in due in acque fredde. Pertanto furono aggiunte alla struttura della nave delle strisce di acciaio. Le inchieste tecniche attribuirono inizialmente la tendenza delle navi a spezzarsi in due alle scarse tecniche di saldatura. In seguito venne stabilito che, durante la guerra, l'acciaio utilizzato per la loro costruzione aveva un contenuto di zolfo troppo elevato che rendeva fragile l'acciaio alle basse temperature.

L’ULTIMA TEMPESTA


Tratta dal libro: The Finest Hours, The True Story of the U.S. Coast Guard's Most Daring Sea Rescue di Michael J. Tougias e Casey Sherman. L'ultima tempesta racconta l'incredibile, eroico salvataggio di 32 uomini dell'equipaggio ad opera di 4 membri della Guardia Costiera USA, che contro ogni previsione, e a totale rischio di naufragio, riuscirono a raggiungere la nave spezzata superando scogliere e bassifondi tra onde altissime, con la piccola pilotina CG-36500, a recuperare i superstiti e a tornare a terra.


Il troncone della T2 SS/PENDLETON sta per affondare




E’ stata una delle peggiori tempeste che si siano mai abbattute sull’East Coast.

 

Quando un potente NOREASTER* invase la costa orientale degli Stati Uniti, due grosse petroliere T2 si ritrovano intrappolate nell’occhio della tempesta. La SS FORT MERCER venne letteralmente spezzata in due dal mare. Fece in tempo a lanciare un segnale di soccorso che mobilitò i soccorsi. Nel frattempo un'altra petroliera SS PENDLETON subì la stessa sorte…


Foto aerea di Rock Harbor – Orleans - Massachusetts

LA CRONACA

Il 18 febbraio del 1952 una violenta tempesta colpì il New England devastando, tra l’altro, centinaia d’imbarcazioni che si trovavano sulla sua traiettoria. Fra queste, la petroliera SS Pendleton, una petroliera T-2 diretta a Boston che venne letteralmente spezzata in due da onde gigantesche. Un troncone affondò subito, mentre l'altro si ritrovò in balia degli elementi, in pieno Oceano Atlantico intrappolando 32 marinai al suo interno a poppa. La loro sorte era ormai segnata per l’evidente impossibilità di governare ed erano destinati ad un rapido naufragio.

L'equipaggio, ritrovandosi su una parte soltanto “galleggiante” in balia della tempesta, senza radio, senza timone, senza capitano e con tutti i soccorsi impegnati alla ricerca della Fort Mercer, si mise nelle mani del suo più anziano ufficiale Ray Sybert.

Ma non fu facile per Sybert prendere in pugno la situazione in quei frangenti dove la paura ed il panico la facevano da padroni. Tuttavia, dopo aver domato con grande energia le divergenze tra i membri dell’equipaggio, riuscì a dare speranza a tutti operando alcune manovre che diedero al troncone la possibilità di rimanere a galla e poi di arenarsi su una secca a largo di Rock Harbor.

Nel mentre, un addetto portuale sentì la sirena di emergenza della nave e riconobbe la sagoma al largo ed avvisò la Guardia Costiera. La notizia del disastro raggiunse la Centrale Operativa di Chatham, nel Massachusetts. Il Sergente Maggiore Daniel Cluff diede l’ordine di effettuare una rischiosa operazione per mettere in salvo i naufraghi sopravvissuti dei 41 membri dell'equipaggio della PENDLETON. La missione di recupero e salvataggio venne immediatamente organizzata e fu affidata al nostromo in servizio, il giovane Bernie Webber che prese subito il largo a bordo della motovedetta CG 36500.

L’operazione presentava tali rischi da essere definita suicida dai propri colleghi per via delle enormi onde che si abbattevano sulla secca che proteggeva il porto. L'operazione di salvataggio fu un successo e i 32 membri della petroliera vennero messi in salvo in un solo viaggio eseguito a notte fonda, con bussola in avaria e senza alcun tipo di illuminazione oltre al faro della motovedetta (la petroliera era senza alimentazione elettrica, la sirena nel frattempo si era spenta così come tutte le luci: in blackout era anche il porto di partenza a causa della forte tempesta).


Bernard C. Webber con il suo equipaggio in porto dopo il salvataggio dei superstiti

 

Coast Guard Motor Lifeboat CG 36500


La Coast Guard Motor Lifeboat CG-36500 (nella foto) è la storica motovedetta della Guardia Costiera statunitense, divenuta famosa per il salvataggio di 32 membri dell'equipaggio della petroliera Tipo T2-SE-A1 SS PENDLETON al largo della costa di Rock Harbor, Orleans (Massachussetts).

Si è trattato del più grande salvataggio di tutta la storia della Guardia Costiera statunitense eseguito da una piccola imbarcazione. L'impresa è stata premiata con una medaglia al merito e nel 2016 è stata ricordata con il film: L’ULTIMA TEMPESTA (The Finest Hours).

ESPOSIZIONE MUSEALE

L'imbarcazione, messa fuori servizio nel 1968, fu consegnata al National Park Service per utilizzarla in una mostra a Cape Cod National Seashore. Nel novembre 1981, il Park Service, che non aveva effettuato alcun significativo intervento di restauro sulla nave, la cedette alla Orleans Historical Society, la quale avviò un restauro, grazie ad un gruppo di volontari da Chatham, Orleans,Harwich in Massachusetts.

In sei mesi i lavori di restauro furono completati e la barca venne messa in mostra in una cerimonia pubblica che ha visto la partecipazione di Bernard Webber e di sua moglie Miriam Penttinen.

*I Noreaster sono Cicloni Extratropicali che si sviluppano lungo la costa orientale degli USA soprattutto tra la fine dell’autunno e inizio primavera e la cui intensità, generalmente marcata, è data dalle forti differenze di temperatura e umidità fra l'aria fredda che in quei mesi comincia ad irrompere dal Canada e l'aria caldo umida che è presente sull’oceano Atlantico, che ancora ritiene il calore accumulato nei mesi estivi; il suo caratteristico nome è dato dal fatto che i forti venti che si sviluppano sulla costa orientale degli USA si dispongono da Nord-Est. Il centro della depressione si colloca poco al largo e la tempesta nel suo movimento di traslazione tende a seguire la linea di costa verso Nord.

LINK

Ricordando la HAVEN

vent’anni dopo...

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=150:haven&catid=41:sub&Itemid=162

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LONDON VALOUR

IL GIORNO DEL DIAVOLO

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=139:il-giorno-del-diavolo&catid=34:navi&Itemid=160

Carlo GATTI

Rapallo, 28 febbraio 2019


ANCHE I GABBIANI SBAGLIANO LE MANOVRE

ANCHE I GABBIANI SBAGLIANO LE MANOVRE...


Agropoli nel Cilento, chiude a Sud il golfo di Salerno

“Una antica leggenda di Agropoli narra che i gabbiani sono le anime dei marinai morti in mare e chi li uccide o li scaccia attira su di sé l’ira del Signore”.

Nel XVIII secolo ad Agropoli ci fu una grave pestilenza per cui furono abbattuti numerosi capi di bestiame che erano portatori del virus mortale.

In quel periodo di grave carestia, solo il mare offriva l’unica fonte sana di nutrimento, ma le continue burrasche impedivano alle barche da pesca di uscire e gettare le reti. I più giovani e forti pescatori del paese, di fronte alla fame nera che incombeva sul paese, decisero di affrontare il mare con tre barche. L’imprudenza fu devastante! Appena gettate le reti, un’onda tremenda li travolse scaraventando i loro corpi insieme ai loro legni negli abissi marini. San Pietro e San Paolo, assistendo alla drammatica vicenda, provarono pietà per gli sventurati marinai e li trasformarono in gabbiani, uccelli dalle splendide ali bianche, che si spingono al largo insieme ai loro amici pescatori.

I gabbiani che volano ancora oggi sul porto di Agropoli sono le anime dei pescatori defunti. Le geometrie dei loro voli, per chi sa leggerle, comunicano sempre l’arrivo del tempo cattivo, ma anche quello favorevole alla pesca lontano dalla costa.

Fin dalle prime esperienze lavorative sulle navi, i giovani marittimi accettano questa leggenda quasi fosse un lasciapassare… una sorta d’imprinting che accomuna i naviganti morti in mare a questi “spiriti con le ali” che accompagnano le navi, ma esigono amore e rispetto. Guai a molestarli, guai ad ucciderli.

Non è tuttavia escluso che anche tra i marittimi ci siano dei seguaci dell’Illuminismo… convinti che tutte le superstizioni abbiano origine dall’ignoranza, oppure siano nate quando il timore dell’ignoto prevaleva sulla ragione.

 

Il mio pensiero sull’argomento credo non interessi nessuno tuttavia, se provate un po’ di curiosità per la superstizione dei marinai, potete leggere questo mio ricordo che è legato ad un episodio accaduto in porto a Napoli.



Il VULCANIA in navigazione

IL VIAGGIO. Nei primi anni ’60 ero imbarcato come Allievo Ufficiale di coperta sul M/n VULCANIA, con circa due anni di navigazione compiuti sulla petroliera T/n NAESS COMPANION (Tank), M/n SATURNIA (Pax) e M/n Marco POLO (Pax). Eravamo partiti da Trieste (Home Port) e, toccati Venezia, Dubrovnik, Patrasso, Messina, arrivammo a Napoli per la penultima sosta in Italia.

Quel solito viaggio di linea prevedeva poi lo scalo a Gibilterra, una breve sosta in rada a Punta Delgado (Azzorre) per imbarcare i pescatori portoghesi impegnati nella campagna del merluzzo sui Banchi di Terranova. Dalle Azzorre il VULCANIA proseguiva sulla rotta ortodromica per Halifax (Canada), Boston e New York.

LA MANOVRA DI PARTENZA. Il VULCANIA era ormeggiato con il lato “dritto” al Molo Beverello del Porto di Napoli. Il pilota portuale arrivò via terra, quando due rimorchiatori avevano già il cavo al gancio, il più potente a prora e l’altro a poppa. La nostra prua anni ’20, verticale e tagliente, lambiva i “cavi alla lunga di poppa” di una nave passeggeri greca, anch’essa in partenza, senza rimorchiatori e con il pilota a bordo. Le due navi erano quindi vicine ed avevano entrambe la prora rivolta verso l’imboccatura del porto. Sarebbero quindi uscite in convoglio, una dietro l’altra. Molto probabilmente i Comandanti delle due unità avevano concordato con l’Autorità Marittima lo stesso orario di partenza dalla Stazione Marittima.


M/N VULCANIA a Trieste. Notare la disposizione dei cavi d’ormeggio.

Avevamo ormai mollato da terra gran parte dei cavi d’ormeggio, quando un gabbiano reale precipitò sull’aletta di plancia di dritta del Ponte di Comando, proprio sui piedi del Comandante Giovanni Peranovich che in quel momento discuteva la manovra d’uscita con il Pilota ed il Comandante in 2a Eugenio Danieli. Il volatile di grandi dimensioni stava volteggiando sulla nave quando, a detta di qualcuno, virò improvvisamente andando a colpire la draglia che unisce i due alberi della nave. Quel maledetto cavo d’acciaio, teso e di grosso diametro, gli aveva tranciato un’ala di netto.

L’incidente di volo avvenne sotto lo sguardo impressionato di molti passeggeri che erano assiepati sul Ponte Lance per assistere alla manovra. Il povero gabbiano tramortito aveva insanguinato non solo la postazione, ma anche la divisa del Comandante mentre un fortissimo odore di “bestino” aveva invaso il Ponte di Comando ed anche la Sala Nautica. Lo Stato Maggiore del VULCANIA proveniva dalla città giuliana e l’intercalare “MONA” si moltiplicò all’infinito per tutto il golfo di Napoli…. Il Comandante in 2a diede subito l’ordine di ripulire dappertutto e rivolgendosi al 1° Ufficiale Prossen gli sussurrò: “Sarà un viaggio del c….!”.

Il Comandante andò a cambiarsi la divisa e quando ritornò sul Ponte, vedendo che la nave greca era ancora in banchina, diede l’ordine: “MOLLA TUTTO A PRORA E A POPPA!”

Probabilmente, anche da bordo della nave greca, vedendo che il VULCANIA era ancora fermo, partì l’ordine “MOLLA TUTTO….!”

All’epoca non c’erano i Walkie Talkiee per le comunicazioni di manovra si utilizzavano i fischi che sbruffavano vapore dalla ciminiera.

Non si sa, se per volontà del destino… o del gabbiano, ma i fischi non furono emessi né sull’una, né sull’altra nave che nel frattempo si allargarono contemporaneamente…

Disponendo di due rimorchiatori in tiro e di uno scatto più potente, il VULCANIA, con la sua prestigiosa livrea di transatlantico “old fashion”, forzò l’andatura esattamente come fece il più lento paquebot greco che però era in posizione più avanzata. Il risultato della contemporanea manovra di disormeggio risultò sballato nella tempistica, infatti, le due navi in movimento si affiancarono, strisciando gli scafi e danneggiando pesantemente le rispettive lance di salvataggio. Decine di pastorali (tipiche lampade di bordo che illuminavano i ponti aperti di un tempo) furono scardinati e partirono come proiettili in tutte le direzioni. Persino lo scalandrone (scala reale), subì notevoli danni da schiacciamento. Non mancarono neppure le urla di terrore di quei passeggeri che rischiarono di essere feriti da nuvole di scintille sprigionate dallo sfregamento delle lamiere o persino di essere “decollati” da cime spezzate e scodinzolanti come fruste impazzite. L’equipaggio dovette lavorare anche di notte per rendere funzionante la Scala Reale per lo scalo successivo di Palermo.

Durante il Viaggio Atlantico verso gli States, l’incidente di manovra di Napoli rimase il più gettonato “articolo di fondo” delle salette equipaggio, sale e saloni passeggeri delle tre classi, ma non saprei dire se i superstiziosi l’abbiano avuta vinta sugli scettici… Tuttavia, per quanto mi riguarda, se a distanza di 55 anni ho riesumato questo ricordo, significa che in qualche “sentina” del mio cervello è rimasto un dubbio “esistenziale” più che razionale, che si specchia in quel celebre detto che distingue il genere umano in:

“I vivi, i morti e i naviganti”.


Una bella immagine del VULCANIA presa dal Ponte Lido dell’ANDREA DORIA nel 1954

Il Vulcania (nave gemella del Saturnia) fu un liner varato nel 1926. fu anche utilizzato come nave trasporto truppe e nave ospedale nella Seconda guerra mondiale.

l Vulcania fece il suo viaggio inaugurale partendo il 19 dicembre 1928 da Trieste sulla rotta Trieste-Patrasso-Napoli-Palermo-Gibilterra-Azzorre-Halifax-Boston-New York. Nel 1930 venne ristrutturato con modifiche ai locali passeggeri, oltre alla sostituzione, causa inaffidabilità, dei due motori Burmeister & Wain, costruiti su licenza a Trieste, con due Sulzer, sempre Diesel costruiti su licenza a Trieste. La stazza aumentò così a 24.469 tonnellate. Nel 1934 vi fu una nuova ristrutturazione dei locali passeggeri. Nel 1936 la nave venne trasferita, insieme al resto della flotta Cosulich, alla Società Italia di Navigazione. Nel dicembre dello stesso anno il Vulcania effettuò il suo ultimo viaggio sulla rotta Trieste- New York-Trieste.

PERIODO BELLICO

Nel 1941 il transatlantico fu requisito dallo Stato italiano per essere utilizzato come nave trasporto truppe nel Nord Africa . Nel 1942-'43, in accordo con le forze alleate iniziò il servizio di rimpatrio di civili internati (specialmente donne e bambini) e di soldati italiani feriti daall'Africa Orientale Italiana, con la protezione della Croce Rossa Interfnazionale. Per tali servizi vennero utilizzate anche altre navi della Società Italia: il Caio Duilio, il Giulio Cesare, e il Saturnia. A parte il Saturnia ed il Vulcania, le altre due navi vennero affondate a Trieste durante i noti bombardamenti alleati.

A seguito dell'armistizio dello 8 settembre 1943 il Vulcania imbarcò una parte degli allievi della Accademia Navale, che allora aveva sede a Brioni, per trasferirli in un porto della Puglia. A differenza del gemello Saturnia, il Vulcania non eseguì questa missione, essendo stato fatto incagliare. Fu quindi requisito ed utilizzato dai tedeschi.

Il 29 marzo 1946 il Vulcania fu noleggiato all'American Export Line per il servizio sulla rotta New York-Napoli-Alessandria d'Egitto-New York. Su tale rotta la nave effettuò sei viaggi, l'ultimo dei quali iniziò il 4 ottobre 1946 e terminò il 15 novembre 1946; venne quindi restituito alla Società Italia e condotto a Genova con scalo intermedio a Napoli. Il transatlantico subì massicci lavori e fu ricondizionato e riallestito. I locali passeggeri assunsero la seguente suddivisione: 240 passeggeri in I classe, 270 in cabina ed 870 in classe turistica. Nel luglio 1947 navigò sulla rotta Genova-Sudamerica ed il 4 settembre 1947 riprese il servizio sulla rotta Genova-Napoli-New York:; l'ultimo servizio iniziò il 21 settembre 1955 ed il 28 ottobre 1955 fu posto in servizio sulla rotta Trieste-Venezia-Patrasso-Napoli-Palermo-Napoli-Palermo-Gibileterra-Lisbona-Halifax-Boston-New York. L'ultimo servizio iniziò il 5 aprile 1965 ; al termine la nave fu venduta alla Siosa Grimaldi Line che la rinominò Caribia, destinandola alle crociere.

Il transatlantico venne radiato nel 1973 ; il 18 settembre dello stesso anno venne condotta a rimorchio nel porto di Barcellona. Da lì iniziò il suo ultimo viaggio, sempre a rimorchio, con destinazione la città dii Kaoshiung, nell'isola di Taiwan, dove iniziò la sua demolizione il 15 marzo 1974.

Tipo

Transatlantico

Proprietà

Cosulich Società Triestina di Navigazione, Trieste

Identificazione

161

Costruttori

Cantieri Riuniti dell'Adriatico

Cantiere

Monfalcone

Impostata

30 gennaio 1926

Varata

19 dicembre 1926

Entrata in servizio

2 dicembre 1928

Radiata

1973

Destino finale

Demolita a Taiwan nel 1974

Caratteristiche generali

Stazza lorda

23.970 tsl

Lunghezza

181,58 m

Larghezza

24,31 m

Altezza

14,17 m

Propulsione

Due motori diesel Burmeister&Vain

Potenza: 25.000 kW, due eliche

Velocità

19,4 nodi

Capacità di carico

8.330 TPL

Passeggeri

1780

I classe 310

II classe 460

Intermedia 310

III classe 700

 

Carlo GATTI

Rapallo, 21 Novembre 2016

 


IL GIGANTISMO NAVALE PETROLIFERO

IL GIGANTISMO NAVALE PETROLIFERO

SEAWISE GIANT

Un po’ di Storia...

Il Canale di SUEZ fu inaugurato il 17 giugno 1869 e il suo regime giuridico internazionale (nel 1875, il sovrano d'Egitto Ismā'il, per far fronte al grave deficit dello stato fu costretto a cedere alla Gran Bretagna la propria quota azionaria) fu definito dalla Convenzione di Costantinopoli del 1888. Essa restò in vigore fino al 23 luglio 1956, data in cui il presidente G.A.Nasser  annunciò la nazionalizzazione del Canale da parte dello stato egiziano. Trovandosi improvvisamente impedito il transito, Israele intervenne militarmente insieme a Francia e Inghilterra. Durante la "Crisi di Suez" il Canale fu chiuso al traffico e la situazione si sbloccò solo grazie all'azione congiunta degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, che imposero il ritiro degli anglo-francesi e, attraverso l'ONU, la cessazione delle ostilità; le stesse Nazioni Unite curarono la riapertura del Canale nell'aprile 1957, ma questo si era nel frattempo insabbiato e aveva perduto la preminente funzione di rotta più breve verso l'India e l'Estremo Oriente. Nel 1960 la Banca Mondiale offrì un prestito di 56,6 milioni di dollari per l'allargamento e l'approfondimento del Canale, ma nel 1967, in conseguenza del riacceso conflitto arabo-israeliano, esso fu nuovamente teatro di combattimenti e restò bloccato fino al 5 giugno 1975, quando fu riaperto al transito.

La petroliera T2 (fu un grande successo bellico e poi commerciale nel dopoguerra)

Il progetto della T2 venne formalizzato dalla United States Maritime Commission come tipologia di petroliera per la Difesa Nazionale di medie dimensioni. La nave veniva costruita per il servizio commerciale ma in caso di conflitto poteva essere utilizzata come nave militare inserita nella flotta ausiliaria. La Commissione si faceva carico della differenza dei costi aggiuntivi dovuti all'inserimento di tutte le caratteristiche necessarie per l'impiego militare della nave e che andavano oltre i normali standard commerciali.

Il modello T2 venne basato su due navi costruite nel 1938-1939 dai cantieri Bethlehem Steel per la Socony-Vacuum Oil Company. Le due navi, Mobifuel e Mobilube, differivano dalle altre navi Mobil principalmente per l'installazione di un motore più potente che poteva garantire una maggiore velocità. La T2 standard aveva una lunghezza totale di 152,9 mt. e una larghezza massima di 20,7 mt. La stazza era di 8.981 tons. ed aveva unaportata lorda di 16.104 tonnellate. Il dislocamento totale standard di una T2 si aggirava intorno alle 19.141 tonnellate.

 

Le sueturbine a vapore fornivano 8.900 KW (12.000 hp) ed azionavano un'elica singola che poteva spingere la nave fino ad una velocità di 16 nodi.

 

In totale ne sono state costruite sei utilizzate per l'impiego commerciale presso i cantieri Bethlehem-Sparrows Point Shipyard che avevano sede in Maryland. Subito dopo l'attacco a Pearl Harbour le navi sono state prese in carico dalla U.S. Navy dove vennero riunite nella classe Kennebec.

 

Nei primi anni ’60 ho navigato sulla t/n FINA ITALIA da 3° e 2° uff.le di cop. Era soprannominata “la freccia del Golfo persico”. Aveva una portata lorda di 31.500 tonn. ed una velocità poco superiore ai 18 nodi.

Con la chiusura del Canale di Suez - dal 1967 al 1973 – iniziò il gigantismo navale petrolifero sulla ROTTA del Capo di Buona Speranza - “periplo d’Africa”. Aumentarono le portate e le velocità si ridussero alle attuali 16 nodi.

 

Nella prima metà degli anni ’80, da pilota del Porto di Genova, ho manovrato le gemelle NAI GENOVA e NAI SUPERBA (Lunghezza= 400 mt. - Portata lorda= 409.000 tonn. Velocità= 16,25 nodi.

 

 

Fu dunque dopo il 1945 che l’industria petrolifera raggiunse la sua maturità e il petrolio, dopo duecento anni, detronizzò definitivamente il carbone come principale fonte di energia. L’incredibile incremento della domanda di greggio (raddoppiata nell’arco di poco più di un decennio, dal 1958 al 1973) da parte delle nazioni più industrializzate e l’avvio del sistematico sfruttamento dei giacimenti del Medio Oriente determinò quello che Francisco Parra, segretario generale dell’Opec nel 1968, ha definito una sorta di vero e proprio “big bang” (Parra 2004, 33-54). Il traffico commerciale via mare, reso ulteriormente più vantaggioso dagli accordi che dettero vita al sistema di Bretton Woods aumentò esponenzialmente: tra il 1960 e il 1975 il traffico annuale di greggio subì un aumento dell’800% mentre la flotta mondiale di petroliere, che già all’inizio degli anni Sessanta per tonnellaggio ammontava già a 67 milioni (una cifra tre volte più grande di quella del 1939 e ben venticinque volte quella del 1914) aumentò del 600% (Scanlan 1984, 104). A metà degli anni Sessanta il 43% delle navi in costruzione nei vari cantieri del mondo erano petroliere (cit. in Hoye 1966b, 14-15. Cfr. inoltre Hartshorne 1962a; 1962b).

 

 

 

Fu in questi anni che si andarono definendo le principali rotte mondiali del greggio: la maggiore era senza dubbio quella che partiva dai giacimenti medio-orientali in direzione dell’Europa occidentale (con il canale di Suez quale via d’accesso privilegiata), del Nord America e dell’Asia, in particolare del Giappone e fu in questo stesso periodo che le navi adibite al trasporto del greggio crebbero ulteriormente in dimensioni. L’era delle superpetroliere iniziò negli anni Sessanta, quando fu costruita la Manhattan e quando la Torrey Canyon (inizialmente di 60.000 tonnellate) venne modificata in modo da poter praticamente raddoppiare il proprio carico. Si trattò di una evoluzione continua che toccò il suo apice nel 1977 con la Esso Atlantic, costruita con una stazza che superava le 500.000 tonnellate.

 

 

 

Questa tendenza a costruire petroliere sempre più capienti non rispondeva solo ad un continuo incremento della domanda di greggio da parte dei paesi più sviluppati, ma fu anche la conseguenza indiretta di alcune crisi internazionali che interessarono i paesi medio-orientali e in particolare l’Egitto: la crisi di Suez del 1956 e la Guerra dei Sei Giorni del 1967 con il primo embargo da parte dei paesi arabi produttori ma soprattutto la chiusura del canale, che nel frattempo si era trasformato da autostrada dell’impero britannico ad “autostrada del petrolio” (Yergin 1991), indussero le principali compagnie di petrolifere e di navigazione a raggiungere l’Europa occidentale e il Nord America attraverso una rotta più lunga di 6.000 miglia*, circumnavigando l’Africa. La riapertura del canale di Suez, negli anni Settanta e la crisi petrolifera seguita agli shock del 1973 e del 1979, provocarono solo una parziale inversione di tendenza, dal momento che le petroliere di nuova costruzione si attestarono comunque su una capacità di 200-300.000 tonnellate (IMO 2006, 11). D’altro canto, nonostante l’ulteriore diffusione degli oleodotti, gli ingenti investimenti iniziali richiesti nella loro costruzione e il costo alto delle royalties da versare ai paesi attraversati rendevano e avrebbero reso conveniente anche negli anni a venire il trasporto del petrolio via mare

 

 

* 6.000 miglia, alla velocità di 15 nodi corrispondono a circa di 17 giorni di navigazione, che sarebbero stati ammortizzati con l’incremento della portata delle petroliere in base alla classificazione sotto riportata.

 

 

Principali Rotte Petrolifere in milioni di tonnellate nel 1991 (Fonte IMO)

 

Le petroliere vengono classificate in base alle loro dimensioni:

 

ULCC (Ultra Large Crude Carrier) navi con portata superiore alle 300.000 tonnellate;

 

VLCC (Very Large Crude Carrier) petroliere con capacità di carico superiore alle 200.000 tonnellate;

 

SUEZMAX - petroliere tra le 125.000 e le 200.000 tonnellate di capacità che possono transitare nel Canale di Suez ;

 

AFRAMAX (Average Freight Rate Assessment) petroliere con capacità compresa tra le 125.000 e le 80.000 tonnellate;

 

PANAMAX Navi dalla capacità di trasporto compresa tra le 50.000 e le 79.000 tons e che hanno una larghezza massima di 32,2 mt e quindi in grado di transitare nel  Canale di Panama;

 

 

La velocità di crociera di una petroliera VLCC è di 12-16 nodi, la lunghezza “fuori tutto” di circa 350 metri e il pescaggio, a pieno carico, di circa 20 metri. Le grandi petroliere con capacità di trasporto superiore a 1,5 milioni di barili di greggio sono dette anche superpetroliere (Supertanker).

 

Al di sotto di queste dimensioni si adotta il termine di Porta-Prodotti (Product Carriers in Inglese) in quanto il traffico principale per queste navi è il trasporto di prodotti di raffineria e non più di petrolio greggio. Si usano ancora i termini LR (Long Range), e MR (Medium Range) a seconda delle dimensioni delle navi.

 

La più grande nave petroliera mai esistita è la Jahre Viking soprannominata "Happy Giant" o "Seawise Giant" con una lunghezza complessiva di ben 458 metri, 69 di larghezza ed una portata di 564.763 tonnellate circa. La Happy Giant fu bombardata durante la guerra dell'Iran-Irak nel 1987/88: fu poi completamente riparata, riprese servizio nel1991 ed infine fu demolita nel 2010 inIndia.

 

Tra le più grandi navi del mondo c'è anche la "TI Asia", una ULCC costruita nel 2002 nei cantieri Daewoo dellaCorea del Sud: è lunga 380 metri, larga 68 metri con una capacità di carico di 441.000 tonnellate. È dotata di un motore principale di oltre 50.000 cv.

 

 

1981 – La Super petroliera Knock Nevis in manovra. Stazza Lorda: 260,941 - Tonn. Portata: 564,763 tonn. Pescaggio: 24,611 mt – Velocità: 16 nodi - Lunghezza x Larghezza: 458 x 68 mt.

 

 

Carlo GATTI

 

Rapallo, Venerdì 13 Febbraio 2015