CAPPELLA DI SAN GIOVANNI SPOTA’- RAPALLO
CAPPELLA DI SAN GIOVANNI
SPOTA’- RAPALLO
Giovedì 16 maggio 2019, alle ore 21, rinnovando una radicata tradizione, numerosi fedeli delle comunità parrocchiali di Santa Maria del Campo e San Martino di Noceto si sono incontrate presso la Cappella di S. Giovanni, in località Spotà per la recita del Santo Rosario a cura di don Davide Sacco che é poi passato alla consueta “benedizione della campagna”.
Ci troviamo immersi in un quadro mistico: l’incantevole posizione della chiesetta nascosta tra gli ulivi collinari che frullano tenui in un magico silenzio, ci avvolge in una speciale atmosfera che rapina il nostro sguardo e lo induce a scivolare giù verso il mare tra le mute luci di Rapallo che appaiono come lumini lontani che vibrano al nostro saluto.
L’annuale appuntamento con questa preghiera notturna ci spinge, ogni volta, a pensare a quei lontani Amici che su questa collina vollero ardentemente scrivere la storia di questa pievetta.
Scartabellando qua e là troviamo qualche traccia:
In questa località sulle alture di Rapallo chiamata "Spotà" vi è una bella chiesetta dedicata a San Giovanni Battista costruita nel lontano 1665 per volere di Giuseppe e Rolando Valle, lì residenti, che secondo documenti storici chiesero alle autorità religiose di poter costruire una chiesetta per poter pregare, data la difficoltà di poter raggiungere il paese, infatti all’epoca non vi era la strada oggi carrozzabile.
Avuto il parere favorevole dall’Arcivescovo di Genova iniziarono così i lavori voluti e pagati dai Signori Valle e ultimati nel 1688. La chiesetta fu benedetta soltanto nel 1697 a seguito di vari contrasti, questo perché la chiesetta sorgeva in un territorio di confine fra Santa Maria e San Pietro altra frazione Rapallese.
Allora la zona era molto popolata da contadini, basti pensare che si contavano ben trentasei nuclei famigliari e la chiesetta rimase sempre aperta e sino al secolo scorso veniva organizzata anche una bella festa. Oggi invece la chiesetta viene aperta solamente il giorno della ricorrenza di San Giovanni Battista il 24 di giugno e il parroco di Santa Maria vi celebra la S. Messa al mattino.
Da contatti avuti con discendenti dei Valle, che sono tuttora proprietari di gran parte di questa collina e forse anche della cappella (?), abbiamo saputo che un ramo della stirpe immigrò a Conception (Argentina) ma la cosa straordinaria é che questi parenti lontani, non solo portano ancora con sé tradizioni ligustiche importanti, ma quasi ogni anno in estate ritornano a Rapallo per onorare le loro radici. Ci é stato detto che quel ramo argentino dei Valle potrebbe avere conservato atti e documenti relativi la Cappella di S. Giovanni e dei suoi contenuti. La ricerca é quindi aperta insieme alla speranza di saperne di più al loro arrivo a Rapallo.
Tra il 1849 ed il 1853, ben 6252 emigranti partirono dalle nostre zone rivierasche diretti in America del Sud, di cui solo 419 rientrarono a casa. Tra il 1854 e il ’63, sempre dalla riviera di levante emigrarono, sempre verso il Sudamerica, più di 47.000 persone (di cui il 25 per cento dal solo circondario di Chiavari), per la maggior parte, maschi tra i 19 e i 29 anni, d’estrazione artigiana e contadina. Queste cifre non tengono conto dell’emigrazione clandestina che il quel periodo raggiunse 13.000 individui. Le migrazioni continuarono anche negli anni successivi e si può affermare, dati alla mano, che dal 1876 al 1925 sono quasi 300.000 nostri compaesani abbandonarono la Liguria in cerca di lavoro e di fortuna.
Genova - Tenaci, coraggiosi, intelligenti, con un forte spirito imprenditoriale e un ancora più forte attaccamento alla loro terra: questo l’identikit dei liguri che sin dalla prima metà del 1800 decisero di lasciare la patria alla volta dell’America, per scoprire nuove terre e far fortuna all’estero contando solamente sulle proprie forze e su piccole somme di denaro messe da parte appositamente. «L’emigrazione dei liguri fu precoce rispetto ad altre, ma soprattutto non indigente, e urbana - sottolinea Giuliani - I liguri, che fossero originari del Tigullio, di Genova o dell’estremo ponente, non si muovevano verso le campagne, ma verso le città, e portavano con sé i loro risparmi per creare qualcosa». A oggi in Argentina, spiegano gli storici, il 60% della popolazione ha antenati liguri,
I Porta-Cristo argentini al raduno delle Confraternite liguri nel Mondo
dal 3 al 6 giugno 2004
Per i liguri nel mondo è stata molto significativa la presenza, per la prima volta a Genova da oltre un secolo, dei “cristezanti” giunti dall’Argentina.
SANTUARIO DI N.S. DELLA GUARDIA, 5 giugno 2004
Giunti al Santuario, i Porta-Cristo hanno provato il
Cristo che la Confraternita di Busalla ha messo a loro
Disposizione e posano insieme per la foto.
SANTUARIO DI N.S.DI MONTALLEGRO – RAPALLO
7 giugno 2004 – I Porta-Cristo argentini e familiari
Nella foto davanti alla Chiesa.
Secondo la tradizione, il termine cappella viene dalla chiesa di San Martino di Tours, nella quale era conservata come una reliquia la cappa di san Martino che, come sappiamo é uno dei Santi più venerati in Occidente specialmente nei secoli passati. 4.000 parrocchie in Francia portano il suo nome. In molte regioni d'Italia l'11 novembre è simbolicamente associato alla maturazione del vino nuovo (da qui il proverbio "A San Martino ogni mosto diventa vino") ed è un'occasione di ritrovo e festeggiamenti nei quali si brinda, appunto, stappando il vino appena maturato e accompagnato da castagne o caldarroste. Sebbene non sia praticata una celebrazione religiosa a tutti gli effetti (salvo nei paesi dove san Martino è protettore), la festa di San Martino risulta comunque particolarmente sentita dalla popolazione locale. Nel nord Italia, specialmente nelle aree agricole, fino a non molti anni fa tutti i contratti (di lavoro ma anche di affitto, mezzadria, ecc) avevano inizio (e fine) l'11 novembre, data scelta in quanto i lavori nei campi erano già terminati senza però che fosse già arrivato l'inverno. Per questo, scaduti i contratti, chi aveva una casa in uso la doveva lasciare libera proprio l'11 novembre e non era inusuale, in quei giorni, imbattersi in carri strapieni di ogni masserizia che si spostavano da un podere all'altro, facendo "San Martino", nome popolare, proprio per questo motivo, del trasloco. Ancora oggi in molti dialetti e modi di dire del nord "fare San Martino" mantiene il significato di traslocare.
L’interno della cappella di S.Giovanni
La CAPPELLA DI S.GIOVANNI può ospitare circa 40 fedeli seduti ed un’altra decina in piedi ed altri sul piccolo sagrato.
Utilizziamo il seguente ALBUM FOTOGRAFICO (da noi curato) per descrivere nelle didascalie alcuni “particolari” interessanti.
La cappella di San Giovanni ripresa da varie posizioni
Un affascinante dipinto un po’ scolorito dal tempo e dall’oblio si trova sopra l’altare
La GRAZIA Divina proietta la sua candida luce dall’alto verso il basso illuminando la Madonna, il Bambino Gesù e l’Agnello sacrificale. A sinistra per chi guarda é raffigurato San Giovanni Battista, sulla destra San Pietro che regge le chiavi del paradiso con la mano destra mentre poggia affettuosamente la mano sinistra sulla spalla del “committente”. Il mantello sospeso sopra il capo di Maria potrebbe rappresentare la “volta celeste” o forse il MANTELLO di San Martino… il mantello della Provvidenza…
La fotografia del dipinto situato sopra l’altare é stata ripresa dal basso e con scarsa luce per cui risulta schiacciata e poco definita. Tuttavia a detta di alcuni appassionati, non certo da periti o da esperti, il dipinto potrebbe appartenere alla scuola di Luca Cambiaso. Parecchi sono gli indizi … In ogni caso, il parere di un esperto che non ha visto il quadro, ma soltanto la foto, é il seguente: “Di solito quando viene raffigurato il committente, si tratta di un dipinto importante”. Una restauratrice molto esperta, che non ha visto il quadro, ma solo la foto, si é così espressa: “Questi dipinti sono passati attraverso 15 generazioni di pseudo pittori che, forse, nell’imminenza di Feste Patronali, hanno pensato di renderlo più presentabile togliendo macchie e difetti maturati nel tempo a causa di tantissime cause naturali e non solo…
Un prezioso reperto
Il bellissimo calice, il vaso liturgico in cui viene versato il vino che diventa il Sangue di Cristo.
Rare immagini dipinte delle corazzate:
LEPANTO (varata nel 1876)
DANDOLO (varata nel 1873)
Molto probabilmente alcuni discendenti dei VALLE fecero parte della Regia Marina.
Visti i numerosi ex voto presenti nella cappella-santuario di S. Giovanni, il quadro potrebbe
rappresentare un ulteriore Per Grazia Ricevuta legato a vicende belliche di particolare pericolo.
Carlo GATTI
Rapallo, 30 Luglio 2019
IL COMANDANTE HA SEMPRE RAGIONE?
IL COMANDANTE HA SEMPRE RAGIONE?
Le “verità” che affronto in questo articolo non valgono per tutti i contesti sociali, anzi…
I principi che evoco non sono digeribili da tutti e possono entrare in contrasto con i valori di molte persone.
La selezione naturale imposta dal mondo marittimo attraversa anche questa fase.
La morale, l’etica, i principi e gli stessi valori – in alcune circostanze – passano in secondo piano rispetto alla necessità di mantenere “indiscutibile” il concetto gerarchico.
La celebre frase “Ed io sono il Capitano del Pilcomayo, e in questo momento a bordo del mio legno comando io dopo Dio” (Emilio Salgari – Il tesoro del Presidente del Paraguay), sintetizza in modo efficace quello che deve essere accettato come un dogma.
Ebbene sì, il Comandante ha sempre ragione!
Può sembrare una frase divertente, una battuta; in realtà mettere in discussione l’autorità e il potere legati al ruolo del Capo della spedizione, indebolisce l’intero sistema di comando.
L’organizzazione del modus vivendi a bordo di una nave è l’estratto, il condensato, l’applicazione pura di questi concetti.
- Poche persone che non si conoscono;
- di età differenti;
- culture politiche diverse;
- fedi religiose diverse;
- tradizioni e abitudini diverse;
- convivenze coatte lontane dagli affetti e isolate dal resto del mondo, obbligate in uno spazio confinato tra lamiere, cielo e mare.
Se non esistesse una realtà così organizzata da secoli, sono convinto che risulterebbe difficile per chiunque riuscire a credere che funzioni nella sua prassi quotidiana.
La corrente spinge in un’altra direzione…
Quando ero piccolo esistevano diverse “autorità” e tutte esercitavano un potere indiscusso su di me: i genitori, la sorella più grande, gli adulti in generale, il maestro, l’istruttore di ginnastica, ecc.
La cultura era gerarchica, l’anzianità faceva grado e, in generale, ogni elemento valutativo portava a un determinato livello della scala di comando.
Ma negli anni la “corrente sociologica” ha spinto in modo costante verso un’altra rotta.
Il risultato è la messa in discussione di tutti i ruoli e il conseguente appiattimento dei concetti di autorità e autorevolezza.
Non esiste la soluzione perfetta.
Tutti i sistemi politici e giuridici hanno una matrice umana che ne decreta l’imperfezione ma, nelle organizzazioni di qualsiasi livello, via via che il sistema si allontana dal concetto di gerarchia, la situazione diventa ingestibile.
Perché è importante scindere la persona dal ruolo?
A molti non piace l’idea di “gerarchia” e come dargli torto?
Se riflettiamo bene, pur esprimendo un concetto chiaro e lineare, spesso si è portati ad associare questo termine a ideologie non democratiche. Il nodo della questione è che la gerarchia, quando non è vincolata a un’idea chiara e funzionale delle regole sulle relazioni, scivola inesorabilmente verso rapporti squilibrati.
A questo punto il discorso si allarga e dalle navi si allunga sulle banchine per espandersi sulla terraferma…
Essere a capo di un’organizzazione, ricoprendone la figura verticistica, riconosce una posizione di responsabilità e di autorità, ma non stabilisce un’indiscutibile superiorità in termini di confronto, di ragione universale e, sicuramente, non dà il diritto di accanimento verso i dipendenti o di prepotenza nei confronti dei collaboratori.
Allo stesso modo il collega, o il dipendente, che vivono il rapporto di lavoro a senso unico, pretendendo senza dare, giudicando senza mettersi in discussione obiettivamente e ignorando i punti di vista delle altre persone coinvolte, contribuiscono a generare un clima diffidente e pesante se non, addirittura, di scontro aperto.
E qui abbiamo un altro nodo importante: una mentalità chiusa, concentrata sul proprio essere, presuntuosa ed egoista, porta a rapporti squilibrati.
La gerarchia, anche non formalizzata, è un concetto naturale sempre presente. A volte è dettata dall’anzianità, altre dal carisma, altre ancora da un’evidente superiorità oggettiva in un determinato campo, ma è difficile trovare un contesto dove, anche in modo alterno e provvisorio, non sia presente una qualche forma di competenza organizzata su differenti livelli.
A volte i problemi assumono, ai nostri occhi, dimensioni enormi; ci appaiono irrisolvibili e destinati a cambiare il nostro stato d’animo in modo permanente.
Eppure, se allarghiamo la cornice del problema e la consideriamo in un quadro temporale più ampio, la pressione comincia a calare d’intensità e diventa facile capire come lo scorrere del tempo sia il fattore chiave imprescindibile.
Dove voglio arrivare?
Si sente dire spesso: “la vita è una ruota che gira a scatti”: ogni click è una fase unica e irripetibile, dove per qualche istante hai la possibilità di esprimerti, ma mai di tornare indietro. Ogni click crea, distrugge o consolida una parte di te, contribuendo alla determinazione del tuo “io sono”.
È qui, secondo me, che assume una grande importanza la scala personale dei valori, libera di essere pensata e svincolata dalle convenzioni.
Più siamo consapevoli di ciò che è importante per noi, più diventa facile applicarlo nei click quotidiani.
Detto questo, e collegandolo a quanto scritto prima, osserviamo come, per quasi tutte le persone, buona parte del “tempo” sia occupata e influenzata dalle relazioni sul luogo di lavoro.
Se quello che ho scritto è vero, allora assume un’importanza enorme la considerazione e il rispetto reciproco – capo o subordinato che sia – e il diritto di autonomia decisionale, teso allo sviluppo di un interesse generale, pur in un contesto gerarchico che tenga conto della qualità della vita del singolo.
Incutere paura, usare la leva del terrorismo psicologico, applicare un controllo oppressivo, sono le strategie usate da chi non ha le qualità e le capacità di unire, condividere e guidare verso un piano di crescita collettiva.
Purtroppo succede spesso che chi dirige è ossessionato dalle sue paure e le attribuisce all’altro creando una situazione di oppressione e minaccia. Tutto questo porta a uno stato mentale in cui diventa difficile distinguere i pericoli dalle opportunità e le verità dalle falsità.
È possibile riconoscere questo tipo di persona anche da semplici atteggiamenti, quali, ad esempio, il fatto che tenderà a dare risposte certe su tutti gli argomenti, piuttosto che a fare domande per valutare gli altri punti di vista, ignorando che quello che dice già lo sa e perdendo la possibilità di accedere a un nuovo livello, dove gli potrebbe venire mostrata una parte più profonda, un punto di vista differente.
Una mentalità poco aperta pregiudica la conoscenza, porta a errate valutazioni e a porre giudizi che falsano la realtà.
In definitiva, il concetto gerarchico secolarmente applicato sulle navi di tutto il mondo, soffre certamente di una crescita lenta, forse non al passo con i tempi e certamente migliorabile lavorando sul piano personale.
La figura del leader deve essere capita per arrivare a sostituire, laddove ce ne fosse ancora bisogno, quella del “capo che ha sempre ragione a prescindere”.
Riporto quanto scritto da Kipling che, anche se non perfettamente attinente all’argomento, è indiscutibilmente bello e porta a riflettere.
“Se” di J. R. Kipling (1895)
Se riesci a non perdere la testa quando tutti intorno a te
la perdono e ti mettono sotto accusa.
Se riesci ad avere fiducia in te stesso
quando tutti dubitano di te,
ma a tenere nel giusto conto il loro dubitare.
Se riesci ad aspettare senza stancarti di aspettare
o essendo calunniato a non rispondere con calunnie,
o essendo odiato a non abbandonarti all’odio,
pur non mostrandoti troppo buono,
né parlando troppo da saggio.
Se riesci a sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni.
Se riesci a pensare senza fare dei pensieri il tuo fine.
Se riesci ad incontrare il successo e la sconfitta
e trattare questi due impostori allo stesso modo.
Se riesci a sopportare di sentire le verità
che tu hai detto distorte da furfanti
che ne fanno trappole per sciocchi o vedere le cose
per le quali hai dato la vita distrutte e umiliarti
a ricostruirle con i tuoi strumenti oramai logori.
Se riesci a fare un solo fagotto delle tue vittorie
e rischiarle in un solo colpo a testa e croce
e perdere e ricominciare da dove iniziasti senza
mai dire una sola parola su quello che hai perduto.
Se riesci a costringere il tuo cuore, i tuoi nervi,
i tuoi polsi a sorreggerti anche dopo molto tempo
che non te li senti più e a resistere
quando ormai in te non ce più niente
tranne la tua volontà che ripete “resisti!”
Se riesci a parlare con la canaglia
senza perdere la tua onestà
o a passeggiare con i re
senza perdere il senso comune.
Se tanto nemici che amici non possono ferirti
se tutti gli uomini per te contano
ma nessuno troppo.
Se riesci a colmare l’inesorabile minuto
con un momento fatto di sessanta secondi
tua è la terra e tutto ciò che è in essa
e quel che più conta sarai un Uomo, figlio mio.
John GATTI
Rapallo, lunedì 17 Giugno 2019
PITTORI DI MARINA-"CHARLES PEARS“-La nave da battaglia HMS Howe
PITTORI DI MARINA
Eco del Golfo Tigullio
LA QUADRERIA DEL MARE
CHARLES PEARS
“La nave da battaglia HMS Howe nel Canale di Suez, 1944”
Charles Pears (1873-1958) è una figura emblematica nel campo della pittura di marina d’oltremanica a cavallo tra Ottocento e Novecento, avendo incarnato molte “anime” di questo particolare settore artistico in Gran Bretagna e risultando un attento testimone degli sviluppi tecnici, storici, marinareschi ed emozionali tanto nel settore della marina militare quanto in quello della marina mercantile.
Un poster di Charles Pears realizzato nei primi anni Trenta: intitolato “Gibraltar”, propagandava per l’Empire Marketing Board le linee delle Compagnie di navigazione britanniche per il trasporto passeggeri attive all’epoca.
Nativo dello Yorkshire, già nel 1890 era attivo come illustratore navale per la stampa periodica e, dopo il suo trasferimento a Londra nel 1904, differenziò le sue tecniche pittoriche e grafiche dagli acquerelli, agli olii e alle incisioni e fu autore, nel contempo, di alcuni testi di tecnica marinaresca e di navigazione da diporto. Ufficiale dei Royal Marines durante la Grande Guerra, entrò a far parte della Royal Society of Marine Artists e fu ufficialmente inserito nel novero dei “War Artists” britannici, operando in questo ruolo già tra il 1914 e il 1918 come pure all’epoca del secondo conflitto mondiale.
Al di là della già ricordata differenziazione delle tecniche utilizzate e della specializzazione nell’ambito della pittura di marina più strettamente intesa, l’opera di Charles Pears fu anche rivolta alla realizzazione di manifesti pubblicitari per compagnie di navigazione e ferroviarie. In particolare, tra il 1926 e il 1933 collaborò con l’Empire Marketing Board, un ente governativo che, in quegli anni, era preposto alla promozione turistica e commerciale di compagnie di navigazione e di altri soggetti economici del Regno Unito e dell’Impero. A questo periodo va anche fatta risalire una sua vasta produzione di advertisement per importanti società (P & O, White Star, Cunard) del trasporto passeggeri, attività che proseguì anche nel secondo dopoguerra.
Verso la fine della sua carriera Pears si ritirò in Cornovaglia, ma sino a dopo la metà degli anni Cinquanta continuò a dare vita ad una vasta produzione avente per soggetto ciò che maggiormente lo appassionava, ossia le navi militari e mercantili e l’ambiente marinaresco più largamente inteso, con tutte le sue opere sempre contraddistinte da una particolare ma efficace rappresentazione del mare nei suoi vari stati, delle onde e dell’ambiente oceanico.
L’olio su tela che qui presentiamo, oggi conservato al National Maritime Museum di Greenwich, è contraddistinto dalla firma “Chas Pears”, un’abbreviazione del nome proprio presente in moltissime opere di questo autore; l’opera raffigura la nave da battaglia HMS Howe, mimetizzata, nel 1944 (e fu verosimilmente realizzata in quell’anno) durante il passaggio del Canale di Suez. È possibile datare l’evento con una certa precisione, in quanto l’unità operò sempre nell’Atlantico e nel Mediterraneo sino a quando, tra il gennaio e l’aprile del 1944, fu sottoposta ad un ciclo di lavori di raddobbo nell’arsenale di Devonport al cui termine raggiunse Scapa Flow. L’Howe lasciò questa base nelle Isole Orcadi il 1° luglio 1944 diretta a Ceylon, con l’attraversamento del Mediterraneo, ed è quindi verosimile che il suo transito nel canale di Suez verso il Mar Rosso sia avvenuto tra il 10 e il 15 di quel mese.
Un’incisione di Charles Pears risalente al 1917 e raffigurante una nave trasporto truppe in Atlantico (National Gallery of Victoria, Melbourne)
La nave da battaglia Howe faceva parte della classe “King George V”, cinque unità (King George V, Anson, Duke of York, Prince of Wales e, per l’appunto, Howe) entrate in servizio tra il 1940 e il 1942; con un dislocamento a pieno carico superiore alle 45.000 tonnellate, erano armate con dieci cannoni da 356/45 su due torri quadruple e una binata. Il Prince of Wales, veterano dello scontro con la corazzata Bismarck durante il quale l’unità tedesca affondò l’incrociatore da battaglia Hood, andò a sua volta perduto (insieme all’incrociatore da battaglia Repulse) a dicembre 1941 nello stretto di Malacca, pochi giorni dopo l’inizio delle operazioni militari giapponesi che avrebbero portato alla caduta di Singapore. Le altre quattro unità furono attive nei più importanti settori operativi nel corso della seconda guerra mondiale e vennero tutte radiate nel 1957, quando ormai la nave da battaglia era stata soppiantata dalla portaerei nel ruolo di capital ship delle moderne flotte militari.
Una rara immagine, da una diapositiva a colori originale di fonte statunitense, raffigurante la nave da battaglia HMS King George V nel 1941
Maurizio BRESCIA
Direttore del mensile
Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco
Rapallo, 17 Gennaio 2019
SONO SBARCATO... CON I PIRATI
SONO SBARCATO…. CON I PIRATI
Sciabecco saraceno
Corsaro Barbaresco - XVI secolo
Mi sono imbarcato, non riconosciuto, sulla seconda lancia che puntava sulla vicina spiaggia nel più assoluto silenzio. Eravamo una decina di uomini al comando, si fa per dire, del più esperto di noi;
ISTAMBUL – Monumento dedicato a DRAGUT
un sanguinario con la inseparabile spada da taglio leggermente ricurva (non una vera e propria scimitarra) che usava senza alcuna pietà. Era “Capo” perché noi lo avevamo scelto a quel ruolo e il Comandante ce lo aveva concesso, riconoscendogli pur egli capacità non comuni. Lui era all’ennesimo assalto mentre qualcuno di noi al primo; e io fra quelli. La nera notte se ne stava andando lasciando posto ad un’alba ancora buia perché il Comandante, vecchio e crudele vermocane di mare, buon conoscitore del tempo, aveva previsto che per almeno quattro giorni la luna, nostra nemica, non si sarebbe fatta vedere. Dopo un ennesimo sorso di grappa ci imbarcammo.
Le prime pistole (distinte dal precedente archibugio) comparvero verso la metà del Cinquecento, secondo alcuni in Toscana, a Pistoia, ove fiorivano botteghe di valenti armaioli e il termine deriverebbe proprio dal nome di quella città. L'etimologia ufficiale lo fa invece derivare dal ceco pì šťala ("tubo, canna"), mentre secondo altri trarrebbe origine da pistoles, moneta spagnola di diametro uguale al calibro degli schioppi d'allora.
Il Capo impugnava in una mano la “duchessa”, la pistola a pietra focaia che quando sparava da distanza ravvicinata creava un cratere nel ventre del malcapitato e nell’altra la spada ricurva. Anche noi eravamo armati con le ricurve spade da taglio e, sotto le vesti, l’inseparabile pugnale, ultima chance.
Il primo archibugio di cui si ha documentazione in Italia risale al 1522.
Gli archibugi li avevano solo quelli che restavano di guardia sulla spiaggia; a noi avrebbero dato solo che fastidio impedendoci movimenti veloci. Nel buio si scorgeva sulla spiaggia ancora, qua e là, qualche morente falò, bruciato in onore del Santo Patrono e che a noi servivano da orientamento. Sembrava non ci fosse anima viva. Davanti, il borgo da assaltare e, alle spalle, la nostra flotta che ci aveva silenziosamente portati fin lì. Avvicinandoci, ci accorgemmo che qualcuno dormiva russando sdraiato sulla fascia prima della battigia: era evidentemente ubriaco fradicio per le libagioni della sera; gli altri certamente russavano sui loro sacconi, se non ubriachi, certamente “cotti” dal vino e dalle troppe risate.
Rapallo – Porta delle Saline. Da qui entrarono i Saraceni...
A terra sapevamo che le porte del Borgo ci sarebbero state aperte dai delatori al nostro soldo, gli stessi che ci avevano fornito importanti indicazioni per andare a colpo sicuro e scegliere il giorno propizio. Questi venivano poi pagati al primo sbarco prossimale effettuato dopo la razzia per permettere il riscatto dei rapiti.
A questo proposito ho sentito il Reis, nostro Comandante raccomandarsi di non massacrare se non il dovuto, e fare più prigionieri possibili così da rendere attrattivo il successivo riscatto dei rapiti, perché era il momento che “valevano” di più privilegiando i membri delle famiglie più in vista perché merce di maggior valore. Se riscattati, si evitava di mantenerli e sorvegliarli sino all’arrivo del mercato degli schiavi perché, esibendoli in male arnese, si correva il rischio di non rientrare neppure delle spese. In oltre se avessimo incrociato un qualche veliero che meritasse essere abbordato, quelle numerose presenze ci sarebbero state di intralcio. Se invece li avessimo posti in “vendita” su qualche spiaggia vicina a casa loro, chi avesse avuto interesse a riscattali, lo avrebbe potuto agevolmente fare. Quelli rapiti a Rapallo bisognava esibirli quanto prima sulla spiaggia di Lavagna o Bogliasco anche perché il prezzo ricavabile, sotto la spinta emotiva, sarebbe stato assai più interessante di quello ottenibile sui grandi mercati degli schiavi di Algeri, Tunisi o Maiorca le cui valutazioni fluttuavano anche a secondo della quantità offerta e non solo dalla qualità. Facevano eccezione le belle ragazze da farne omaggio ai Visir locali, per essere da loro ben accolti.
I terrazzani, quando c’erano, avrebbero dovuto fare la guardia dai terrazzi, se non dormivano anche più di quelli che dovevano proteggere. Capimmo che la scelta di assalirli all’alba successiva alla Festa del paese, era una delle tante intuizioni del nostro Reis che, con noi, si era imbarcato sulla prima lancia che avrebbe toccato terra. L’imperativo era di fare tutto in fretta prima che gli abitanti se ne rendessero conto e che, se mai qualcuno fosse andato nei paesi vicini a chiedere aiuto, non potesse tornare in tempo con i rinforzi. Già, che rinforzi? visto che nessun uomo era armato e una palla di pistola val ben più di bastoni o attrezzi agricoli; erano poveri pescatori o artigiani o persone che prestavano i loro servigi presso qualche Signorotto locale.
Portofino – Castello Brown. «Sembra che il baluardo difensivo sia stato costruito nel Medioevo e da sempre utilizzato per funzioni militari. È comunque probabile che i romani abbiano fissato una delle loro “stazioni” nell’antica Portus Delphinis e vi abbiano costruito un “castrum” e una “turris”, come era nel loro uso fare ovunque, allorché costruivano i loro punti strategici. È, inoltre, probabile che abbiano costruito una torre nello stesso luogo ove sorge la torre che possiamo ammirare oggi.
Le guarnigioni in quei paesi non esistevano ancora. Quelle si tenevano “pronte” nei Centri più importanti, arroccati nelle poche fortezze realizzate ma senza armi offensive. Quando gli ultimi soldi di tutti e della Repubblica si erano finiti per comprare i cannoni da installare nella edificata fortezza, non ce ne erano poi più per comprare le palle e la polvere da sparo. Quindi la sorpresa e la rapidità ci garantivano il successo. Sbarcati in silenzio, cominciammo ad urlare appena varcato il portone del Borgo che trovammo regolarmente già aperto. Da li in poi era indispensabile creare il panico in modo che se uno si risvegliava di soprasalto sotto ad un incubo, era inoffensivo per quel lasso di tempo da poterlo fare prigioniero; si dava l’impressione volerli sgozzare tutti ma a noi interessavano prigionieri e non morti. Le donne correvano ancora arruffate dal sonno e sommariamente vestite, barricarsi in chiesa con i loro piccoli “mandilli” a quadrettoni grigio-azzurri, contenenti poche cose, gli uomini buttavano dalle finestre di casa loro delle masserizie per ostruire il passaggio nei già stretti caroggi, realizzati così per quello scopo.
Il Centro Storico di Rapallo mantiene l’impianto dell’antico borgo medievale e ne conserva i portici ed alcuni portali ed affreschi. Gli stretti carruggi pedonali sono diventati oggi le vie del passeggio e dello shopping, ma alzando gli occhi, in più punti si possono vedere ancora palazzine con le finestre sottolineate da architravi o mensole con elementi decorativi barocchi a bassorilievo.
Le case al piano terra non avevano finestre, specie sul lato spiaggia, così da formare palazzata difensiva, al punto da rendere difficile entrare nelle abitazioni se non dalla porta. L’ordine che avevamo era quello di sgozzare subito platealmente qualcuno, meglio se vecchio, per alimentare il terrore che già si era impossessato degli abitanti assonnati e sconvolti. Ogni volta che trovavamo una porta chiusa, bisognava incendiare quella casa per far capire che davanti a noi le porte dovevano essere lasciate aperte per favorirci le razzie. Non tutti noi sbarcavano per assalire; i più malconci, armati di archibugi, accatastavano e custodivano sulla spiaggia le suppellettili più interessanti così da poterle imbarcare rapidamente. Altri sfondavano le porte delle Chiese trovandovi regolarmente le donne avvinghiate le une alle altre con il Sacerdote che, pregando, le rincuorava. Urlando e strappando dei corsetti per dar loro l’impressione che volessimo stuprarle, portavamo via tutti, monaco compreso, avendo però prima tolto a tutte il fagotto con i loro averi. Qualche scudisciata qua e là faceva capire che non scherzavamo e continuavamo ad urlare e bestemmiare come ossessi. Gli uomini tentavano di scappare e non ci opponevano resistenza: era quindi facile legarli l’un l’altro perché non avvezzi a combattere. Nel rapirli si cercavano i giovani, se non c’era qualche segnalazione preferenziale, perché certamente al soldo di qualche casata che avrebbe potuto pagarne il riscatto per non rimanere senza
personale di servizio o artigiani. Le donne, specie se vecchie, ci facevano comodo per calmare le giovani, non ancora abituate come loro ad una vita di sottomissione. Certe volte nelle case incontravamo un vecchio che, per non essere ucciso, ci dava spontaneamente quanto aveva. Per evitare che poi ci intralciasse, bastava qualche bastonata ad acchetarlo. Il nostro lavoro era rischiarato dai bagliori sinistri dell’ardere degli appartamenti che avevano tenuti chiuso o perché, fuggiti gli abitanti avevano chiuso la porta; bisognava però, mano a mano che il tempo passava stare attenti a non bruciarci con i tizzoni o le tavole che, infuocate, cadevano dai poggioli. Gli urli che lanciavamo e le implorazioni delle vittime non ci impressionavano più di tanto; c’eravamo abituati. Non potevamo perdere tempo e bisognava far capire che non scherzavamo.
Ad un certo momento il passaparola dei Capi e, al segnale convenuto, ci ritiravamo quasi tutti sulla spiaggia mentre chi restava nel borgo, correva per i vicoli urlando e brandendo fiaccole infuocate per terrorizzare, mentre il grosso di noi era già impegnato ad imbarcare i rapiti e selezionare i mobili migliori da portarsi via; il resto restava li, se non incendiato. In meno di un’ora, ora e mezza, tutto era finito. Con il primo chiarore eravamo già a bordo e si manovrava per partire, prima che eventuali navi non previste, ci potessero cogliere con le vele afflosciate o i remi non in acqua.
All’epoca non eravamo ben visti.
Renzo BAGNASCO
Rapallo, 24 luglio 2016
COSTA VICTORIA - SOCCORSO IN ATLANTICO
COSTA VICTORIA
SOCCORSO IN OCEANO ATLANTICO
Al comando della Costa Victoria, (nella foto) il pomeriggio del 27 novembre 1998, partimmo da Genova, salutando come sempre con i fischi della sirena e con tanta tristezza nei cuori i nostri famigliari che continuavano a farci segno dalla banchina, sino a quando la nave era in vista. Le traversate atlantiche erano crociere che stavano diventando sempre più richieste. I nostri ospiti erano per il 50% italiani e per il resto di varie nazionalità; i porti più o meno erano sempre gli stessi. Questa volta, per avere una navigazione più confortevole e una minore onda lunga atlantica dopo Gibilterra, la nave fece scalo a Casablanca e, a seguire, a Santa Cruz de Tenerife per poi raggiungere i Caraibi.
St.Marteen
Partimmo da Tenerife con un forte vento in poppa, diretti al primo scalo dei Caraibi, la bella isola di St. Maarten. Il vento si manteneva teso, la nave superava tranquillamente i 21 nodi e i passeggeri si godevano la splendida giornata sui ponti esterni rinfrescati da una lieve brezza che dava un senso di piacere a chi si stava crogiolando al sole.
Stavamo navigando tranquillamente da due giorni, quando, sul tardo pomeriggio, avvistammo all’orizzonte una barca a vela (nella foto) lunga circa 18 metri. Poco dopo fummo chiamati dall’imbarcazione che ci segnalava di avere delle difficoltà: stava procedendo a vela, ma utilizzava soltanto il fiocco in quanto il forte vento dei giorni precedenti le aveva spezzato il boma, si erano scardinati i perni della connessione del giunto con l’albero e lo stesso giunto era danneggiato. Secondo l’equipaggio della barca a vela - tre donne e quattro uomini di nazionalità francese - il danno sarebbe stato riparabile se avesse potuto avere assistenza. Mi feci dare le generalità: erano due coppie intorno ai 50 anni, con tre figli, due ragazzi e una ragazza di oltre 20 anni. Tutti appassionati di vela, avevano intenzione di proseguire verso l’isola di Antigua. Dal nostro ufficio security di terra, al quale chiedemmo di controllare le generalità avemmo conferma della veridicità delle informazioni ricevute. Per ridurre i tempi di avvicinamento diedi agli occupanti della barca la rotta sulla quale dovevano procedere per venirci incontro. Non appena fossimo stati a circa due miglia di distanza avrebbero dovuto ammainare il fiocco e non tentare alcuna manovra di contatto con noi. Gradatamente cominciai a ridurre la velocità, mentre il nostro personale era al portellone principale, pronto alla manovra.
Fermai la nave quando la barca era a una distanza di circa cinque metri al nostro traverso. La barca che ci apprestavamo ad assistere era veramente bella e comoda, ricordo che si chiamava “La Belle Etoile”. Data la vicinanza il lancio delle nostre cime a bordo fu facile. Comunicai via radio a Louis, che stava al timone, di utilizzare il motore e mettersi con la prora al mare, tirare le cime e affiancarsi, assicurandolo che i nostri parabordi avrebbero protetto l’imbarcazione. La manovra riuscì perfettamente, l’onda lunga causava un po’ di beccheggio, ma l’ormeggio sottobordo era sicuro. Gradatamente, utilizzando le eliche di manovra, mi traversai al mare lungo, proteggendo ulteriormente la piccola imbarcazione dall’onda lunga. Il nostro carpentiere e l’operaio meccanico salirono a bordo e verificarono che per la riparazione erano necessarie almeno due ore, in quanto si doveva ricostruire un pezzo solido di rinforzo in acciaio, fattibile con i nostri mezzi. Avvertii i passeggeri della situazione; molti di essi avevano già filmato con le cineprese la manovra ed erano curiosi di sapere che cosa avremmo fatto. Nel frattempo, dal nostro portellone, su gentile richiesta di Louis, provvedemmo a completargli il rifornimento di gasolio e a fornirgli due grossi sacchi di provviste alimentari di ogni genere. Il lavoro fu completato in oltre due ore, nel corso delle quali il nostro personale aveva effettuato una riparazione permanente. Sicuramente, in quel punto, il boma non si sarebbe più rotto, neppure con vento forte. La gioia dei francesi fu immensa, si sentivano ora sicuri di poter continuare il loro viaggio. Era loro intenzione trasferire l’imbarcazione ad Antigua per poi ritornare in patria in aereo perché i ragazzi frequentavano l’università; successivamente, in estate, avrebbero visitato tutte le isole dei Caraibi.
Dopo circa 20 giorni ricevetti, tramite posta elettronica, la conferma del buon esito del loro viaggio con molti ringraziamenti per la nostra assistenza ed efficienza. I francesi aggiungevano di aver fotografato la “Costa Victoria” dalla loro barca, e di averne fatto una foto gigante da tenere in ricordo di quella loro esperienza in mare.
I nostri passeggeri si erano entusiasmati nel seguire l’operazione di soccorso ed avevano ascoltato con interesse dal direttore di crociera, la sera, in teatro, tutti i dettagli dell’intervento, esposti nelle varie lingue straniere. Avevano apprezzato molto il nostro gesto e ricevetti numerose lettere lusinghiere di complimenti, specialmente dagli ospiti francesi. Il nostro viaggio proseguì tranquillo sino all’arrivo, dopo aver effettuato gli scali più belli e interessanti dei Caraibi.
Una nave di "Costa Crociere" in uscita da Port Everglades
Domenica 13 dicembre entrammo in porto a Port Everglades (Florida), concludendo ancora una volta con successo e gradimento degli Ospiti la traversata atlantica.
C.S.L.C. Mario Terenzio PALOMBO
COSTA VICTORIA
Dati Tecnici:
Consegnata alla Costa Crociere nel 1996 dal cantiere Lloyd Werft (Bremerhaven- Germania), dove è stata costruita. (DESIGN Italiano – progettata da uno studio di ingegneri italiani). Ho avuto l’onore di seguirne l’allestimento e assumerne il comando.
Le dimensioni della nave erano state studiate dall’armatore sulla base di parametri logistici e commerciali, perché potesse transitare lungo il Canale di Panama, passare sotto i ponti più importanti del mondo e operare tranquillamente in quasi tutti i porti del Mediterraneo.
La “Costa Victoria” è lunga 253 metri, larga 32.2, GRT: 75.176, (Stazza lorda) potenza apparato motori 30.000 KW, (propulsione diesel elettrica) capacità massima passeggeri 2370, equipaggio 790. E' dotata di tre eliche di manovra prodiera da 1.700 KW ciascuna e 2 poppiere da 1.700 KW ciascuna, due timoni attivi tipo “Becker” che danno alla nave un notevole effetto evolutivo.
Webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 28 Agosto 2014
RESTAURO CRISTO BIANCO-S.M.del CAMPO-RAPALLO
VIAGGIO NELL’ARTE DEL RESTAURO
“CRISTO BIANCO”
SANTA MARIA DEL CAMPO - RAPALLO
Una suggestiva immagine della basilica di San Salvatore dei Fieschi
La basilica fu costruita nel 1244 ad opera DEL PONTEFICE Innocenzo IV, al secolo Sinibaldo Fieschi, discendente del ramo nobiliare della famiglia FIESCHI che in tale periodo storico dominò l'intera vallata della Fontanabuona e buoina parte della Val d'Aveto.
Il vicolo conduce al laboratorio di Restauro artistico di Maria Rosa Sambuceti e Giustina Adreveno che sono impegnate nel restauro del Cristo Bianco appartenente all’Arciconfraternita Nostra Signora del Suffragio di Santa Maria del Campo di Rapallo (riconosciuta dalla Curia Romana il 7 dicembre 1601 come risulta dallo Statuto conservato con tanta cura. Il 12 maggio 1617 Monsignor Domenico De Marini, Arcivescovo di Genova accolse la delegazione di parrocchiani di Santa Maria ai quali concesse la facoltà di costruire un oratorio).
Questo é il portone d’ingresso del laboratorio situato all’interno di una antica casata a pochi passi dall’affascinante Abbazia.
Come si evince dalla relazione approntata dalle restauratrici Giustina Adreveno e Maria Rosa Sambuceti, “Lo stato sanitario complessivo del bene risulta buono, fatta salva una ridotta erosione del supporto ligneo localizzata nell’alloggio dei chiodi del Cristo e determinata dall’azione di insetti xilofagi, qualche lieve perdita della pellicola pittorica e una rottura in corrispondenza del polso destro rappezzata con un rudimentale incollaggio”.
Matteo Capurro (Consulente storico dell’arte Arciconfraternita di N.S. del Suffragio) si é così espresso:
“Viste le condizioni non compromesse dell’opera, si prevede un’azione blanda mirante ad eliminare lo strato superficiale di deposito accumulato nel tempo, risolvere il problema dei tarli con opportuna disinfestazione del supporto, consolidamento ove necessario, reintegrazione delle lacune del supporto stesso e della pellicola pittorica, stesura di protettivo.
La dott.ssa Giustina Adreveno é la curatrice del restauro del CRISTO BIANCO che risale probabilmente, secondo gli esperti, ad un periodo compreso tra la fine dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento.
Giustina, così vuole essere chiamata la gentile signora, dopo aver compiuto scuole d’arte importanti, si é specializzata a Firenze presso Istituti d’Arte dedicati al restauro conservativo delle opere d’arte del nostro paese
“Il nostro lavoro necessita di periodici aggiornamenti scientifici presso le scuole d’Arte per il costante miglioramento dei prodotti chimici che usiamo, ma anche e soprattutto per le nuove tecniche di restauro che costituiscono una vera scienza in piena evoluzione”.
La signora Giustina é un fiume in piena di dati e informazioni, per cui chiudo la mia agenda colma di domande e mi metto all’ascolto…
La parte posteriore del Cristo, solitamente poco curata perché non visibile, in questo caso appare artisticamente perfetta e non danneggiata, per cui necessita solo di una accurata pulizia.
Anche il volto del Cristo é in discrete condizioni. Non necessita di grandi restauri conservativi.
PRIMA DEL RESTAURO
L’avambraccio del Cristo evidenzia una frattura trasversale che necessita ancora di una approfondita analisi per decidere l’eventuale inserimento di una lamina metallica per ricomporre e consolidare la frattura.
DOPO UN PRIMO RESTAURO
IL PANNEGGIO DOPO IL RESTAURO
PRIMA DEL RESTAURO
PRIMA DEL RESTAURO
DOPO IL RESTAURO
RESTAURO: Per il consolidamento della zona tarlata é stata usata la resina Parralloid B 72 in Essenza di Petrolio.
La dott.ssa Maria Rosa Giustina Adreveno al computer
MATERIALE USATO PER IL RESTAURO: Antitarlo in gel – Inchiostri particolari – Paste di legno – Pennarelli speciali – Pasta epossidica - Colori per vetro Vitrali – Gomma siliconica – inchiostri Acrilici – Colori acrilici – ecc…
Il paziente lavoro di restauro del Cristo Processionale presto riporterà in auge la sua originaria bellezza.
I NOSTRI CROCIFISSI PROCESSIONALI
SIMBOLOGIA ESSENZIALE
Nella nostra regione Liguria, la tradizione di portare i Crocifissi in processione risale al XVI secolo.
La cura con cui viene conservato ogni Crocifisso é improntata ad una fervida venerazione in particolar modo negli Oratori dove esistono antichissime organizzazioni (Confraternite) nelle quali si tramandano: devozione, passione e conoscenza.
Queste sacre testimonianze di fede religiosa sono scolpite da VERI ARTISTI: scultori ed ebanisti. La croce, su cui è deposto il corpo ligneo di Gesù, é decorata in argento battuto. Alle estremità superiori della Croce sono collocati i “canti”, decorazioni costituite da foglie dorate o d’argento.
Nel sentire popolare i Crocifissi si classificano in base al peso ed alle dimensioni:
· Piccoli: dai 30 ai 80 kg
· Mezzani: da 80 a 110 kg
· Grandi: dai 110 kg in su
Oggi ci occupiamo in particolare del CRISTO “BIANCO” denominato così dai portantini (CRISTEZZANTI) per il colore dell’immagine di Gesù. Pesa circa 110 kg. I suoi “canti” sono ormai ingialliti dal tempo in quanto l’ultimo restauro è datato 1975. Attualmente, dall’inizio del mese di maggio é sotto osservazione.
- La figura di Cristo crocifisso con le braccia aperte simboleggia l’abbraccio del figlio di Dio all'umanità.
- L’angelo con il calice che raccoglie il sangue versato ci ricorda il sacrificio compiuto da Cristo per la nostra salvezza.
- Sulla stella che ricopre il ventre di Gesù ci sono molte versioni… quella che noi preferiamo é la seguente:
- Il Messia annunciato dai Profeti é evocato come una nuova stella: Una stella nata da Giacobbe. I Magi seppero riconoscere questa stella e la seguirono fino a Betlemme. Il manifestarsi di questo astro prodigioso é il segno dell’avvento del Figlio di Dio.
Se guardiamo con superficialità il nostro grande Crocifisso, ci apparirà come una opulenta costruzione barocca ricca di indorature, fregi e fiori argentati, ma se passiamo ad una più attenta contemplazione ci renderemo conto che tutto ciò su cui posiamo lo sguardo ha un significato ben preciso: i nostri grandiosi Crocifissi celebrano il trionfo della Croce, mistero centrale della fede cristiana.
Dai tre bracci della Croce scaturisce una lussureggiante fioritura della pianta d'acanto dalla quale si diramano numerosi e sottili girali con i loro fiori; la vitalità di questa pianta è data dalla Croce di Gesù, il cui sacrificio costituisce la ricreazione dell'umanità e del cosmo. Lateralmente affiora da un lato la palma del Martirio e dall'altro il ramo di ulivo della pace. Tra questi due simboli é incastonata l'effige della Madonna alla quale é dedicata la Chiesa. Una corona dorata avvolge il TITULUS CRUCIS: «Gesù il Nazareno, Re dei Giudei ».
Gesù è il nuovo Adamo che, con il mistero della Sua passione, morte e risurrezione, fa rifiorire l'umanità, riconciliandola col Padre.
In alto, sopra il cartiglio "I.N.R.I." è posta la corona di gloria per la vittoria sulla morte nel mistero pasquale, oltre è la colomba dello Spirito-Santo.
La Croce da strumento di morte viene vivificata da Gesù, vero albero di vita.
Il CANTO SINISTRO
IL CANTO DESTRO
I CANTI sono i tre lati superiori della croce che appaiono in questa tipologia di Crocifissi con una luminosa infiorescenza di fiori e foglie d’oro e d’argento. La Croce da simbolo di supplizio si trasforma in luce di speranza e di gloria annunciando la Resurrezione di Cristo.
Il quarto CANTO, quello inferiore, nella processione dei Cristi viene alloggiato nel CROCCO, (foto sopra), una specie di robustissimo calice di cuoio fissato, con cinghie adatte allo scopo, sull’addome del CRISTEZANTE. E’ il canto della Croce che poggia sull’umanità anelando al suo diretto contatto fisico. Il “portatore” sente e vive questo peso che non é solo materiale, allegorico, a volte festaiolo, ma anche un peso morale carico di responsabilità. Si tratta di un film antico che non finisce mai di emozionare e di stupire il fedele.
La responsabilità cui ci riferiamo é la PAURA di non farcela a sopportare quel peso, e spesso il “portatore” dialoga con Cristo per acquisire la forza di continuare ancora per qualche metro… poi chiama i suoi fidati stramoei ed avviene il passaggio ad un altro CRISTEZANTE.
Il simbolismo religioso é presente anche in questo delicato frangente: l’uomo da solo non può farcela, deve aver fiducia nel prossimo, in quel rapporto d’amore che proprio Cristo ci ha insegnato!
Il CRISTEZANTE in quel momento riflette l’immagine di quel SIMONE DI CIRENE detto il CIRENEO che si legge nel Vangelo di Marco:
“Allora costrinsero un tale che passava, un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e Rufo, a portare la croce. Condussero dunque Gesù al luogo del Golgota, che significa luogo del cranio”.
Io credo sia proprio la figura del Cireneo, il primo Cristezante della bimillenaria storia del Cristianesimo a dare continuità e significato ai riti processionali celebrati dalle circa 130 Confraternite sparse per la nostra terra di Liguria.
L’immagine sofferente del CRISTEZANTE è una vera e propria personificazione, non solo con Simone di Cirene ricordato dal Vangelo, ma con tutta la passione di Cristo.
IL CRISTO “NERO”
IL CRISTO “BIANCO”
IL CRISTO “PICCOLO”
Sono custoditi e curati dalla ARCICONFRATERNITA N.S. DEL SUFFRAGIO presso L’ORATORIO DI NOSTRA SIGNORA DELL’ASSUNTA di cui vediamo l’interno
Carlo GATTI
Rapallo, 29 Luglio 2019
DOVE E' DIRETTO IL PILOTAGGIO?
DOVE E’ DIRETTO IL PILOTAGGIO?
di Massimiliano M. Gazzale
Camminando in banchina è facile incontrare il Pilota del Porto mentre ritorna alla base dopo un ormeggio, lo si intravede mentre sale o scende dal traghetto che ci porta in vacanza. Si tratta dello stesso personaggio che a inizio 900 guidava dentro e fuori dai porti bastimenti a vela e poi a vapore. Lo si incontra in ogni porto degno di questo nome, dove spontaneamente si è creata la necessità di organizzare un servizio per le navi che scalano quel porto.
In ogni angolo del mondo toccato dal mare, dove una comunità di uomini ha ritenuto di costruire e beneficiare delle possibilità di avere un luogo dove scambiare merci, si è formato un manipolo di specialisti: i piloti del porto.
Ogni pilota è da solo quando opera: passa dalla pilotina alla nave da solo, prende contatto con il Comandante da solo, da solo comunica le preziose indicazioni per raggiungere in sicurezza l’approdo. I piloti possono anche essere raccolti in società, in gruppi, possono essere reclutati da privati, da società governative o in qualsiasi altro modo lo si voglia inquadrare, tuttavia il reclutamento è singolo e personale.
Il pilota si trova volontariamente a far parte di un gruppo di cui non ha potuto e non potrà scegliere i componenti, riceve in eredità un bagaglio di informazioni, di punti di vista senza prezzo, frutto dell’esperienza di tutti quelli che lo hanno preceduto e, sulla scorta delle informazioni tramandate in vari modi e acquisite in modi ancora diversi e personali, svolge il proprio servizio e si prepara a trasmettere le stesse a chi lo raggiunge nel gruppo strada facendo.
Spesso non esistono modalità formalizzate per imparare a fare e a essere un pilota nel proprio porto, anche queste sono frutto di consuetudini, di tradizioni, e ogni pilota può senz’altro snocciolare tutta una serie di aneddoti su come è condivisa l’esperienza dalle sue parti, i racconti al rientro da manovre avventurose, i discorsi in mensa, le considerazioni in pilotina, le veloci battute quando ci si scambia posto in pilotina. Ogni frase racchiude ore e ore di esperienza intraducibile se non condividendone alcuni aspetti, magari durante le medesime condizioni meteo o relative alla stessa nave o allo stesso ormeggio. Il pilota che ascolta, legge tra le righe del gergo, e intuisce quale sia il punto della questione su cui focalizzare l’attenzione al ripresentarsi dello stesso scenario, lo incamera, lo fa proprio e alla prima occasione lo verifica e lo interpreta, pronto per essere trasmesso a un altro pilota.
“Quella nave non si ferma!” “Ha un bel bow” “ Ha un bel timone efficace” “Non cammina” “Sembra una foglia” “Cerca il fondo” “Non gira” “È uno scoglio!”. Queste affermazioni fanno parte di un gergo che traduce semplicemente concetti che partono da fenomeni anche complessi di interazione tra nave, condimeteo, fondali e banchine; ognuno di noi sa esattamente quale sarà l’aspetto da cercare durante quella manovra, da valorizzare e verificare, poco importa quelle che sono le regole della fisica applicate alla teoria della manovra se poi per qualche motivo vengono disattese in favore di un comportamento tutto da scoprire.
Un pilota americano mi disse una frase che ricordo sempre: “Seamen are conservative persons and pilots are conservative seamen”, in queste parole, elette ad aforisma, si comprende come il bagaglio di esperienza sia fondamentale quando si tratta di pilotaggio.
Intendendo questo mestiere come un’arte, una sensibilità acquisita, un’abilità fortemente legata al luogo dove viene svolto e inquadrandola in come si è evoluto il trasporto marittimo, è interessante ragionare sull’attualità e sull’utilità di questo servizio.
Le associazioni internazionali di rappresentanza raccolgono quasi tutti i piloti del mondo (tramite le proprie associazioni nazionali), ed è interessantissimo notare come rappresentino i piloti iscritti come singoli e mai come società o imprese economiche, aspetto facile da scorgere quando si parla di altre realtà; anche questo elemento è indicativo di come sia la persona, il singolo professionista al centro.
Nello stesso porto, il servizio è regolato da piloti – in definitiva self employed, lavoratori autonomi, – la cui licenza è personale, non cedibile e revocabile solo dall’Autorità Governativa. La stessa rappresentanza del gruppo (in Italia Corpo) è meramente di tipo amministrativo, soggiacendo a regole e discipline dell’Amministrazione e con pochi o nulli spazi per la cosiddetta attività imprenditoriale.
La “necessità del Servizio” (a tutela della Sicurezza) prevale su qualsiasi altro tipo di interesse, si esplicita anche nella possibilità per il Corpo di poter scegliere chi sia il proprio “camerlengo” indicando una terna di soggetti tra cui l’Autorità Marittima si riserva di poter indicare il designato, sulla scorta di titoli e di anzianità e valutandone l’attitudine e la capacità, pur non prevalendo nella scelta. In questo modo si rivela uno scenario che, al giorno d’oggi ancora più che in passato, sembra discutibile (basare la scelta di un ruolo dirigenziale sulla scorta di titoli unicamente tra tre soggetti sembra anacronistico per un moderno reparto di profilazione HR) ma che evidenzia ancora di più la marginalità della rappresentanza, indirizzata verso compiti di amministrazione e contabilità, individuando sempre e comunque nel pilota che svolge il servizio il centro della discussione.
Con poche varianti il servizio di pilotaggio viene svolto in questo contesto, laddove la parte amministrativa sia gestita autonomamente o sia demandata ad agenzie dell’Amministrazione nazionale, non cambia comunque la stessa modalità operativa: al pilota è assegnata una nave da pilotare e, per questo servizio, l’utente versa una tariffa.
I portavoce internazionali dei piloti si esprimono sempre in termini molto chiari con alcuni capisaldi ben noti come:
- il Pilotaggio sia un servizio di Interesse Pubblico;
- il Pilotaggio tutela la nave e anche tutto il resto del porto dove questa transita;
- il Pilotaggio non sia un business, un’impresa economica;
- il Pilotaggio sia una attività per la quale rispettare le premesse di efficienza ed efficacia (Sicurezza) non sia un opzione;
- il Pilotaggio sia fornito da esperti che possano permettersi di dare giudizi e informazioni avulse dal contesto economico, libero da pressioni commerciali.
Questi elementi, spunti di riflessione, o vere e proprie rivelazioni per chi non sia pratico del mondo marittimo, sono particolarmente chiari per i piloti e sono preziosi punti di partenza per non rischiare di puntare l’attenzione verso considerazioni di impatto ma di poca sostanza, questa è la spina dorsale del pilotaggio.
Sarà anche retorica, ma le pressioni economiche la fanno da padrone, esercitate direttamente o indirettamente tramite la politica, sono la spinta che fa muovere la portualità.
Le innovazioni tecnologiche tendono evidentemente a limitare il peso dell’intervento dell’uomo, con la doppia utilità di sfruttare l’assenza di errore umano dovuta alla meccanicità delle attività ripetitive e la relativa economicità dell’impiego su vasta scala di apparati il cui costo è ampiamente ripagato nel tempo.
La tecnologia interviene sulle navi: equipaggi ridotti fino a farli sparire, impianti di governo e gestione con automazione spinta, user friendly e facile utilizzo, ogni aspetto è razionalizzato in un’ottica di contenimento dei costi e di massima efficienza economica; stessa cosa a terra: terminals container con sistemi telecomandati per la movimentazione, l’imbarco e lo sbarco delle merci. Si tratta di esercizi interessantissimi dal punto di vista scientifico e geniali dal punto di vista pratico, ma che ovviamente peccano della consueta razionalità relativa tipica degli imprenditori: ridurre i costi riducendo il personale impiegato è ottimo relativamente a quel settore economico, usando un’ottica più ampia probabilmente l’utilità, entro certi margini, decresce. Tuttavia il contesto è questo, possiamo discuterne per mesi e mesi ma è chiara quale sia la tendenza.
Collocare il pilotaggio, per intravedere cosa riserva il futuro, diventa un esercizio particolarmente complesso.
Serviranno servizi portuali più attenti e preparati, in caso di navi senza equipaggio, o forse si potrà fare a meno anche di questi; forse le navi saranno condotte all’interno di bacini stretti e canali senza persone a bordo, probabilmente non serviranno i rimorchiatori e le tecnologie DP saranno installate e controllate in remoto su tutte le navi. Immagino un operatore asiatico che pilota a distanza, da una control room, una nave di 400 metri in porto a Genova, la fa girare e la ormeggia a parabordi magnetici. Forse sarà necessario diventare operatori portuali telematici: chi pilota la nave, chi la scarica, chi controlla la manutenzione, chi le fa rifornimento di metano e chi, magari, collega un cavo elettrico per alimentarla. Le banchine diventeranno slot in cui le navi sostano, operano e partono come formiche in un formicaio.
Probabilmente lo sviluppo tecnologico andrà anche oltre, creando le merci di cui abbiamo bisogno direttamente in casa con stampanti 3D, contraendo la necessità di trasporto di un gran numero di beni e riducendo, di conseguenza, il numero di navi. Insomma lo scambio economico sarà ridimensionato/sostituito da uno scambio informatico.
In questa prospettiva, oltre a riconsiderare il ruolo dei servizi portuali, probabilmente servirà anche un cambio completo di mentalità, di cultura, di attitudine; se questa è la direzione verso cui ci si sta dirigendo, verso cui si preme per ottimizzare il ciclo economico, per migliorare l’efficienza dello scambio, per raggiungere sempre maggiori utenti, allora c’è ben poco da discutere.
Tuttavia, anche in questo contesto, trovo margine per consolidare la posizione del pilotaggio: un’arte analogica, molto razionale, tesa a preservare la vita umana, l’ambiente e le infrastrutture, ma non solo. Infatti il limite dei punti di forza sopra citati è proprio la loro forza. I piloti sono molto attenti alle variazioni dei traffici, sono molto sensibili alle novità tecnologiche e alle modifiche che le pressioni economiche esercitano sul porto infatti le sperimentano direttamente in prima linea.
Il pilotaggio esiste solo e unicamente per se stesso, slegato com’è da qualsiasi logica di mercato. Il punto di vista privilegiato e l’indipendenza di giudizio sono la risorsa utile, preziosa e unica: oggi i piloti sono la diga che non si è ancora spostata, sono gli spazi che non sono allargati, sono i parabordi non ancora sostituiti, sono la consulenza diretta e disinteressata di chi conosce perfettamente la dinamica del porto, una risorsa per tutti gli operatori con interessi economici che trovano dei professionisti il cui unico scopo dichiarato è quello di operare per la sicurezza del porto. Sarebbe quindi facile speculare in merito osservando che è semplice fare i paladini della sicurezza e porre dei limiti ridondanti tali per cui la sicurezza viene garantita al limite dell’impossibile. Tuttavia, quel che deve essere chiaro è che, oltre alle prerogative proprie del tipo di servizio, i piloti non sono e non saranno mai il bottleneck del porto: le problematiche in discussione, le verifiche di fattibilità, i problemi ancora non emersi, sono stimoli per una discussione efficace tesa a fornire soluzioni e non ostacoli, volta a chiarire il quadro e a fornire elementi semplici per problemi dai grossi e spesso sconosciuti risvolti con ricadute economiche tanto rilevanti quanto spesso distanti dal porto stesso. Qualora i piloti diventassero “untori” di complicazioni e complessità irrisolvibili, ciechi tutori di interessi personali, apatici portatori di problemi, operatori disinteressati presuntuosi e prepotenti, si renderebbe senz’altro necessaria una revisione, una correzione in corsa, un riallinemento delle priorità, degli obiettivi, delle prerogative, condivise con chi consente che il servizio sia svolto.
Facile intuire chi siano i fruitori di questa professionalità; si parte dai grandi operatori commerciali che gestiscono terminal e navi, per arrivare alla stessa Autorità Marittima, ai lavoratori portuali, fino alla filiera che beneficia dei traffici che si instaurano o meno se la nave entra o non entra, se la linea si può fare o meno.
Ragionando in questi termini, mi sento di sostenere la tesi che il pilotaggio, a prescindere da chi sia rappresentato, gestito e controllato, è una risorsa per i traffici e per l’economia, un piccolo ingranaggio in un enorme sistema di cui spesso si fa fatica a comprenderne la grandezza, ma di cui si intravede la prospettiva positiva per il proprio porto, per il quale semplicemente non esiste la rendita di posizione, ma bensì la consapevole partecipazione propositiva e positiva in ragione di essere solo e soltanto un servizio di interesse generale.
di Massimiliano GAZZALE
GENOVA 19 Maggio 2019
PITTORI DI MARINA-EX VOTO A RAPALLO E NEL MEDITERRANEO
PITTORI DI MARINA
Eco del golfo Tigullio
LA QUADRERIA DEL MARE
"EX-VOTO A RAPALLO E NEL
MEDITERRANEO"
In concomitanza con le celebrazioni in onore di N.S. di Montallegro, in programma all’inizio del prossimo mese di luglio, oggi l’attenzione di questa nostra rubrica non può non essere rivolta ai numerosi “ex-voto”, soprattutto di ambito marittimo e navale, conservati all’interno del celebre Santuario che sovrasta Rapallo.
Quella dell’”ex-voto” è una tradizione che affonda le sue radici nell’antichità. In ambito archeologico sono noti e documentati numerosi elementi riconducibili a questa categoria: già nell’era fenicio-punica, e poi in quelle ellenico-classica e romana non mancano esempi di statuette e monili offerti - anche allora “per grazia ricevuta” - ad una certa qual divinità, tradizione poi proseguita e accresciuta con l’avvento della cristianità dall’epoca medievale sino ai giorni nostri.
Il Santuario di Montallegro e la sua ricchissima galleria di “ex-voto” marinari rappresentano quindi il punto di partenza di un percorso che parte dal Tigullio e dal Golfo Ligure per poi “espandersi” non soltanto nel Mediterraneo ma anche negli Oceani e nei mari più esotici e lontani.
La costruzione del Santuario di Montallegro trae origine da motivazioni non soltanto devozionali che - all’epoca della Controriforma - portarono alla realizzazione di numerosi luoghi di culto, soprattutto nell’Europa meridionale e mediterranea. Tuttavia, questo particolare Santuario acquisì sin da subito una particolarissima e ulteriore valenza che ne fece l’ideale punto di riferimento morale e spirituale per tanti marinai di Rapallo impegnati sui mari del globo: prima sui “barchi” a vela, poi sui “vapori” ed oggi su unità moderne e tecnologicamente avanzate.
Da questa religiosità popolare e allo stesso tempo artistica è nata la grande quadreria di “ex-voto” marinari, che - a partire dai secoli passati - è stata arricchita nel tempo da opere che, tutte, accomunano il ringraziamento e l’affetto che tanti rapallesi hanno voluto testimoniare alla Madonna di Montallegro. Ciò ha portato alla creazione di autentiche opere d’arte che venivano commissionate ai più quotati pittori di marina in attività, soprattutto in ambito ottocentesco.
Angelo Arpe, Domenico Gavarrone e Antonio Luzzo, beneficiano oggi di una fama a livello nazionale e internazionale: del tutto meritata poiché le loro opere (comprese quelle esposte al Santuario di N.S. di Montallegro) si confrontano - in parecchi casi su un piano vincente - con quelle di accreditate scuole pittoriche, come il “circolo” francese della famiglia Roux (già approfondito in questa rubrica su “Il mare” dello scorso mese di marzo) ed anche con non pochi quadri a soggetto navale di noti artisti britannici dell’Ottocento e del primo Novecento.
Tuttavia, l’appassionato di cose di mare (come pure il semplice visitatore della quadreria di Montallegro) non potranno non rilevare come - tra i numerosi “ex-voto” del Santuario - ve ne siano alcuni che, ancorché diversi da quelli più “classici” per tipologia, stile pittorico e caratteristiche morfologiche, riconducono a importanti eventi della storia navale del nostro paese, dai primi anni dell’Unità d’Italia sino alla seconda guerra mondiale.
Infine, a Montallegro sono custoditi alcuni ex voto che si discostano dall’iconografia più “tradizionale” di questo settore (anche perché realizzati su base fotografica anziché pittorica) ma che, proprio perché riferiti a particolari e significativi eventi della storia navale del nostro paese, ci permettono non soltanto di rivisitare importanti vicende, affondamenti e battaglie in cui si trovarono coinvolte famose navi della Regia Marina, ma di evidenziare - una volta di più - la devozione e la riconoscenza di tanti rapallesi che su di esse furono imbarcati.
Altri “ex-voto” di non secondaria importanza sono costituiti da modelli di navi di ogni foggia e dimensione e dalle più disparate caratteristiche qualitative: molti santuari liguri conservano, spesso appesi al soffitto di navate e cappelle, modelli di galere e velieri di grandi dimensioni e di ottima fattura che - in aggiunta alla tradizionale valenza religiosa - sono anche importanti elementi documentali sulle tecniche costruttive, le alberature, le attrezzature e i dettagli di navi del passato.
Queste forme alternative di “ex-voto” sono diffuse non soltanto in Italia ma anche in tutte le nazioni rivierasche cristiane della costa settentrionale del Mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia passando per l’Italia, la costa orientale dell’Adriatico e l’Isola di Malta: testimonianze non certo mute, anzi, ricche di significati religiosi, e talvolta personali ed addirittura allegorici, ma sempre denominatore comune di un “sentire” intimo e mai venuto a mancare che accomuna la gente di mare di ogni tempo e paese.
ALBUM FOTOGRAFICO
1
Al Santuario di Montallegro a Rapallo è conservato questo ex-voto di Domenico Gavarrone risalente al 1849, donato all’istituzione religiosa “per grazia ricevuta” dal capitano Filippo Campodonico, raffigurante il brigantno Granduca Leopoldo che scampa al naufragio.
2
Santuario N.S. di Montallegro (Rapallo),
Battaglia di Lissa, 20 luglio 1866.
Piccolo acquerello su carta di donatore ignoto - probabilmente ricavato da una litografia contemporanea dell’evento - in cui il primo, sfortunato, scontro tra la Marina italiana e l’Imperial Regia Marina austro-ungarica è raffigurato secondo il gusto delle stampe popolari dell’epoca. Interessante la presenza, in basso a sinistra, dell’ “ariete corazzato” Affondatore, nave di bandiera dell’ammiraglio Persano durante la battaglia navale.
3
Santuario N.S. del Boschetto, Camogli-Genova
Un “ex-voto” particolare, dovuto all’abile mano dello ship painter genovese Giuseppe Roberto, attivo nel capoluogo ligure nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Questo quadro del piroscafo Antonio al traverso del promontorio di Portofino nacque - verosimilmente - come uno ship portrait tradizionale e la rappresentazione religiosa venne inserita in alto a sinistra solo in un secondo tempo, come ringraziamento “cumulativo” per dodici anni di servizio prestati a bordo della nave dal capitano P. Massa.
4
Santuario N.S. di Montallegro (Rapallo)
Affondamento del R. Ct. Antoniotto Usodimare, 8 giugno 1942
Questo disegno a china con fotografia, di donatore ignoto, ci riconduce ad un particolare, tragico, episodio della guerra navale nel Mediterraneo del giugno 1942, quando il cacciatorpediniere Antoniotto Usodimare fu silurato e affondato per errore dal sommergibile Alagi, anch’esso italiano. Tra i sopravvissuti all’affondamento vi fu uno sconosciuto marinaio di Rapallo che volle testimoniare la sua riconoscenza con queste semplici parole: “Quando - – quando torno, sempre guardo al tuo monte con grande amore, o Madre Celeste”.
5
Santuario N.S. della Misericordia (Savona)
Modello di nave a palo (ossia con tre alberi a vele quadre ed uno più a poppa, con vele auriche) appeso nel cielo della navata sinistra del più importate santuario savonese, anch’esso ricco di “ex-voto” marinari.
6
Un antico “ex-voto” francese (1741)
Conservato a La Rochelle, sulla costa dell’Atlantico, quindi in un ambiente etno-geografico che si discosta da quello tradizionale del Mar Mediterraneo. L’opera è di autore ignoto e, abbastanza curiosamente, in luogo della tradizionale icona della Madonna compare quella del Cristo. Con ogni probabilità, l’”ex-voto” è riferito ad un incidente occorso durante la manovra di una delle vele, dato che gli sguardi degli uomini dell’equipaggio sono rivolti verso l’alto.
7
Nella chiesa parrocchiale di Zabbar (Isola di Malta) è conservato questo “ex-voto” tardo-seicentesco, commissionato ad un pittore locale dall’equipaggio di un vascello dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, attaccato da imbarcazioni ottomane e dal fuoco di postazioni di artiglieria costiera durante un raid sulle coste di un’isola dell’Egeo in mano ottomana.
8
Santuario di Maria SS. della Libera (Rodi Garganico, Foggia)
Anche l’Italia meridionale è ricca di “ex-voto” nei numerosi santuari che popolano le coste tirreniche, ioniche, adriatiche e siciliane. Nel Santuario di Maria SS. della Libera è esposto questo “ex-voto” relativo allo scampato naufragio (27 gennaio 18590) dell’equipaggio di un piccolo “due alberi” da cabotaggio costiero, dalle linee prodiere e poppiere tipiche delle imbarcazioni da carico adriatiche.
9
Santuario di Maria SS. della Libera (Rodi Garganico, Foggia)
Ancora un “x-voto”, di gusto e realizzazione sicuramente “popolari”, per un altro scampato naufragio occorso il 17 febbraio 1875.
Maurizio BRESCIA
Direttore del mensile
Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco
Rapallo, 30 Gennaio 2019
STORIA TRISTE DI UN VECCHIO SIGNORE E DUE GABBIANI
Storia triste di un vecchio signore e due gabbiani
Un vecchio signore irlandese da giovane aveva generato due figli maschi belli come fiori, forti come la roccia, coraggiosi come solo certi uomini sanno esserlo.
Tutti in Irlanda amano e odiano il mare: lo amano da giovani, lo odiano da vecchi, perché ha procurato loro troppi dolori.
I due ragazzi, naturalmente, lo amarono sin dall'infanzia e, appena poterono, divennero due marinai.
Un brutto giorno il mare fu più forte di loro e li inghiottì. Qualcuno dice che
quando il battello affondò con tutti i suoi marinai, un volo improvviso di gabbiani si alzò dal luogo del naufragio.
Il padre invecchiò rapidamente: dolore ed età avevano lasciato profondi segni sul suo viso.
Il vecchio era solito passare il tempo sul molo, guardando il mare, combattuto tra l'ammirazione e l'odio che questo elemento della natura suscitava in lui.
Un giorno due gabbiani si staccarono dallo stormo, che volava alto, e si accoccolarono sull'onda davanti a lui. Pareva che lo guardassero. Poi volarono sul molo e di nuovo si accoccolarono sul selciato al suo fianco.
Era un comportamento innaturale per i gabbiani e il vecchio lo capì. Comprese di aver ritrovato i suoi figli.
Quando i due gabbiani si alzarono in volo, anche il vecchio volò in mare e non fece più ritorno.
Ada BOTTINI
Rapallo, 14 giugno 2016
COSTA CONCORDIA - Un incubo da ricordare....
COSTA CONCORDIA
Un incubo da ricordare, tra superstizione e realtà.
Si sono spenti i riflettori sulla Costa Concordia e il mondo intero ha tirato un sospiro di sollievo.
Il TEAM del Giglio, composto da tecnici di 26 nazionalità, suddivisi in numerose specializzazioni, ha avuto ragione di esultare e lasciarsi andare a manifestazioni “liberatorie” contro un nemico insidioso che era presente sin dalla nascita della nave: la sfortuna! Le navi, come le persone, hanno un destino e se “il buon giorno si vede dal mattino”, la rituale e ben augurante bottiglia di champagne, come molti ricorderanno, non andò in frantumi al momento del varo. Un segno premonitore? I marinai sono superstiziosi e quel giorno non pochi si coprirono gli occhi per non vedere la fine del varo… osarono troppo? Ma non ebbero tutti i torti. I marinai e le navi hanno dei riti da rispettare, come tutte le cose antiche, materiali e spirituali di questo mondo.
Il relitto della Costa Concordia é finalmente ormeggiata sulla diga del porto di Voltri. Sullo sfondo una Maersk sta scaricando i suoi containers. (foto J.C.Gatti)
La nave è una creatura modellata dall’uomo che le ha dato una struttura, la forma, lo slancio, la velocità, il movimento, persino il “mugugno” quando soffre, quindi ha una sua personalità.
Il relitto attraccato alla diga di Voltri non è la Costa Concordia vista da lontano sugli schermi di casa nostra, mentre certi commentatori esultavano ed esaltavano la magia dei tecnici, come se questi avessero potuto ridare un volto umano all’oggetto di quel macabro funerale che lentamente procedeva verso la meta finale. Oggi, nulla di tutto questo è percepibile. Chi è stato a bordo a contatto con le sue strutture dilaniate, ci ha raccontato dell’odore acre, pungente del relitto tirato sul da fondo, d’aver visto un ammasso di strutture deformate dalla sua caduta sul fianco e uomini senza sorriso e senza volto alla ricerca affannosa di un naufrago ancora mancante e delle membra di altri passeggeri identificati soltanto in parte.
Diciamocelo con sincerità: la più grande sfortuna della Costa Concordia fu l’imbarco di un capitano che non era all’altezza di tanta grandezza ingegneristica, innovativa architettura e superba tecnologia e con un equipaggio addestrato, nonostante le “malignità diffuse”. La nave era talmente up-to-date da poter navigare come un drone telecomandato da terra. Magari gli armatori avessero osato tanto…!
Il Comandante di un veliero oceanico, fino alla seconda metà dell’800, aveva a bordo soltanto un collaboratore: lo scrivano, un 1° ufficiale ante litteram che aspirava al comando senza interferire nel “magistero” del suo superiore considerato dall’equipaggio: secondo soltanto a Dio.
Con l’avvento della Rivoluzione Industriale, le navi furono motorizzate e le responsabilità del Comandante cominciarono a dividersi con il Direttore di macchina e gli ufficiali macchinisti. Per non essere da meno, furono imbarcati anche gli ufficiali di coperta che avrebbero garantito giorno e notte la guardia sul ponte di comando. Con l’emigrazione verso le Americhe e l’Australia, le responsabilità del Comandante aumentarono e si divisero con quelle dei Commissari di bordo. Con l’avvento della Radio, ci furono immediati vantaggi per la sicurezza dei viaggi oceanici, ed anche i Radiotelegrafisti diventarono protagonisti di salvataggi accanto al Comandante. In seguito, con l’imbarco dei Medici di bordo ed oggi con gli ufficiali Periti-Elettronici, il Direttore di Crociera e gli Ingegneri addetti al controllo delle strutture portanti della nave, il Comandante è diventato il manager che coordina l’insieme di questi settori, sebbene egli stesso, sia tenuto ad emettere gli ordini e le procedure che la legge gli impone.
In quella lunga notte del naufragio all’isola del Giglio, emerse inoltre una nuova “struttura di comando” che opera da terra: l’Unità di Crisi della Compagnia, istituita per supportare il Comandante nei momenti di grave difficoltà.
A questo punto la domanda che sorge quasi spontanea è la seguente:
“Ma cosa è rimasto a bordo dell’antico carisma del Comandante?”
Qualcuno potrebbe rispondere: “Nulla o quasi nulla!”
Eppure, in quel “quasi” solitamente pronunciato con tono sommesso e rassegnato, si nasconde l’elemento più importante della questione: l’EQUILIBRIO.
La nave ha bisogno di un Comandante che sia dotato di grande equilibrio, di grande personalità, ma soprattutto di tanta esperienza. Un uomo che conservi lo stile del vecchio Comandante di velieri, ma che sia anche padrone assoluto delle insidie nascoste nella tecnologia del nuovo millennio.
La nave moderna è ancora più “sensibile” delle navi di vecchia generazione. I timoni sono molto più reattivi di un tempo e basta un nonnulla per “esagerare” un’accostata. Per questo motivo è erroneo ed insensato scaricare colpe su un modesto timoniere che in manovra, ancor più che in passato, deve essere assistito ed affiancato da un ufficiale di coperta che ripeta gli ordini e ne controlli le esecuzioni, nello stesso modo in cui fu esercitato per secoli su tutti i ponti di comando del mondo, fin dai tempi più remoti. Le moderne eliche propulsive e di manovra sono in grado di garantire una velocità rotatoria vertiginosa, che è simile a quel giocattolo elettronico che ogni bimbo manovra in modo perfetto sotto i nostri occhi, senza avere - naturalmente - 4.000 persone a bordo.
Allora ci si chiede: Per quale recondito motivo quel tizio passò al comando? In fase dibattimentale emerse, fra l’altro, il contenuto di certe “note caratteristiche”, non proprio esaltanti, che furono stilate nei suoi confronti. Cosa sia successo in seguito? Non ci é dato sapere. Forse il vero responsabile di tanta imperizia lo si può immaginare inserito in quella lista “epurata” da Carnival subito dopo la tragedia.
Rimane da affrontare un ultimo punto: la formazione dei Comandanti.
Lo psichiatra Gian Paolo Buzzi, socio di Mare Nostrum, nonché studioso della materia e membro di Commissioni USA per la formazione di Comandanti di navi e di aerei, ci ha raccontato che da circa un decennio queste categorie sono sottoposte a TEST e controlli molto innovativi sulla soglia di reazione al pericolo, con la valutazione di parametri operativi come il coraggio, la freddezza, la determinazione, la capacità organizzativa nei momenti di grave difficoltà ecc… Possiamo solo augurarci che questa terribile esperienza della nostra marineria abbia scosso tutti gli ambienti decisionali del settore che, secondo le ultime statistiche, è diventato tra l’altro l’unico elemento realmente trainante dell’economia italiana.
Completiamo il senso di questo articolo con una fotografia che circola sul web e che certifica, più di tante parole, la pericolosa tendenza di certi comandanti-esibizionisti, sostenuti da armatori senza scrupoli, nel regalare EMOZIONI ai passeggeri in modo del tutto gratuito...
Lasciamo al lettore i commenti su questo incredibile passaggio tra i faraglioni di Capri di una nave di 20.000 tonnellate.
Carlo GATTI
Rapallo, 12 Agosto 2014