SAN ROCCO DI CAMOGLI - TERRA DI ARMATORI, CAPITANI E MARINAI
SAN ROCCO DI CAMOGLI
Terra di Armatori, Capitani e Marinai
Carta del Monte di Portofino
La Chiesa di San Rocco di Camogli
San Rocco è una frazione di 233 abitanti del comune di Camogli, nella città metropolitana di Genova. Posizionata a 221 m sul livello del mare, dista circa 4,5 km dal capoluogo comunale. San Rocco di Camogli svetta tra boschi di castagni e panorami mozzafiato, distese di aghi di pino e terrazze coltivate a ulivi. Lungo un sentiero a picco sul mare, si gode un incomparabile frescura in estate e ci si scalda al sole in inverno. Dal sagrato della chiesa si ramificano sentieri che vanno alle Batterie della Seconda guerra mondiale oppure si scende fino a Punta Chiappa, per proseguire verso San Fruttuoso e Portofino.
San Rocco di Camogli è un belvedere sul mare; piccolo borgo sulle colline di Camogli, a circa 28 chilometri da Genova. Arroccata su un picco roccioso offre una incomparabile vista su Camogli, Genova e ancor più a levante e a ponente, nelle giornate limpide anche fino a capo Mele. Si trova lungo il percorso di itinerari panoramici immersi nel verde del Monte di Portofino.
Chiesa di San Rocco - Abside
Sul pavimento della chiesa di San Rocco é raffigurato un brigantino dell’armatore Mortola Giuseppe fu Giobatta. La cornice policroma é di pregiatissimo marmo ligure.
GIUSEPPE MORTOLA é stato il maggiore armatore di Camogli e uno dei più importanti a livello nazionale. Il suo percorso professionale é emblematico delle vicende della vela. Nato nel 1852 a SAN ROCCO DI CAMOGLI, da qui il soprannome di “SANROCCHIN”, naviga da ragazzo verso la Maremma per effettuare carichi di carbone di legna da portare a Genova o in altri porti del tirreno. Alterna gli imbarchi agli studi nautici, diplomandosi Capitano di lungo corso a 24 anni; comanda poi per un decennio velieri sui mari dell’Atlantico e del Pacifico. Nel 1889 é Capitano di un brigantino a palo di cui ha rilevato con i suoi risparmi la maggioranza dei carati; nel 1890 decide di essere solo un Armatore.
Nave EURASIA - Armatore Mortola (Sanrocchin) - in fase di attracco - 1908
La sua flotta cresce col tempo, é proprietario di venticinque grandi navi e di una trentina di vascelli minori oltre alle quote in altre società di navigazione ed alle numerose carature possedute nei vascelli di diverse famiglie di armatori di Camogli. Conta anche numerosi velieri in ferro, e Mortola l’amministra praticamente da solo recandosi quotidianamente da Camogli a Genova. Si ritira definitivamente dall’attività con la Prima guerra mondiale, quando molte delle sue navi sono silurate e affondate dagli U-Boote tedeschi, dopo una vita di lavoro e di attaccamento a una tradizione, la cui profondità é pari solo ai legami che lo uniscono alla famiglia e lo portano a battezzare due dei suoi velieri COGNATI e DUE CUGINI.
Vite esemplari di un mondo di imprenditori che trova proprio nella tradizione e nelle relazioni parentali la capacità di resistere, ma anche il suo limite…
Una poesia dipinta in perfetta lingua genovese si trova all’interno della chiesa ed é il gesto d’amore di un pellegrino che é rimasto affascinato dallo scenario naturale e religioso di San Rocco di Camogli.
Il Golfo Paradiso
che scorcio...
… uno sguardo sul Golfo Paradiso…
La tonnara di Camogli
La tonnarella di Camogli oggi, come centinaia di anni fa ,viene sempre cucita e distesa lungo la diga che ripara il porto di Camogli, e calata nello stesso punto della costa racchiuso tra Camogli e Punta Chiappa.
Fin dall’origine è salpata a mano e le maglie in filato di cocco oltre ad inzupparsi di acqua di mare raccolgono il sudore e la fatica dei tonnarotti.
Insomma tutto è identico, anche i movimenti e la tecnica di pesca sono rimasti quelli.
Ogni mossa ripetuta dall’equipaggio e comandata dal “rais” è un balzo a ritroso nel tempo vecchio quanto il fondale marino sottostante, l’unico nell’Area Marina Protetta di Portofino da considerare praticamente “vergine”.
LINK:
LA GALLETTA DEL MARINAIO - SAN ROCCO DI CAMOGLI
Carlo GATTI
Rapallo, 21 Giugno 2019
PERCHE' POSTARE IL VIDEO DI UN IMBARCO "PERICOLOSO"
PERCHE' POSTARE IL VIDEO DI UN IMBARCO "PERICOLOSO"?
Il video che ho postato è diventato virale in pochissimo tempo e ha scatenato commenti di ogni tipo, commenti fatti da “addetti ai lavori” e non.
Non è stata una decisione semplice quella di mettere on-line quelle immagini. Ovviamente avevo preventivato la massiccia dose di critiche, che è seguita puntualmente, ma la necessità di mandare un messaggio forte mi ha convinto a correre il rischio di non essere capito o, comunque, di non vedere condivise le mie idee anche dopo questa spiegazione.
Prima di tutto voglio puntualizzare alcuni aspetti – che non soddisferanno i più – ma in cui molti troveranno, quanto meno, un riscontro.
La prima qualità che un pilota deve avere è la capacità di vedere le cose in modo obiettivo, anche i propri limiti. Ci sono piloti anziani, piloti esperti, piloti giovani, piloti in forma e piloti sovrappeso. Ognuno, in base alle proprie caratteristiche deve imporre limiti personali agli imbarchi, alle manovre e agli sbarchi; la prospettiva varia enormemente da individuo a individuo.
La seconda riflessione che mi sento di fare riguarda la gestione degli imprevisti. Il nostro è un lavoro dove “la cosa che non ti aspetti” avviene con una frequenza tutt’altro che trascurabile: la macchina che non parte, il vento o la corrente non previsti, l’avaria improvvisa, oppure l’onda creata dal rimorchiatore proprio mentre stai imbarcando, la biscaglina rizzata male, o un dolore inaspettato nel momento meno opportuno. Per essere pronti in quelle circostanze bisogna essere allenati, imparare ad uscire dalla zona di comfort, lavorare alle emergenze quando queste non ci sono. Tutto nel rispetto dei limiti personali che, in quanto tali, non sono uguali per tutti.
Personalmente ho un’esperienza di tutto rispetto (circa 18.000 manovre all’attivo senza mai un infortunio imbarcando o sbarcando), non sono sovrappeso e mi alleno costantemente, ho sempre fatto sport, anche particolari e ad alto livello. In definitiva sono piuttosto sicuro di sapere fino a dove mi posso spingere, restando sempre bene all’interno del mio limite di sicurezza.
Ogni porto ha le sue caratteristiche e, sicuramente, non mi permetto di discutere le abitudini o i protocolli di realtà che non conosco, ma vi posso assicurare che Genova presenta difficoltà oggettive innegabili: è completamente esposta ai venti dei quadranti meridionali e la presenza di venti chilometri di diga, che creano una contro-onda incrociata anche sul lato che dovrebbe essere ridossato, crea spesso situazioni dove la possibilità d’imbarcare/sbarcare è al limite. E, a meno che non si decida di procedere solo con mare calmo, stabilire se operare o meno diventa una decisione estremamente soggettiva.
Detto questo, passo alla spiegazione del motivo che mi ha convinto a postare questo video e, mentre mi accingo a farlo, mi torna in mente il commento di una persona che ha una grande capacità di sintesi e la sfrutta in modo incisivo: “…c’è sempre una ragione…“. La sintesi di un pensiero che per me significa: il messaggio parte in un certo modo, ma non sai mai come arriva dopo aver passato i filtri di chi legge. Eppure c’è sempre un motivo.
Non è nel mio carattere né nelle mie intenzioni fare politica, ma non posso non notare che il mondo del lavoro sta seguendo una gran brutta rotta. Non esiste più nessuna certezza, tutto viene messo in discussione continuamente e le politiche del risparmio e del guadagno, protette nella forma da una burocrazia falsa e galoppante, cancellano la tranquillità della gente generando una continua preoccupazione per il futuro.
Restringo il campo e torno sul mare.
Marittimi – persone che passano tre quarti della loro vita in mezzo al mare – si vedono allungare da un giorno all’altro la loro “pena” (miraggio della pensione) di anni… mi fermo qui, perché sulla loro situazione ci sarebbe da scrivere un libro.
Perché il video?… ora ci arrivo.
Il lavoro del pilota è poco conosciuto. Non è una frase rubata a qualche altra realtà. Il lavoro che fa il pilota non lo conoscono neanche le persone che lavorano a ciglio banchina.
Vi cito alcune frasi che vi suoneranno famigliari:
“Per entrare nei piloti bisogna essere raccomandati perché fanno entrare solo chi vogliono loro“. Sapete qual’è la paura più grande durante un concorso? I ricorsi. Perché i ricorsi bloccano l’assunzione di un nuovo pilota per anni; il che significa che per tanti anni si sarebbe costretti a lavorare sotto organico con turni forzati e senza ferie (per fare un pilota, dal momento in cui si presenta la vacanza, ci vogliono in media tre anni). È anche per questo che si cerca sempre di fare tutto nel modo più pulito e trasparente possibile.
· “Il pilota è una spesa inutile perché a bordo delle navi c’è già un Comandante“. Questa idea nasce dal fatto che la gente (addetti portuali o vacanzieri) hanno solamente la possibilità di vedere manovre di traghetti o navi passeggeri dove, a onor del vero, la maggior parte delle volte viene svolta dal Comandante. Premesso che su tutte le altre navi (petroliere, gasiere, contenitori, merce varia, ecc.) che sono la stragrande maggioranza, la manovra è un’esclusiva del pilota, mi preme ricordare che la funzione dell'”esperto del porto” non si limita a questo ma si aggiunge alla conoscenza del traffico e delle caratteristiche locali, tiene i contatti e coordina gli altri servizi tecnico nautici, ed è di grande aiuto (vista la vasta esperienza sul campo) nelle emergenze. Il mestiere del Comandante è complesso, ricco di responsabilità e doveri, ma il suo compito principale resta – semplificando – quello di portare un carico – che sia secco, liquido o umano – in sicurezza da un porto a un altro facendo gli interessi dell’armatore e del noleggiatore. Il pilota è estremamente specializzato nella manovra. Prima di diventare pilota facevo il Comandante su petroliere lunghe 300 metri e, nonostante questo, ho dovuto superare diversi esami, fare un anno da allievo pilota per imparare a manovrare e sono dovuti trascorrere ulteriori cinque anni prima di potermi considerare un pilota formato. (Mi rendo conto che ho sorvolato appena il 10% del punto preso in esame, ma continuando mi dilungherei troppo. Mi riprometto un approfondimento maggiore in futuro).
· Qualcuno ha scritto: “con quello che guadagnano ci saliresti anche tu a mani nude come farebbe Spiderman” (qualcosa del genere). A parte la simpatia – a dire il vero discutibile – ma pensi veramente che al mondo ci sia ancora qualcuno che regali qualcosa? Hai provato a mettere sul piatto della bilancia gli anni, l’impegno e i sacrifici che ci vogliono per arrivare a fare questo mestiere? Hai provato a pensare alla tensione che si deve affrontare dal momento in cui si sale sulla biscaglina fino ad arrivare alla manovra in acque ristrette di bestioni di quattrocento metri con condizioni meteo non sempre favorevoli? Hai provato a pensare che il nostro lavoro è legato al traffico e che pertanto lo stipendio varia con le stagioni, con la crisi e con l’andamento del mercato? Hai provato a pensare che ogni pilotina costa 4/500 mila euro e che quando dobbiamo acquistarle i soldi ce li portiamo da casa? Lo sai che ci sono piloti che sono rimasti sotto processo anche per 15 anni? Che le nostre malattie professionali sono gli infarti e gli ictus? Che svolgiamo il servizio 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno e che per la difficoltà di fare nuovi piloti non avremo ferie per i prossimi tre anni?
Potrei continuare per almeno un’altra pagina, ma il succo è che se non ci fosse un giusto ritorno economico, col cavolo che ci sarebbero persone disposte a tutto questo.
Questo video provocatorio, l’ho postato nella speranza che un filmato di un minuto e 24 secondi possa far capire che la realtà a volte è un po’ diversa da come uno se la immagina, e chi non è pilota può solo lavorare d’immaginazione.
Concludo scusandomi con voi colleghi se in qualche modo ho urtato la vostra sensibilità ma, a volte, un criticabile spezzato di vita reale, postato mettendoci la faccia, pareggia i conti con le foto di bicchierate e festini che, per quanto utili a cementare la nostra amicizia, trasmettono un messaggio decisamente fuorviante.
John Gatti
Rapallo, 13 Febbraio 2019
PITTORI DI MARINA - WILLIAM LIONEL WYLLIE - SS TEUTONIC
PITTORI DI MARINA
Eco del golfo Tigullio
LA QUADRERIA DE “IL MARE”
WILLIAM LIONEL WYLLIE
SS TEUTONIC
Con questo olio su tela di William Lionel Wyllie (Londra, 1851 - Londra, 1931) le navi a vapore diventano per la prima volta protagoniste di questa rubrica di pittura di marina del nostro mensile.
L’autore può forse essere considerato il più significativo esponente di quella scuola che, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, dette i natali a un gran numero di pittori di marina giustamente celebrati per aver saputo interpretare al meglio, con la loro arte, un momento irripetibile della storia navale britannica: l’apogeo di un Impero che, nei traffici commerciali e nello sviluppo della marina mercantile da un lato e nella potenza della Royal Navy dall’altro, seppe esprimere al meglio una “marittimità” ineguagliata negli ultimi tre secoli della storia mondiale.
William Lionel Wyllie, dopo un inizio di carriera non scevro di difficoltà e di alcuni insuccessi (che lo portarono anche a considerare di abbandonare il campo artistico per intraprendere la carriera di ufficiale della marina mercantile), iniziò a vedere valorizzate le sue opere dalla Royal Academy e da altre istituzioni culturali britanniche, diventando membro della celebre Society of British Artists già nel 1875.
Da allora, la sua produzione nel campo della pittura di marina fu sempre più apprezzata in patria e all’estero, e nel 1889 fu infine nominato membro associato della Royal Academy.
Al di là della sua produzione artistica, Wyllie sostenne sempre le istanze tese alla valorizzazione storica del passato navale britannico: fu tra i maggiori sostenitori del re- stauro della HMS Victory, già nave ammiraglia di Nelson alla battaglia di Trafalgar, nonché socio fondatore dell’importante Society for Nautical Research, istituzione attiva ancora ai nostri giorni il cui organo è l’autorevole periodico “The Mariner’s Mirror”.
Nel 1930, poco prima della sua scomparsa, completò una grande tela raffigurante la battaglia di Trafalgar per il Museo dell’Arsenale di Portsmouth, inaugurata alla presenza del re Giorgio V.
L’olio su tela che qui presentiamo (da sempre esposto al National Maritime Museum di Greenwich) risale all’ultimo decennio del secolo XIX e raffigura il “liner” Teutonic in uscita dal porto di Liverpool - dopo essere stato costruito dai cantieri Harland & Wolff di Belfast - per il suo viaggio transatlantico inaugurale che ebbe inizio il 7 agosto 1889.
L’impianto generale e l’impostazione artistica del quadro sono tipici della preparazione tecnica e delle conoscenze marinaresche di un autore che, in tutte le sue opere, ha spesso saputo abbinare l’uso di colori tenui e sfumati ad una considerevole precisione nella rappresentazione di dettagli di scafi e attrezzature senza - però - mai dimenticare il contesto paesaggistico e il “bilanciamento” generale nella rappresentazione di velieri, barche da pesca, navi da guerra o “vapori”, come è per l’appunto il caso del Teutonic.
Nel quadro, il Teutonic esce maestosamente dall’avamporto di Liverpool e, tra le tante qualità di quest’opera, va rilevata la “profondità prospettica” su ben quattro piani individuati - rispettivamente - dalle barche e dalla chiatta in primo piano in basso a destra, dalla barca a vela sulla sinistra del Teutonic verso poppavia (elemento minimo, ma fondamentale per accentuare la profondità della visuale), dal Teutonic medesimo e, infine, dai dettagli sfumati della città e del porto di Liverpool sullo sfondo.
Il Teutonic e il gemello Majestic, immessi in servizio dalla White Star Line tra il 1887 e il 1889, furono non soltanto navi passeggeri lussuose e veloci (20 nodi di velocità massima), ma vennero progettati e costruiti per essere convertiti - in caso di necessità - in navi trasporto truppe e incrociatori ausiliari.
Il Teutonic, in particolare, fu impiegato come trasporto truppe nel 1900 in occasione della Guerra contro i Boeri e - tra il1914 e il 1918, armato con cannoni da 152 mm - fu utilizzato come incrociatore ausiliario inquadrato nel 10th Cruiser Squadron della Royal Navy.
Al termine del conflitto il Teutonic non riprese la sua attività di piroscafo di linea e, essendo ormai disponibili unità più grandi e veloci, fu demolito a Emden (Germania) nel 1921.
Maurizio BRESCIA
Direttore del Mensile
Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco
Rapallo, 27 Dicembre 2018
I CADRAI - 2 -
I CADRAI – 2 –
LA STORIA DEL BASILICO
Rileggendo la mia 'Cuciniera', ho riscoperto il minestrone che facevano i CADRAI; la recuperammo con Vito Elio Petrucci.
Per saperne di più: quella ricetta me la diede Vito che l'ebbe, ancora giovanissimo e alle prime armi, dal figlio di un cadraio che aveva aperto una osteria in Sottoripa. Vito non scrisse mai un libro di cucina perché non era amante della "culinaria". Ha molto collaborato con me specie nelle note storiche; era un pozzo di conoscenza; mi manca tanto perché un poeta a quel livello ha una sensibilità straordinaria nel capire le persone. I miei amici lo sanno; amo stare con gente intelligente e aperta perché da loro ho da imparare; gli altri mi lasciano indifferenti perché, prima o poi, deludono!
Renzo Bagnasco
Biografia di VITO ELIO PETRUCCI
Vito Elio Petrucci (a destra) con l'amico Renzo Bagnasco
Vito Elio Petrucci nasce il 27 aprile 1923 a Genova dove si laurea in scienze economiche e commerciali. Collabora con quotidiani e periodici; é autore di commedie, riviste, lavori radiofonici, di numerose pubblicazioni inerenti il dialetto e la cultura genovese che lo impegnano su diversi versanti nell’opera di difesa, conoscenza e diffusione delle tradizioni liguri. E’ poeta, giornalista pubblicista, uomo di teatro. Inizia a pubblicare poesie a partire dagli anni Cinquanta, proponendosi definitivamente come autore nel 1962 con la silloge in lingua Non esser soli. Ad essa faranno seguito numerose raccolte in genovese, edite tra gli altri, da Scheiwiller, dell’Arco, Pirella. Larga popolarità gli é data dall’aver curato numerosi programmi radiofonici su argomenti riguardanti le tradizioni e la cultura ligure; tra di essi la rubrica A Lanterna, messa in onda dalla sede regionale della RAI, e la fortunata serie delle commedie genovesi interpretate dalla Compagnia dialettale della Radio Televisione Italiana di Genova di cui é stato direttore dal 1954 per oltre vent’anni.
La sua attività in campo dialettale gli ha procurato riconoscimenti internazionali (é membro dell’Academie des Langues Dialectales del Principato di Monaco, e dell’Association International pour l’Utilisation des Langues Régionales à l’Ecole di Liegi.) Essa trova riscontro, oltreché nei molti atti unici e nelle oltre trenta commedie scritte per il teatro, nella grammatica genovese, Grammatica sgrammaticata (1984), e in diversi libri di argomento dialettale e folclorico: I Proverbi del Signor Regina, Amor di Genova, La Liguria in un libro ecc. Ha curato inoltre la pubblicazione di due volumi delle poesie di Firpo, Cigae e Bäsigo, e scritto (in collaborazione con Cesare Viazzi) la biografia del celebre attore genovese Gilberto Govi (Lui Govi, 1981 e 1989), in collegamento con i programmi di rinascita del teatro dialettale goviano.
Gli sono stati assegnati, per questa intensa attività, numerosi premi e onorificenze (Melvin Jones Fellow dei Lions Club, Premio Regionale Ligure per la poesia genovese, Premio Città di Genova 1990, Premio Luigi De Martini 1982, Premio nazionale “Il calamaio di Neri”, promosso dal Gruppo Internazionale di Lettura di Pisa, 1989).
Principali opere poetiche: Non esser soli, Uber, Roma 1962; Parlo d’Umbria, Sessantanovesimo libretto di Mal’aria, Pisa 1967; Basinghae dallaexia, dell’Arco, Roma 1970; Un vento döçe, Scheiwiller, Milano 1973; Graffionn-e, Libreria Sileno, Genova 1977; O quadrifeuggio, dell’Arco, Roma 1980; Amor di Genova, Pirella, Genova 1987; Ciù in là de parolle, Pirella, Genova, 1990.
Ödô de menestron
de mâ.
De caniggaea,
tra e muage da mae creuza
de lélloa recammae.
Me pâ de sentî ancon
I passi de mae moae,
argentin in sce-e prïe comme campann-e,
de longo appreuvo come benedissioìn.
SE NO GHE FïSE
Se no ghe fïse un ciaeo,
se no ghe fïse lunn-a e manco stelle,
s’avesse i euggi bindae o ancon serrae
comme un figgieu in nascion;
e fise a-o largo con un mâ de ciappa,
sensna ‘na bava d’äia;
se mettesse o mae cheu in sce’n timon
mì m’attroviéiva a-a Foxe.
Poeta che si pone sulla linea del Firpo quanto a sentimento panico della natura, Petrucci conosce forse un più acceso e carnale senso della vita e della comunità. Fu un accanito sostenitore e divulgatore dei valori della genovesità, ricordiamo tra le sue numerose pubblicazioni: Bansighæ da l'æxia (1970), Un vento döçe (1972), O quadrifeuggio (1980), Ciù in là de parolle (1990).
(Genova, 27.4.1923 - Genova, 17.5.2002) è stato un poeta, giornalista, e commediografo italiano. Ha scritto diverse pubblicazioni sul dialetto e la cultura genovese, di cui era un appassionato sostenitore e divulgatore. Era membro dell'Association Internationale pour l'Utilisation des Langues Régionales di Liegi e della Académie des Langues Dialectales del Principato di Monaco.
Tra le sue pubblicazioni, 12 raccolte di poesie dialettali, 21 libri su cultura e tradizioni genovesi, diverse commedie in genovese e scritti in collaborazione con altri autori. Le sue opere sono presenti in antologie di poesia dialettale quali ad esempio: Le parole di legno e Le parole perdute.
E' sepolto nel Famedio del Cimitero Monumentale di Staglieno a Genova.
Vito Elio Petrucci |
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Ærzillio
L'é bello andâ lontan lontan pe-o mâ, pe ritornâ; pe vedde a-o largo un giorno un ciæo comme 'na coæ, tegnîse o cheu e dî: L'é casa mæ! Sentî allöa che un legno into fogoâ o vâ ciù che 'na barca in mezo a-o mâ.
Salsedine
È bello andare lontano, lontano sul mare, per tornare; per vedere al largo, un giorno, una luce come una voglia, tenersi il cuore e dire: È casa mia! Sentire allora che un ceppo nel focolare vale più d'una barca in mezzo al mare.
LA STORIA DEL BASILICO
di Renzo BAGNASCO
Il nome del basilico discende dal latino medioevale < basilicum > a sua volta derivato dal greco <basilikon> che significa <erba da re> grazie al suo forte profumo. Come si vede la profumata piantina originaria dell’India, era già nota nell’antichità: pare che sia stato il grande Alessandro a farcela conoscere nel 340 a.c.
Purtroppo però da quando è conosciuto, praticamente da quando arrivò a noi, è stato considerato idoneo a fare tutto tranne che essere usato in cucina. Era ritenuto, a secondo delle culture, o pianta medicinale o medicamentosa, assai più spesso pericolosa e quando non addirittura demoniaca o menagramo. Salvatore Massonio nel suo <Archidipno ovvero dell’insalata e dell’uso di essa> 1627, così scrive <<Il Basilico è volgarmente conosciuto: mangiato copiosamente ne cibi scurisce la vista, mollifica il corpo, promuove le ventosità, provoca l’orina, aumenta il latte: ma difficilmente si digerisce>>
Con questo biglietto da visita il nostro basilico dovette lottare parecchio prima che gli venisse riconosciuta la sua potenzialità gastronomica che già aveva. Ancor oggi l’Italia è la massima consumatrice e poi bisogna andare in estremo oriente per ritrovarlo nel suo ruolo gastronomico. Altrove è ancora o pianta medicinale o un profumo: in Egitto durante i matrimoni sino a qualche anno fa, lo si usava, mettendone un rametto dietro alle orecchie per dare profumo ma, soprattutto, per attenuare l’afrore del sudore.
Ma torniamo a leggere il Massonio: puntigliosamente ci segnala che ne parlarono (sempre male, quasi fossero all’unisono): “Plinio nel libro 12°, Theofrasto nel libro 5°, Avicenna nel secondo trattato delle forze del cuore, Alessandro Petronio nel libro 3°, Galeno nel libro 11°, Antonio Mizaldo nel libro 3° e ancora Sabino Tirone, Columella, Gargilio Marciale, Plinio Crisippo medico, Dioscaride, Sotiane, Diodoro Siculo e Girolamo Cardano”.
Gastronomicamente parlando, compare nel 1400, precisamente nel 1474 perché menzionato e codificato nel ricettario <Cucina di strettissimo magro> inserito nella Regola dell’Ordine dei P.P. Minimi di San Francesco da Paola; sì, quello del Santuario sopra Principe/Di Negro, molto caro ai marittimi genovesi. In quell’anno infatti il Papa Alessandro VI Borgia, approvò la loro Regola che comprendeva pure, credo caso unico, una dettagliata dieta da seguire rigorosamente che oggi chiameremmo ‘vegana’. Sono loro i primi che descrivono, sotto la voce <Salsa verde alla genovese> un battuto a freddo nel mortaio formato da basilico, aglio, pinoli, olio e sale nel quale si può riconoscere il primo embrione di pesto, anche se manca il formaggio bandito dalla loro dieta.
Da sempre i Comandanti genovesi dei velieri, usufruivano del ‘giardinetto’ presente su tutte i vascelli sotto le vetrate di poppa, per portarsi dietro le nostre erbe aromatiche, basilico compreso, così da poter insaporire con odori di casa i loro altrimenti, “monotoni” menù. Le essenze reggevano il salmastro che anzi le esaltava, perché cresciute sul mare come capita se si assaggia il rosmarino o l’alloro e tutte quegli aromi che nascono sul promontorio di Portofino.
Oggi, gli autori che vogliono far vedere che hanno studiato, menzionano, come suo antesignano il <moretum> romano, come lo descrivono Columella, agronomo dell’età Imperiale e il grande Virgilio proprietario terriero e poeta. Difficile però da accettare, visto che nel moretum non c’è basilico, molto aceto e una miscellanea di erbe tritate con aglio, legate con un vecchio formaggio da poi, una volta riscaldato, spalmare sul pane e non usato per condire. Più di recente lo hanno fatto addirittura discendere dall’<agliata> che non contempla ne basilico, ne formaggio ne pinoli, salsa oggi molto diffusa anche in Provenza: insomma una delle tante salse verdi per insaporire bolliti o pesci.
Bisogna arrivare a metà ‘800 per vederlo codificato, anche se con varianti non da poco, dai due autori delle fondamentali cuciniere genovesi, il Ratto nel 1865, seguito a ruota dal Rossi. Il primo lo definisce <Battuto o sapore all’aglio> suggerendo di sostituire il basilico, ove mancasse, con maggiorana o prezzemolo, alternative oggi impensabili. Il secondo invece lo definisce < Pesto d’aglio e basilico>; lui però non lo sostituisce con altre erbe profumate. Come si vede anche il pesto segue e muta nel tempo; certo in quello descritto però l’aglio dominava come pure il pecorino e non come oggi che lo hanno … castrato a partire dall’asfittico basilico per di più coltivato in luogo non vocato. Un tempo le zone idonee cominciavano dal Castelluccio di Pegli per finire a Coronata e la produzione copriva la richiesta di Genova; oggi va invece per il mondo. La speculazione edilizia del dopo guerra ha edificato in quelle zone e quindi, bisogna fare di necessità virtù. Va bene anche Prà.
In realtà il tanto oggi decantato pesto, sino ai primi del ‘900 non era molto valorizzato. Venivano ricordate le paste con il quale condirle, come i “mandilli de sea” o le troffie, come ci dice il Carbone nel suo <Con giardino e gioco da bocce> 1934, ma non il “nostro”.
civ.14r : di fronte, a sinistra, era l’ingresso dell’ antica trattoria della Gina del Campasso (“Ginn-a do Campasso”). Sfrattata dalle ferrovie da un locale vicino più antico ed adibito a osteria-cucina casalinga, la Gina (al secolo Caterina Marchese (leggi sotto per la famiglia) già vicina ai settanta, piccoletta tarchiata e robusta, accanita e fortunata giocatrice al lotto) si trasferì nel 1860 in quei locali, chiamandoli “Trattoria della Gina, (Campasso)”.
L’Autore descrive tutte le trattorie di Genova centro e dintorni, e le loro specialità. Della ‘Ginn-a de o campasso’, la mitica osteria dove si ritrovano tutti gli artisti dopo lo spettacolo al Modena, famosa per le lasagne con il…pesto o il Giacinto che profumava le sue ‘xatte’ di minestrone con abbondante pesto. Altra mitica trattoria era la Lena di Vico Angogliotti che serviva troffie al pesto di <squisitezza inaudita>.
Piu avanti scrive <I lavoratori del porto, quelli del Molo Vecchio, si distribuiscono all’ora di colazione, nelle Osterie di Piazza Cavour dalla “Sciamadda> o dal <Gin> con la storica untuosa tavola dei <contaballe> dove per tovagliolo e per tovaglia funge la carta gialla velina della farinata …>
oppure dalla <Sapesta> in Via Giustiniani dove, anche li, al Venerdì ‘troffie co-o pesto.
Leggiamo ancora il Carbone: <<Ma basta che scocchi mezzogiorno che dai mille vicoli vengono fuori i lavoratori della Darsena e dei Bacini di Carenaggio: tutti coloro che abitano lontano non hanno ne la convenienza ne il tempo di portarsi alle loro case.>>
Dei CADRAI che spezzettavano il basilico nelle loro minestre fumanti, così da stuzzicare l’appetito dei marittimi imbarcati o di chi lavorava in Porto, si è già detto in altra parte di questo sito..
E, senza volerlo siamo arrivati al pesto la cui più vecchia ricetta pubblicata, risale al “Cuciniere italiano” del 1848, prima che ne scrivessero nella Cuciniere Genovesi. Mai nessun poeta genovese lo ha cantato, contrariamente a quanto hanno fatto per quasi tutti i manicaretti nostrani, persino le uova al tegamino. Il Pesto, come è nel carattere dei genovesi, non si fa largo a gomitate, tace a aspetta che le reazioni al suo gusto lo rendano immortale nel ricordo.
L’unico che gli ha dedicato un tratto della sua poesia <In coxinn-a > (UN VENTO DÖCE-1973) è stato Vito Elio Petrucci, l’ultimo grande cantore di Genova, là dove scrive:
O gesto antigo d’un pestellâ lento,
o giâ amöso do pestello a-o torno
pe ammuggiâ o baxaicò in to göghin,
a stessa mainea de fa l’assazzo
( con ‘na diä brusca
pe giudicâ do gusto e a conscistensca),
nisciun ghe l’ha insegnòu;
comme o mignin ch’o sà çercase l’erba.
(A cura di Carlo GATTI)
Rapallo, 27 Aprile 2016
WILHELM GUSTLOFF - Una tragedia dimenticata
WILHELM GUSTLOFF
UNA TRAGEDIA DIMENTICATA
Quando si parla di grandi naufragi si viene catturati quasi sempre da nomi famosi come: Principe de Asturias (500 vittime), Titanic (1.513), Empress of Ireland (1.024), Lusitania (1.152), Conte Rosso (1.300), Andrea Doria (54) e di altri di cui la cronaca si occupa, purtroppo, anche ai giorni nostri. Alcuni di questi “relitti d’autore”, addirittura, riemergono ciclicamente dagli abissi per approdare sugli schermi del cinema sotto forma di fiction che addomesticano la vera storia per un pubblico bisognoso di sogni per esorcizzare il nemico che sta dietro l’angolo.
Ancora una volta prendiamo le distanze da questo mondo virtuale e puntiamo invece il riflettore su una tragedia che, sebbene quasi nessuno conosca, detiene tuttora un tragico primato: l’altissimo numero di vittime.
Si tratta della nave passeggeri tedesca Wilhelm Gustloff (nella foto) che fu affondata da un sommergibile sovietico il 30 gennaio 1945 nel Mar Baltico durante l’ultima fase della Seconda guerra mondiale. Il naufragio causò, secondo le ultime prove documentali, la morte di oltre 10.000 persone, divenendo il più grave mai registrato nella storia navale.
La Wilhelm Gustloff, costruita dalla Blohm und Voss di Amburgo, fu varata nel 1937, per la compagnia Kraft durch Freude (KdF = ”Forza attraverso la gioia”) che era un'organizzazione ricreativa della Germania nazionalsocialista. Aveva la considerevole stazza di 25.893 tonnellate ed era lunga oltre 200 metri. L’inaugurazione della Wilhelm Gustloff ebbe luogo presso il cantiere n.51 della B.&V. Non si trattava di una nave passeggeri particolarmente innovativa, ma rappresentava un efficace strumento di propaganda riunendo l’ideale dell’unità “ariana”, il sogno tedesco e l’affermazione dell’ideologia nazista. Doveva per questo motivo chiamarsi Adolf Hitler, ma le fu imposto Wilhelm Gustloff, capo della sezione elvetica del partito nazionalsocialista che fu assassinato il 4 febbraio del 1936 a Davos dallo studente ebreo David Frankfurter. L’omicidio aveva l’obiettivo di scuotere il popolo ebraico esortandolo a combattere contro l'oppressione nazista.
La Gustloff era la nave ammiraglia della flotta KdF che possedeva numerose altre navi altrettanto grandi e famose, ma la Gustloff aveva un suo fascino particolare e numerose furono le crociere compiute nell'Oceano Atlantico, nel Mar Mediterraneo e nei mari del Nord, alle quali aderirono la ricca borghesia tedesca dell’epoca.
La sua storia bellica inizia come “Trasporto Truppe” (nella foto) nel maggio del 1939, quattro mesi prima dell'inizio della Seconda guerra mondiale. La Gustloff si affiancò ad altre quattro navi della KdF, la Robert Ley, la Der Deutsche, la Stuttgart, la Sierra Cordoba, ed infine la Oceana (non facente parte della KdF). Tutte queste navi avevano il compito di trasportare la Legione Condor dalla Spagna alla Germania dopo il successo ottenuto dai nazionalisti franchisti contro le forze repubblicane.
Nel settembre del 1939, le forze armate tedesche trasformarono ufficialmente la Gustloff in “Nave Ospedale” (Lazarettschiff D) (vedi foto) assegnandola alla Kriegsmarine. Non poteva trasportare materiale bellico ed era monitorata secondo un rigido protocollo internazionale. Era stata riverniciata di bianco, con una banda verde lungo tutta la carena su entrambi i lati e mostrava numerose croci rosse sul ponte, sul fumaiolo e sui lati. Il primo impiego della nave ospedale fu nella zona di Danzica al termine della campagna polacca. Rimase per molte settimane alla fonda in quella baia per l’imbarco e la cura di numerosi feriti supportando le operazioni di guerra contro i sovietici. Dal maggio 1940 fino al luglio dello stesso anno, la Gustloff operò nella zona di Oslo in Norvegia, come ospedale galleggiante durante la campagna di Norvegia (nome in codice “overlord”). Lasciò Oslo con 560 feriti a bordo e durante l'estate del 1940, le fu ordinato di tenersi in allerta per l’invasione dell'Inghilterra, che fu poi cancellata. Ancora una volta salpò da Oslo con altri 414 feriti. Subito dopo il viaggio terminò il servizio di “Nave Ospedale” e si spostò a Gotenhafen (Gdynia-Polonia) e venne adattata come “Nave Caserma” al servizio della Kriegsmarine affiancando i numerosi U-boot tedeschi. La Gustloff, prima sotto il comando della 1ª Divisione Unterseeboots (sottomarini), e poi della 2ª Divisione Unterseeboots, rimase all'ancora a Gotenhafen per oltre quattro anni.
L’Epilogo. Nel gennaio del 1945 la W. Gustloff rientrò in servizio prendendo parte attiva all'Operazione Annibale che fu la più imponente evacuazione di tutta la storia: 2.000.000 di rifugiati, soldati e feriti furono salvati, trasportati e messi al sicuro dall'avanzata sovietica verso ovest. Tutte le più grandi navi della KdF: Cap Arcona, Robert Ley, Hamburg, Deutschland, Potsdam, Pretoria, Berlin, Goya ed altre vennero utilizzate per l’O.A. nei porti di Danzica e Gotenhafen. Non tutti però riuscirono a salvarsi. Dalle 25.000 alle 30.000 persone morirono, soprattutto in seguito agli affondamenti della Gustloff e del Goya per un totale di oltre 15.000 morti. Considerando il numero di persone trasportate, le condizioni climatiche e il periodo di guerra, tale operazione fu comunque un successo dimostrando l’organizzazione e la determinazione della macchina di soccorso tedesca.
L’atto finale della Wilhelm Gustloff secondo l’interpretazione del pittore Irwin J.Kappes
L'affondamento. Quando la Gustloff uscì dal porto di Gotenhafen il 30 gennaio 1945, il tempo era pessimo: vento molto forte, nevicava e la temperatura era –10° e molte lastre di ghiaccio consistente galleggiavano pericolosamente nel Baltico. In quelle condizioni climatiche, la sopravvivenza per un naufrago erano nulle. La Gustloff, armata solo di qualche arma antiaerea, iniziò il suo ultimo viaggio senza alcuna scorta militare e senza installazioni antisommergibili.
Alle 21,08 del 30 gennaio 1945 il sommergibile russo S-13 comandato da Alexander Marinesko, lanciò tre siluri contro la Gustloff. Il primo colpì la nave a prua sotto la linea di galleggiamento. La nave sbandò subito a dritta. Immediatamente fu lanciato l'SOS e i razzi di segnalazione. Il secondo siluro la colpì sotto la piscina facendo esplodere l’intera struttura, ed infine il terzo siluro colpì la Sala Macchine devastando l'intero scafo. In quelle condizioni, la nave resistette 40 minuti all’invasione del mare dalle numerose falle. Poi si mise in verticale e s’inabissò di prora. La Gustloff affondò nelle acque nere e fredde del Baltico portando con sé oltre 10.000 persone. La più attendibile ricerca sul numero delle vittime é quella di Heinz Schön che riassume il “quadro” delle persone imbarcate secondo il seguente schema: 8956 rifugiati, 918 tra ufficiali e membri della 2. Unterseeboot-Lehrdivision, 373 donne delle Unità Ausiliarie, 173 uomini delle forze navali, 162 soldati feriti per un totale di 10.582 persone.
L'affondamento della Gustloff fu il più grave e spaventoso evento nella storia navale. Nessuna tragedia ebbe perdite di vite umane così pesanti. Ad inizio secolo lo scrittore tedesco Günter Grass ha raccontato il dramma di questo transatlantico nel libro: “Il passo del gambero”. Oggi il relitto della Wilhelm Gustloff é considerato alla stregua di un cimitero di guerra. L’intera area é interdetta a qualsiasi tipo d’immersione in segno di doveroso rispetto verso la più grande tragedia del mare.
Carlo GATTI
Rapallo, 19 settembre 2013
Il LAZZARETTO DI BANA-SAN LAZZARO (RAPALLO)
Il LAZZARETTO DI BANA-SAN LAZZARO (RAPALLO)
L’ANTICO OSPEDALE
Sull'antico percorso della strada consolare Aurelia, lungo l'argine di destra del torrente Santa Maria, si incontra una modesta casupola di campagna dall'intonaco vivace, che richiama l'attenzione per un affresco che ne ricopre la parete verso levante.
E’ grave; quanto rimane dell'ospedale destinato ai lebbrosi, dedicato a S. Lazzaro é sorto verso la meta del XV secolo per volere di un tale Giacomo d'Aste.
Dopo un iniziale periodo di particolare attività, il lazzaretto ha conosciuto una fase di abbandono.
Nel 1582 il visitatore apostolico monsignor Francesco Bossio, accertato il degrado dell'edificio, che includeva un ambiente destinato alle sacre funzioni, ordinava: "domus hospitalis instauretur... per administratores hospitalis Pammatoni Genue cui asseritur unitum". E’ grave; stata questa decisione che, con ogni probabilità, ha portato alla trasformazione del lebbrosario in una modesta cappella.
Riportiamo da ITALIA NOSTRA:
Indirizzo/Località: Bana/S.Lazzaro via di Bana Rapallo
Tipologia generale: lazzaretto o lebbrosario
Tipologia specifica: hospitale/cappella
Configurazione strutturale: bene di proprietà privata – casa rurale lungo l’antica via di Bana (o via Aurelia) presente ancora con un breve tratto acciottolato
Epoca di costruzione: sec. XV
Uso attuale: la situazione è sempre più pericolante e tragica e un intervento risulta indispensabile
Uso storico: hospitale e poi casa rurale
Condizione giuridica: proprietà privata – bene è vincolato dal 1938, vincolo 00108602, aggiornato al 2006
Segnalazione: del 14 febbraio 2017 –Sezione del Tigullio di Italia Nostra-
Non sono stato all’ufficio del catasto per verificare… ma il casale di Bana, conosciuto come il LAZZARETTO di Rapallo, é tra le costruzioni più antiche di Rapallo ancora in piedi e recuperabili.
Perché LAZZARETTO? dal nome dell'isola veneziana di Santa Maria di Nazareth, su cui nel XV secolo sorse un posto di quarantena chiamato Nazaretto, che per sovrapposizione col nome del personaggio evangelico Lazzaro, appestato per antonomasia, mutò in "lazzaretto".
Icona russa della RISURREZIONE DI LAZZARO: Cristo a sinistra circondato dagli apostoli fa risorgere Lazzaro avvolto in bende a destra, mentre le sorelle Marta e Maria si prostrano in ringraziamento.
Il cartello recita: SITUATO SULL’ANTICA STRADA DI BANA, OSPITAVA I LEBBROSI PER I QUALI FU COSTRUITO NEL XV SECOLO PER INIZIATIVA DEI SIGNORI D’ASTE. L’AFFRESCO DELLA STESSA EPOCA RAFFIGURA NELL’ORDINE SAN GIACOMO, SAN LAZZARO, LA VERGINE COL BAMBNO, SAN BIAGIO.
IL LAZZARETTO DI BANA (Fonte Rapallo Turismo)
Nel 1450, in seguito a una epidemia di lebbra manifestatasi nelle podesterie di Rapallo e Recco, Giacomo d'Aste, facoltoso cittadino rapallese, donò alla comunità un appezzamento di terreno situato in località Bana, tra le frazioni di San Massimo e Santa Maria del Campo, dove venne edificato l'edificio destinato ad accogliere i malati locali. La gestione del ricovero, dedicato a San Lazzaro di Betania, e per questo definito “Lazzaretto”, venne affidata ai Protettori dell'Ospedale di Pammatone di Genova, secondo l'ordinanza di Papa Sisto IV in una bolla del 1471. L'edificio quattro anni dopo accolse gli appestati (fra i quali anche il figlio di Giacomo d'Aste) ammalatisi nell’epidemia che nel 1475 flagellò Genova e le Riviere.
Nel 1505 il Lazzaretto, che versava in precarie condizioni, fu oggetto di un primo restauro; ed anche nel 1582 monsignor Francesco Bossi, visitatore apostolico e vescovo di Novara, doveva lamentare il cattivo stato dell'edificio, chiedendo ai responsabili di Pammatone di porvi rimedio. Ma questi considerarono eccessiva la spesa per i restauri e così non se ne fece nulla.
Il dipinto quattrocentesco che appare sulla parete esterna dell'edificio raffigura, oltre la Madonna con Bambino, i Santi taumaturghi Lazzaro, Giacomo e Biagio.
Quanto rimane del Lazzaretto di Rapallo risalente al XV secolo. L'edificio venne costruito dopo un’epidemia di lebbra grazie alla donazione di un terreno da parte di un cittadino di Rapallo di cognome D'Aste, ma risultò utile anche durante le frequenti epidemie di peste.
Particolare dell'affresco del lazzaretto di Rapallo raffigurante S. Giacomo il maggiore
Particolare dell'affresco del lazzaretto di Rapallo raffigurante S. Lazzaro
Particolare dell'affresco del lazzaretto di Rapallo raffigurante la Vergine con il Bambino
Particolare dell'affresco del lazzaretto di Rapallo raffigurante S. Biagio
La parete con l’affresco è parte di una casa rurale diruta. Adibita in passato anche a pollaio, il tetto è crollato nel 2007. Le finestre sono aperte sul vuoto e si intravedono nell’interno le travi del solaio del primo piano crollato. All’esterno anche segni di fuochi.
Recentemente fu messo in vendita ma né Comune né Sovrintendenza né Regione si sono interessati.
Nel 2015 il presidente della Proloco “Terraemare” propose una colletta per acquistare l’edificio e farne sede della Proloco e centro per mostre, ed eventualmente fattoria didattica. Ma senza esito.
Nel 2014 la sezione Tigullio di Italia Nostra scrisse in merito a Comune e Sovrintendenza chiedendo un urgente intervento di messa in sicurezza, prima che tutto crollasse, Lazzaretto, affreschi e memoria storica. Nessuna risposta.
Il contesto è di zona agraria ai margini della città in progressivo abbandono. Intorno al Lazzaretto segni di attività agricola ben curata. Ma per il resto, diverse belle case rurali abbandonate, il rio Bana in cattive condizioni, con diversi depositi di materiali edili, piccole discariche abusive e un bosco misto non curato.
Preminente l’importanza di salvare l’edificio e l’affresco con possibile acquisto da parte della Regione o del Comune.
Solo successivamente pensare ad una destinazione preferibilmente culturale, sede di associazioni, centro di cultura contadina, ecc. didattica, anche sede distaccata di enti.
Il bene è vincolato dal 1938, vincolo 00108602, aggiornamento nel 2006.
Benché sia stato inserito, nel 2011, nella “Guida” del Sistema Turistico Locale Terre di Portofino, la conoscenza dell’esistenza di questo bene è prossima allo zero.
Farlo conoscere prima dell’inevitabile collasso, sarebbe una grande conquista per la nostra Storia locale e regionale.
UN’ALTRA BRUTTA PAGINA...
La Peste e il voto della Comunità
Negli anni 1579-80 la Liguria è investita dalla peste che miete quasi centomila vittime. 28.250 a Genova, 50.000 nella riviera di ponente, 14.000 in quella di levante.
A Rapallo morirono soltanto 76 persone nel 1579 e 24 nel 1580. Tutte di morte naturale, nessuna di peste.
Nel 1590-91 la peste fece ancora la sua comparsa nella Riviera orientale e, nuovamente Rapallo ne fu preservata.
Per meglio comprendere il significato, da un lato, della deliberazione assunta il 29 agosto 1657 dal Consiglio della magnifica Comunità di Rapallo e, dall’altro, del perché ancor oggi, ogni anno “infra l’ottava” dell’Apparizione si rinnovi il voto del 1657, riportiamo di seguito i dati forniti da P. Antero Maria di S. Bonaventura:
“Li morti in Genova sono più di 60 e meno di 70 milla e quelli dei suburbii cira 4000. In S.Per d’Arena e Cornigliano più di 6000. Nella valle di Polcevera non giungono a 4000. Quelli di Sestri e delle sue Ville eccedono di poco, 5000. Quelli di Pegli, Prà, Voltri, Voraggine e Savona, non sono in tutto 2000. Quelli di Recco con le sue Ville sono 1016. Quelli di Chiavari con i suoi borghi non giungono a 2000”.
E alla luce di quanto sopra leggiamo un frammento dell’atto che il Notaio cancelliere del Comune, Bartolomeo Costaguta redige in Rapallo il 29 agosto 1657 in occasione dell’adunanza convocata nella sala del capitano Gio. Pietro Grimaldo, mentre infuriava la peste che portò a morte oltre un quinto della popolazione del genovesato:
“Considerato etiam prima d’ora la protezione attenuto e tiene del presente luogo la SS. Vergine Maria del Monte Allegro, e tante e sì innumerevoli gratie avute da essa, quale da 100 anni in qua, che sono trascorsi li 2 luglio passato che si è ritrovata in quell’avventurato monte, ha con così evidente miracolo conservato intatto questo luogo da ogni avversità, massima di contagio di peste, dal quale al presente, siccome altre volte è stato da per tutto circondato… cosa veramente di gran speculazione et evidente miracolo…”.
Ne scaturirà il voto solenne della Comunità guidata dal priore Gio. Batta Lencisa che, ogni anno, da allora si rinnova.
Ancora oggi, ogni anno, infra l’ottava dei festeggiamenti, la Civica Amministrazione guidata dal Sindaco e dal Parroco di Rapallo, insieme al popolo raggiunge il Santuario per lo scioglimento del Voto fatto dai Padri.
Un rito secolare che risale al 29 agosto 1657. Rapallo scampò alla peste e i suoi abitanti, in segno di riconoscenza alla Madonna, fecero VOTO SOLENNE di recarsi in processione al Santuario "in un dì dell'ottava del 2 luglio" (giorno dell'Apparizione della Madonna al contadino Giovanni Chichizola nel 1557), di celebrarvi una MESSA e di offrire un OBOLO in segno di gratitudine alla Vergine. Da allora il rito si ripete ogni anno.
Vi propongo il LINK dell’articolo che ho scritto nel 2018 sull’argomento che tratta del RINGRAZIAMENTO:
Rapallo: lo scioglimento del voto chiude le “Feste di Luglio”
https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=610:monte&catid=52:artex&Itemid=153
Ricerche a cura di
Carlo GATTI
FONTI:
- Rapallo Turismo
- Cultura in Liguria
- Italia Nostra
- Area Marina Protetta di Portofino
- Liguria - Touring Club Italiano
- Santuario Basilica di N.S. di Montallegro
L'IMBARCO DEL PILOTA
L’IMBARCO DEL PILOTA
di John Gatti
Mi è stata fatta una domanda pratica sulla delicata operazione d’imbarco che vede coinvolti Pilota, Pilotino, pilotina e nave:
“Perchè, una volta che il Pilota passa dalla grisella (nel caso del pilotaggio, indica le scale metalliche sulla pilotina che permettono al Pilota di passare sulla biscaglina) alla biscaglina (scala fatta di cime e gradini di legno usata dal Pilota per salire sulla nave ) il motoscafo si allontana velocemente, invece di restare in zona fino a quando il Pilota non raggiunge in sicurezza la coperta della nave?”
In fondo all’articolo racconto l’avventura di un collega caduto in mare mentre imbarcava su di una portacontenitori.
Premessa.
La fase d’imbarco/sbarco del Pilota è delicata e presenta rischi, spesso aggravati dalle avverse condizioni meteomarine.
Il trasferimento dalla pilotina alla biscaglina prevede un gesto atletico che richiede una coordinazione particolare: si deve tenere conto del movimento della nave, del rollio e del beccheggio della pilotina ( movimenti oscillatori trasversali e longitudinali provocati dal mare ), dell’onda che solleva e fa scendere l’imbarcazione di diversi metri e dei colpi di mare che possono investire il Pilota. Questa operazione, per essere svolta con disinvoltura, richiede esperienza e il momento giusto è quello in cui la pilotina raggiunge il punto più alto rispetto al Ponte di Coperta della nave. In quel preciso istante è importante agguantare la biscaglina con una mano mentre con l’altra si resta, ancora per un attimo, ancorati alla grisella della pilotina, questo fino a quando l’imbarcazione inizierà la discesa allontanandosi dalle gambe del Pilota.
Il passaggio dalla grisella alla biscaglina.
Per rendere più sicura la fase d’imbarco, vanno analizzati numerosi elementi: Primo fra tutti “la pilotina”. Il porto di Genova si estende per più di 20 chilometri di costa e presenta caratteristiche orografiche e variazioni meteorologiche stagionali che richiedono imbarcazioni di volta in volta diverse fra loro. Da maggio a settembre aumenta il numero delle navi che scalano il nostro porto (soprattutto traghetti e passeggeri), il traffico diportistico diventa una presenza spesso impegnativa e le condizioni meteomarine sono generalmente buone; per questo periodo dell’anno ci vogliono pilotine veloci, che consumano poco (quindi leggere) e, soprattutto, che fanno poca onda durante gli spostamenti all’interno del porto. È ovvio che l’utilizzo di questo tipo d’imbarcazioni in condizioni di mare mosso non sará l’ideale; le chiamiamo, infatti, “barche da tempo buono”. D’inverno preferiamo usare pilotine più pesanti, costruite per tagliare le onde e per essere più stabili sotto le navi. Ovviamente aumentano i consumi, si riducono le prestazioni e un’onda fastidiosa le accompagna negli spostamenti.
La seconda riflessione riguarda la preparazione all’imbarco: ridosso della nave e il lato di approntamento della biscaglina. Per questo punto vi rimando alla lettura dell’articolo “L’Atterraggio“.
Al terzo posto inserirei l’abbigliamento che, per quanto sembri scontato, di fatto si traduce in scuole di pensiero che variano da Corporazione a Corporazione e da Pilota a Pilota: c’è chi è meno agile e preferisce coprirsi bene, perché sa di avere poche possibilità di sfuggire agli spruzzi e alle onde, e chi invece predilige un abbigliamento leggero che favorisce la mobilità; chi usa i guanti per ripararsi dal freddo e proteggere le mani e chi invece si sente più sicuro con una presa diretta sui cavi della biscaglina; chi usa il giubbotto con il salvagente incorporato e chi preferisce quello separato. Personalmente penso che ognuno debba attrezzarsi come meglio crede, adattando l’equipaggiamento al proprio fisico e a ciò che lo fa sentire più tranquillo. Vedo, come utili accessori, un buon coltello affilato, una luce stroboscopica sulla giacca, un fischietto e una torcia, oltre a scarpe impermeabili, traspiranti e con suola antiscivolo.
Giacche tecniche.
Un altro aspetto, non meno influente dei precedenti, riguarda l’abilità e l’esperienza del Pilotino alla guida dell’imbarcazione. L’occhio, i riflessi, la padronanza del mezzo, il senso marinaro, la capacità di valutazione, ma anche lo stile, la confidenza e la temerarietà, cambiano il modo di affrontare il lavoro.
Vediamo ora di rispondere alla domanda “pilotina sempre sotto o pilotina staccata?”
- Quando ci si arrampica sulla biscaglina ci sono diversi pericoli da considerare: la pilotina, per effetto dell’onda che sale, può arrivare a schiacciare le gambe del pilota in arrampicata. Quindi, in presenza di mare mosso, è meglio che si stacchi dalla murata il prima possibile, restando comunque nei pressi per prestare assistenza in caso di necessità;
- con tempo buono, se per qualche motivo il pilota molla la presa e cade, si possono verificare due situazioni: potrebbe finire sulla pilotina (e se i gradini saliti fossero ancora pochi probabilmente sarebbe l’opzione migliore), oppure potrebbe finire in mare (da sette o otto metri di altezza sarebbe augurabile non avere l’imbarcazione sotto), e qui si andrebbe incontro alla pericolosa possibilità di venire risucchiati dall’elica.
Una biscaglina particolarmente lunga.
La costruzione, la certificazione e l’utilizzo delle biscagline è indicata nella Convenzione Internazionale sulla Salvaguardia della Vita Umana in Mare SOLAS 1974.
Oltre a prevederne la modalità di costruzione, la norma indica che questo tipo di scala debba essere utilizzato a una distanza minima di 1,5 mt. E una massima di 9 mt. dalla superficie dell’acqua. Qualora l’altezza del Ponte d Coperta sia superiore a quanto disposto, la biscaglina deve essere collegata allo scalandrone e prende il nome di “combinata”.
In conclusione, sta all’esperienza, all’occhio e al buon senso del Pilotino scegliere il comportamento più sicuro da tenere durante le varie fasi d’imbarco e di sbarco; valutazioni che devono tenere conto delle condizioni del mare, della pilotina che si sta usando, dell’altezza della murata, del fatto che si utilizzi la biscaglina o la combinata e, non ultimo, dell’agilità e delle caratteristiche della persona che sta imbarcando. Il Pilota, da parte sua, deve elaborare continuamente tutte le variabili, aspettando il momento giusto per passare da una scala all’altra mantenendo la situazione sotto controllo.
Per spiegare meglio quanto sopra descritto, vi racconto un’avventura a lieto fine accaduta a un collega qualche anno fa…
“Era una tarda mattinata invernale e un vento teso da Sud-Est alzava onde di qualche metro che la pilotina, una Nelson inglese “da tempo cattivo”, tagliava senza particolari problemi.
Una nave portacontenitori, la Gulf Spirit, procedeva verso il punto stabilito per l’imbarco del pilota, il quale, nel frattempo, costretto al silenzio dal rumore dei motori, ne approfittava per accendere il VHF portatile, chiudere la giacca e indossare guanti e berretto.
Il vento che soffiava dai quadranti meridionali aveva alzato di qualche grado la temperatura, ma era pieno inverno e lo ricordava lasciando strisce di sale sulle frustate del mare.
Un’ampia accostata intorno alla poppa della nave e la pilotina si ritrovò sul lato sottovento.
Era parzialmente scarica e mostrava una fiancata particolarmente alta. A metà biscaglina un’apertura consentiva l’entrata a scafo. Il motoscafo si affiancò in velocità, con il Pilota arrampicato sulle griselle e pronto per il trasbordo.
Un’onda sollevò l’imbarcazione, portandola diversi metri al di sopra del livello medio del mare. Lì si fermò un attimo e il Pilota ne approfittò per balzare da una scaletta all’altra. Subito dopo il motoscafo ricadde assecondando le onde, mentre il Pilota era impegnato in una rapida arrampicata per allontanare le gambe dalla pilotina che stava già risalendo velocemente lungo la fiancata.
A questo punto l’imprevisto: una rollata portò la biscaglina a immergersi e una bitta poppiera del motoscafo l’agganciò, tirandosela dietro. Ignaro di quanto accaduto, il timoniere aumentò la velocità. Fu un attimo! la scaletta di legno e cime si tese come una fionda, si allargò dalla fiancata e catapultò il Pilota al di là dell’imbarcazione stessa.
L’acqua gelida lo attanagliò, lasciandolo senza fiato a scalciare mentre lottava per tornare in superficie. La bocca spalancata a cercare l’aria. Di fronte lo scafo nero della Gulf Spirit.
La corrente e le onde lo attirarono contro lo scafo per poi spingerlo verso la poppa. Ci volle un attimo per capire che la grossa elica, uscendo a tratti dall’acqua per effetto del beccheggio, lo stava risucchiando inesorabilmente. A questo punto il collega cercò di artigliare la parete di ferro, ma non c’erano appigli e le mani scivolavano sui “denti di cane” (taglienti conchiglie a forma di vulcano che crescono sull’opera viva).
Poco dopo il Pilota sparì sott’acqua.
L’impotenza faceva crescere il panico, mentre avvertiva distintamente le falciate delle pale e le vibrazioni del motore.
Per fortuna l’ufficiale di guardia alla biscaglina, resosi conto del pericolo, allertò il Ponte di Comando e la macchina venne fermata appena in tempo.
Il Pilota continuò l’avventura subacquea, finendo incastrato fra l’elica e il timone, respirando nei momenti in cui la trappola riaffiorava tra le onde.
Dopo alcuni minuti di lotta disperata riuscì a sfilarsi riemergendo, miracolosamente illeso, dal lato opposto della nave.
Mi fermo qui. Avrei potuto scrivere un testo molto più approfondito, parlare delle griselle con la passerella, di chi imbarca dalla coperta della pilotina, dei diversi sistemi di propulsione, di FLIR, di equipaggiamenti, di ausili tecnologici, ecc., ma il fatto è, probabilmente, che sarebbe stato un argomento scontato al 90% per i professionisti e ostico per i profani. Non è detto che in futuro non ci torni su.
JOHN GATTI
Rapallo, 10 gennaio 2019
PITTORI DI MARINA - EL ULTIMO COMBATE DEL GLORIOSO
PITTORI DI MARINA
Eco del golfo Tigullio
LA QUADRERIA DEL "MARE"
AUGUSTO FERRER-DALMAU
EL ULTIMO COMBATE DEL GLORIOSO
La pittura di marina, per la buona sorte di tutti i suoi appassionati e cultori, non è un genere artistico che appartiene soltanto al passato: al contrario, non sono pochi i pittori contemporanei che si dedicano ad essa, spesso con risultati di assoluta qualità che ben poco hanno da invidiare a quadri realizzati nei secoli scorsi.
È sicuramente questo il caso della recentissima opera dell’artista spagnolo Augusto Ferrer-Dalmau che, in collaborazione con l’accademico e storico navale Arturo Pérez Reverte, nel 2014 ha realizzato per il Museo Navale di Madrid un grande olio su tela (cm 190 x 170) di notevole qualità, riferito all’ultimo combattimento del “due ponti” spagnolo da 70 cannoni Glorioso, nell’impari scontro del 17 ottobre 1747 al largo di Cabo San Vicente, con quattro fregate britanniche (HMSs King George, Prince Frederick, Princess Amelia e Duke) al comando del commodoro George Walker.
La vicenda va inquadrata nella cosiddetta “Guerra dell’Asiento”, nel corso della quale le Marine britannica e spagnola si scontrarono più volte per il predominio nell’Atlantico e nei Caraibi, nell’ambito della ben più vasta Guerra di Successione austriaca (1740-1748). Un conflitto, quest’ultimo - che, oltre a sancire con la pace di Aquisgrana la conclusione del ciclo imperiale degli Asburgo - vide contrapposte due coalizioni che, neppur poi tanto sorprendentemente, replicavano a grandi linee quelli che sarebbero stati gli schieramenti politico-militari del periodo napoleonico.
Precedentemente al combattimento del 17 ottobre 1747 (al termine del quale il Glorioso - disalberato e con numerosi morti e feriti a bordo - si arrese, non prima di aver affondato la fregata HMS Dartmouth nel frattempo giunta a dare manforte alle altre unità britanniche), il “due ponti” spagnolo, al comando di Don Pedro Mesia del la Cerda, a luglio e ad agosto aveva sostenuto due vittoriosi combattimenti contro la Royal Navy: il primo nella zona delle Isole Azzorre e il secondo fuori Capo Finisterre.
Questo quadro di Augusto Ferrer-Dalmau abbina le caratteristiche di “classici” combattimenti navali presenti nei lavori di pittori del Settecento e dell’Ottocento ad una cura del dettaglio di scafi e attrezzature veliche che troviamo in opere della più diversa natura dai Van Der Welde, a Buttersworth e ad autori anche più recenti.
Presentiamo quindi due immagini, al fine di meglio valutare un soggetto trattato con rara accuratezza: una vista d’insieme del dipinto e il dettaglio centrale del Glorioso, ormai semidistrutto, quasi al termine del combattimento. Nella raffigurazione generale sono visibili le unità britanniche che attorniano il Glorioso, anch’esse in parte danneggiate dal tiro della nave spagnola; il dettaglio del Glorioso, poi, consente di apprezzare la cura quasi certosina posta dal Ferrer-Dalmau nel raffigurare la nave spagnola con i danni causati dai colpi nemici sulle murate, l’alberatura ormai smantellata, la bandiera navale che sventola ancora a riva e - soprattutto - gli innumerevoli uomini dell’equipaggio ritratti in pose dinamiche, del tutto realistiche e per nulla “di maniera”.
Un quadro, quindi, realmente bello, accurato, di grande impatto emozionale e tale da reggere il confronto (se non addirittura di risultare superiore) con le giustamente rinomate opere del celebre pittore di marina britannico Geoff Hunt, noto - in particolare - per aver realizzato i quadri utilizzati come copertine di numerosi romanzi della saga di Horatio Hornblower dello scrittore C.S. Forester.
Maurizio BRESCIA
Direttore del Mensile
Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco
Rapallo, 20 Dicembre 2018
I CADRAI - 1 -
I CADRAI DEL PORTO DI GENOVA
12 gennaio 1823
Le corporazioni contemplate nella circolare del 12 gennaio corrente, che vantano ancora antichi diritti per il porto sono: Barcajuoli / Calafati e Maestri d’ascia/Minolli/ Cadrai/ Linguisti / Compagnia di Salvataggio / Piloti pratici. Per il Portofranco: Caravana / Facchini di Dogana / I cosiddetti Camaletti nostrali / Cassari / Barilari.
Qualche vecchio genovese, a passeggio nei “caroggi”, ama raccontare di come la pratica del catering - nonostante il nome foresto - affondi le proprie origini tra i moli dell’antica Superba. Ovvero nell’antica Genova cinquecentesca e secentesca, quando gli osti-marinai iniziarono a farsi sotto i bordi delle navi per vendergli - a domicilio - paioli di minestrone fumante.
Il nome storico di questa ormai scomparsa corporazione portuale deriva quindi dal verbo inglese “to cater” da cui la deformazione dialettale: CADRAI-Catrai ossia i “fornitori di cibo tipico della cucina genovese”, che era offerto prevalentemente ai portuali, ma anche agli equipaggi imbarcati sui velieri e sui vapori sparpagliati a ventaglio dalla Lanterna fino alla Darsena, alle Calate Interne e, via via, fino al Molo Vecchio.
Questa rara foto degli Anni ‘30 l’ho avuta in dono dal compianto collega Giancarlo Oddera, Pilota del porto di Genova. I più famosi cadrai dell’epoca si chiamavano “Dria”, “Ruscin” e “Gianello”, un catering ante litteram a disposizione degli operatori portuali impegnati sui velieri ma anche per i marinai che per mesi si erano nutriti di gallette, olive, acciughe, fave, castagne secche e poco altro. L’offerta dei CADRAI veniva trasportata con robusti gozzi a remi e poteva prevedere minestrone, ma anche gnocchi, buridda… Al centro del natante dominava il pentolone di ghisa, e lungo i bordi i piatti fondi, le famose “xatte”, donde l’usuale espressione genovese che allude proprio ad un’abbondante piattata di minestrone.
Si racconta che nella pausa-pasti, i CADRAI girassero col gozzo sopravvento ai velieri per farsi annunciare dal profumo del basilico do menestron. I marinai in crisi di astinenza, dopo le lunghe navigazioni oceaniche, cedevano volentieri a quella forma di propaganda “astuta” che non conosceva ancora gli odierni annunci pubblicitari...
La notorietà dei CADRAI raggiunse il picco più alto negli anni ’20 dell’900, quando il porto era animato da numerose squadre di camalli, chiattaioli e barcaioli che affollavano centinaia di navi e di velieri ormai giunti all’ultimo atto della loro parabola esistenziale. Il Porto Vecchio era intasato di scafi, alberi e vele svolazzanti per asciugarsi al sole; il panorama tra le Calate Interne ed il Molo Vecchio era chiuso in un unico affresco di navi colorate con i loro frenetici equipaggi sempre in bilico tra il desiderio di tornarsene in mare e la tentazione di mangiarsi l’intera paga nei numerosi casini dei vicoli.
Vento di tramontana, canti di terra e di mare, rumori di bighi, pulegge, urla dei caporali sulle boccaporte di stiva, fischi di navi in manovra, profumi di biacca e catrame, ma anche di carichi orientali: “Odô de bon” cantava Faber, un’epopea di terra e di mare che univa ancora il mondo antico della vela a quella del motore sempre più sbuffante e ansioso di entrare nella storia.
Solo pochi scaricatori potevano rifugiarsi e staccare a mezzogiorno nelle osterie di Sottoripa, ma ecco apparire i “Gozzi dei Cadrai o Catrai” che richiamavano l’attenzione del cliente con urli incisivi, e non c’è portuale di una certa età che non ricordi il loro “He! Oh! Gh’è o cadrâi!”.
Il primo giro della giornata era il più importante. Focaccia, vino bianco e le prenotazioni per il pranzo: minestrone, stoccafisso e torte salate della Liguria.
La Gazzetta di Genova del 30 giugno 1921, dedicò la prima pagina ai “CADRAI”, bettoline naviganti.
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Come recita la “Guida del Porto di Genova del 1911” del Festa: “La concessione relativa è rilasciata dal Consorzio del porto di Genova a mezzo di pubbliche gare a scheda segreta... Purché a bordo del battello sia tenuto in permanenza un marittimo, possono concorrere alle gare anche le vedove o le figlie maggiorenni dei cadrai defunti. La concessione ha di solito la durata di 5 anni. I battelli devono avere un numero di colori e dimensioni speciali. Possono circolare ed esercitare liberamente il loro traffico soltanto dal sorgere al tramonto del sole”.
”Stocche e bacilli, stocche e bacilli”! Risuonava sottobordo, e dalle murate calavano pignatte appese a cimette. Tutti i marittimi del mondo apprezzavano lo stoccafisso con i ceci alla genovese ed il vino bianco delle nostre colline e sappiamo, con un po’ di nostalgia, che in ogni angolo del mondo i vecchi marinai usano ancora quelle nostre parole dialettali.
Come tutte le storie romantiche di questo mondo, anche quella dei CADRAI finì piano piano nell’angolo dei ricordi.
Nel 1911 i GOZZI CADRAI erano 40. Nel 1932 ve ne erano soltanto 10, nel 1954 erano ormai solo 3. Mutò rapidamente l’organizzazione portuale che portò ad una nuova pianificazione del lavoro e dei mezzi di carico e scarico delle navi. Più rigidi diventarono i regolamenti d’Igiene Pubblica ed aumentarono le osterie dell’angiporto che sono ancora là in Sottoripa e in via Pré...
Dai vetri colorati schermati da tendine di bordo, s’intravedono ancora le foto sbiadite degli avi CADRAI e dagli angoli di quei muri affumicati affiorano antichi reperti di legni famosi che scalarono il porto di Genova.
Che tempi! Recitava il grande Gilberto Govi.
CARLO GATTI
Le verità storiche di Renzo BAGNASCO
Il basilico che utilizzavano i CADRAI era quello “vero” non l’attuale asfittico e pallido come pollo d’allevamento. Da sempre o meglio, da prima che inventassero le “serre” (circa anni ’30) che nei giorni freddi proteggono il basilico, piantina mediorientale che richiede un minimo di tepore, lo stesso era prodotto nei terreni racchiusi fra Pegli e gli Erzelli (inizio Cornigliano-Ge) , la fascia più temperata di Genova oltre alla piccola e scoscesa Nervi. Pra’, borgo di pescatori, per il vento impetuoso e il freddo che scende dal Basso Piemonte attraverso la Valle del Turchino, ha sempre avuto temperature non idonee alla coltivazione della nostra verde piantina anche nelle notti d’estate. Il basilico era utilizzata principalmente nelle famiglie e nelle osterie, non nei ristoranti alla moda perché considerato piatto triviale. Solo sul finire dell’’800 cominciò ad affacciarsi anche in quei locali e a farsi conoscere però come condimento delle lasagne, da noi chiamate < fazzoletti di seta>, tanto erano sottili e vero vanto della nostra cucina.
Lo Zar di tutte le Russie, una volta assaggiateli, ingaggio dei pastai genovesi a che insegnassero ai suoi come farli. Trainato da loro, il basilico cominciò ad affacciarsi anche nella ristorazione di grido. Oggi è divenuto il simbolo di Genova e, mentre i terreni di Pegli, Sestri e Cornigliano ponente sono stati cancellati dallo sviluppo edilizio di Genova o fagocitati dalle tante strade realizzate, Prà, dotandosi di potenti serre e disponendo di terreno in piano, ancorché nello svincolo del traffico portuale di Voltri, ne ha preso il posto. Per ragioni di “fretta” e di mercato, la piantina viene messa in commercio, radici comprese, ancora verdina e non matura, anche se a quel livello ci è arrivata con “aiutini” chimici acceleranti lo sviluppo e viene “sanata” gassificandolo con vapori di metile di bromuro. Infine oggi, per compiacere alla moda e visto che l’attuale ha gusto che non lo regge, lo si è privato dell’aglio: sacrilegio. E pensare che un tempo era, nei ricettari, denominato <battuto o sapore all’aglio> oppure < pesto d’aglio e basilico>!!! Tanto dovevo farvi sapere per ridimensionare storicamente il ruolo di Pra, oggi unico baluardo di un improbabile basilico, da sempre consumato a foglia “verde” e non “verdina”. Ancora una precisazione: le qualità del basilico sono tante; la nostra si chiama <basilico genovese>, non idoneo per insaporire le pizze, perché troppo delicato per resistere al calore del forno.
Infine, una testimonianza storica tale da variare il pezzo sul basilico, come ho scritto altrove. Un tempo i campi, basilico compreso, venivano concimati da un misto di "rumenta" presa alla Volpara quando tornavano dai Mercati Generali dopo aver portati i loro prodotti, e quel poco stallatico prodotto dalla loro piccola stalla. Questo mix restava qualche giorno a macerare coperto da un telone rabberciato e poi, distribuito sparso nei campi. Non stupisce però che all'epoca il tifo fosse onnipresente.
Rapallo, 16 febbraio 2016
L'URAGANO SANDY affonda il BOUNTY del cinema
L’uragano “Sandy”
affonda il Bounty del cinema
L’imbarcazione era stata utilizzata nel film I Pirati dei Caraibi
Un momento felice del Bounty
Come un film, peggio del peggior film, l’uragano Sandy, la tempesta più prevista e pubblicizzata della storia, capace di tenere in ostaggio 60 milioni di americani, ha fatto due vittime sul mare e ha affondato uno scafo simbolo, un nome storico della letteratura, del cinema e della storia della navigazione: la “replica” del Bounty.
Il Bounty sta affondando
Era una copia della fregata mercantile della Royal Navy britannica, costruita per il film del 1962: 'Gli ammutinati del Bounty', con Marlon Brando nel ruolo di Fletcher Christian, il 'secondo di bordo' che nel 1789 comandò la rivolta contro il capitano William Bligh, e poi guidò gli ammutinati fino all'isola di Pitcairn, dove si stabilirono per sfuggire alla Royal Navy che aveva iniziato a cercarli ovunque. La storia ci racconta che l’inquieto ufficiale imbarcò nel 1787 sul veliero Bounty diretto a Tahiti per un carico di "alberi del pane”. Fu nominato Secondo su raccomandazione del comandante William Bligh, diventandone poi il luogotenente durante la navigazione. Il Bounty raggiunse Tahiti il 26 ottobre 1788 dove sostò per cinque mesi prima di rientrare alla base con il carico il 17 aprile1789. Poche settimane dopo, il 28 aprile 1789, a circa 1300 miglia a ovest di Tahiti, nei pressi di Tonga, Fletcher Christian capitanò il celebre ammutinamento decidendo, tra l’altro, di abbandonare il capitano della nave e i marinai a lui fedeli su una scialuppa in mezzo al mare.
173 anni dopo, nel 1962, Lewis Milestone decide di portare sul set la vera storia dell'ammutinamento, tratta dal romanzo “Mutiny on the Bounty” di Charles Bernard Nordhoff e James Norman Hall. Il film ruota attorno ad un grande Marlon Brando, affiancato sul set da Trevor Howard, Richard Harris, Hugh Griffith e Richard Haydn. Per l'occasione, Hollywood costruì una copia praticamente esatta del Bounty originale che é sopravvissuta 50 anni, forse troppo per un veliero in legno d’epoca, sebbene motorizzato e attrezzato di moderni strumenti e di conforts.
La cronaca di questi giorni ci dice che il veliero “H.M.S. Bounty” non ha avuto scampo contro onde alte 7/8 metri, sollevate dai 50 nodi di vento furioso mentre si trovava al largo delle coste del North Carolina. Impossibilitato a governare, il veliero ha iniziato ad imbarcare acqua, le pompe di sentina sono andate rapidamente fuori uso e, dopo alcune ore, il comandante ordinò al suo equipaggio di abbandonare le nave e di lui non si seppe più nulla. I quattordici sopravvissuti ce l'hanno fatta grazie allo spericolato intervento della Guardia Costiera, prima con un Hercules C-130 da ricognizione, poi con due elicotteri intervenuti in loro soccorso a circa 90 miglia a Sud-Est da Capo Hatteras che hanno issato i naufraghi a bordo con i verricelli di bordo. Poi, nella serata un altro elicottero ha localizzato il corpo "inanimato" di Claudene Christian, 42 anni che, per ironia della sorte, aveva lo stesso cognome del protagonista degli “Ammutinati del Bounty”. Non c'é stato invece nulla da fare per il veliero. Dopo essere stato abbandonato alla deriva, si é poi sfasciato tra le secche di un basso fondale. “Il suo albero di maestra svetta ora tra le onde”, ha riferito l'ammiraglio della Guardia Costiera, Robert Parker.
Il Bounty aveva lasciato il Connecticut giovedì 25 ottobre con a bordo 11 uomini e 5 donne tra i 20 e i 66 anni, tutti consapevoli della pericolosità della traversata. Secondo i sopravvissuti, il comandante avrebbe cercato di aggirare l’uragano, ma dopo due giorni in balia della tempesta si è reso conto che le difficoltà aumentavano: “Credo che ci saremo dentro per parecchi giorni”, aveva scritto in un messaggio sulla pagina Facebook della nave, una sorta di diario di bordo. “Cerchiamo di uscirne prima possibile”.
Lunedì 29 ottobre, il Bounty ha cominciato a imbarcare acqua, i motori sono andati in avaria, la nave si é traversata agli elementi, é seguito il lancio del May Day-May Day, l’abbandono-nave e il si “salvi chi può” sulle scialuppe calate nel mare tempestoso. Al momento dell’arrivo del primo elicottero, una luce stroboscopica era visibile sull’albero di maestra del Bounty ormai semi affondato.
Come vedremo tra poco, la forza distruttrice della natura ha infatti paralizzato parte del Nord America, bloccando letteralmente New York. Metropolitane invase dall'acqua, strade allagate, corrente elettrica saltate, linee telefoniche mute. La Grande Mela si é piegata al passaggio di Sandy.
Una bella immagine del Bounty
Storia della tempesta
L'Uragano Sandy è stato definito un Ciclone Post-Tropicale di fine stagione che ha colpito la Giamaica, Cuba, Bahamas, Haiti, Repubblica Dominicana e la Costa Orientale degli Stati Uniti raggiungendo la zona a sud della Regione dei Grandi Laghi degli Stati Uniti e il Canada orientale. È il diciottesimo ciclone tropicale, la diciottesima tempesta di ‘nome’ e il decimo uragano del 2012.
La rotta a salire dell’uragano Sandy vicino al suo picco di forza il 29.10. 2012
Formazione ........ 22 ottobre 2012
Venti più veloci ........ 175 km/h
Pressione minima ........ 940 mbar
Vittime ................. 182 (110 negli USA)
Danni ................... 50 miliardi $
Aree colpite .............. Giamaica, Cuba, Hispaniola, Bahamas, Florida
Sandy si è sviluppato nel Mar dei Caraibi occidentale il 22 ottobre 2012. È diventato depressione tropicale ed è stato promosso tempesta tropicale sei ore più tardi. La vasta depressione si é mossa lentamente dalle Grandi Antille verso nord rinforzandosi. Il 24 ottobre il fenomeno Sandy, poco prima di investire la Giamaica, è stato classificato uragano. Nel suo vorticoso movimento verso nord, Sandy ha ripreso il mare e nelle prime ore della mattina del 25 ottobre ha investito Cuba come uragano di categoria 2. Durante la tarda serata del 25 ottobre, Sandy si é leggermente indebolito passando a uragano di categoria 1. Nelle prime ore del 26 ottobre, ha investito le Bahamas. Sandy brevemente indebolito a tempesta tropicale nelle prime ore del mattino del 27 ottobre, si é poi di nuovo rinforzato, classificandosi di categoria 1 durante la mattinata. Poco prima delle 8 del mattino del 29 ottobre, Sandy ha accostato a nord-nord-ovest, si é avvicinato verso la costa degli Stati Uniti, mantenendo categoria forza 1. L'impatto di Sandy si é esteso dalla Virginia al New England, con venti fortissimi che hanno raggiunto l’hinterland producendo cospicue nevicate sui monti del West Virginia.
La tempesta tropicale di proporzioni mai viste prima da quelle parti, ha colpito New York city la sera del 29 ottobre allagando subito numerose strade, scantinati tunnel a Lower Manhattan e in altre aree della città. Secondo le stime del Comune, solo nella fascia costiera degli Stati Uniti oltre 4 milioni di persone sono rimaste senza energia elettrica.
CONCLUSIONE: abbiamo riportato appositamente la storia di SANDY per sottolineare che l’emergenza nazionale era già stata dichiarata il 22 ottobre quando si cominciò a monitorare lo spostamento sempre più preoccupante di quella eccezionale massa ciclonica. Da quel momento, l’allerta generale fu diffuso in ogni angolo della terra e fu mantenuta sino al suo esaurimento finale.
Sfogliando l’album dei ricordi, notiamo che già nei primi anni ’60, ogni nave proveniente dall’Europa e destinata ad un qualsiasi porto atlantico degli USA, durante la “rottura dei tempi”, era continuamente bombardata dai “gale warning” locali (avvisi di burrasca molto precisi). Qualsiasi piccola o grande depressione era segnalata, seguita e monitorata. Dopo 50 anni, nel campo della meteorologia satellitare, la tecnologia ha fatto passi da gigante, eppure c’é sempre qualche “belinone” che ne sa una più del diavolo... Questa volta é stato il turno della “replica” del Bounty. D’accordo che era perfettamente funzionante, motorizzata e che veniva impiegata per trasportare passeggeri in cerca di emozioni... ma era pur sempre un “legno” di 50 anni. Tutto ha un limite! L’area interessata alla depressione era di ben 3200 Km. Come pensava il Comandante di aggirarla? Quella sua presenza davanti a Capo Hatteras mentre scendeva dalla Carolina del Nord verso la Florida, per sfidare Sandy nei giorni della sua massima esplosione e potenza, ci appare oggi misteriosa, inquietante, per non dire folle! A questo punto esiste il sospetto, più che fondato, che il delirio d’onnipotenza di certi comandanti della nostra epoca, probabilmente “sniffanti” e in cerca di gloria, debba essere contrastato dalle Autorità prima che un intero settore finisca in malora.
Carlo GATTI
Rapallo, 19 settembre 2013