L'ODISSEA DI UN COMANDANTE ITALIANO MORTO DI COVID
L'ODISSEA DEL COMANDANTE ITALIANO
ANGELO CAPURRO MORTO DI COVID
Il 25 Giugno “Giornata mondiale del Marittimo”
1.600.000 MARITTIMI
A bordo di 60.000 navi
Sono in navigazione in questo momento al servizio dell’umanità intera. Non si sono mai fermati, anche quando a terra il COVID-19 aveva paralizzato tutte le altre attività lavorative e commerciali del mondo.
80% della merce mondiale
VIAGGIA VIA MARE
NON DIMENTICHIAMO MAI IL SACRIFICIO
DELLA GENTE DI MARE!
“Proprio oggi ho visto questo dipinto per strada e mi ha fatto pensare ai tanti bimbi come noi quando sognavamo il ritorno a casa di papà ”.
Selene CATENA-Ortona
- Pensate a quanti poveri marittimi non hanno visto crescere i propri figli!
- Pensate a quanti marittimi sono morti durante il COVID-19, sbarcati ovunque e rimpatriati dopo mesi e mesi in una cassa, nel più profondo silenzio ed oblio generale.
Il passaggio del canale di Panama della ITAL LIBERA quando era al comando di Angelo CAPURRO
Cogliamo la ricorrenza:
Del 25 Giugno “Giornata mondiale del Marittimo”
Per riprendere due articoli pubblicati dal SECOLO XIX in data:
27 MAGGIO 2021 - 17 APRILE 2021
M/N ITAL LIBERA
La salma del comandante Angelo Capurro tornerà in Italia a bordo della nave di cui aveva il Comando quando era in vita.
IL COMANDANTE ANGELO CAPURRO
Hanno negato lo sbarco Singapore, Indonesia, Malesia, Filippine, Taiwan, Vietnam. È stata verificata anche la possibilità di uno sbarco in Sud Africa.
Primo Articolo:
l.IVANI - T. IVANI
27 MAGGIO 2021
La Spezia – Mentre la Procura della Spezia continua gli accertamenti sui documenti acquisiti dalle autorità internazionali a bordo della Ital Libera, dall'Indonesia giunge la notizia che la salma del comandante Angelo Capurro tornerà in Italia entro la fine di giugno. I porti asiatici interpellati per far sbarcare il corpo del marittimo non hanno mai dato il nulla osta.
Marittimo spezzino muore di Covid a Singapore, la disperazione della moglie: “Non l’hanno curato”
Angelo Andrea Capurro, 62 anni a maggio, era una Comandante di lungo corso sulle navi cargo/portacontainers.
"L’Italia deve sapere cosa è successo”.
Secondo Articolo
Tiziano IVANI
17 APRILE 2021
La Spezia – «Oggi parlo perché l’Italia intera sappia come vivono e come muoiono gli uomini che con sacrificio cercano di fare il meglio per le loro famiglie». Patricia trattiene le lacrime, anche se è difficile, quasi impossibile, di fronte a una simile tragedia.
Suo marito era Angelo Andrea Capurro, 62 anni a maggio, comandante di lungo corso sulle navi cargo che hanno solcato i mari di tutto il pianeta. È un’altra vittima del Covid-19, dentro una storia di sofferenza che ha dell’incredibile. Angelo è morto da giorni, ormai, ma la sua famiglia - moglie e figli - è ancora lontana da lui e chissà per quanto sarà così. Angelo si trova al largo di Singapore, la compagnia per cui lavorava sta cercando una soluzione per sbarcare la salma e farla tornare in Italia in aereo, ma non è semplice.
Era partito a metà marzo, anche se si trovava in condizioni fisiche a dir poco precarie: «Era immunodepresso, aveva diabete, ipertensione, problemi cardiaci - spiega la moglie - ma voleva continuare a navigare perché era l’unico sostegno economico per noi, per la sua famiglia. Ci sono due figli in gamba, entrambi laureati, ma attualmente sono senza lavoro».
La questione economica è centrale in questa vicenda. Sulle spalle di Angelo c’erano tutti i suoi cari, una famiglia che nell’ultimo periodo aveva già dovuto affrontare tante difficoltà. «Il nostro appartamento, in scalinata Quintino Sella, era stato danneggiato nell’incendio scoppiato il 25 dicembre scorso, siamo stati sfollati per più di un mese», racconta la moglie. La famiglia di Angelo ora chiede aiuto, lo chiede all’autorità italiane, ma anche alla compagnia marittima. Vuole omaggiare l’uomo e vuole che venga fatta giustizia. In tal senso, vale la pena ripercorrere la sequenza che ha portato alla tragedia.
«Secondo noi qualcuno ha commesso degli errori - attacca Patricia - Angelo è stato convocato il 25 marzo nella sede dell’azienda per regolare una questione burocratica sul suo libretto e fare il tampone (esito negativo, ndr)». Il 27 marzo, alle 6.30, era già all’aeroporto di Roma Fiumicino per imbarcarsi su un volo diretto a Doha. «Il calvario è iniziato da lì - precisa Patricia - dopo una notte in piedi, perché non c’era abbastanza posto per riposarsi, è salito su un altro aereo con destinazione Johannesburg e, una volta arrivato lì, ha preso un terzo volo per un’altra città sudafricana, Durban. Il 28 marzo si è imbarcato. Gli hanno fatto un test rapido, che ritengo inaffidabile. La nave è salpata il primo aprile e il giorno dopo ha avuto i primi sintomi: tosse, dolore al petto, faticava a respirare. Ho scoperto che non c’era un medico a bordo, così ho chiamato il nostro, il dottor Davide Barletta, che ha provato a curare Angelo a distanza. Non ce l’ha fatta. È morto così il mio amore, non hanno chiamato neppure i soccorsi, nell’Oceano indiano c’è pieno di navi militari per supportare i mercantili contro la pirateria». —
Abbiamo colto un solo commento che per la sua semplicità e spontaneità rappresenta il pensiero comune di chi soltanto in occasioni tristi o addirittura tragiche sente parlare della GENTE DI MARE:
“Questo è il tragico destino di tanti uomini e donne di mare, al di là del covid. Dovremmo ricordarci di loro non solo quando capitano delle tragedie. Un pensiero affettuoso alla famiglia del Comandante”.
IL DIRETTIVO DI MARE NOSTRUM
Il 25 giugno è stato dichiarato dall’International Maritime Organization (imo) “Giornata mondiale del Marittimo”. Con la risoluzione 19 adottata alla conferenza diplomatica di Manila nel giugno 2010 si è voluto esprimere apprezzamento e gratitudine alla gente di mare proveniente da ogni parte del mondo per il fondamentale contributo al commercio marittimo internazionale, all’economia mondiale ed alla società civile.
Campagna 2021 – Futuro equo per i marittimi
Sulla scia della pandemia di COVID-19, i marittimi si sono trovati sia in prima linea nella risposta globale che soggetti a difficili condizioni di lavoro legate a incertezze e difficoltà relative all’accesso al porto, al rifornimento, al cambio dell’equipaggio, al rimpatrio, ecc.
Alla luce di ciò, la campagna 2020 Day of the Seafarer ha focalizzato il suo messaggio nell’esortare i governi a riconoscere i marittimi come lavoratori chiave e ad alleviare le restrizioni di viaggio per facilitare i cambi di equipaggio.
La campagna 2021 Day of the Seafarer continuerà a incoraggiare i governi a sostenere i marittimi in mezzo alla pandemia, ma amplierà il suo messaggio, chiedendo un futuro equo per i marittimi.
La campagna discuterà questioni che saranno ancora rilevanti per i marittimi dopo la pandemia, come trattamento equo dei marittimi, condizioni di lavoro eque (in linea con la Convenzione sul lavoro marittimo dell’ILO ), formazione equa, sicurezza equa, ecc.
Centinaia di migliaia di marittimi stanno ancora lavorando in mare oltre il tempo stabilito e altrettanti stanno affrontando difficoltà finanziarie, nel disperato tentativo di alleviare l’equipaggio delle navi e ricominciare a guadagnare.
Carlo GATTI
Rapallo, Agosto 2021
E' MANCATO VINCENZO CAMERLINGO UOMO DI MARE
E’ MANCATO VINCENZO CAMERLINGO
UOMO DI MARE
PRIMA NUOTATORE - POI COMANDANTE
D.M. (Direttore di Macchina)
COMUNICATO STAMPA di ERNANI ANDREATTA - 24/05/2021
Vincenzo Camerlingo, a destra nella foto, è stato Presidente del Porto Marina di Chiavari e sottotenente del Genio Navale avendo frequentato l’Accademia di Livorno come AUCD, cioè Allievo Ufficiale Complemento Diplomati.
Negli anni ’50 ai tempi d’oro della Chiavari Nuoto, Vicenzo Camerlingo, è stato un campione Italiano di nuoto. La sua specialità era lo stile rana e farfalla che a quei tempi erano due specialità non ancora distinte. Già allora si distingueva per la sua grande affabilità, amicizia e simpatia che sapeva dare a tutti gli atleti che nuotavano con lui. Credo che Vincenzo sia anche l’ultimo di una dinastia di 10 se non 12 tra fratelli e sorelle. Ricordo suo fratello “Romoletto” mancato abbastanza giovane così come il fratello Armando anche lui nuotatore.
Dopo la terza media si avviò alla carriera di mare frequentando il nautico a Camogli diplomandosi ben presto Capitano di Macchina.
Iniziò subito la carriera con la Società di Navigazione Italia dove era molto stimato e aveva anche un particolare soprannome per la sua eleganza. Tutti lo chiamavano il “Tenente Nello”. Era apprezzato dai suoi superiori, ma con l’Italia di Navigazione le carriere erano molto lunghe e prima di arrivare in cima alla graduatoria dovevano passare molti anni.
La società Italia era stata fondata durante il Fascismo, nel 1932, con il nome di Italia Flotte Riunite riunendo sotto un'unica bandiera le tre principali compagnie di navigazione italiane dell'epoca: la Navigazione Generale Itliana di Genova, la Lloyd Sabaudo di Torino e la Cosulich di Trieste. La sede della compagnia era situata in Piazza de Ferrari a Genova, ma erano presenti filiali della Compagnia anche nelle principali destinazioni, per esempio a New York.
Quando Vincenzo Camerlingo navigava erano i tempi d’oro dell’Andrea Doria, poi naufragata nel 1956 per una collisione con la nave svedese Stockolm. Sulle rotte nord americane erano i tempi dei famosi transatlantici Giulio Cesare, Augustus, Cristoforo Colombo, Leonardo da Vinci e poi il tramonto negli anni 60 con La Raffaello e la Michelangelo che determinarono la fine del trasporto per nave per lasciare il posto a quello dell’Aereo. Vincenzo Camerlingo le ha navigate tutte le più belle navi dell’Italia di Navigazione. Era da tutti conosciuto e stimato.
Alla Moglie Christa e al figlio Roberto con Cecilia, esprimiamo le più sentite condoglianze unendoci al loro grande dolore per la perdita del caro congiunto.
I funerali avranno luogo Martedi 25 Maggio alle ore 15 nella Chiesa di San Giovanni Battista a Chiavari.
Vincenzo Camerlingo tra Egidio Massaria e Gianni Paliaga quest’ultimo “profugo” fiumano nella Colonia Fara nel dopoguerra. Pluriprimatisti e Campioni Italiani.
1950 Roma, La squadra della Chiavari Nuoto campione d’Italia: Monti Gino, Valenti, il mitico dirigente “Bacci” Bacigalupo, Di Venanzio, Perrucchetti, Andreatta, Sanguineti, Camerlingo, Sica, Raffo, Benvenuto, Delucchi, Dallorso, Cartura, Truffa, Bel Bosco, seduti, Copello, Darin, Monti Bruno e Manfroi.
A destra l’allenatore Mario Ravera detto Marò i dirigenti Albi Rossi, Giovanni Bonafede, primo Presidente e Manuellin Copello.
N.d.r – In questa bellissima foto compaiono anche due eccellenti rapallini che desidero segnalarvi nell’esatta posizione: l’allenatore MARO’, con la maglia scura, si trova in piedi sotto i due giovani marinai in divisa. Alla destra di marò (leggermente inginocchiato e un po’ di profilo il grande fondista Michele TRUFFA).
RAPALLO, QUANDO SI NUOTAVA NEL GOLFO DEI NESCI…
ALLA RICERCA DELLE NOSTRE RADICI… di Carlo GATTI
WEBMASTER: Carlo GATTI
Rapallo, 25 Maggio 2021
11.4.1991-LA HAVEN ESPLODE E AFFONDA DAVANTI A GENOVA -ARENZANO
11 APRILE 1991
LA SUPERPETROLIERA HAVEN ESPLODE E DOPO UNA LENTA AGONIA AFFONDA DAVANTI AGENOVA ARENZANO
Sopra, l’articolo del SECOLO XIX E’ USCITO L’11 APRILE 2021 A RICORDO DI QUELLE TERRIBILI ORE
Arenzano – Sono immagini che rimarranno per sempre nella mente di ogni testimone, quelle della petroliera Haven che brucia al largo di Arenzano, esattamente 30 anni fa.
Chi scrive ha ancora oggi negli occhi quelle immagini dantesche, nel naso l’odore acre del “greggio” in fiamme, sulla pelle il calore dell’inferno, nel cuore il pensiero delle vittime che non tornarono più a casa … e nella mente gli atti d’eroismo compiuti dagli uomini di mare e di porto, in doveroso SILENZIO, come solo loro sanno fare!
In paese è impossibile dimenticare quella maledetta mattina dell’11 aprile 1991, che segnò l’inizio di un disastro ambientale senza precedenti per la costa di Arenzano, Cogoleto e il ponente genovese. Prima l’esplosione, con un botto talmente forte da far vibrare i vetri delle case, tanto che molti cittadini pensarono a una bomba.
Poi, prima ancora di uscire per strada e raggiungere il mare per capire cosa fosse successo, in cielo era comparsa una colonna altissima di fumo che andava a dissolversi nelle nuvole, colorandole di nero.
Per quasi tre giorni la Liguria guardò con il fiato sospeso il mare davanti ad Arenzano che bruciava, con quella petroliera che lentamente colava a picco, portando con sé cinque morti, e rilasciando in acqua migliaia di tonnellate di petrolio. Il lavoro dei soccorsi – sul posto giorno e notte – sembrava quasi impossibile, e grande era il senso di impotenza da parte dei cittadini.
Infine arrivarono le onde nere, che portarono sulla spiaggia il catrame e i pesci morti: chi era bambino all’epoca ricorda che, giocando con le pietre sul litorale, si correva il rischio di tornare a casa con le mani nere e una bella lavata di testa da parte dei genitori.
La Haven non ha mai lasciato i fondali di Arenzano: un’eredità che con gli anni, ironia della sorte, si è trasformata in opportunità turistica, diventando il più grande relitto visitabile da subacquei del Mediterraneo, e uno dei maggiori al mondo.
La HAVEN IN NAVIGAZIONE
Alassio. “Al Pilota Comandante Cerutti: Noi, ufficiali ed equipaggio dell’ormai perduta petroliera Haven, porgiamo il nostro ringraziamento al Pilota Cap. Cerutti che ha salvato le nostre vite ed ha permesso alle nostre famiglie di rivedere il ritorno a casa dei loro padri. Il primo ufficiale della m/c Haven Donatos Th.Lolis”.
E’ la frase che il primo ufficiale greco della petroliera Haven scrisse al comandante Cerutti.
Oggi, come 30 anni fa il comandante che vive ad Alassio ed è presidente della Marina Spa, la società che gestisce il porticciolo turistico Luca Ferrari, ricorda tutto.
Classe 1937, entrato nel corpo dei piloti del porto di Genova nel 1970 è andato in pensione nel 1997. Il comandante Cerutti, nasce nella città del Muretto, la passione per il mare arriva in modo naturale, la barca a vela e la pesca subacquea lo attraggono subito. Ma è stato soprattutto un grande comandante ed ora i “lupi di mare” lo ricordano per essere stato l’eroe della Haven che l’11 aprile del 1991 affondò al largo delle coste tra Arenzano e Varazze.
Un dramma che si era consumato in quattro giorni quando morirono 5 dei 36 uomini dell’equipaggio, ma 18 furono salvati dal comandante Cerutti. Ivg.it rivive quei momenti della più grande tragedia ambientale del Mediterraneo con un uomo che riuscì a rendere meno drammatico il bilancio delle vittime.
“È una bella giornata di sole, la tramontana alza leggermente il mare – racconta – Sono nella sottostazione di Multedo al servizio del porto petroli. Poco dopo mezzogiorno sento via radio il “may day” lanciato da una nave inizialmente sconosciuta. Mi metto subito in contatto e capisco che è la petroliera Haven, una grossa nave che ha scaricato all’isola galleggiante parte del suo carico ed è ritornata in rada”.
Cerutti allora avverte subito che ci sono “fiamme a bordo”. Corre subito alla pilotina e con il timoniere Elvio Parodi si dirige verso la Haven, nella zona “M”, a un paio di miglia dalla costa di Voltri.
“Nel tragitto, non più di una quindicina di minuti, avviso un’altra petroliera che era in zona di salpare e allontanarsi. Tutto per evitare altre esplosioni. Mi sembra tutto così incredibile, solo la notte prima c’è stata la tragedia del Moby Prince e ora siamo di fronte a questa scena che appare realmente infernale, fiamme e fumo nero.
Vedo subito l’incendio nella zona prodiera, parlo con il comandante che mi chiede di mandare gli elicotteri, ma gli rispondo che sarebbe inutile, visto le fiamme e il fumo.
Faccio il giro della nave, ritorno a prora e in quel momento c’è una violenta esplosione che piega in due la petroliera e nello stesso istante, perdo il contatto con il comandante che più nessuno sentirà né troverà. Vado verso poppa e vedo i marinai che si buttano in mezzo alle fiamme e chiedono aiuto.
Non hanno scampo e in tre bruciano davanti ai miei occhi, ma riesco a caricarne diciotto e a riportarli a terra, mentre arrivano anche le altre unità di soccorso, vigili del fuoco, rimorchiatori, capitaneria”.
Molto del greggio fuoriuscito brucerà in mare, una parte considerevole raggiungerà le coste. Il comandante di Alassio non ha mai dimenticato le immagini di quei giorni e anzi è stato più volte ricordato come un eroe e per questo motivo ha ricevuto anche diversi riconoscimenti.
Ricordando la HAVEN - vent’anni dopo...
di Carlo GATTI - Mare Nostrum Rapallo - Sez.Relitti/M.-Sub
CARLO GATTI
Rapallo, 6 Aprile 2021
ESPERIENZE UNICHE
SCRITTORI IN RIVA AL MARE
ESPERIENZE UNICHE
John Gatti
Erano mute usate e strausate, con tagli e buchi sui gomiti, sulle spalle e sulle ginocchia, provocati da decine e decine di entrate e uscite da spaccature e tane.
Da quei buchi, appena s’immergevano, rivoletti d’acqua s’insinuavano come sottili lame di ghiaccio e camminavano lungo la schiena andando a riempire le sacche che si formavano dove la muta non aderiva perfettamente al corpo.
La tortura durava pochi minuti, il tempo necessario al fisico per riscaldare l’acqua con cui veniva a contatto.
«Saltiamo il pezzo fino alla Madonnina.» disse Riccardo dopo aver sputato il boccaglio «Il primo tuffo lo farò io quando arriverò alla chiesa.»
I due amici acconsentirono con un cenno della mano, dopodiché cominciarono a pinneggiare regolarmente uno di fianco all’altro.
L’acqua era limpida e il fatto di non avere il fucile, il portapesci e il pallone segnasub contribuiva ad accrescere il senso di libertà trasmesso normalmente dal mondo sottomarino.
Innumerevoli castagnole sciamavano sopra le secche, aprendosi come pagine di un libro al passaggio dei ragazzi.
A un certo punto Angelo non resistette alla tentazione: fece una capovolta al volo e con poche potenti falcate si andò a posare sopra uno scoglio piatto circondato dalla posidonia. Alcuni metri prima di raggiungere il fondo interruppe ogni movimento, proseguendo a foglia morta. Allargò le gambe e le braccia per rallentare la velocità, andando a posarsi esattamente sul punto scelto.
Dall’alto i due amici seguivano la scena.
L’atterraggio fu morbidissimo, si trovò sdraiato sopra lo scoglio, rivolto verso il mare aperto e circondato da una verde prateria sottomarina che lo nascondeva perfettamente. Davanti a lui il fondale scendeva in picchiata, offrendogli la possibilità di osservare, senza essere visto, da una posizione dominante. Era nel punto ideale per mettere in pratica la tecnica dell’”aspetto”, iniziata nel momento in cui le sue pinne sparivano sott’acqua, quando le vibrazioni provocate dalla discesa verso il fondo si erano propagate, raggiungendo la sensibile linea laterale dei pesci che si trovavano nelle vicinanze; infatti, pochi secondi dopo, i primi saraghi apparvero in lontananza, avvicinandosi a scatti, cercando di soddisfare la loro curiosità.
Improvvisamente i pesci scapparono in tutte le direzioni e per qualche istante lo scenario tornò deserto. Poi, finalmente, apparvero i musi aggressivi di quattro dentici di media taglia, seguiti da altri tre esemplari decisamente più grossi.
Era sempre uno spettacolo mozzafiato vedere quelle maestose creature, dagli splendidi colori, avanzare minacciose ma diffidenti verso una possibile preda.
Tempo scaduto.
Angelo riuscì a prolungare l’apnea quel tanto da vedere i grossi denti, leggermente sporgenti, del pesce più vecchio del gruppo.
Soddisfatto si staccò dal fondo provocando un fuggi fuggi generale e, pinneggiando, raggiunse la superficie.
«Che sballo ragazzi! Quello più grosso sarà pesato almeno cinque chili!»
«Bravo, hai fatto un ottimo “aspetto”» approvò Riccardo
«Se avessi avuto il fucile… forse uno sarei riuscito a stenderlo.»
«Sììì, e se mio nonno avesse avuto cinque palle sarebbe stato un flipper…» lo prese in giro Maurizio.
«Cosa centra? Deficiente! L’hai visto anche tu come si sono avvicinati tranquilli, no?»
«Erano talmente tranquilli che l’ultimo del gruppo si è addormentato a metà strada.»
«Dai Mauri, non farlo arrabbiare.» intervenne Riccardo «Vicini sono arrivati vicini, bisognerebbe sapere se con il fucile puntato nella loro direzione si sarebbero comportati allo stesso modo.»
«Bene, bene, visto che in materia ve la tirate da professori, vorrà dire che ora ci sposteremo un po’ più avanti e mi farete vedere un’azione più brillante della mia.»
«Beh,» mise le mani avanti Maurizio «lo sai che nella teoria vi faccio un sedere così, ma per quanto riguarda la pratica sono sicuramente un po’ meno allenato…»
«Ma che risposta è? Sarebbe come dire che sei tutto fumo e niente arrosto!»
«Io invece accetto la sfida» disse Riccardo con convinzione, rimettendosi il boccaglio e prendendo a pinneggiare verso ponente.
«Ci scommetto che va sul dito.»
«Sul dito?»
«Sì, è una roccia a forma di pollice che si trova a dodici metri di profondità. Si affaccia da una parete che scende fino a trenta. A volte, stando sdraiati su quello scoglio, si vedono passare dei branchi di ricciole da venti e più chili e, all’alba o al tramonto, è possibile portare a distanza di tiro dei bei dentici.»
Riccardo nel frattempo aveva finito di prepararsi e quando i due amici lo raggiunsero le sue pinne erano già sparite sott’acqua.
La posizione era la stessa che aveva assunto Angelo ma al posto delle posidonie c’era il mare aperto, il trasparente che si tramutava in azzurro per diventare blu, mano a mano che l’occhio cercava di bucarne la profondità.
Ma la sorpresa non arrivò dal blu.
A sinistra, poco sotto al dito, una nube di fango in sospensione tradì la scodata di un pesce.
Con movimenti lentissimi Riccardo si portò sul ciglio dello scoglio per capire cosa stava succedendo.
I due amici, che continuavano a osservare la scena dall’alto, lo videro sporgersi con le mani allungate verso il fondo.
Qualche secondo dopo una nuova nube si sollevò a tre o quattro metri di distanza.
Anche per Riccardo era scaduto il tempo e con qualche colpo di pinna raggiunse Angelo e Maurizio in superficie.
«C’è la lenza madre di un palamito che passa proprio sotto la roccia e, da qualche parte poco più avanti, ci dev’essere un bel pescione con un amo che gli buca la bocca.»
«Ecco cos’era quella nuvoletta che ogni tanto compariva sulla tua sinistra.»
«Già, era la bestia che scodava quando tiravo la lenza.»
«Forza allora» li incoraggiò Mauri «andiamo a conoscere lo sfigato che sta soffrendo là sotto.»
«Va bon» disse Angelo «tanto minuto più minuto meno…»
«Cioè?» domandò Riccardo.
«Volevo dire, che se il tesoro è rimasto nascosto per quarant’anni, non penso che qualcuno ce lo porterà via da sotto il naso proprio oggi.»
Riccardo, che fra i tre era quello con l’apnea più lunga, fu il primo a sparire sott’acqua, seguito a breve distanza dagli altri due.
Quando arrivarono sotto al dito videro che la lenza madre del palamito era di diametro generoso, e che i normali terminali di nailon erano stati sostituiti da cavetti d’acciaio alle cui estremità erano legati grossi ami .
I tre ragazzi seguirono la lenza per qualche metro, fino a quando il primo cavetto sparì dentro un’ampia spaccatura.
Continuarono ad avvicinarsi con cautela, pensando di trovare una grossa murena intanata.
Il braccetto del palamito, teso come la corda di un violino, entrava nella tana sfregando contro le rocce e si perdeva nell’oscurità.
Maurizio e Angelo si fecero da parte lasciando entrare più luce possibile, intanto Riccardo scrutava all’interno cercando di familiarizzare con spuntoni e ombre.
Dopo qualche istante si girò verso i compagni, unì indice e pollice per comunicare che aveva visto quello che doveva vedere e cominciò la risalita in superficie.
«Che sballo!» esclamò appena le teste dei due amici uscirono dall’acqua.
«Cos’hai visto?» domandò Maurizio.
«Ragazzi…» prese tempo, cercando le parole giuste «è grossa!»
«Cos’è grossa? Una murena?»
«E’ una cernia! E peserà almeno dieci chili!»
«Uhau… e com’è messa?»
«Ha il muso rivolto verso l’ingresso e non può intanarsi meglio perché ha un amo che le buca il labbrone e s’infila dentro la bocca. Il cavetto che lo tiene è molto in forza.»
«Minchia! E ora che facciamo?»
Gli altri due si scambiarono un’occhiata, poi Angelo disse:
«E’ inutile far finta di niente, tanto ti conosco: creatura in difficoltà? Niente paura, arriva Super-Riky a salvarla!»
«Non fare il duro, belinun! So benissimo che anche una carogna come te non riuscirebbe a sparare a bruciapelo a un essere vivente legato e incastrato.»
«Bene, adesso che abbiamo stabilito di dover salvare quella povera cerniotta, resta solo da decidere come farlo, giusto?»
«L’acciaio con il coltello non lo tagliamo di sicuro e d’altra parte lasciare l’amo penzoloni dalla bocca vorrebbe dire condannarla a morte certa.» commentò Maurizio.
«Giusto!» disse Riccardo «Bisogna liberarla per forza.»
«Mi sembra una cosa davvero impossibile.» osservò Angelo.
«Non è detto…» sussurrò Riccardo, lasciandoli pensierosi mentre tornava sott’acqua.
«Beh, che facciamo?»
«E che vuoi fare? Andiamo giù a guardare la magia del famoso “Mago Richard”.»
Lo trovarono fermo davanti alla spaccatura. Per non disturbare l’azione si spostarono con movimenti rallentati, mettendosi alle due estremità. Da lì potevano osservare quello che succedeva all’interno della grotta, senza interferire.
La mano dell’amico avanzava lentamente verso la grossa cernia che lo fissava immobile. Quando le dita arrivarono a dieci centimetri dall’animale, questo iniziò a sbattere da una parte all’altra, cercando di liberarsi dell’amo.
Riccardo rimase fermo ad aspettare che il pesce tornasse calmo, poi portò avanti la mano, fino a toccare la parte inferiore dell’enorme bocca della cernia. Rimase in quella posizione per un tempo che parve lunghissimo.
Finalmente la ritirò piano e si allontanò dall’ingresso della tana. Tutti e tre tornarono in superficie.
«Voglio provare a vedere se apre la bocca.» disse Riccardo.
«Minchia!» esclamò Maurizio «Va a finire che riesci veramente a levargli l’amo.»
I tre amici scesero e risalirono numerose altre volte, ma purtroppo sembrava che il rapporto con il pesce avesse raggiunto una posizione di stallo: la cernia non si agitava più, ma neanche apriva la bocca.
Al quinto tuffo Riccardo fermò la mano a un palmo di distanza dal pesce.
Si fissarono per alcuni secondi, poi Riky fece uscire alcune bollicine d’aria dalla bocca e, incredibilmente, la grossa cernia si avvicinò fino a toccargli con il labbro inferiore le dita della mano. Trascorse ancora una manciata di secondi e la bocca si aprì lentamente. Sembrava di assistere a una partita di shangai: movimenti millimetrici per non far crollare tutto!
La cavità orale era veramente grande, ci poteva passare tranquillamente un pugno e Riccardo riuscì a far scivolare dentro parte della mano destra.
Nel frattempo Angelo teneva in trazione il palamito facendo in modo che il cavetto restasse in bando.
Un movimento preciso del polso e l’amo uscì dalla bocca della cernia.
Fu un momento incredibile.
Poi, senza fretta, utilizzando le pinne laterali il pesce si spostò indietro, fino a raggiungere il fondo della tana.
I ragazzi si scambiarono un’occhiata felice e tornarono nuovamente su, alla ricerca d’aria fresca.
«Grande! Sei stato grandissimo!» esclamò entusiasta Mauri.
«L’uomo pesce amico dei pesci. Il San Riccardo D’Assisi degli abissi.» rincarò Angelo.
«Che forte! È stata un’esperienza pazzesca!» disse Riky commosso «Penso di aver comunicato telepaticamente con Fred.»
«Fred? E da quando si chiama Fred?»
«Non so… so solo che si chiama Fred.»
«Va bon, dopo quello che hai fatto con quel pesce potresti anche dirmi che ti ha fatto vedere la patente: ci crederei senza battere ciglio. Forza, vai a salutare ancora una volta il nostro amico Fred così poi riprendiamo la caccia al tesoro. »
Pochi respiri profondi e, senza farselo ripetere una seconda volta, iniziò la discesa verso la tana.
«Io questa non me la perdo!» disse Maurizio seguendo Riccardo.
A Angelo non restò altro da fare che accodarsi ai due amici.
Lo ritrovarono davanti alla spaccatura. Il pesce era a pochi centimetri dalla sua faccia e apriva e chiudeva tranquillamente la bocca.
Maurizio e Angelo si fermarono sul dito di roccia, mantenendo una certa distanza per non disturbare la scena.
Riccardo avvicinò la mano alla cernia che, invece di fuggire spaventata, si avvicinò ancora di più, incoraggiando il contatto.
Angelo e Maurizio osservavano increduli il loro amico accarezzare Fred.
Visto alla luce, fuori della tana, il pesce appariva in tutta la sua grandezza. I dieci chili stimati erano sicuramente sbagliati per difetto. Diverse cicatrici bianche sulla schiena testimoniavano anni di battaglie per la sopravvivenza, mentre una profonda incisione sul labbrone inferiore, dimostrava che non era la prima volta che si trovava a combattere con una lenza.
Ma erano gli occhi a strizzare il cuore. Due occhi grandi da vitello, fermi eppure attenti, calmi eppure espressivi. Erano gli occhi di un essere vivo che fissavano gli occhi di chi lo aveva salvato. Li fissavano con un calore diverso da quello umano, ma il messaggio era inequivocabile.
Il tempo passava e Maurizio fu il primo a lasciare il fondo per tornare tra quelli che “contano”, tra la gente che respira, vicino a coloro che hanno dei sentimenti…
Ma era proprio così?
Angelo fu il secondo a uscire dal sogno, il secondo che poco dopo si sarebbe chiesto se quello che aveva visto era successo veramente.
Dalla superficie i due ragazzi continuarono a seguire i movimenti di Riccardo, il quale, a malincuore, dovette arrendersi alla natura: lasciò la posizione vicino al “dito” mantenendo lo sguardo fisso negli occhi della cernia. Saliva lentamente e lentamente il pesce si allontanò dall’ingresso della tana, mettendosi nella classica posizione a candela con il muso rivolto verso l’alto.
I tre amici si guardarono con complicità. Non c’era bisogno di parole. Non avrebbero aggiunto niente di più all’eccezionalità del momento.
John GATTI
Rapallo, 17 Gennaio 2019
APD 102 REDNOUR
Gruppo Modellistico
Sestese
Sesto San Giovanni (Milano)
APD 102 Rednour
Pacifico centrale estate 1945
del modellista, socio di Mare Nostrum,
Albino Benedetto
Un APD - acronimo per "Auxiliary Personnel Destroyer" era un cacciatorpediniere trasformato in trasporto truppe.
Si trattava di una serie di mezzi USA della seconda guerra mondiale ottenuti modificando un certo numero di Cacciatorpediniere di scorta (DE).
E qui occorre fare un passo indietro.
Quando gli Stati Uniti sono entrati nel conflitto, dopo Pearl Harbour (1941) si sono trovati impreparati a dover fronteggiare la minaccia degli U-Boot tedeschi che impazzavano nell’Atlantico.
Per sopperire al bisogno immediato avevano da un lato reperito vecchi cacciatorpediniere (DD) della prima guerra mondiale e dall’altro accettato di buon grado alcune corvette inglesi della classe "Flower".
Allo stesso tempo avevano avviato un nutrito programma di costruzione di un nuovo tipo di cacciatorpediniere particolarmente studiato per la lotta anti-sommergibile.
Erano i "DE" (Destroyer Escort), costruiti per dare una efficace protezione alle navi dei convogli alleati.
Nello slancio dello sforzo bellico, sono stati messi in cantiere 557 di questi mezzi (suddivisi in 6 sotto-classi, in base al tipo di apparato motore) genericamente denominati "Buckley".
Con l’andare del conflitto e la progressiva disfatta del naviglio tedesco, tali unità si sono ritrovate in soprannumero e così, sotto la pressione del Corpo dei Marines che avevano estremo bisogno di spostarsi con rapidità da un’isola all’altra del Pacifico, la marina USA ha deciso la trasformazione di 95 DE in APD. Le modiche sono consistite in un allargamento della tuga centrale per far posto ad un battaglione completo di Marines, alla istallazione di 4 LCVP (mezzi da sbarco) sistemati a centro nave ed asserviti da appositi paranchi ("Welin davit"), la rimozione dei tubi lancia-siluri, una radicale trasformazione della poppa con un doppio bigo di carico ed una zona adatta al trasporto di mezzi ed attrezzature. Anche del caso degli APD si parla di due "classi". La prima derivata dei Buckley (castello alto e gru a traliccio") è stata chiamata "Crosley", la seconda (castello basso e gru a palo) denominata "Crosley".
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Specifiche: |
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Lunghezza: |
309’ (piedi) |
Larghezza: |
36’ 10" |
Dislocamento: |
2043 tons a pieno carico |
Velocità Max: |
23 nodi |
Autonomia: |
5000 miglia a 15 nodi |
Armamento: |
1-5”/38 – 3-40mm twin 6-20mm single 1 oppure 2 depth charge track |
Equipaggio: |
203 Uomini |
Trasporto: |
162 Uomini (Ufficiali e truppa) + cargo |
Il modello mostrato nelle fotografie è stato integralmente auto-costruito in scala 1:72 |
ALBUM FOTOGRAFICO
webmaster: Carlo GATTI
Rapallo, 5 Gennaio 2014
GIUSEPPE FERRARI - UNA VITA DEDICATA AL MARE
GIUSEPPE FERRARI
Camogli: 1918-2011
UNA VITA DEDICATA AL MARE
Nella piccola città di Camogli, cuore della marineria VELICA italiana del passato, Giuseppe (Giò) FERRARI (nella foto) era conosciuto per essere il figlio del celebre Giò Bono FERRARI (1882-1938), fondatore del Museo Marinaro di Camogli.
Sono passati esattamente dieci anni dalla scomparsa del Comandante Giuseppe (Giò) FERRARI.
Quando lo conobbi aveva 86 anni, era il 2004 e frequentava ogni giorno la sede dell’antica Società Capitani e Macchinisti Navali di Camogli. Un vero covo di “lupi di mare” dove ogni giorno si davano appuntamento nel “quadrato Ufficiali” della sede, intorno ad un largo e pesante tavolo di legno pregiato, cui facevano da cornice decine di cimeli e quadri di velieri famosi.
In questo “liturgico cenobio marinaro” ricco di mare antico, i soci davano vita a ricordi di mare, di navi e di personaggi che solo loro avevano conosciuto sulle navi e nei porti. Storie vere di quando gli imbarchi erano infinitamente lunghi, la tecnologia era ancora sotto l’orizzonte e le guerre macchiavano i mari di rosso sangue.
Quella sede mi ricordava, nella mia fantasia, una UNIVERSITA’ del Mare, i cui docenti erano semidei sopravvissuti a tempeste, siluramenti, bombardamenti, affondamenti e pericoli di ogni genere. E pensavo tra me: quanta modestia, quanti esempi di sofferenza, quanta umiltà, quanta pace, prosperità e quanti insegnamenti ci hanno regalato questi miti uomini di mare che ci hanno preceduti! Siamo stati noi? E saranno i nostri figli e nipoti DEGNI di loro? Non ho questa sensazione! Anche perché nei Ministeri di Roma non ci sono, ormai da troppi anni, i più competenti, i più esperti di cose di mare nella nostra nazione; a nessun politico viene in mente di attingere gli uomini giusti negli ambienti giusti che per loro neppure esistono!
In quel contesto molto speciale noi, da poco “retired” dal lavoro, ci sentivamo privilegiati e quasi in colpa per essere stati soltanto sfiorati dalla guerra ed avevamo goduto dei vantaggi del RADAR, della GIROBUSSOLA e di macchine potenti e veloci che ci avevano sempre spinto fuori dall’occhio del ciclone.
Da pensionati un po’ distaccati nel tempo, Giò Ferrari ed io spesso ci appartavamo per rievocare le nostre storie private e ben presto ci sentimmo legati da quel filo d’amicizia invisibile che corre sulle onde del mare ed unisce i vivi e i morti di ogni epoca. La sua persona trasmetteva serenità e amore per tutto quanto facesse parte di quel mondo “salato” che scoprii in quei giorni quanto esso coincidesse con il mio: storia, fotografie di navi e di uomini di mare, opere di fotografi e pittori di marina anche sconosciuti, ma che coglievano l’anima di quella nave un po’ sbandata, sporca e molto stanca, ripresa in porti lontani, freddi, fumosi di carbone e di nebbie.
La sua memoria lucida e orgogliosamente “matematica” forniva dati e date che davano ai suoi racconti la cronologia necessaria per capire esattamente la storia che aveva vissuto. Ero sempre più sorpreso! Il suo cervello era un’infallibile macchina del tempo
Mi ci vollero diversi incontri, ma in seguito capii i suoi trucchi mnemonici che erano semplicemente legati all’abitudine di scrivere e descrivere i suoi imbarchi usando pochissime parole e tanti numeri: dei veri “rapporti di viaggio” che solo altri Ufficiali Superiori potevano decifrare e comprendere.
In poche parole, il Comandante, fin dall’inizio della sua lunga carriera, aveva preso l’abitudine di scrivere giornalmente una specie di “Diario Nautico personale”. Ma le parole erano sempre poche! Per lui contavano le date che scandivano la SUA NAVIGAZIONE e poi tanti numeri: nome della Nave, data, punto nave, rotte varie, miglia nautiche dalla partenza, miglia percorse nelle ultime 24 ore, velocità giornaliera, velocità generale come vedrete tra poco da alcune foto che ho scattato.
Dal primo giorno di navigazione fino all’ultimo della sua carriera sul mare… tutto risulta certificato, compreso il suo periodo come Ufficiale della Marina Militare durante la Seconda guerra mondiale quando rischiò la vita sui sommergibili.
Buona parte di questo materiale emerse, almeno per me, quando il Comandante Ferrari mi raccontò di aver fatto parte di una Avventura Postbellica in cui fu coinvolto e che io giudicai degna di essere raccontata e da lui testimoniata nei dettagli, per essere tramandata ai posteri. Si trattò di riportare alla luce alcune pagine di vera STORIA che intitolai, sotto forma d’intervista a Giò Ferrari:
LA SECONDA SPEDIZIONE DEI MILLE
UN PO’ DI STORIA…
Alla fine della guerra, gli Stati Uniti si ritrovarono con una flotta mercantile che, in tonnellaggio, era quasi sei volte maggiore dell’anteguerra. Questo, da una parte, concretizzò lo storico sorpasso tra le potenze marittime: nel 1939 la Gran Bretagna dominava lo shipping mondiale, con un terzo del tonnellaggio, ma nel ’46 gli USA ne controllavano il 46%Dall’altra, si dovette smobilitare un enorme surplus di navi ormai in disarmo e ormeggiate in rade e foci fluviali. Le più moderne Victory rimasero quasi tutte in servizio, mentre circa la metà delle Liberty venne venduta a condizioni di favore agli armatori dei paesi alleati, in base alle perdite subite e nell’ambito del piano Marshall. Il prezzo medio di ogni Liberty si aggirava sui 225.000 dollari, circa un decimo rispetto al costo di fabbricazione sostenuto pochi anni prima. Oltre cinquecento finirono nelle mani di armatori greci, prima base per la costruzione di enormi fortune personali (Aristotele Onassis, Stavros Niarchos sugli altri). 162 Liberty passarono sotto bandiera italiana, grazie agli anticipi (un quarto in contanti) e alla garanzia finanziaria (tre quarti in 20 anni al 3,5%) del governo italiano. Ribattezzate e talvolta tecnicamente modificate, navigheranno mediamente per altri vent’anni per le grandi compagnie (Achille Lauro, Costa, Ravano, Grimaldi, Bottiglieri, D’Amico ecc.) della ricostituita marina mercantile italiana.
Pubblicai quell’articolo sul sito di MARE NOSTRUM RAPALLO, ed anche in cartaceo sulla Pubblicazione Annuale della stessa Associazione. Quella rievocazione storica fu molto gradita dal Comandante Ferrari il quale, forse, si rese ancor più consapevole che la sua partecipazione alla Seconda Spedizione dei Mille contribuì alla RINASCITA DELLA FLOTTA MERCANTILE ITALIANA e alla RIPRESA dei Trasporti Commerciali Internazionali che in quel momento diedero tanta speranza al nostro popolo uscito a pezzi dalla guerra.
Passò poco tempo e fui invitato dal Comandante per un caffè nella sua villa non lontana dal glorioso Istituto Nautico di Camogli. Mi accolse con un grande album tra le mani e disse: “Ho intitolato ARTE E MARE questo album di disegni, fotografie, schizzi e foto. Io sono ormai arrivato in porto e so che consegnandolo a lei navigherà per sempre!”
Accettai commosso quell’inatteso regalo e dissi: “Comandante, lo accetto molto volentieri, lo considero con onore un passaggio di consegne e, come collezionista di foto di navi, ne ho molte di Arte e Mare, anzi, creerò un album simile a questo ma che riguarderà “soggetti” della mia generazione, e lo chiamerò ARTE E MARE – Parte seconda.
L’ALBUM che mi è stato regalato è composto di:
73 pagine
322 fotografie di dipinti e arte varia legate ad Atmosfere particolari di bordo.
HO SCELTO PER VOI ALCUNE FOTO DELL’ALBUM REGALO
ARTE E MARE
IL SEGUENTE REGISTRO E’ COMPOSTO DI 21 PAGINE. CONTIENE E CERTIFICA L’ATTIVITA’ SVOLTA DAL COMANDANTE FERRARI NELLA SUA ATTIVITA’ DI MARITTIMO.
Ho fotografato le più significative
L’EPILOGO
Riporto un contributo del Comandante Pro Schiaffino
Il giorno 29 luglio 2011 è mancato il Comandante Giuseppe (Giò) Ferrari figlio del Fondatore del Civico Museo Marinaro Giò Bono Ferrari, di anni 93, figura emblematica della Società Capitani e Macchinisti Navali di Camogli. Iniziò la Sua carriera come Ufficiale della Marina Militare Italiana imbarcato sui nostri sommergibili per tutta la durata della Guerra 1940/43.
Passò poi come Ufficiale alla nostra Marina Mercantile, raggiungendo il grado di apprezzato Comandante sempre sulle navi della Flotta Lauro. Terminò come stimato Dirigente addetto, tra l’altro, alla preparazione degli itinerari delle navi da Crociera della Lauro in tutti i mari del mondo. Pensiamo sia importante riportare le Sue “Curiosità attinenti alla nostra Professione”, da Lui preparato per il libro della nostra Società “Un secolo di Mare”. Noi tutti, uomini di Mare di Camogli ci inchiniamo commossi alla Sua Figura recitando a Suo ricordo una prece.
Pro Schiaffino
Riporto anche il seguente articolo del LEVANTE NEWS
E’ morto a Camogli il comandante Giuseppe Ferrari, aveva compiuto 93 anni il 19 luglio scorso; a dicembre avrebbe festeggiato i 70 anni di matrimonio con Ortensia Razeto (nella foto). Una storia d’amore lunghissima la loro, mai affievolita; basti pensare che ancora in questi ultimi giorni facevano tenerezza, vedendoli mano nella mano come due fidanzatini.
Per loro fu galeotta la messa di mezzanotte del Natale 1935, quando, poco più che adolescenti, si erano lanciati occhiate furtive, ma non troppo. Del resto le occasioni di incontro, all’epoca, erano spesso costituite da feste religiose. Pochi giorni dopo, il 13 gennaio 1936, si erano conosciuti e giurati eterno amore; promessa confermata il 27 dicembre 1941, giorno delle nozze nella stessa chiesa, la parrocchia di Santa Maria Assunta a Camogli, dove Cupido li aveva fatti incontrare. Subito dopo essersi detti sì, Ortensia Razeto e Giuseppe Ferrari si erano recati con i testimoni ed i parenti stretti a festeggiare l’evento con il pranzo di rito al “Pesce d’Oro” (oggi “Casmona”).
Poi il periodo più brutto: quello dall’8 settembre 1943, quando la flotta fu trasferita dal Nord al Sud per sottrarla ai tedeschi, fino all’estate del 1946. Ferrari con il suo sommergibile partì improvvisamente da Pola e non fu più in grado di dare o ricevere notizie della famiglia; né la moglie, che aveva dato alla luce il primogenito Gianni era riuscita ad avere notizie di lui vivendo giorni, settimane, mesi ed anni da incubo; il tutto ricordato in un interessante diario scritto giorno dopo giorno. Soltanto a guerra finita Giuseppe raggiunse Genova e da qui, via mare da Nervi perchè l’Aurelia e la ferrovia erano interrotte, Camogli riabbracciando finalmente la moglie.
Giuseppe Ferrari, diplomato all’Istituto Nautico di Camogli, dopo la guerra vissuta nei sommergibili, aveva fatto carriera nella flotta “Lauro” di cui era poi diventato dirigente, Era figlio di un personaggio, quel Gio Bono autore del volume “La città dei mille bianchi velieri”, ideatore del museo marinaro cittadino a lui dedicato, così come gli è stata dedicata una via cittadina. Anche il comandante Giuseppe ha scritto un libro: la sua biografia, inedita, che aveva deciso di lasciare in eredità al museo il giorno in cui, speriamo il più lontano possibile, raggiungerà il genitore. Il volume parla della sua gioventù: quando era studente; primi imbarchi su navi mercantili; l’arruolamento in Marina Militare come sommergibilista; la vita professionale e quella familiare.
I funerali di Giuseppe Ferrari si svolgeranno lunedì alle 15.30 ‘presso il Santuario del Boschetto; domenica alle 18.45 il rosario sarà recitato nell’Oratorio della Madonna Addolorata al Boschetto dove sarà allestita la camera ardente. Oltre la moglie Ortensia, lo piangono i figli Gianni e Anna.
ALCUNE NOTE SU GIO’ BONO FERRARI
Nato a Camogli (Genova) nel 1882, morto nel 1942
Giò Bono Ferrari (nella foto) è stato il punto di riferimento per almeno tre generazioni di studiosi della marineria ligure; storici che si passano tuttora il testimone nel raccontare le numerose imprese compiute dagli Armamenti camoglini, dei suoi Capitani ed equipaggi locali che solcarono a vela i “sevenseas” scrivendo la storia italiana sul mare, e non solo.
Le accuratissime ricerche effettuate da Giò Bono ci parlano ancora oggi di una vita molto laboriosa trascorsa non solo nelle biblioteche pubbliche e private di armatori e armamenti di tutta la Liguria, ma vissuta pienamente anche nella ricerca del dialogo diretto con gli attori e protagonisti della Camogli marinara e, per la verità, con studi e ricerche estese anche a Capitani ed Armenti di tutto il comprensorio rivierasco.
Carlo GATTI
A cura della Società Capitani e Macchinisti di Camogli
L'emigrazione estrema, la volontà di affermazione personale, la ricerca dell'impresa economica, i conti con la guerra, la solidità dei valori familiari, la cura degli affetti, i lutti sempre incombenti. In una sola vita, quella di Gio Bono Ferrari, il vissuto generazionale di milioni di italiani tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento. A tre anni è a Buenos Aires in Argentina con il padre emigrato e la madre, della quale resta subito orfano a causa di una terribile epidemia: il morbo nero del vaiolo. Torna in Italia dai nonni, frequenta le scuole e quando compie dodici anni attraversa di nuovo l'oceano. Solo. Feci il viaggio in 3° classe, fra i poveri emigranti che espatriavano in cerca di pane e di fortuna. Mi sentivo tanto a disagio! E so, rammento, di aver sofferto tanto! Mi trovai in mezzo al Babbo, alla mia seconda Madre. Mi fecero festa, ma io sentivo il mio piccolo cuore chiuso. Mi sembrava di essere un estraneo. Il tempo normalizza i rapporti, Gio Bono va per tre anni a scuola serale per diplomarsi contabile e lavora nel negozio del padre, fin quando questi non decide di rientrare in Italia e non gli propone di rilevare l'attività. Rifiuto. Volevo far vedere a tutti che ero buono e capace di crearmi una posizione indipendente. È il 1904. Così li lasciai partire. Stetti sul molo fino a che il vapore non si dileguò nella bruma acquosa del Rio de la Plata. Poi mi chiusi il cuore ben bene stretto nel petto e mi dissi: a lavorare. A lavorare come impiegato in una Casa di Commercio nel Chaco. In una zona rurale, ostile. Mi trovavo in un deserto. Nessuna bellezza. Nessuna comodità. Pianure sconfinate. Terre vergini ovunque. Tipi di pastori, di gauchos, di cavallari, brutti, tutti armati fino ai denti, sempre disposti a darsi delle coltellate per un qualsiasi nonnulla. Nessuna persona con la quale poter passabilmente passare quattro parole. E non un bel visino di ragazza. Gio Bono fa ricorso alla caparbietà e ai suoi 22 anni, arriva al successo nel lavoro, mentre per l'amore deve aspettare un lungo viaggio in Italia, anni dopo, durante il quale incontra la futura moglie Ninuya. Quando decide di sposarsi, lo scoppio della Prima guerra mondiale lo costringe a rinviare i suoi piani. Decide di presentarsi volontario. Bisognava prima fare il soldato, compiere il proprio dovere verso la patria. Poi, a pace avvenuta, se Iddio lo permetteva, il matrimonio. Il racconto dell'esperienza bellica è un lungo flusso di coscienza, sequenza impressionistica di ricordi e di dolore. La colonna dei richiamati in marcia per le vie di Genova. Le scene pietose: il modesto maestro di scuola accompagnato fino alla stazione dalla moglie e dai tre piccoli figliuoli piangenti. Poveri bimbi. Il rondone notturno lungo le rive del Tanaro, ove si nascondevano dei disertori, spalleggiati dai vecchi contadini. Le fucilate e gli spari contro di noi, a tradimento. La guardia ai prigionieri austriaci ammutinati. La loro disgraziata sporcizia. I racconti dello slovacco Raducovicht. La nostalgia dei suoi bimbi. I casi pietosi che si vedono al Distretto. Le mogli e le madri che si presentano con i “telespressi” chiamate dalle Direzioni degli Ospedali Militari per andare ad assistere gli ultimi momenti dei loro cari. La Madre vedova in cerca del figlio sperduto dopo la presa di Gorizia. La sposa con tre piccoli bambini in cerca del sussidio. Il calcio di un cavallo lo manda all'ospedale con le costole in frantumi, ma Giò Bono riesce a vedere la fine del conflitto, a gioire per la nascita di due figli e a piangere per la scomparsa prematura di altri due. Fino alla morte lavora come perito nel settore agricolo e si dedica alla scrittura di libri, di successo, di storia marinara.
CARLO GATTI
Rapallo, Sabato 21 Agosto
NAVE CIVETTA "OTTAVIA" - CESARE ROSASCO, UN EROE DA RICORDARE
NAVE CIVETTA “OTTAVIA”
di Ernani ANDREATTA
UN VELIERO DEI GOTUZZO IMPIEGATO COME
“NAVE CIVETTA”
DURANTE L’ULTIMA GUERRA MONDIALE
1921 – Varo dell’OTTAVIA
Sopra: il brigantino goletta OTTAVIA varato il 2 Aprile 1921. Da sinistra si riconoscono Colomba, Adele e Giuseppina (detta “Zia Pippa”) Gotuzzo, il Parroco di Bacezza Don Pace e, sulla destra ben visibile grazie al colletto bianco, Eugenio “Mario” Gotuzzo.
La folla sull’OTTAVIA poco prima del varo. L’armatore di Viareggio Luigi Guido Tomei l’aveva voluta con lo scafo foderato in metallo giallo. Nel 1936 fu installato un motore ausiliario, ed il 24 Giugno del ’40 venne requisito dalla Regia Marina che lo adibì alla vigilanza foranea con la sigla V4 e quindi alla caccia antisommergibile con la sigla AS91. Dalle 15 alle 16 del 5 Marzo ’42, uscito da Cefalonia, ingaggiò battaglia con un sommergibile nemico: ripetutamente colpito affondò ad 1 miglio da Ortholinthia.
L’OTTAVIA stazzava 259 tonn. Ed era stato ordinato dall’armatore G. Partiti. Qui è ritratto di prora, mentre alla sua destra sta nascendo un altro veliero: si tratta con tutta probabilità del FIDENTE.
L’Ottavia era in principio un veliero da carico, un brigantino goletta di 259 tsl, lungo 30,7 metri, largo 8,1 e pescante 3,99. Era stato costruito nel cantiere di Eugenio Gotuzzo di Chiavari nel 1921 (il varo era avvenuto il 2 Aprile di quell’anno, il completamento prima della fine di quel mese), ed apparteneva agli armatori viareggini Luigi Tomei e Duilio e Giuseppe Partiti, che lo avevano iscritto con matricola 535 al Compartimento Marittimo di Viareggio. In precedenza, fino al 1930, era appartenuto all’armatore S. Bentivoglio D’Aragona, anch’egli viareggino. Nel 1937 l’Ottavia era stato sottoposto a lavori di rimodernamento: era stato installato a bordo un motore Humboldt-Deutztmotoren a tre cilindri da 32 HP nominali, fabbricato a Colonia, facendone un motoveliero (in grado di raggiungere una, non grande, velocità di 5,7 nodi); lo scafo, in metallo sin dal varo, era inoltre stato allungato a 37,7 metri ed allargato a 8,3 metri, e la stazza lorda e netta erano diventate rispettivamente di 259 tsl e 204 tsn.
L’OTTAVIA è in acqua. Notare anche qui la grande folla accorsa per assistere all’affascinante avvenimento.
Il 24 giugno 1940, due settimane dopo che l’Italia era entrato in guerra, l’OttaviaV4 nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato, facendone una vedetta foranea. In seguito la sua classificazione venne mutata: divenne cacciasommergibili, con la sigla AS 91, e fu dotato di idrofoni ed armato con cannoni da 102 mm, mitragliere contraeree da 13,2 mm e tramogge per bombe di profondità. Era un armamento ben superiore a quello, assai modesto, della maggior parte dei cacciasommergibili ausiliari della Regia Marina: l’Ottavia, infatti, non doveva essere solo un “semplice” cacciasommergibili, ma anche una «nave civetta», unità antisommergibili potentemente armata che si celava sotto l’apparente aspetto di un innocuo motoveliero. I sommergibili nemici, non volendo sprecare un siluro per un bersaglio così piccolo, ed aspettandosi una reazione scarsa od inesistenti, sarebbero emersi per attaccarlo col cannone; ed a questo punto si sarebbero trovati sotto il tiro delle armi di bordo. Cannoni e mitragliere dell’Ottavia, infatti, erano adeguatamente camuffati.
Il servizio come nave civetta ebbe inizio nel settembre 1941. Dapprima l’OttaviaCatello Amendola, stabiese. Questi scriveva orgogliosamente, in una lettera a casa: «Sono stato incaricato dal Ministero ad assumere il comando di una nave ausiliaria, e precisamente di un motoveliero da 560 tonnellate avente un equipaggio di 55 persone, e dei nuovi mezzi di caccia antisommergibile, che sono per la prima volta impiegati in tutte le Marine del mondo [in questo, bisogna dirlo, Amendola stava piuttosto esagerando, forse per impressionare i parenti]. È una specie di mezzo di ascolto con molte probabilità di successo e nessuna di salvezza. Sono contentissimo sotto tutti i punti di vista, prima perché non dipendo da nessun fesso, e poi anche per la soddisfazione personale. Le mie missioni oscillano da un minimo di 15 giorni ad un massimo di 30. La base è sempre La Spezia». Nel suo giovanile entusiasmo, Amendola aggiungeva con una certa ingenuità: «Non so ancora per il momento quando comincerò a battere il mare, però tenetelo in conto che alla prima missione, darò prova della mia abilità e quando sentirete dal bollettino che una nostra unità ha affondato un sommergibile inglese, questa unità è la mia».
Agli inizi del 1942, l’Ottavia fu trasferito in Mar Ionio. Il comandante Amendola si era improvvisamente ammalato, pertanto lo sostituì il guardiamarina milanese Giovanni Fioretti.
Alla fine, lo stratagemma della nave civetta funzionò, ma solo per la prima parte. Alle 9.15 del 5 marzo 1942, infatti, il sommergibile britannico Thorn (capitano di corvetta Robert Galliano Norfolk), che si trovava a 2,5 miglia per 205° da Capo Gherogambo, avvistò l’Ottavia che procedeva a soli tre nodi su rotta 260°, a cinque miglia per 70° dal sommergibile. La nave italiana era partita poco prima da Argostoli, sull’isola di Cefalonia, per una missione di ricerca e caccia antisommergibili: come previsto, Norfolk decise di seguirla per attaccarla in superficie col cannone, una volta che fosse stata abbastanza lontana da Argostoli (così che l’attacco non venisse notato dalla costa, giacché questo avrebbe potuto portare all’invio di rinforzi). Alle 11.15 il Thorn sentì dei suoni prodotti da un ecogoniometro su rilevamento 080°, ed alle 10.30 avvistò un cacciatorpediniere a due fumaioli che identificò come della “classe Confienza”, in posizione 38°06’ N e 20°22’ E; a mezzogiorno il nuovo arrivato virò per 120°, e poco dopo scomparve all’orizzonte. Frattanto Norfolk aveva studiato il suo bersaglio: sembrava un brigantino goletta di circa 200 tonnellate, armato con un cannone da 76 mm a prua. Procedeva verso nord.
Alle 14.54, il Thorn emerse per attaccare con il cannone in posizione 38°16’ N e 20°20’ E, da una distanza di 460 metri. Nel breve scontro a fuoco che ne seguì, però, fu il sommergibile ad avere la meglio: alle 15.05 l’Ottavia era fortemente appoppato, il suo scafo era crivellato di colpi ed aveva una grossa falla sotto la linea di galleggiamento, le vele erano tutte cadute, a poppa divampava un violento incendio che si sarebbe presto esteso al resto della nave. In tutto, il Thorn aveva sparato 65 colpi di cannone, ad alzo zero, nello spazio di undici minuti. Secondo Norfolk, il cannone “da 76 mm” a prua dell’Ottavia non fu mai utilizzato durante il combattimento, mentre una mitragliera a poppa rispose al fuoco, ma fu ridotta al silenzio dopo il terzo colpo di cannone. Il Thorn non aveva riportato alcun danno e, a quel punto, s’immerse e si allontanò per evitare il prevedibile ritorno del cacciatorpediniere avvistato in precedenza. Alle 15.35, l’Ottavia esplose ed affondò a 1,37 km per 270° da Capo Ortholiti (per altra fonte, ad un miglio da Ortholitia) ed a due miglia da Capo Athera.
Dei ventidue uomini che componevano il suo equipaggio, solo cinque furono recuperati vivi; erano tutti feriti. Venne recuperato anche un cadavere. Il comandante Fioretti fu tra i caduti; alla sua memoria venne conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare con motivazione «Comandante di unità, destinata a particolare impiego, offertosi volontariamente, pur conscio dei gravi rischi ai quali sarebbe andato incontro, dedicava la sua attività operosa e costante al raggiungimento della massima efficienza del personale e del mezzo affidatogli. Scontratosi con unità nemica, accettava con cuore impavido l’arduo ed impari combattimento, opponendo all’avversario una pronta reazione di fuoco, e scompariva in mare con la sua nave incendiata. Esempio di sereno, coraggioso comportamento di fronte al pericolo e di elevate virtù militari. Mare Ionio, 5 marzo 1942.».
È il caso di notare che le altre tre navi civetta della Regia Marina, cioè AS 92 Elena, AS 93 Ninetta ed AS 94 Ariella, tutti motovelieri trasformati come l’Ottavia, cessarono il servizio come navi civetta nell’aprile 1942, proprio il mese successivo all’affondamento dell’Ottavia: fu probabilmente la triste fine di questa nave, distrutta da un sommergibile proprio nelle circostanze in cui, in teoria, avrebbe dovuto essere lei ad affondare l’unità nemica, ad indurre a ripensare l’utilizzo di queste unità.
Interessante, a questo proposito, un documento redatto proprio da Marina Argostoli, datato 15 aprile 1942: si diceva tra l’altro che «Le unità in argomento hanno dimostrato in pratica, come del resto era prevedibile, di possedere requisiti del tutto negativi per l’impiego come navi civetta».
IL sommergibile HMS THORN che affondò l’OTTAVIA IN UNO SCONTRO A FUOCO il 5 marzo 1942.
BIBLIOGRAFIA
Le navi civetta italiane, su Betasom
Discussione sulle navi civetta italiane sul Forum Regia Marina Italiana
Pagina di Wikipedia sull’Ottavia
FINE
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CESARE ROSASCO
UN EROE DA RICORDARE
di Carlo GATTI
Ricordo personale:
Il 1° giugno 1975, il comandante Cesare Rosasco presenziò come 'ospite d’onore' alla cerimonia della mia nomina a Pilota del Porto di Genova.
Ci trovavamo nel Covo più celebre della marineria genovese: lo Yacht Club Italiano nel Porticciolo Duca degli Abruzzi. Di lui mi é rimasta impressa nella memoria la sua imponente stazza, ma soprattutto le sue parole: “Si ricordi che il pilota é il guardiano e il testimone di tutto ciò che succede in porto. Conservi questo sentimento fino all’ultimo giorno di servizio!”
QUADRO STORICO
Marina Mercantile
di Achille Rastelli
Le principali cause di affondamento delle navi rimaste fuori del Mediterraneo. Le Nuove Motonavi Prede di guerra. Navi catturate dai tedeschi.
II 10 giugno 1940 l'Italia entrò in guerra, e i marinai delle navi mercantili rimaste fuori del Mediterraneo furono fra i primi italiani a subirne le conseguenze. Per quanto riguarda la Marina da traffico, avvenne poi un altro fatto importante: la quasi totalità delle navi, pur restando formalmente di proprietà degli armatori, venne gestita dallo Stato, o con requisizioni per scopi di guerra veri e propri (navi scorta, vedette, dragamine, ecc.), o con noleggi per convogli e rifornimenti di guerra. Del resto, nella storia della nostra Nazione non ci fu mai alcuna operazione navale che non abbia avuto necessità delle navi mercantili: esigenza sempre risolta in varie forme, quali il noleggio a tempo, il noleggio a viaggio, il trasporto obbligatorio, la requisizione o la requisizione con acquisto.
La guerra navale dell'ultimo conflitto fu, per l'Italia, essenzialmente una guerra di convogli, necessari per rifornire le truppe combattenti in Africa e nei Balcani, per mantenere i collegamenti con le isole e per assicurare il traffico costiero. Anche le operazioni maggiori della Squadra da Battaglia furono eseguite per proteggere convogli nostri o per attaccare quelli del nemico per Malta, continua spina nel fianco per tutta la durata della guerra.
La conseguenza di questo tipo di guerra fu che, insieme alle navi da guerra, un enorme sacrificio fu pagato dalla Marina mercantile italiana, sia in vite umane sia in materiali; e le cifre sono eloquenti.
Al giugno 1940, la flotta mercantile italiana era composta di 786 navi superiori alle 500 tsl, per un totale di 3. 318. 129 tsl, e di circa 200 navi fra le 100 e le 500 tsl. Ben 212 navi, per 1. 216. 637 tsl, rimasero fuori dal Mediterraneo all'inizio del conflitto, e vennero, di conseguenza, quasi tutte catturate o affondate dal nemico. Fra il 10 giugno 1940 e 1'8 settembre 1943 entrarono in servizio, fra nuove costruzioni e catturate, 204 navi, per 818.619 tsl; ma 460 navi, per 1. 700.096 tsl, andarono perdute.
All'8 settembre, erano in servizio 324 navi, per 1. 247. 092 tsl, che, in seguito ai fatti armistiziali, vennero per la maggior parte catturate dai tedeschi (e poi affondate), oppure autoaffondate per sfuggire alla cattura. Alla fine, nel maggio 1945, le navi mercantili italiane superiori alle 500 tsl erano solo 95, per 336.810 tsl, il 10% di quelle esistenti all'inizio del conflitto.
Andò perduto un patrimonio immenso, non solo per quantità, ma anche per qualità: parecchie navi erano nuove e ottime unità, migliaia di bravi marinai scomparvero in mare: 3.100 marittimi caddero su navi mercantili iscritte nel naviglio ausiliario, 3.257 perirono tra gli equipaggi di navi requisite e non requisite, 537 morirono in prigionia; in totale, 7.164 caduti su circa 25.000 naviganti inscritti nei ruoli. I porti italiani vennero distrutti, e ci vollero anni per sgombrarli dai relitti e ricostruirli; anche la navigazione di cabotaggio, assai fiorente, dovette ripartire da zero.
Nonostante ciò, è giusto ricordare che le navi mercantili in guerra svolsero il loro compito in maniera esemplare, portando a destinazione quasi tutti i carichi bellici imbarcati: di 4.199.375 t di merci imbarcate, solo 449.225 t non giunsero a destinazione e cioè il 10,5%. I soldati imbarcati furono 1.266.172, e di questi ne scomparvero in mare 23.443, cioè il 2%: tanti, però numericamente pochi rispetto allo sforzo compiuto. Alla luce di queste cifre, si può dire che fu ben meritata la Medaglia d'Oro al Valore Militare assegnata alla bandiera della Marina mercantile, concessa l'11 aprile 1951 con decreto del Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi.
La Medaglia venne consegnata il 16 settembre 1951 a Genova dallo stesso Luigi Einaudi: in porto si trovavano, per rendere omaggio, le motonavi Saturnia, Conte Grande e Italia, l'incrociatore Giuseppe Garibaldi e le corvette Ibis e Chimera. La bandiera, portata dalla Medaglia d'Oro, capitano di lungo corso Cesare Rosasco, venne decorata dal Presidente della Repubblica, quale solenne atto di riconoscimento della Nazione al valore e al sacrificio dei marinai delle navi mercantili.
Ministero della Difesa
Marina Militare Italiana
CESARE ROSASCO
Capitano di Lungo Corso
Cesare ROSASCO
Medaglia d'oro al Valor Militare
Comandante di un piccolo piroscafo, attaccato da sommergibile immerso, evitati con la manovra due siluri, con pronta ed accorta decisione immediatamente predisponeva per il combattimento la propria nave, armata con un cannone di piccolissimo calibro, cosicché, appena il sommergibile molto più potentemente armato emergeva, il piroscafo apriva il fuoco a breve distanza. Colpita la sua nave da numerose cannonate, sotto incessanti raffiche di mitragliera, caduti ai suoi piedi il timoniere e la vedetta, rimasto solo sul ponte di comando, non potendo governare dalla plancia, per sopravvenuta avaria alla trasmissione, benché gravemente ferito ad una gamba, scendeva nel locale sottostante e manovrava direttamente la macchina del timone. Saldo nel proposito di salvare, oltre l'equipaggio, anche la nave, rinunciava a portarla in costa. Con alta e ferma parola e con il proprio eroico contegno, incitava l'equipaggio militare e civile a continuare a distanza serrata l'impari combattimento fino a quando il sommergibile, a causa di ripetuti colpi ricevuti, non desistette dalla lotta. Stremate di forze, ma sorretto da ferrea volontà, portava in salvamento la sua nave crivellata dai colpi, con i suoi morti, con i suoi feriti, fulgido esempio delle più elette virtù marinare e guerriere. Mediterraneo Occidentale, aprile 1943
Cesare Rosasco nacque a Genova il 22 gennaio 1892. Conseguito il diploma di Capitano Marittimo nel 1910 iniziò la sua lunga carriera sul mare imbarcando, come mozzo, su un mercantile e percorrendo poi tutti i gradi della sua brillante carriera, che lo vide comandante di unità passeggeri di grande tonnellaggio. Assolse l'obbligo di leva nella Regia Marina, dall'ottobre 1912 all'ottobre dell'anno successivo, e venne posto in congedo nel grado di Sottocapo Timoniere. Partecipo al primo conflitto mondiale stando imbarcato su unità mercantili requisite ed armate, meritandosi una Croce di Guerra al V.M.: al termine dei conflitto prestò continuativamente servizio su unità mercantile della Societa Nazionale di Navigazione, prima nell'incarico di 1° Ufficiale e poi di Comandante. Nel secondo conflitto mondiale, nuovamente al comando di unità mercantili requisite ed armate, si distinse particolarmente a Tobruk quando, al comando del piroscafo Ezilda Crocecarico di munizioni, riuscì a spegnere un grosso incendio provocato da spezzoni incendiari lanciati dal nemico e a porre in salvo l'unità con il suo prezioso carico. Nel giugno 1942, al comando ora del piroscafo armato Mauro Croce, di 600 tsl, in navigazione da Genova e diretto ad un porto spagnolo, venne fatto oggetto da un attacco da parte di sommergibile inglese che danneggiò gravemente l'unità. Benché ferito si portò personalmente al pezzo a riuscì ad avere ragione dell'avversario, che si allontanò con avarie a bordo. Riusciva poi a porre in salvo la sua nave, dirigendo sul porto spagnolo di Sagunto. Dal 1945 al 1957 ebbe la carica di Capo Pilota del Porto di Genova. Nel 1947 assunse la Presidenza della Federazione Italiana dei Piloti dei Porti. Fu anche Presidente della Società di Navigazione Cristoforo Colombo.
Il Comandante Cesare Rosasco è morto a Roma il 19 febbraio 1977.
Altre decorazioni:
Croce di Guerra al Valore Militare(Mediterraneo occidentale, 1917).
Autore: Walter Molino Argomento: II° Guerra
Mondiale Soggetto: Marina Luoghi: Mediterraneo
Didascalia: Eroici marinai d'Italia. - Cesare Rosasco, genovese, comandante di una piccola nave mercantile attaccata da un sommergibile, evita due siluri. Colpito il timoniere, lo sostituisce e, col cannoncino di bordo, lotta contro il nemico più armato e riesce a metterlo in fuga. E' stato decorato con medaglia d'oro.
Capitani Coraggiosi di Franco Maria Puddu
Diversa è invece la vicenda del capitano Cesare Rosasco. Un po’ misteriosa perché in guerra è buona norma non parlare troppo (il nemico ascolta), e anche dopo la fine del conflitto è sempre meglio essere parchi di parole, specialmente se si sono verificati episodi poco gratificanti come alcuni di quelli dell’8 settembre.
Forse per questo ancora oggi la motivazione della Medaglia d’Oro concessa a Cesare Rosasco parla genericamente della sua eroica resistenza all’attacco di un sommergibile nemico, senza spiegare che lui era stato una delle preziose pedine della catena logistica che aveva consentito agli operatori subacquei della X MAS di violare la base britannica di Gibilterra. Vediamo come.
Sin dall’inizio del conflitto la Marina aveva predisposto che l’Olterra, un mercantile incagliatosi nella baia di Algesiras per non cadere in mano inglese, in territorio spagnolo ma ad un tiro di schioppo da Gibilterra, divenisse una piccola base segreta dove gli incursori della X MAS approntavano i Siluri a Lenta Corsa, i “maiali”, all’interno dello scafo, per poi uscirne nottetempo e attacca- re le navi nemiche ormeggiate in rada.
Questa strana base era stata realizzata con cautela e rifornita di uomini e mezzi tramite alcuni mercantili. Uno di questi era il Mauro Croce, un piro-scafetto da 600 tonnellate armato di un asmatico cannoncino da 55 mm, comandato da Cesare Rosasco, un ligure sulla cinquantina che spesso, venendo dall’Italia, era costretto a sostare nei porti spagnoli per denunciare alle locali autorità la scomparsa di qualche marinaio: la guerra è brutta, la Spagna era un Paese compiacente e i marittimi dell’equipaggio, tutti civili militarizzati, quando potevano, disertavano.
Questi finti disertori, in realtà, erano incursori di Marina che, entrati clandestinamente nella neutrale Spagna, proseguivano poi verso Algesiras, dove il Mauro Croce avrebbe sbarcato, giorni dopo, là o in porti vicini, carichi “di ferramenta e carpenteria” che alcuni emissari avrebbero provveduto ad inoltrare all’Olterra: erano i componenti per realizzare maiali, mignatte e bauletti esplosivi.
Il 23 aprile del 1942, nelle acque di Valencia, il sommergibile inglese Olympus attacca il Croce lanciandogli contro due siluri; Rosasco li schiva e il battello emerge per attaccare in superficie. Il piroscafo si difende con il suo cannoncino, ma le artiglierie del battello lo soverchiano, colpendolo ripetutamente.
Il ponte di comando è un mattatoio, ma il comandante, gravemente ferito, si fa portare al timone a mano per governare la nave; a questo punto viene colpito anche l’Olympus, dove le munizioni del cannone esplodono ferendo 20 marinai e permettendo così a Rosasco di portare la sua malconcia nave, con il prezioso carico, nel porto di Sagunto, dove sarà soccorsa.
Nel riquadro il Capitano di L. C. Cesare Rosasco, decorato di Medaglia d'Oro al V. M., per aver affondato a colpi di cannone un sommergibile inglese che aveva attaccato in superficie la sua unità mercantile navigante senza scorta.
Il Corpo Piloti di Genova
Testo del Comandante Sergio Nesi
Il Corpo Piloti del porto di Genova è stato istituito duecentodue anni or sono con un decreto di Napoleone Buonaparte con il compito di assistenza a tutto quanto riguarda la vita di un grande porto, dall'assistenza a tutte le navi in partenza e all'attracco alle banchine, all'assistenza al naviglio in difficoltà entro e fuori dal bacino per incendi o per grandi mareggiate ecc.
Questo comporta una grande preparazione tecnica da parte dei piloti, che in due secoli hanno dovuto modificare i metodi di intervento, con il passaggio dalla vela al motore, con l'adozione di nuove pilotine sempre aggiornate ai tempi. Pur essendo un Corpo civile, anche in tempo di guerra i piloti del porto di Genova hanno operato come protagonisti di eventi bellici, ottenendo, oltre a prestigiosi riconoscimenti al Valor di Marina, anche due Medaglie d'Oro (Com.te. Cesare Rosasco – Com.te Emilio Legnani) e una Medaglia di Bronzo (Com.te Alberto Bencini) al Valor Militare. Non posso non ricordare su questo foglio della X Flottiglia MAS la prestigiosa figura del Capitano L.c. Cesare Rosasco, che, pure ignorato dalla Storia ufficiale dei Mezzi d'Assalto, ne fa parte a pieno titolo, in quanto, posto al comando del piroscafo armato Mauro Croce per trasportare ad Algeçiras i pezzi costituenti i 'maiali' che dall'Olterra avrebbero attaccato Gibilterra. Il 23 aprile 1942, navigando nelle acque di Valençia, Il Mauro Croce fu attaccato da un sommergibile inglese che gli lanciò contro due siluri. Rosasco riuscì a schivarli. Il sommergibile allora emerse per attaccare il piroscafo con il cannone, riuscendo a colpirlo anche con le mitragliere uccidendo tre membri dell'equipaggio e ferendone undici, tra cui il comandante che subì una grave lesione ad una gamba. Ma a quel fuoco nemico Rosasco fece rispondere con l'unico cannoncino da 55 mm. in dotazione, colpendo a sua volta la torretta del sommergibile e la riservetta delle munizioni, che esplose causando gravi danni e venti feriti, come confermato da un bollettino inglese.
Il comandate Rosasco riuscì a fare raggiungere il porto di Sagunto alla nave con tutto il suo prezioso carico, dove fu ricoverato per trentadue giorni. La sua Medaglia d'oro dovrebbe uscire quindi dal suo anonimato ed entrare a far parte della Storia della X Flottiglia MAS e il Comandante Rosasco è il perfetto Trait d'Union tra i Piloti del Porto di Genova e i Mezzi d'Assalto.
Carlo GATTI
Rapallo, 26 Novembre 2012
§§§§
Definizione di NAVE CIVETTA (TRECCANI): Questo nome comprende tutto il naviglio subacqueo militare e mercantile, cioè: sottomarini, pescherecci d'alto mare (trawler) e il rimorchiatore d'alto mare (drifter), adattati allo scopo; la civetta, nave da commercio camuffata e armata.
Un esempio di arma insidiosa
Anche la Royal Navy usò moltissimi Armed Trawlers (motopeschereccio armato) durante la II GM, la gran parte requisiti per fini bellici e riadattati ad uso antisom. E’ inutile domandarsi se il tipo "non classificato" (come il Lord Nuffield che causò la perdita del nostro smg Angelo Emo il 10 novembre 1942, potesse montare oltre il cannone Bofors da 40mm, un paio di mitragliere da 20 mm, i lancia bombe di profondità e pure l'ASDIC – SONAR, termine che nasce come acronimo dell'espressione inglese sound navigation and ranging, è una tecnica che utilizza la propagazione del suonosonar attivi e sonar passivi… sott'acqua per la navigazione, comunicazione o per rilevare la presenza e la posizione di navi o sottomarini. Si distinguono, ancora oggi, le unità navali militari in servizio sono riassumibili in tre categorie:
- unità di superficie: portaerei, incrociatori, cacciatorpediniere, fregate, fregate, corvette, pattugliatori, pattugliatori, cacciamine, navi anfibi.
- unità subacquee: SSBN, SSGN,SSN,SSK.
. unità ausiliarie e di supporto: navi per rifornimento, navi logistiche, navi idrografiche e oceanografiche, rimorchiatori, navi spia, navi-civetta, navi scuola, navi ospedale, ect..
La nave spia è una nave per la raccolta d'informazioni e, dalla seconda metà del XX secolo, la sorveglianza elettronica. Quelle dedicate specificatamente alla sorveglianza elettronica sono anche note con la sigla AGI, Auxiliary Gathering Intelligence. Tra esse troviamo navi di piccole dimensioni, di norma pescherecci, le cui funzionalità sono più o meno nascoste, anche se spesso sono dotate di antenne ESM ed ELINT di dimensioni inoccultabili, o navi di grosso tonnellaggio con parabole visibili o poste sotto cupole protettive di diversi metri di diametro.
Seguono i LINK di ALCUNI APPROFONDIMENTI sull’argomento
Sprecare un siluro per un veliero
di Bruno MALATESTA
NAVI – CIVETTE
http://www.betasom.it/forum/index.php?/topic/47468-navi-civette/
LOTTA ANTISOMMERGIBILE
https://it.wikipedia.org/wiki/Lotta_antisommergibile
Rapallo, 18 maggio 2021
LE CAMPANE DI PASQUA
LE CAMPANE DI PASQUA
Povirazio, un vecchio marittimo, uno dei tanti che si incontrano negli ospedali:
vicenda che non fa notizia ma che rallegra il cuore, come il canto di un usignolo ci ricorda che è primavera, anche nlele giornate umide.
Sia nei grandi che nei piccoli ospedali ci sono tensioni create dall’ambizione e dall’invidia come in tutti i posti di lavoro del mondo, perché la gente è la stessa dappertutto.
Lavoravo dunque a quei tempi in un posto dove avevo trovato tensioni emotive molto forti, condite di ingiustizie, e a volte, purtroppo, di supponenza.
Era un triste periodo di lavoro, per me, quello.
Suonò il telefono che ero appena entrato in Reparto, alle 7.30 del mattino. Una voce dal tono irritato:
«Pronto, sono Mieli: quando ci venite a rivedere quel malato?»
La dottoressa Mieli, di uno dei Reparto Medicina.
«Ciao, Mieli. Quale malato?»
«Quello dell’ernia strozzata, Povirazio. Siete già venuti a vederlo nei giorni scorsi … »
«Non ne so nulla. Sabato e domenica non ero di turno … »
«Anche prima! Sono un po’ di giorni che ve lo palleggiate. Quand’è che ve lo prendete?»
Caddi dalle nuvole:
«Un’ernia strozzata?»
«Eh! Un occluso, che sta sempre peggio!»
Sgranai gli occhi:
«E perché l’avete voi, se è occluso?»
Lei ringhiò quasi:
«E’ quello che ti chiedo! E’ un malato vostro, o no? Vi abbiamo già mandato una pila di richieste di consulenza!»
Mi guardai intorno: in quel momento non c’era nessun altro in Reparto.
«O.K., vengo a vederlo. Ciao, Antonella»
Nel Reparto Medicina la mattinata era appena all’inizio. La Mieli mi aspettava sulla porta.
«Ciao» disse «Grazie, che sei venuto subito … Ti accompagno. Il malato è da questa parte!»
Povirazio Cristiano mi parve subito un Povero Cristo. Un vecchio dagli occhi vispi, tanto piccino che quasi spariva nel letto.
Era senza denti, con un solo canino che gli spuntava dalla mandibola. Per la lassità dei legamenti la mandibola sporgeva oltre il labbro superiore, sicché quel canino usciva fuori minaccioso e gli dava un’aria da narvalo, o da orco dei fumetti.
Il sondino naso gastrico era pieno di contenuto spesso e la pancia enorme contrastava con la pochezza del resto.
«Signor Povirazio, questo è il chirurgo» disse la Mieli «E’ venuto a vederla. Gli racconti cosa sente!»
«Tengo male di pancia, sempre più forte» esordì il poveraccio «che non ce la faccio più …»
«Il male è aumentato tra sabato e domenica, signor Povirazio?» dissi io.
Lui scosse la mano destra avanti e indietro:
«Tanto, dottò, che non lo sopporto più»
«Mi faccia vedere la pancia, prego!»
Appena misi gli occhi sull’inguine destro mi scappò fuori un moccolo:
«Bellìn»
«Eh! Hai visto?» disse la Antonella.
Un’ernia maligna non ridotta, che portava i segni di ecchimosi generate dai precedenti tentativi dei ditoni che volevano ridurla.
«Com’è possibile» sussurrai «che l’abbiano lasciato lì, Antonella?»
Lei si strinse nelle spalle e scosse il capo
«Ha un’ernia strozzata!» sussurrai guardandola negli occhi «perché è qui?»
«Cosa ne so io? Non sono mica un chirurgo!»
«Quelli che l’hanno visto nei giorni scorsi non l’hanno trasferito?»
«Macché, è lì tale e quale, da quando è arrivato!»
«Perché non l’hanno preso?»
«E’ un ex navigante, fumatore, bevitore… bronchite cronica, diabete, cardiopatia. E’ un ASA II-III»
Voleva dire che il vecchio marittimo era tutto scassato, e che operarlo sarebbe stato un grosso rischio. Perciò chi l’aveva visto in precedenza si era limitato a pestare sul sacco nel tentativo di ridurre l’ansa bloccata, tanto da fargli venire la pelle viola!
E’ imbarazzante da dire, ma ogni tanto si attivano queste dinamiche, nei grossi ospedali: se un malato viene etichettato come fonte di possibili rivalse, a volte si innesca l’effetto dello scaricabarile (o del cerino corto).
E il cerino corto in quel caso l’avevo appena pescato io!
Ignaro, ma non stupido, Povirazio Cristiano, ex marittimo da carretta, stava lì con sondino e il dente unico a guardarmi. La pancia da batrace gli limitava ancor più il respiro, e il sacco dell’ernia gli prorompeva all’inguine, come uno zaino pieno di budella.
Budella atoniche, che toccando la pancia guazzavano come l’acqua dentro una camera d’aria gonfia!
L’occhio che mi guardava però era quello di un navigante che vede lontano: un misto di senso pratico e umiltà.
«Uhm…» dissi.
«Prenditelo» implorò speranzosa l’Antonella.
«Dottò, proprio non si può fare nulla?» chiese il Povirazio.
Sbuffava e ansimava, coi suoi pochi polmoni. Il sondino lo inchiodava al letto, ma riuscì a stupirmi:
«Dottò, operatemi. Toglietemi questo dolore. Guardate: non m’importa di morire, a mia, ma toglietemi il male. Non ce la faccio più!»
Polvirazio sognava la sua nave sospesa…
Era coraggioso, il tipo, come tutti quelli che hanno navigato il mare.
Il sondino che lo inchiodava al letto e le ecchimosi che aveva sulla pancia mi ricordarono altri chiodi e altri lividi occorsi a un povero Cristo di duemila anni prima. Così rammentai che eravamo all’inizio della Settimana Santa.
«Dottò, levatemi ‘sto male, Per carità!»
«I parenti cosa dicono?» chiesi sottovoce all’Antonella.
«Ti faccio parlare con loro appena andiamo di là»
«Ma quali parenti!» insorse Povirazio «Ve lo chiedo io: operatemi, dottò! Non è bastante?»
«Silenzio, Povirazio» lo zittì la Mieli «lasciaci parlare fra noi!»
«E’ mai possibile, Antonella» sussurrai «che oggi, qui, succedano ‘ste cose?»
«Altroché se è possibile! Allora lo prendi?» chiese, speranzosa.
«Per forza, è da operare!»
Lei sgranò gli occhi:
«Lo vuoi operare?»
«Secondo te come si può uscire da questa situazione? Lo guardiamo morire tastandogli la panza?»
Lei rise:
«Secondo me sei matto»
Aveva ragione, pensai, un po’ triste. Però dissi:
«Se fosse tuo padre?»
La frase era retorica, ma pur sempre inequivocabile, difatti la Anto annuì:
«Capisco. L’hai già detto in Sala?»
«Vado ora a dirglielo: si scatenerà il putiferio!»
Me l’aspettavo già, il ruggito degli anestesisti e l’ululato del Personale, ma per fortuna di turno di urgenza c’era il mio vecchio amico Gian-il-Burbero.
Fece ricorso a tutte le invettive, prese a calci gli armadietti, lanciò gli zoccoli, ma alla fine si calmò.
«Va bene, però gli faccio solo una spinale, eh? Se lo intubo, lo ammazzo!»
«Meglio che niente, Gian … »
«Se c’è un’ansa necrotica dovrai fargli la resezione da sveglio!» affermò con una certa perfidia.
Sudai freddo: pensavo alle condizioni di quell’ansa, dopo tutti quei giorni di strozzamento, e alle ditate che l’avevano percossa nei tentativi di riduzione.
Finsi indifferenza:
«Sta bene, facciamo come hai detto tu, Gian: una spinale e basta!»
«Hai già parlato coi parenti? Gli hai detto che può morire sotto i ferri?»
Annuii. I parenti avevano boccheggiato nella disperazione.
“Il rischio è molto grande” avevo detto “Le sue condizioni sono pessime”.
Quando lo portarono sul tavolo operatorio era più di là che di qua.
L’ernia era enorme, ma soprattutto l’ansa intestinale che c’era dentro sembrava proprio sul punto di scoppiare. Era nera e puzzava di morto, e quando la liberai dal cingolo strozzante non cambiò colore. Restò immobile, come un lombrico schiacciato.
«Datemi garze imbevute di fisiologica tiepida, scaldiamola un po’» dissi.
«Acqua calda» disse la ferrista
Non pareva esserci nulla da fare. Nulla si muoveva.
«Bisogna resecare l’ansa» dissi, e Gian si agitò sul suo sgabello.
«Ti ho detto che non lo posso intubare. Se lo faccio muore di sicuro al risveglio»
«Beh, così non lo posso lasciare. Se l’ansa non si riprende nei prossimi minuti, dovrò farlo»
Mentre lui si accingeva a preparare l’intubazione smoccolando, però, scorsi un barlume di miglioramento nel colore dell’intestino, che da nero era diventata viola.
«Aspetta un momento … il colore sta cambiando» dissi.
«Fa vedere …» disse Gian.
Nei dieci minuti successivi la situazione non cambiò di molto, ma facendo il calcolo mentale delle probabilità, mi convinsi che gliene restavano di più se l’avessi lasciata che se l’avessi resecata.
Dopo altri cinque di pazienza, la situazione pareva stabilizzata.
«La lasciamo stare» dissi. Gian e gli altri sospirarono di sollievo.
«Dai, chiudila lì e andiamocene a casa!» disse il mio amico.
I budelli scappavano fuori dalla breccia del sacco come serpi gonfie, ma riuscii lo stesso a fare una plastica e a riparare l’immane buco con una protesi a rete.
Appena finito lo trasferimmo in Rianimazione:
«Sei d’accordo per il trasferimento in Rianimo?» mi disse
«Certo» sorrisi «figurati se ti smentisco»
Tutti e due, senza dircelo, avevamo la certezza che sarebbe uscito dalla Rianimo coi piedi davanti.
Il giorno dopo passai a trovarlo. Versava in condizioni disperate ma non ancora morto. Tornai ancora per due giorni di fila, ma era sempre così.
La peristalsi non riprendeva, il ristagno aspirato dal sondino era molto abbondante e spesso.
Il venerdì partii per le ferie già programmate, verso la Toscana, e mi allontanai con un certo sottofondo di amaro nello stomaco.
Non mi levavo dalla mente la faccia del Povirazio che diceva:
“Mi operi, mi tolga questo dolore. Non ce la faccio più”
Telefonai dall’albergo, l’indomani:
«Pronto, Rianimo? Sono Lucardi. Come sta Povirazio Cristiano?»
Il collega mi snocciolò i dati degli esami, e alla fine concluse:
«Non va bene. Non ha più evacuato, e la pancia è tesissima»
Ogni volta la risposta era sempre la stessa:
«Niente evacuazioni? Neanche aria?»
«Macché, niente!»
Anche gli esami peggioravano, sicché a un certo punto mi venne paura di telefonare. La sorte di quel poveretto, mi accorsi, era diventata una parte di me, come se la sua sopravvivenza fosse legata alla difficile situazione lavorativa nella quale versavo, in quell’ospedale.
Era la notte di Pasqua, nella quale il cielo era una coperta di stelle, sulla Toscana silenziosa.
Non dormivo, perché la sorte di Povirazio mi pareva un’ingiustizia troppo ingiusta.
Morire male dopo aver lottato così! Lui ci aveva provato, pensavo: ce l’aveva messa tutta!
La sorte sua mi pareva in qualche modo quella di tutti i poveri Cristi del mondo, per i quali non c’è Resurrezione all’alba della Domenica.
Passammo la giornata di Pasqua nella piscina delle Terme, a Monsummano, patria del poeta Giusti: io quasi sempre in acqua, e quasi sempre con la testa sotto, a fare le bolle, mentre le campane suonavano la Resurrezione.
«Non ci pensare più» mi consolava mia moglie «vedrai che in qualche modo ne uscirà!»
“Già” pensai “ne uscirà coi piedi davanti”
Quella notte finalmente mi addormentai filato, e a un certo punto, sul fare dell’alba, dalle pieghe del dormiveglia scaturì un sogno.
Povirazio mi veniva incontro, in apparenza più giovane, con la dentiera rilucente, e mi ringraziava prendendomi le mani.
«Vi bacio le mani, dottò» diceva «feci una tonnellata di feci, e il male mi passò»
Felice, mi complimentavo con lui, e mi divincolavo prima che riuscisse a baciarmi le mani.
«Sta buono, Povirazio» esclamavo «Lasciami stare le mani!»
Tutto pareva reale, come se lui fosse stato veramente lì, con me.
«Vedi? » dissi «lo sapevo che non poteva finire male, dopo che sei stato così coraggioso!»
Poi gli dissi una cosa un po’ ridicola, mentre gli davo una pacca sulla spalla:
«Complimenti, Cristiano: mi hai insegnato una cosa che non sapevo ancora!»
La mattina dell’Angelo, mentre suonavano le campane, io feci colazione duro e impalato lì, come un piolo. Come i soldati Boemi e Croati della poesia di G. Giusti.
“Me lo sono sognato perché è morto, il poveraccio” pensavo.
Chiamai la Rianimo e mi rispose un’infermiera indaffarata:
«Scusi, abbiamo molto da fare. C’è stato un brutto incidente in Autostrada. Mi lasci il numero, dottore. La farò richiamare!»
Non mi telefonò nessuno, sicché mi convinsi che Povirazio fosse davvero nel mondo dei più e fosse venuto in sogno per salutarmi.
Provai a chiamare Gian, per vedere se ne sapeva qualcosa, ma mi rispose la segreteria.
«Accidenti, è vero!» esclamai «Anche Gian è in ferie. Me l’aveva pure detto!»
«Come sta, il tuo paziente?» chiese mia moglie
«E’ morto, probabilmente. Me lo anche sono sognato» risposi.
Le raccontai il sogno.
«Smetti di torturarti» disse lei « ti richiameranno presto!»
Non chiamò nessuno, e le ferie pasquali passarono molto lentamente. Ogni tanto mi consolavo dicendo che comunque nessuno avrebbe potuto fare di più. Che almeno avevo tentato!
Le solite cose, insomma.
Tornammo a casa dopo alcuni giorni e passai davanti alla porta della Rianimo senza entrare, perché avevo paura di sentirmi dire che tutto era stato inutile.
Sulla soglia della Chirurgia incontrai Ramazza, il collega che mi aveva aiutato durante l’intervento.
«Ciao Pietro»
«Ciao, Lucardi. Hai saputo che fine ha fatto Povirazio?»
«Ah, ehm… è morto, no? »
«Macché, guarda, è stato un miracolo. Stava per andarsene la notte dopo Pasqua. Ti ricordi, no, in che condizioni era? Ebbene, mi hanno raccontato che si è seduto sul letto e ha detto “Devo cacare, portatemi la padella” Ha riempito due padelle e poi voleva anche mangiare!»
Non credevo alle mie orecchie, ma mi sentivo felice …
«Possibile?» riuscii a dire infine «Dov’è, ora? »
«Da noi: è ricoverato di là, al letto 23. Sembra un altro. Da conciato com’era prima, a oggi … »
«Vado a trovarlo» dissi.
“Me lo sono sognato perché è morto, il poveraccio” pensavo.
Chiamai la Rianimo e mi rispose un’infermiera indaffarata:
«Scusi, abbiamo molto da fare. C’è stato un brutto incidente in Autostrada. Mi lasci il numero, dottore. La farò richiamare!»
Non mi telefonò nessuno, sicché mi convinsi che Povirazio fosse davvero nel mondo dei più e fosse venuto in sogno per salutarmi.
Provai a chiamare Gian, per vedere se ne sapeva qualcosa, ma mi rispose la segreteria.
Cristiano Povirazio sembrava davvero un altro, con la dentiera e la barba fatta
«Buon giorno: sono tornato oggi in Reparto e mi hanno dato la buona notizia. Ce l’ha fatta, signor Povirazio!»
«Dottore mio …» disse.
Gli vennero le lacrime agli occhi:
«Posso baciarvi le mani?»
“Uffa, con ‘ste mani!”
«No. Non esageriamo, Cristiano. Piuttosto, come si sente?»
Lui continuava a lacrimare in silenzio:
«La notte dell’Angelo ho sentito qualcuno che mi suggeriva di chiedere la padella perché dovevo andare del corpo, e così ho fatto. Io stesso non credevo che mi restava più un minuto da campare. Non potrò mai ringraziarvi abbastanza. Dottò!»
Ebbi la certezza in quel momento che Qualcuno avesse voluto insegnarci qualcosa. A me, a lui, o a tutti e due.
Carlo Lucardi
14 marzo 2021.
NAUFRAGIO SULLA SPIAGGIA DI SANTA MARGHERITA LiIGURE
NAUFRAGIO SULLA SPIAGGIA DI SANTA MARGHERITA LIGURE
9 Dicembre 1910
9 Dicembre 1910 naufragio del cutter “Angelo Padre” sulla scogliera del porto di Santa Margherita.
Il Caffaro riceve il seguente telegramma da Santa Margherita Ligure:
Stanotte il kutter « Angelo Padre » proveniente, da Isola Rossa (Corsica), carico di legna e diretto a Genova, si infranse sulla scogliera del porto. Poco dopo colava a picco. Dei 5 uomini componenti l'equipaggio, due perirono: il capitano Emilio Fanciulli, d'anni 37, ed il fratello Giovanni Battista, d'anni 35. Gli altri componenti l'equipaggio si salvarono gettandosi in mare. Alle 9 si rinvenne sulla spiaggia il cadavere del Giovanni Battista. Per tutta la giornata continuarono le ricerche per rinvenire l'altro cadavere. Verso le 11 il pretore si recò sul luogo per le constatazioni di legge. La nave apparteneva al compartimento di Civitavecchia, i marinai erano di Porto Santo Stefano, il carico era della ditta Profumo, di Genova. Tra i comproprietari della nave stessa sono il capitano ed il signor Sacco Eugenio, di Civitavecchia.
a.c. di Carlo GATTI
Rapallo, 16 Marzo 2021
Ringrazio: wwwlefotodi santa.com - renatodirodi
DAL GARUM ALLA COLATURA DI ALICI DI CETARA
DAL GARUM ALLA COLATURA DI ALICI DI CETARA
Porto di Pompei
Con il termine garum si designava quel particolare condimento ottenuto dalla macerazione e dall’auto digestione enzimatica di alcune varietà di pesci. Il sale che veniva aggiunto aveva la funzione di conservante. Le sostanze proteiche degradate dagli stessi enzimi presenti nelle interiora del pesce avevano la funzione di creare aminoacidi liberi, grassi polinsaturi e lipidi essenziali.
Nel porto di Pompei arrivavano anche mercanzie da ogni luogo del Mediterraneo Abbiamo ampie prove di questi traffici commerciali che venivano regolati dalle esigenze di mercato. Presso il Museo Archeologico di Boscoreale sono esposti alcuni esempi di anfore per il trasporto del vino, dell’olio e del garum. La differente morfologia delle anfore, i bolli di fabbrica e le iscrizioni dei contenuti ci fanno comprendere come questi prodotti tipici dell’industria locale venissero trasportati attraverso il mare anche a terre lontanissime.
Il garum di Pompei era servito sulle tavole delle ricche dimore da Leptis Magna a Sidone, da Argo a Tarros, da Gibilterra a Cipro. Un commercio fiorentissimo che connotava rotte e guidava l’economia verso prodotti tipici e oggettivamente validi.
La nostra salsa aveva probabilmente un gusto acidulo ed odoroso di mare. Un forte carattere la distingueva, soprattutto se associata a pietanze quali le cacciagione, i crostacei, ed anche le stesse zuppe di pesce. Nella lingua greca oggi alcuni tipi di pesci piccoli e saporiti e le stesse alici si definiscono con il termine “gavros” ossia ΓΑΥΡΟΣ. Possiamo pensare quindi che le stesse radici gastronomiche di questo condimento, già esistevano tra i popoli del bacino orientale del Mediterraneo. Lo stesso sale ad esempio, utilizzato come conservante naturale delle proteine era noto nel mondo egizio, dove veniva utilizzato miscelato ad altre sostanze per formare il natron.
Navigando qua e là per il WEB mi sono imbattuto, per una strana duplice coincidenza.
GARUM MARE NOSTRUM
La prima è che il Garum é una mia vecchia conoscenza di quando mi capitava di visitare i musei di archeologia marina; la seconda é Mare Nostrum, nome che conosco “abbastanza” bene…
Ho pensato quindi di passare la parola a questi nostri Amici di Viareggio che non conosco, ma che sento in qualche modo vicini ai nostri ideali. Non è quindi un caso che il nostro Presidente Agostino Lertora, oltre ad essere un provetto nuotatore e pescatore subacqueo, abbia pure una certa fama di cuoco specializzato in piatti di pesce, come gli amici di F/b ben sanno. La sua fama, per dire il vero, abbraccia anche l’arte pittorica di quel settore, come dimostra la foto che segue:
La parola agli esperti!
“Negli ultimi anni la nostra associazione, nell’ambito dei suoi progetti di ricerca e di studio , sta operando per la valorizzazione delle qualità nutraceutiche del pesce, ed in particolare del pesce azzurro, comunemente identificato con l’appellativo di “pesce povero”.
L’interesse per questa iniziativa è motivata dalla scarso gradimento che i bambini e le bambine hanno nei confronti del pesce, e della scarsa conoscenza delle sue qualità salutistiche.
Il nostro progetto sul pesce coinvolge i pescatori dei nostri mari, ed è condotto con la collaborazione di enti pubblici, fra i quali il Comune di Viareggio, dove è presente la più importante realtà di pescatori della Toscana; la Regione Toscana, che da alcuni anni sostiene progetti legati alla valorizzazione dei prodotti locali nell’ambito delle filiere corte e della ristorazione scolastica.
Nel lavoro di studio e di ricerca sulla tipicità, sulle tradizioni e sul nostro patrimonio alimentare legato al pesce, abbiamo intercettato il garum, un condimento a base di pesce azzurro, fra i più noti dell’antichità e che i romani adoravano e producevano in grandi quantità nell’area del Mediterraneo.
Dai nostri studi e ricerche abbiamo rilevato che questo condimento con molta probabilità prende il nome da un pesce “Garos”, da cui è derivato il nome “Garon“ usato dagli antichi Greci, e il nome “Garum” usato dai Romani.
A partire dal II sec. A.C. questa salsa di pesce, usata prevalentemente come condimento ebbe un successo crescente. La qualità del garum veniva indicata con lettere dipinte sulle anfore ed assicurava anche l’anno di produzione. Le migliori salse erano denominate Garum Excellens (ottenuto con alici e ventresche di tonno); Garum Flos Floris (ottenuto con sgombri, alici, sardine); Garum Flos Murae (ottenuto dalle murene). Il garum prodotto nelle colonie romane dell’Africa settentrionale, della Spagna, veniva chiamato Garum Sociorum. Una delle più importanti officine per la produzione del garum si trovava a Pompei.
Il garum veniva utilizzato sia come condimento, sia come ingrediente di cottura. Con il garum si insaporivano i funghi e le uova, mescolato all’aceto o ad altre erbe aromatiche, costituiva una salsa di condimento delle carni o del pesce alla brace.
Le sue qualità medica mentali erano altrettanto note: efficace disintossicante e antidolorifico. Le sue proprietà energetiche erano utilizzate dagli eserciti per le loro operazioni militari.
Molte sono le citazioni che si ritrovano sul garum in epoca romana, il che confermerebbe la sua larga diffusione in tutta l’area del Mediterraneo e i suoi molteplici usi in cucina e come elemento altamente energetico. Fra le citazioni più note, possiamo ricordare quelle di Apicio nel “De ReCoquinaria”; Marziale; Varrone; Plinio Il Vecchio in Naturalis Historia; Columella nel De Rustica.
Il garum resterà presente nella tradizione gastronomica alto medievale, con fabbriche di produzione a Bisanzio e nell’area adriatica, per avviarsi successivamente verso un progressivo declino. Uno dei principali ed ultimi porti di smercio di questo prodotto è stata la citta’ di Lunae (Luni) in Liguria.
Ai giorni nostri si producono alcune salse a base di pesce, con procedimenti diversi, fra le quali la colatura di Alici di Cetara.
Il progetto di recupero del garum, ed in particolare la produzione del “Garum Mare Nostrum” è iniziato tre anni fa.
Nel mese di luglio del 2011 si è realizzata una prima produzione sperimentale del garum mare nostrum. In particolare gli ingredienti usati sono stati: pesce azzurro (alici, sgombri, sardine) pescato nel Mar Tirreno; sale marino integrale; erbe aromatiche della macchia mediterranea (rosmarino, alloro, timo), seguendo alcune tecniche di produzione e conservazione da noi codificate, con riferimento alle fonti storiche”.
Noi possiamo solo aggiungere che la qualità del Garum in antichità veniva indicata con lettere dipinte sulle anfore ed assicurava anche l’anno di produzione. Nella casa di Paquius Proclus, personaggio in vista nell’ultimo periodo di Pompei, è stata trovata un’anfora contenente Garum stagionato di tre anni: ciò dimostra che questa salsa può essere conservata per lungo tempo.
Esisteva un Garum ordinario e uno di qualità, a seconda dell’utilizzo di residui di pesci di vario tipo o piccoli pezzi di pesce scelto. Il Garum migliore era il gari flos, il fiore del Garum, il più puro, il primo liquido filtrato; il Garum nigrum godeva di grande reputazione e si vendeva in vasetti.
Le migliori salse erano così denominate:
Garum Excellens, ottenuto con alici e ventresche di tonno;
Garum Flos Floris, (tipo extra) ottenuto con diverse qualità di pesci (sgombri, alici, tonni, ecc.);
Garum Flos Murae, ottenuto dalle murene.
Altri tipi di Garum si riferiscono a particolari commistioni, come l’Oxygarum, una sorta di bevanda digestiva con numerose erbe tritate, l’Hydrogarum che era lavorato con erbe aromatiche. L’Halex o Allec era il residuo del Garum, ma poteva essere fatto anche con pesci delicati; Apicio inventò un Allec da fegato di triglia (mullus) che faceva macerare nel Garum, il quale ricorda l’olio di fegato di merluzzo considerato nel passato un potente ricostituente per i bambini.
Tre anfore per il garum
Il miglior Garum veniva prodotto da una cooperativa di Cartagine, il cosidetto Garum Sociorum, che si produceva con il gusto prevalente dello sgombro. Un’anfora di sei litri di Garum Cartaginese costava allora mille sesterzi (circa mille euro attuali). Ottimi e più economici erano i tipi prodotti a Pompei, Antibes (sulla Costa Azzurra) ed in altri pochi centri del Mediterraneo.
Garum ottenuto dalla riproduzione sperimentale (GARCÍA VARGAS)
“Garum di Pompei” in fase di preparazione
Il garum, nota e famigerata salsa di pesce fermentato, era molto diffuso e apprezzato nel mondo romano; non solo infatti era un metodo, alternativo alla salagione a secco (salsamentum), di conservare il pesce, ma forniva all’alimentazione un buon apporto di sale e serviva a esaltare il sapore di quasi ogni piatto, grazie all’elevata quantità di glutammato (quello che oggi troviamo nel dado da cucina o nella salsa di soia). La lavorazione del pesce, tanto salato quanto in salse, ha origine mesopotamica ed egizia risalente al III millennio a.C., o ancor prima; essa passò poi al Vicino Oriente e fu nota fin dal VII secolo a.C. ai Greci, i quali chiamavano tarichos il pesce salato e garon la salsa, per la quale utilizzavano una specie di piccolo pesce non meglio identificato, il garos. Contemporaneamente, con le loro colonizzazioni, i Greci portarono la produzione in occidente, ma non bisogna dimenticare anche il ruolo dei Fenici, specialmente verso le coste iberiche, che non a caso in seguito saranno i maggiori e migliori produttori. Furono proprio i Fenici a dare inizio a una pesca intensiva, finalizzata alla lavorazione, in particolare nelle aree limitrofe allo stretto di Gibilterra, passaggio obbligato dei tonni nelle migrazioni fra Mediterraneo e Atlantico. Fenicio è il primo impianto di produzione noto, con vasche per la salagione, a Gadir, l’odierna Cadice, risalente al V secolo a.C. Furono, di nuovo, i Fenici a generalizzare l’uso di anfore per il trasporto di questi prodotti, rinvenute in tutto il Mediterraneo. I Romani, poi, recepirono anch’essi queste tecniche e, con l’aumento della domanda, nacque una produzione “industriale”, destinata al commercio anche a lungo raggio, tramite delle anfore specializzate. I centri produttivi romani, detti cetariae, più numerosi e grandi di quelli fenici, si concentrarono soprattutto sulle coste, sia atlantiche che mediterranee, della Baetica, nel sud dell’Hispania. Altri importanti esportatori furono le province dell’Africa settentrionale e la Sicilia, ma Plinio ricorda come centro di produzione rinomato anche Pompei. Una delle cetariae meglio note e studiate è quella di Baelo Claudia, sempre vicino a Cadice. Questi impianti producevano probabilmente tanto il garum quanto il salsamentum e sono caratterizzati da vasche per la salagione, generalmente quadrangolari, ma a volte anche circolari, come alcune di Baelo Claudia che, per le grandi dimensioni, potrebbero essere state destinate a dei cetacei.
La Colatura di Alici è il prodotto principe del borgo marinaro di Cetara, splendida cittadina dell’illustre Costiera Amalfitana. Il liquido di colore ambrato, dalle presunte origini asiatiche e ben noto successivamente agli antichi romani, si ottiene dalla lunga maturazione delle alici sotto sale.
La ricetta venne poi in qualche modo recuperata nel Medioevo da parte dei gruppi monastici presenti in Costiera Amalfitana, i quali ad agosto erano soliti conservare sotto sale le alici in botti di legno con le doghe scollate e poste in mezzo a due travi, dette mbuosti; sotto l'azione del sale, le alici perdevano liquidi che fuoriuscivano tra le fessure delle botti. Il procedimento si diffuse successivamente tra la popolazione della costa, che la perfezionò con l'utilizzo di cappucci di lana per filtrare la salamoia.
La colatura d'alici viene soprattutto utilizzata come condimento di spaghetti, ma anche per insaporire piatti a base di pesce o verdure, come ad esempio la scarola per la pizza ripiena; inoltre con verdure saltate in padella con olio, aglio e peperoncino, quali bietole, spinaci, ecc. Da alcuni è apprezzata anche come condimento per pomodori, olive, persino per panini farciti e uova cotte in vari modi.
“Un prodotto simbolo importante per il rilancio della enogastronomia – dichiara Mauro Rosati, direttore Generale Qualivita – che, data la notorietà che aveva assunto a livello nazionale ed internazionale in questi anni, ora potrà essere tutelato dalle imitazioni”.
Sicuramente abbiamo sentito parlare di Marco Gavio Apicio, un ricco romano vissuto nel I secolo d.C., e del suo “De re coquinaria”, preziosa fonte di informazionI sulle abitudini alimentari degli antichi romani.
Con le sue 478 ricette, alcune delle quali assai stravaganti, ci trasmette la cultura gastronomica del tempo, conosciuta e praticata nelle case dei ricchi, naturalmente. Singolare è la continuità che si riscontra con alcune preparazioni gastronomiche in uso ancora oggi, divenute col tempo vere prelibatezze.
Sembra infatti che Apicio, da grande buongustaio quale era, avesse trovato il modo per ottenere una pietanza simile al moderno foie gras, ingozzando le povere oche con i fichi!
Ma è il garum il vero protagonista della ricca tavola romana, una salsa ottenuta dalla fermentazione di interiora di pesce, il cui solo pensiero sicuramente ci disgusterebbe.
Sorprendentemente esiste un erede del garum nella cucina italiana: la colatura di alici.
Non si produce con interiora, ma con alici eviscerate, ma chissà se la più antica tradizione prevedesse l’uso di alici intere.
Attualmente il borgo di pescatori di Cetara, situato in costiera amalfitana, detiene il primato nella produzione della colatura di alici.
Il garum era preparato mescolando le interiora di pesce con sale e diversi tipi di spezie. Il tutto veniva fatto macerare esponendolo al sole per un paio di mesi.
Il liquido che si formava veniva filtrato, ed era la parte più preziosa, il garum appunto.
la parte solida serviva per la preparazione di un altro tipo di salsa, l’allec.
A Cetara le alici impiegate per la trasformazione sono tradizionalmente quelle pescate tra il 25 marzo, festa dell’Annunciazione, e il 22 luglio, S. Maria Maddalena.
Dopo essere state pulite (vengono rimosse testa e interiora), le alici vengono prima tenute per una giornata in grandi vasi con abbondante sale, poi poste in botticelle chiamate terzigni, a strati alternati con il sale.
CARLO GATTI
Rapallo, 28 Gennaio 2021