DA TRELO ALLE MERICHE ....

DA TRELO

(San Michele di Pagana-RAPALLO)

ALLE MERICHE


CON IL LEUDO

FELICE MANIN

A fine ‘800 RAPALLO aveva ancora il suo Cantiere Navale, la sua Scuola Nautica e, per dirla con Faber (F.De André), il suo “lungomare” non “ödoâva de bon”, ma diffondeva profumi di legno pregiato, di stoppa e di pece che stanno ai vecchi cantieri come l'odore d’incenso sta alle chiese, come il mosto sta alle cantine.

I rumori erano quelli degli operosi méistri d’àscia, câfàtti /calafati e dei bancâe/segantini che costruivano le loro creature con l’arte manuale imparata a  còrpi de casci in to cû… dai vecchi che non sapevano né leggere né scrivere, ma sapevano insegnare i segreti del mestiere con rapidi e precisi geroglifici sulla sabbia che subito cancellavano… maniman!!! *

*MANIMAN: Termine genovese intraducibile in italiano. La traduzione più corretta è “non si sa mai” anche se con una sfumatura diversa, solitamente usato in negativo per indicare una situazione con diffidenza: “maniman c’è la fregatura”, ma si può usare anche in "maniman ti sprechi".

Pochi anni dopo, allo scoccare del ‘900, iniziò il turismo internazionale e i rapallini si vendettero l’anima marinara, i ricordi dei velieri varati, delle vele e del mare, chiusero i rumorosi Cantieri Navali, imposti dalle Autorità cittadine per 'disturbi alla quiete turistica', fallirono le officine che fornivano i legni della Val d’Aveto e gli utensili: asce, pialle, seghe, verine, raspe, magli, scalpelli, attrezzature di bordo finirono nei polverosi scantinati dei vecchi cantieri oggi ristrutturati in case di lusso.

Nel sentire comune, i rapallini diventarono rapallesi per darsi una foggia dialettale meno provinciale, si vestirono alla moda e si misero al servizio dei turisti anglo americani… la storia voltò pagina.

Ma, ancón d’assæ, (ma per fortuna) c’è chi la storia la ricorda e la fa riemergere! E’ il caso di un LEUDO Nostrano, anzi più che nostrano:

 

TRELO - Notare un leudo tirato in secca a sinistra nella foto

Il leudo FELICE MANIN fu varato nel 1891 a Trelo

(S. Michele di Pagana)

RAPALLO

Nel 1981, dopo un periodo di abbandono in un cantiere a Riva Trigoso, il leudo, che all’epoca portava il nome di  “Padre Carlo”, venne acquistato da Luigi Cappellini che, stimolato da alcuni appassionati, ne iniziò il restauro.

Ripreso il nome originario di “Felice Manin”, il leudo venne varato il 3 luglio 1982. Fino dall’epoca del varo si pensò ad una iniziativa che qualificasse anche culturalmente l’operazione di recupero del leudo, e a proposito, prese corpo l’idea di inserire concretamente il leudo nell’ambito delle iniziative colombiane che dovevano concludersi nel 1992, in occasione del quinto centenario della scoperta dell’America.

Il Felice Manin, che innalzava anche la bandiera dell’UNICEF, quale messaggero di pace, partì domenica 21 ottobre 1984 dalla darsena della Fiera di Genova.

Iniziò così l’altra grande avventura che portò il Felice Manin dallo scalo di S. Michele di Pagana, dove fu varato, fino a San Salvador, dove giunse dopo 50 giorni di navigazione il 30 gennaio 1985. Dal 1987 al 2000 il Felice Manin restò nuovamente in stato di abbandono in un cantiere a Chicago.

Il 20 maggio del 2000 dopo 480 giorni dalla fondazione dell’Associazione “Salviamo il leudo Felice Manin”, il leudo viene sbarcato sulla banchina del molo Fornelli di La Spezia. Attualmente la barca si trova nel capannone “Lance e Remi” dell’Arsenale Militare di La Spezia in attesa di fondi per il restauro. Le condizioni dello scafo richiedono un urgente intervento di restauro strutturale, l’applicazione di un nuovo motore e la completa ricostruzione dell’attrezzatura velica.

LEUDI a Rapallo - fine ‘800


Le botti del Leudo vinacciere

Sul sito di Mare Nostrum Rapallo abbiamo dedicato alla storia del LEUDO un ampio saggio ed altri articoli di cui riporteremo i LINK. Dalle notizie e dai dati ottenuti risulta che, agli inizi del secolo scorso, il leudo “Felice Manin” attraversò in lungo e in largo il Mediterraneo, capitanato da Emanuele Ghio. Come mostra la foto, il FELICE MANIN era una barca a vela latina di circa sedici metri di lunghezza e con una capacità di carico di una trentina di tonnellate, condotta da capitani coraggiosi che erano anche astuti commercianti. La forma affusolata dello scafo permetteva a questa imbarcazione, in una epoca in cui i porti erano in numero esiguo, di esser calata in mare e tirata direttamente sulla spiaggia. Tanto da essere considerata “il Tir del Novecento”.

Oggi l’UNESCO ha dichiarato il leudo mezzo di valore storico e culturale.

Ora passo la parola all'amico Pietro Berti che ha profuso cospicue energie alla storia del LEUDO:

l Leudo Felice Manin fu varato nel 1891 a S. Michele di Pagana, e più precisamente in località Trelo, dallo scalo del padre del Mastro d'Ascia Attilio "Tilio" Valle. Secondo il Registro Navale del 1948 si tratta di una barca di 24,89 tonnellate di stazza lorda e 18,92 di netta, avente le seguenti dimensioni di stazza: m. 15,60 x 4,86 x 1,87.

Col Felice Manin e con le altre barche il "Cumbinemu" (soprannome da: “combiniamo affari”) trafficava in una vasta zona del Tirreno, toccando i porti di Ischia, dell'Elba, della Sicilia, della Sardegna, della Puglia ed anche dei porti francesi di Nizza e St. Raphael. Le merci trasportate di preferenza erano formaggi, vini, conserve, pesce secco e salato, legumi, lana grezza, ed anche tessuti lavorati a mano. Il Felice Manin, considerato barca solida ed ottimo veliere, fu condotto per svariati anni da Emanuele, ma l'incidente avvenuto nell'inverno del 1925-26 a Sestri Levante, segnò la sorte dell'armatore.

Dovendo ancorare a Sestri Levante, dove non aveva un ormeggio fisso, fu sistemato nel primo posto liberatosi, nei pressi del cosiddetto " Scoglio Lungo ". Avvenne che, per il montare di una burrasca il Leudo ruppe gli ormeggi e finì sugli scogli, subendo forti danni alla carena. Per recuperare i documenti e parte del carico Emanuele si tuffò parecchie volte nell'acqua gelida buscandosi una broncopolmonite che lo portò alla morte il 9 Febbraio 1926.

Il Felice Manin venne acquistato, così come si trovava, dall'armatore Rivano Giovanni Castagnola fu Giovanni del casato "Sellai". Il Castagnola impose alla barca il nuovo nome di Giovanni e Paolo e, nel 1930-31 lo iscrisse al Registro Navale Italiano. Sotto i Castagnola il nostro Leudo riprese i traffici del formaggio. Durante la Seconda Guerra Mondiale il Giovanni e Paolo fu danneggiato leggermente da una bomba. Tirato in secco nei pressi dell'officina di Stagnaro, a Riva Trigoso, sulla riva destra del torrente Petronio, fu riparato e rimesso in attività.

A parte quest'incidente il Leudo fu fortunato, perché non disponendo ancora del motore, introdotto verso il 1946, non venne mai requisito per scopi bellici. Nonostante l'applicazione del motore navigò più spesso a vela, come se il motore non esistesse poi, nel 1957, il Giovanni e Paolo fu acquistato da Carlo Schiaffino di Santa Margherita Ligure, che lo ribattezzò Padre Carlo.

Nel 1964 furono sostituiti, presso il Cantiere Canale di Lavagna, sia il timone, che il motore e l'asta del fiocco, mentre l'antenna era già stata sostituita in precedenza. Per quanto riguarda l'antenna quella vecchia s'era incrinata, quindi per rinforzarla le era stato aggiunto sul lato inferiore un prolungamento, o Lapazza.

Nel 1981 il Padre Carlo è acquistato da Luigi Cappellini che, stimolato da alcuni appassionati, ne iniziò il restauro. Il lavoro di ripristino dello scafo ha richiesto la sostituzione di diversi corsi di fasciame ed il completo ricalafataggio. Ripreso il nome originario di Felice Manin, ed assunta la nuova matricola 2 GE 4235 D, viene varato il 3 luglio 1982 alla presenza di una vasta folla di curiosi. Rinato a nuova vita il Felice Manin, che all'epoca alzava le insegne del Velamare Club di Milano, compì la prima traversata verso la Sardegna, dove partecipò alla Regata delle Barche d'Epoca a Porto Cervo, vincendo un premio quale barca più antica. In autunno il Leudo venne esposto sul piazzale antistante la Fiera di Genova, in concomitanza col Salone Nautico.

Lentamente prese corpo l'idea di inserire concretamente il Leudo nell'ambito delle iniziative Colombiane che dovevano concludersi nel 1992, in occasione del Quinto Centenario della scoperta dell'America. Nacque così l'idea di compiere la traversata dell'Atlantico sulla rotta di Cristoforo Colombo. I lavori di miglioramento della barca ebbero dunque nuovo impulso, specie per quanto riguardava la sicurezza della navigazione. Venne impiantata una nuova radio e delle più moderne apparecchiature di navigazione. Oltre a questo, in previsione di una lunga permanenza in mare, vennero sistemate a bordo delle apparecchiature frigorifere e di surgelamento, oltre ad un impianto per la desalinizzazione dell'acqua.

Dopo un primo annuncio ufficiale dell'impresa, vi fu un susseguirsi di manifestazioni preparatorie. Nei giorni 25-26-27 Agosto 1984, il Leudo partecipò come Ospite d'Onore alla seconda Regata delle Vele Latine di Stintino, in Sardegna. Immediatamente dopo mise la prora su Noli, in concomitanza con la Regata Storica dei Rioni. In questa storia, Noli assume un significato particolare, perchè fu da qui che iniziò oltre Cinquecento anni fa la grande avventura Colombiana. Colombo si imbarcò a Noli, allora Repubblica Marinara, per recarsi in Inghilterra, ma a causa di un naufragio si ritrovò in Spagna, dove in seguito si mise a cercare i finanziamenti per la sua impresa. Dopo Noli, il Leudo si trasferì a Genova, dove, attraccato alla radice di levante di Ponte dei Mille, completò i preparativi per la partenza, prevista dalla darsena del Salone Nautico.

Le tappe previste per il viaggio, Genova, Barcellona, Siviglia, Palos, Lisbona, Canarie, San Salvador, Miami, Washington e New York.

Nella realtà, per motivi tecnici, Palos e Lisbona verranno saltate. A Miami il Leudo dovrà partecipare come ospite al Miami International Boat Show, gemellato per l'occasione col Salone Nautico di Genova. Inizialmente l'equipaggio doveva essere composto da Luigi Cappellini (skipper), Lucio Napolitano, Umberto Terso, Riccardo Garampi, Roberto Barbi, Alberto Venza, Franco Bevilacqua, Armando Prisco e Alvaro Mazzanti. Purtroppo in seguito Napolitano, Barbi, Bevilacqua, Prisco e Mazzanti rinunceranno e verranno sostituiti da Franco Tornambè, Maurizio Benazzo, Mauro Albonico, Adriano Borgna e Carlo Martinoli.

La partenza del Leudo destò molto interesse ed entusiasmo, ma anche molti timori, specie tra i Rivieraschi. Qui i vecchi marinai dei Leudi affermarono che il Leudo, pur essendo una buona barca, non era adatto ad una simile traversata, avendo oltretutto la bella età di 93 anni. Nonostante questo il Felice Manin, che innalzava anche la bandiera dell'Unicef, quale messaggero di pace, partì la domenica del 21 ottobre 1984 dalla darsena della Fiera di Genova, salutato da una folla numerosa, e scortato dai rimorchiatori India e Capotesta, oltre che dallo Jawl Elpis, che fu la prima barca di Sir Francis Chichester, il noto navigatore solitario. Iniziò così la grande avventura che portò il Felice Manin dallo scalo di S. Michele di Pagana, dove fu varato, fino a San Salvador, dove giunse il 30 gennaio 1985, alle ore 17,30 italiane, dove fu accolto calorosamente dalla popolazione locale.

Il leudo FELICE MANIN sulle orme di Colombo

“Genova-San Salvador” dal 21.10.1984 al 30.1.1985

Dopo San Salvador il FELICE MANIN ha continuato a navigare nelle splendide acque Caraibiche, ed è presente anche alle Celebrazioni dell’86 a New York per il Centenario della Statua della Libertà, sfilando sul fiume Hudson insieme alla Nave Vespucci in rappresentanza dell’Italia. L’avventura successiva è risalire il San Lorenzo fino a Chicago, ma l’impresa si rivela durissima per l’approssimarsi dell’inverno con venti gelidi e bufere di neve; così raggiunta Chicago gli otto dell’equipaggio sono persuasi, sicuramente con profondo malincuore, a tornarsene in aereo, lasciando l’imbarcazione abbandonata in disarmo in un piazzale sul porto. Lì vi rimarrà fino al ’99 quando l’Autorità Portuale di Chicago ne ordina lo sgombero.

A La Spezia la notizia smuove il sentimento popolare perché la gente non vuole perdere un pezzo così caro della propria storia e cultura, in cui così bene si riconosce; il Sindaco stesso si fa promotore del comitato “Salviamo il Leudo Felice Manin - Classe 1891”, raccogliendo l’adesione pure della Marina Militare; e finalmente il 20 maggio 2000 il Leudo, gravemente danneggiato, torna alla sua terra. Adesso è ricoverato in attesa di restauro presso l’Arsenale della Marina Militare a La Spezia, è oggetto di studi e di tesi di laurea, nonché “banco di lavoro” per Allievi Maestri d’Ascia e restauratori.

Ed è una sfida avvincente… Si pensi che di Leudi Rivani di quell’epoca ne sono rimasti solo quattro! Auguriamo Buon Vento al “Felice Manin”… Sarebbe un onore e una forte emozione per chiunque impugnare la barra del timone di questa imbarcazione, che ha rappresentato e ancora rappresenta la vita e il lavoro di così tante persone di generazioni diverse!

Mi scuso per la versione ridotta del racconto!

Ringrazio Pietro Berti ed Enzo Ronci per le loro preziose testimonianze.

ALCUNI APPROFONDIMENTI di Mare Nostrum Rapallo:

LEUDO, UNA MANOVRA PARTICOLARE

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=228;leudo&catid=52;artex&Itemid=153

 

NEL MONDO DEI LEUDI (27.477 visite)

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=223;nel-mondo-dei-leudi&catid=52;artex&Itemid=153

O LEUDO di (Fiorenzo Toso)

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=593;leudo&catid=52;artex&Itemid=153

Carlo GATTI

 

Rapallo, 7 Maggio 2019


IL PORTO DI CLASSE - RAVENNA

IL PORTO DI CLASSE

RAVENNA

Ricostruzione dell’abitato di Classe (in primo piano), una delle principali città portuali dell’Adriatico e del territorio circostanze nel VI sec. Sullo sfondo la città di Ravenna.

Civitas Classis è il nome antico di CLASSE (Ravenna), un centro abitato nel comune di Ravenna. (2.000 abitanti c.ca).

Il suo toponimo deriva dal latino Classis, “FLOTTA MILITARE”. Dove oggi c'è il centro abitato, infatti, in epoca romana vi era un porto che ospitava una flotta permanente della Marina Militare dell’Impero Romano. In epoca bizantina il porto divenne la sede principale della flotta di Costantinopoli in Occidente.


Il porto di Classe. Mosaico della Basilica di Sant’Apollinare Nuovo.  (inizio del VI secolo).

Cammeo – Tiberio Claudio

 

Tiberio Claudio celebrò nella sede della flotta ravennate le sue vittorie sui Britanni, venne eretto un arco trionfale (noto come Porta Aurea) prospiciente il bacino portuale. Dall’arco, tramite il suo principale asse stradale, si accede al foro della città, in cui probabilmente si colloca l’ara della gens Iulia, di cui si conservano alcune lastre decorative.

Il porto di Classe aveva una struttura simile a quello di Miseno, (Golfo di Napoli), dove aveva sede la flotta del Mediterraneo occidentale. Le lagune di Ravenna erano separate dal mare da una moltitudine di dune costiere dove i romani progettarono un canale per mettere in comunicazione il porto con il mare.

La Fossa Augusta, congiungeva Classe con Ravenna. Prolungata verso nord, la Fossa Augusta collegava Ravenna alla laguna veneta.

Un’ampia zona da Classe ad Aquileia divenne navigabile per circa 250 km. Praticamente in bonaccia di vento e di mare.

Classe era collegata a Ravenna anche da una strada, la Via Caesaris. Costruita nel I secolo a.C., iniziava a Ravenna da Porta Cesarea e, seguendo un tratto rettilineo, attraversava Classe e terminava il suo corso nella via Popilia. (vedi carte digitali)

Lungo la Fossa Augusta c’era l’arsenale che costruì navi fino all’epoca di Teodorico. Lo sviluppo delle banchine raggiungeva i 3 chilometri e poteva ospitare fino a 250 imbarcazioni.

Purtroppo, A causa del cedimento del terreno, l’area ravennate divenne progressivamente paludosa. All'inizio del IV secolo, tale fenomeno fu così evidente che le banchine, i cantieri e le strade di accesso al porto erano diventate inservibili. Considerate queste condizioni, l’imperatore Costantino decise di trasferire la base della flotta a Bisanzio.

LA FLOTTA ed il suo organico

Il numero degli effettivi si aggirava intorno ai 10.000 tra legionari e ausiliari.

Praefectus classis Ravennatis era il comandante in capo della flotta. Sub praefectus era il subordinato del praefectus, affiancato a sua volta da una serie di praepositi.

Navarchus princeps ricopriva il grado di contrammiraglio. Nel III secolo fu poi creato il Tribunus classis con le funzioni del Navarchus princeps, più tardi tribunus liburnarum.

Il Trierarchus era il comandante di una singola imbarcazione equipaggiata da rematori e da una centuria di marinai-soldati (manipulares / milites liburnarii).

(Classiari o Classici) costituivano il personale della flotta che riusultava diviso in due reparti distinti: gli addetti alla navigazione ed i marines, si chiamerebbero oggi.

Il servizio durava 26 anni (contro i 20 dei legionari ed i 25 degli auxilia). Dal III secolo la ferma fu aumentata fino a 28 anni. Al momento del congedo (Honesta missio) ai marinai erano date: una liquidazione, dei terreni e di solito anche la cittadinanza romana, provenendo essi dalla condizione di peregrini al momento dell'arruolamento. Il matrimonio, invece, era permesso loro solo al termine del servizio attivo permanente.

Si ricordano alcuni Praefecti classis Ravennatis:

· al tempo dell'Imperatore Nerone, era Publio Clodio Quirinale.

· al tempo della guerra civile degli anni 68-69, l'imperatore Vitellio affidò il comando delle flotte Ravennatis e Misenis a Sesto Lucillo Basso.

· sotto Vespasiano, il comando passò nelle mani del sostenitore dei Flavi, Cornelio Fusco. Con i marinai della flotta Ravennatis, nel 70 d.C. fu formata una nuova legione, la II Adiutrix.

· Tito Appalio Alfino Secondo, verso la seconda parte del II secolo;

· Tito Cornasidio Sabino, tra la fine del II e la prima parte del III secolo;

· al tempo di Settimio Severo e Caracalla: Gneo Marcio Rustio Rufino


Il sito archeologico corrisponde all'area portuale dell’antica città di Classe e comprende una serie di magazzini edificati lungo le banchine di un canale, prospicienti una strada lastricata in trachiti euganee.

La storia ci racconta che Ravenna, città di mare, era stata fondata dagli etruschi-umbri. Fu colonia romana nel II secolo a.C. e destinata, per decisione finale di Augusto, ad avere, nel suo immediato ambito geografico di mare, terre, canali e fiumi: IL PORTO MILITARE PER LA FLOTTA PRETORIA. Ravenna venne quindi scelta dall’imperatore in persona come sede della seconda flotta militare, la Classis Ravennatis alla quale venne assegnato il compito strategico di controllare il Mediterraneo orientale: l’Adriatico, lo Ionio, l’Egeo.

Ravenna deve pertanto a Roma e all’Impero Romano tutta la sua importanza raggiunta (con merito) nella storia navale. La sua fedele e stabile Alleanza con Roma fu cementata dall’unione delle due FLOTTE: la classis Ravennatis e la classis di Capo Miseno sotto un unico comando, di cui ci siamo già occupati nella stessa sezione storica di questo sito: Mare Nostrum Rapallo.

L’asse strategico (Ravenna - Roma - Capo Miseno - Napoli), disegnava il dominio di tutti mari italiani fornendo una connotazione precisa ed essenziale della strategia militare su cui si era basata per secoli la storia imperiale di Roma.

Abbiamo appena accennato all’importanza militare di Ravenna, ma per comprendere interamente l’eredità del suo patrimonio, dobbiamo anche citare e aggiungere la sua immensa VICENDA ARTISTICA E CULTURALE che Roma delegò a questa città sentendosi ad essa unita da profonde connessioni storiche e relazioni geopolitiche.

L’imperatore Claudio (grande esperto di portualità) costruì la porta Aurea (arco di trionfo), ripianificò il porto, i canali e la flotta. Nel 42 d.C. Vespasiano (eletto con la flotta di Ravenna) promosse al ruolo di prefetto, simultaneamente di Ravenna e Miseno, Lucilio Basso per la conclusione della guerra giudaica trasferendolo da Roma a Miseno ed infine a Gerusalemme (70 d.C.)

L’imperatore Traiano, negli anni 110-113, costruì l’acquedotto ravennate per la flotta, le truppe classiarie e per la città servendosi ripetutamente della città e del porto di Ravenna per le spedizioni in Dacia, tuttora immortalate sulla Colonna Traiana di Roma.

A questo punto della storia Ravenna, pur restando una realtà di Roma e dell’Impero, assunse una connotazione di collegamento con l’Oriente: un blasone che prolungherà la durata dell’Impero Romano.

Di questa Ravenna “romana” rimangono otto monumenti dichiarati dall’UNESCO-patrimonio-dell’umanità:


Il mausoleo di Galla Placidia – Le basiliche di San Vitale – di S.Apollinare Nuovo e S.Apollinare in Classe - Il Battistero Ortodosso - Il Battistero degli Ariani - La Cappella arcivescovile, cioè i sette edifici di culto cattolico e ariano in cui vi sono pareti in mosaico, oltre al mausoleo di Teodorico in pietra d’Istria. Questo patrimonio ha una eccezionale unità di tempo e di luogo. (vedi sotto: Album fotografico)

La navigazione, i porti, le navi e gli equipaggi costituiscono il patrimonio culturale da cui nasce la Storia di Ravenna.

Le sue colonne, capitelli, sarcofagi, lastre e transenne provengono dalle cave del Proconneso (mar di Marmara), dalle officine di Costantinopoli e da altri siti del medio-Oriente.

Secondo lo studioso Viktor Lazarev: Ravenna trasse profitto dall’attività edilizia e dalla munificenza di Onorio, di Galla Placidia, di Valentiniano III, di Odoacre, di Teodorico e di Giustiniano. Si é conservato così un complesso, unico nel suo genere, di monumenti del V, del VI e del VII secolo, di cui non esiste l’eguale in alcun’altra città”.

Ricostruzione digitali di Ravenna Antica

Ricostruzioni 3D Ravenna Antica dal I al VI secolo

Caio Giulio Cesare Ottaviano, Augusto per volere del Senato di Roma dal 27 a.C., è considerato il primo imperatore romano, colui che segnò la storia di Roma concludendo la fase delle guerre civili e favorendo il passaggio dell'Urbe dall'era repubblicana a quella imperiale.

Ravenna da Augusto a Giustiniano: Ricostruzioni digitali per comprendere la città.

Prendiamo a prestito, a scopo divulgativo e per una maggiore comprensione storica ed architettonica di Ravenna-Classe, un corposo lavoro elaborato per la fondazione RavennAntica” e l’Accademia di Belle Arti di Ravenna: la storia delle modificazioni urbane e territoriali delle città di Ravenna e Classe dal I al VI secolo d.C. raccontate attraverso delle vedute aree di un'area di oltre 60 kmq. Il materiale è visibile presso il museo TAMO a Ravenna.

Ricostruzioni 3D Ravenna Antica dal I al VI secolo


L’età di Augusto e Claudio (I – II secolo d.C.)

Ravenna viene scelta da Ottaviano Augusto come sede della seconda flotta militare, la Classis Ravennatis. Alla flotta ravennate viene assegnato il compito di sorvegliare il Mediterraneo orientale: l’Adriatico, lo Ionio, l’Egeo.

Città federata legata a Roma da un trattato di alleanza per motivi logistico e politico, si trova a ridosso della linea di costa ed è inserita nel sistema delle lagune del delta padano. Questo la collega attraverso il Po ai principali centri della pianura padana, sino a Torino, e attraverso le lagune adriatiche sino ad Aquileia.

Per collegare il Po al bacino portuale viene strutturata la Fossa Augusta di cui parla Plinio il Vecchio, che fu prefetto della flotta di Miseno. La presenza di diecimila militari accrebbe il potenziale del territorio agricolo circostante, soprattutto le aree centuriate a sud e ovest della città, sviluppando una intensa e florida economia agraria.

Per desiderio dell’imperatore Tiberio Claudio, viene eretto un arco trionfale, meglio noto come Porta Aurea rivolto verso il bacino portuale.

La città di Ravenna, nel corso del II secolo conosce un momento di frenetica attività militare, a causa della guerra che Traiano si trova a combattere sul confine orientale dell’impero, finalizzata a contenere le spinte delle popolazioni della Pannonia e della Dacia.

Numerosi classiari, della flotta pretoria ravennate, come testimoniano i loro documenti funerari, provengono da quelle zone e hanno grande conoscenza della navigazione fluviale. Molti vengono dislocati nei territori di guerra e si rende necessario anche un distaccamento stabile di Ravennati sul mar Nero.

La costruzione dell’acquedotto, lungo il corso del Bidente-Ronco, porta finalmente l’acqua potabile a Ravenna.

 


Ravenna viene scelta da Ottaviano Augusto come sede della seconda flotta militare, la Classis Ravennatis. Alla flotta ravennate viene assegnato il compito di sorvegliare il Mediterraneo orientale: l’Adriatico, lo Ionio, l’Egeo.


Rispetto all’antico oppido di origine repubblicana la città si estende maggiormente verso oriente, al di là del Padenna, sistemato da Augusto per la navigazione interna della flotta, e verso settentrione, oltre il Flumisellum. L’incremento del sobborgo di Cesarea, che collega Ravenna a Classe, è fortemente legato alla presenza e alle attività degli impianti portuali.

La lunga epoca del ristagno

(III – IV secolo d.C.)

Il III secolo è considerato un periodo critico dal punto di vista politico ed economico. Questi fattori causano una prolungata anarchia militare, legata a devastanti invasioni di popolazioni barbariche, che si verificano soprattutto nella seconda metà del secolo.

Il governo della Tetrarchia, durante la riorganizzazione dell’impero voluta da Diocleziano, Ravenna riesce a rimanere attiva grazie al suo porto e tramite la navigazione endolagunare garantisce il collegamento commerciale con Aquileia e le regioni settentrionali, come indica l’editto sui prezzi.


La flotta è ancora al servizio imperiale anche se, una parte viene trasferita a Costantinopoli, la “nuova Roma” fondata da Costantino I nel 330.

A Ravenna, sono documentati incendi, abbattimenti e distruzioni di edifici privati urbani: un incendio devasta la domus su cui venne poi eretto il palazzo imperiale già nella seconda metà del II secolo; mentre risale all’inizio del IV secolo l’abbandono della domus d’età augustea addossata alle mura repubblicane.

L’acquedotto e le fogne sono fra i primi servizi a cadere in disuso, con forte degrado della vita urbana; anche le acque dei canali interni alla città risentono della perdita di costante controllo delle attività idriche.

Ravenna, divenuta capitale, si dovrà aspettare la fine del IV secolo perché abbia un nuovo aureo sviluppo.


Capitale dell’impero d’occidente

(V secolo d.C.)

Nel 402 d.C. Ravenna diviene capitale dell’impero romano d’occidente. Il trasferimento della corte genera investimenti e crescita, mentre tutte le altre città italiane incominciano la loro lenta, o repentina decadenza. Dal nuovo status di capitale la città riceve nuovo impulso e destina le sue energie nel definire un nuovo impianto urbanistico fondato su una grande attività edilizia pubblica, investendo sulle strutture e sulle attività portuali.


Gran parte delle attività funzionali e di governo convergono lungo l’asse costituito dalla Platea Maior, ossia il tratto urbano della via Popilia, e il corso del Padenna – Fossa Augusta, che, per il progressivo interramento dei bacini interni, avvenuto per cause naturali e per la mancata manutenzione, viene ripensata l’articolazione della città. Le strutture portuali sono gli arti di questo sistema. Il porto di nord est è la porta verso l’insicuro settentrione, mentre il porto di Classe, detiene il ruolo di scalo più importante nei rapporti con l’Oriente. Ravenna viene chiusa entro le mura. Classe assume una sua autonoma identità urbana e commerciale, anch’essa cinta dalle mura, mentre il sobborgo di Cesarea, da sempre legato al rapporto funzionale tra la città e Classe, si struttura con una propria identità funzionale e residenziale. Ravenna viene eletta capitale dell’impero romano d’occidente come roccaforte difensiva.


L’impronta di Teodorico (VI secolo d.C.)

Nel VI secolo Ravenna è capitale del regno dei Goti con Teodorico e successivamente centro dell’amministrazione bizantina in Italia. (dal 540 fino al 751) La città è ancora preziosa, per varie ragioni la sua posizione rimane strategica; i benefici apportati dalle infrastrutture realizzate nel secolo precedente sono ancora validi; è ancora attiva una tradizione militare navale di lungo corso e l’impianto della città, pensato per ruoli di grande importanza nel secolo precedente, viene consolidato con nuovo fervore costruttivo. In definitiva rimane sotto la dipendenza politica di Costantinopoli, Teodorico inquadra la propria opera edilizia nella tradizione politica romana del Principe, attraverso l’attività di restauro e di recupero. È in quest’ottica che si procede, per esempio, al restauro dell’acquedotto realizzato al tempo dell’imperatore Traiano, e di altri monumenti ed edifici romani, come la basilica di Ercole.

Se per Sidonio Apollinare nel V secolo Ravenna è una città duplice, nel VI secolo Giordane (Getica, 151) la descrive come una città tripartita, ossia composta da Ravenna, dal sobborgo di Cesarea e da Classe. Gli edifici di culto al servizio della comunità locale aumentano in un prodigio costruttivo che ne attesta la vitalità. In particolare l’evoluzione in senso urbano di Classe è compiuta, tanto da essere appellata Civitas Classis nel celeberrimo mosaico in Sant’Apollinare Nuovo.



Queste immagini digitali ci danno la possibilità di capire l’espansione di RAVENNA, di origine repubblicana, oltre le mura con domus private sempre più ricche; vennero effettuati interventi architettonici e innalzati edifici pubblici, in linea col sistema di propaganda della politica augustea. Per specifico desiderio dell’imperatore Tiberio Claudio, desideroso di celebrare nella sede della flotta ravennate le sue vittorie sui Britanni, fu eretto un arco trionfale (noto come Porta Aurea) prospiciente il bacino portuale. Dall’arco, tramite il suo principale asse stradale, si accede al foro della città, in cui probabilmente si colloca l’ara della gens Iulia, di cui si conservano alcune lastre decorative.

Anche le abitudini funerarie della popolazione si adeguarono al volere imperiale: la cremazione dei corpi sostituì quasi del tutto il rito dell’inumazione; nelle estese necropoli poste sulle dune marine, fuori dal contesto urbano, vennero innalzati importanti monumenti sepolcrali vicino a sepolture più modeste, di cui rimane il segno nelle numerose stele commemorative.

L'area portuale

Il porto di Classe era simile per conformazione a quello di Miseno, (Golfo di Napoli), dove aveva sede la flotta per il Mediterraneo occidentale, ma nel suo complesso non era del tutto naturale. Le lagune, interne rispetto alla costa, erano separate dal mare da un sistema di dune costiere. Per mettere in comunicazione il porto con il mare, i romani scavarono un canale tra le dune. Un secondo canale, la Fossa Augusta, congiungeva Classe con Ravenna. Prolungata verso nord, la Fossa Augusta collegava Ravenna alla laguna veneta.

Divenne così possibile navigare ininterrottamente da Classe ad Aquileia (circa 250 km) in acque calme e a regime costante.

Classe era collegata a Ravenna anche da una strada, la Via Caesaris. Costruita nel I secolo a.C., iniziava a Ravenna da Porta Cesarea e, seguendo un tratto rettilineo, attraversava Classe e terminava il suo corso nella via Popilia.

In città, lungo la Fossa Augusta, si trovava la fabbrica delle navi: l’arsenale. Esso fu attivo fino al tempo del re goto Teodorico. Attorno ai bacini si potevano vedere depositi a perdita d'occhio; lo sviluppo delle banchine raggiungeva i 3 chilometri e poteva ospitare fino a 250 imbarcazioni. La base militare ebbe poi alcuni distaccamenti nei principali porti del Mediterraneo, come ad esempio nel Mar Egeo, a il Pireo-Atene, o nel mare Adriatico ad Aquileia.

A causa dell’abbassamento del terreno, il territorio ravennate, divenne progressivamente paludoso. All'inizio del IV secolo, tale fenomeno fu così evidente che le banchine, i cantieri e le strade di accesso al porto erano diventate inservibili. Considerate queste condizioni, l’imperatore Costantino decise di trasferire la base della flotta a Bisanzio.

Il corpo Militare

Anche per la flotta ravennate il numero degli effettivi si aggirava intorno ai 10.000 tra legionari e ausiliari.

Il comandante della flotta era il Praefectus classis Ravennatis ovvero il comandante dell'intero bacino dell’Adfrioatico, appartenente all’Ordine Equestre. A sua volta il diretto subordinato del praefectus era un sub praefectus, a sua volta affiancato da una serie di praepositi, ufficiali posti a capo di ogni pattuglia per singola località.

Altri ufficiali erano poi il Navarchus princeps, che corrisponderebbe al grado di contrammiraglio di oggi. Nel III secolo fu poi creato il Tribunus classis con le funzioni del Navarchus princeps, più tardi tribunus liburnarum.

La singola imbarcazione era poi comandata da un trierarchus (ufficiale), dai rematori e da una centuria di marinai-combattenti (manipulares / milites liburnarii). Il personale della flotta (Classiari o Classici) era perciò diviso in due gruppi: gli addetti alla navigazione ed i soldati. Il servizio durava 26 anni (contro i 20 dei legionari ed i 25 degli auxilia). Dal III secolo la ferma fu aumentata fino a 28 anni. Al momento del congedo (Honesta misssio) ai marinai erano date: una liquidazione, dei terreni e di solito anche la cittadinanza romana, provenendo essi dalla condizione di peregrini al momento dell'arruolamento. Il matrimonio, invece, era permesso loro solo al termine del servizio attivo permanente.

Si ricordano alcuni Praefecti classis Ravennatis:

· al tempo dell'Imperatore Nerone, era Publio Clodio Quirinale.

· al tempo della guerra civile degli anni 68-69, l'imperatore Vitellio affidò il comando delle flotte Ravennatis e Misenis a Sesto Lucillo Basso.

· sotto Vespasiano, il comando passò nelle mani del sostenitore dei Flavi, Cornelio Fusco. Con i marinai della flotta Ravennatis, nel 70 d.C. fu formata una nuova legione, la II Adiutrix.

· Tito Appalio Alfino Secondo, verso la seconda parte del II secolo;

· Tito Cornasidio Sabino, tra la fine del II e la prima parte del III secolo;

· al tempo di Settimio Severo e Caracalla: Gneo Marcio Rustio Rufino

Il porto di Classe, come abbiamo visto, poteva ospitare in rada e lungo le banchine portuali fino a 250 navi da guerra. Lungo il canale artificiale e attorno ai bacini si scorgevano arsenali e depositi per molti chilometri. Il numero di militari che vivevano stabilmente a Classe era di circa 10.000. Il loro sostentamento era garantito da una azienda agricola di grandi dimensioni.

Il paese di Classe si estese attorno alle caserme dei soldati di marina (i classari), ai depositi di armi e alle officine navali.

Nel II secolo, il centro abitato divenne cittadina.

Nel III-IV secolo comparve una prima difesa, una specie di cinta muraria a forma di semicerchio attorno all'abitato.

Nel IV secolo, agli inizi, s’aggravò il fenomeno della subsidenza ed il territorio iniziò ad abbassarsi trasformandosi in palude.

In poco tempo sparirono i moli, i cantieri e le strade di accesso alle varie attività portuali che avevano dato per più di tre secoli assistenza a migliaia di navi dell’Impero Romano.

Nel 330 l'imperatore Costantino I decise di trasferire la base della flotta nella nuova capitale dell'impero, Costantinopoli.

ALBUM FOTOGRAFICO

 

Degli otto monumenti di RAVENNA dichiarati dall’UNESCO patrimonio dell’umanità

· Basilica di San Vitale

· Basilica di Sant'Apollinare Nuovo

· Basilica Sant'Apollinare in Classe

· Battistero degli Ariani

· Battistero Neoniano

· Cappella Arcivescovile

· Mausoleo di Galla Placidia

· Mausoleo di Teodorico

 

Sono otto i monumenti iscritti nella World Heritage List, la Lista del Patrimonio Mondiale, che rendono la città di Ravenna un vero e proprio scrigno di tesori da scoprire.

Per l'inestimabile valore delle testimonianze storiche e artistiche, Ravenna, città del mosaico, è stata riconosciuta Patrimonio Mondiale dall'UNESCO con queste motivazioni: "l'insieme dei monumenti religiosi paleocristiani di Ravenna è di importanza straordinaria in ragione della suprema maestria artistica dell'arte del mosaico. Essi sono inoltre la prova delle relazioni e dei contatti artistici e religiosi di un periodo importante della storia della cultura europea".

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La Basilica di San Vitale - Interni


 

^ BASILICA DI SAN VITALE ^

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Il cielo stellato di Galla Placidia


Mosaici del Mausoleo di Galla Placidia

Sant’Apollinare Nuovo - Corteo delle Vergini

 

^ MAUSOLEO DI GALLA PLACIDIA ^

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^ BASILICA DI SANT’APOLLINARE NUOVO ^

 

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Battistero Neoniano - Cupola, particolare del Battesimo


^ BATTISTERO NEONIANO ^

 

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Cappella Arcivescovile - Cristo Guerriero

 

^ CAPPELLA ARCIVESCOVILE ^

 

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Battistero degli Ariani - Particolare – Battesimo di Cristo

 

^ BATTISTERO DEGLI ARIANI ^

 

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Mausoleo di Teodorico - Interno particolare della vasca


^ MAUSOLEO DI TEODORICO ^

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Basilica di Sant’Apollinare in Classe - La croce centrale dell’abside


^ BASILICA DI SANT’APOLLINARE IN CLASSE ^

LA TOMBA DI  DANTE

Questo Mausoleo non fa parte del patriomonio dell'umanità dell'UNESCO perché si trova al di sopra di questa pur valente istituzione ...

Ravenna è  famosa anche per essere una città dantesca, e più precisamente la città che ospitò il Sommo Poeta negli ultimi anni della sua vita, celebrandone il funerale presso la chiesa di San Francesco nel 1321. Uno dei monumenti più visitati a Ravenna è infatti la Tomba di Dante, posta proprio vicino alla chiesa ed piazza San Francesco.

CARLO GATTI

Rapallo, 21 Settembre 2018

 


TRASPORTO SU CHIATTA

Fausto Mazza, autore del presente articolo, è Comandante di Cantiere e RSPP presso il cantiere navale T. Mariotti S.p.A. Dopo l'interessante pezzo sulle riparazioni navali, oggi punta i riflettori sopra un'altra realtà poco conosciuta: le chiatte.

J.G.

TRASPORTI SU CHIATTA

di Fausto Mazza

 

LE CHIATTE UN SETTORE DI NICCHIA


Le chiatte pontate sono galleggianti privi di propulsione, pressoché a forma di parallelepipede, caratterizzati da portate elevate, grande robustezza strutturale, ampie coperte libere da ingombri e pescaggio ridotto. Internamente il guscio dello scafo risulta suddiviso in compartimenti stagni, di capacità e numero adeguati ai fini della gestione dell’assetto.

Un ulteriore declinazione di questi mezzi di trasporto sono le chiatte semisommergibili. Queste sono mezzi specializzati che, mediante la gestione della zavorra, possono immergersi, appoggiandosi sul fondo e riemergere.

* La chiatte semisommergibili sono utilizzate per l’esecuzione delle seguenti operazioni: Analogamente alle chiatte normali, per il trasporto marittimo di grandi manufatti in relazione a opere in ambito civile, portuale, navale, offshore o, nell’ambito dei lavori marittimi, come piattaforme galleggianti in abbinamento all’utilizzo di mezzi di sollevamento terrestri quali gru semoventi ruotate o cingolate.

* Varo di costruzioni navali e moduli offshore mediante immersione parziale o totale della chiatta sia in acqua libera che dentro a un bacino di carenaggio.

* Presa in carico e messa a secco di unità navali o altri manufatti galleggianti in maniera del tutto analoga ad un bacino galleggiante.

La caricazione può avvenire mediante carrelli multiruota idraulici, sistemi di traslazione con verricelli, sollevamento verticale tramite gru o affondamento e successiva emersione della chiatta.

Le chiatte sono iscritte nel Registro del Naviglio Minore e dei Galleggianti e tipicamente sono prive di equipaggio imbarcato a ruolo. Non essendoci un ruolo equipaggio a bordo delle chiatte non esiste il Comandante. L’operatore incaricato della gestione della zavorra viene indicato con il termine anglosassone, mutuato dall’ off-shore, di Ballast Engineer o in maniera ancora più impropria con quello, preso a prestito dalle petroliere, di Tankista. Non esistono requisiti specifici per la qualifica di Ballast Engineer che, ai fini dell’Autorità Marittima, non esiste proprio. Il Ballast Engineer può essere un CLC (Capitano di lungo Corso)  o un CDM (Capitano di Macchina) ma può anche benissimo essere un perito industriale o un geometra o semplicemente una persona con esperienza pratica, in grado di governare il mezzo e di seguire le istruzioni per la zavorra preparate da terzi. E’ ovvio che, in relazione alle competenze specifiche, il profilo ideale per ricoprire questo ruolo sia quello del Capitano di Lungo Corso.

A seconda delle loro caratteristiche costruttive, le chiatte possono essere abilitate alla navigazione a rimorchio anche Internazionale Lunga. I trasferimenti avvengono sempre in assenza di personale a bordo; durante la navigazione le chiatte sono sotto la responsabilità del Comandante del rimorchiatore che ne effettua il trasferimento.

I sistemi di bordo di una chiatta semisommergibile non presentano aspetti tecnici di spicco. L’operazione nevralgica è sempre una sola: la movimentazione della zavorra per permettere la gestione di assetto, immersione ed emersione. Il macchinario di bordo si riduce ad un generatore che alimenta gli impianti di bordo, pompe di zavorra ove presenti, un compressore che fornisce l’aria compressa necessaria per lo spiazzamento della zavorra e per l’utilizzo del verricello salpancore.

Su una chiatta di moderna concezione troveremo un sistema di tele-livelli che consente all’operatore di conoscere la quantità d’acqua presente all’interno delle singole casse di zavorra; un sistema telecomandato di valvole di presa mare e valvole per la gestione della zavorra; un sistema di pompaggio della zavorra per mantenere l’assetto; un ulteriore sistema di spiazzamento della zavorra mediante aria compressa, utilizzato per emergere a seguito di un’immersione.

Purtroppo, molte unità ancora in servizio sono di concezione antiquata, con impiantistica ridotta al minimo, quindi caricazione e discarica della zavorra avvengono per sola gravità, nessuna possibilità di trasferire la zavorra a bordo, espulsione della zavorra mediante spiazzamento con aria compressa e nessuna indicazione remota dei livelli delle casse.

Le sistemazioni di ormeggio di questi mezzi sono minime a prua e pressoché inesistenti a poppa, dovendo quest’ultima essere lasciata libera per il transito dei carichi. A prora, oltre all’ancora con relativo verricello salpancore dotato di campane di tonneggio, troviamo gli attacchi Smit per i rimorchi, le bitte di ormeggio e i passacavi. Ulteriori bitte di ormeggio saranno presenti in coperta lungo i fianchi fino a poppa. Sulla prora o lungo il fianco, troveremo festonato il cavo di rimorchio d’ emergenza.

Lavorare su questi mezzi, in particolare su quelli più vecchi, costringe il personale ad aguzzare l’ingegno per superare tutti i problemi che si possono presentare nel corso dell’operazione. In queste circostanze è fondamentale conoscere molto bene le caratteristiche tecniche del mezzo, i suoi limiti tecnici, le sue magagne, in essere e probabili, e il suo comportamento nelle varie fasi dell’operazione. Questa conoscenza permetterà all’operatore di riconoscere eventuali anomalie e di porvi rimedio.

L’assenza di sistemazioni di manovra sulla poppa ed in coperta costringe all’adozione di sistemi alternativi, spesso poco ortodossi, per poter mettere in forza le cime d’ormeggio. Generalmente si ovvierà alla mancanza del verricello a poppa, imbarcando un mezzo ruotato in grado di tirare con forza adeguata, tipicamente un muletto o una piccola semovente. La cima verrà collegata al mezzo ruotato tramite una bozza, messa in forza con la dovuta attenzione e successivamente abbozzata e voltata in coperta. Si tratta di manovre che, oltre a comportare un discreto impegno fisico, richiedono perizia marinaresca, prudenza ed una buona manualità.

In maniera del tutto analoga al naviglio maggiore, anche le chiatte si trovano ad operare in porti diversi sia in Italia che all’ estero. La manovra di arrivo può essere suddivisa nelle seguenti fasi: imbarco in rada del personale addetto all’ormeggio e del pilota, rilascio del rimorchio d’altura e connessione dei rimorchiatori portuali, passaggio dalla rada all’ormeggio e manovra di ormeggio vera e propria.

Generalmente il personale addetto all’ormeggio si compone di una squadra di ormeggiatori locali assistita dal personale della chiatta. Data la natura particolare di questi mezzi, la buona collaborazione con i servizi portuali è essenziale. Se il pilota, il rimorchiatore di altura e i rimorchiatori di porto fanno un buon lavoro, la vita del personale addetto all’ormeggio è resa decisamente più facile. In caso contrario le manovre di arrivo e di partenza, in particolare la disconnessione / connessione del rimorchio d’altura, possono tramutarsi in un incubo, sia dal punto di vista del tempo impiegato che da quello della sicurezza sul lavoro.

Il nolo giornaliero della chiatta, del rimorchiatore e delle attrezzature per la movimentazione comporta un esborso significativo per il noleggiatore, quindi tutte le lavorazioni vengono effettuate nell’ottica di evitare tempi morti, per terminare l’operazione nel minor tempo possibile. Spesso queste operazioni sono vincolate da limitazioni ai fini della sicurezza, quali l’esecuzione del lavoro in orario diurno, o limiti in relazione alle condizioni di vento e mare.

Non appena ormeggiati, cominciano le predisposizioni propedeutiche all’operazione vera e propria.

Il personale di bordo fa l’assetto secondo le istruzioni ricevute dal noleggiatore, assiste il perito chimico di porto per il rilascio del certificato di non pericolosità, assiste il personale del noleggiatore incaricato della realizzazione delle predisposizioni necessarie all’imbarco del manufatto o delle operazioni di derizzaggio dell’eventuale manufatto da sbarcare. La chiatta diventa un cantiere vero e proprio, popolato da persone indaffarate: tecnici del noleggiatore, manovali, carpentieri e saldatori, tecnici della ditta incaricata della movimentazione, ispettori del proprietario dei manufatti, periti dell’assicurazione e della classe solo per dirne alcuni. La corrente per il funzionamento di tutta l’attrezzatura elettrica, tipicamente saldatrici e smerigliatrici angolari, può essere fornita da un generatore mobile, dal generatore della chiatta o più raramente da terra.

Durante questi giorni di attività frenetica, la casamatta della chiatta, con la sua puzza di gasolio, offre al personale, oltre alla possibilità di bere un caffè o un sorso d’ acqua in pace, un riparo sempre gradito, sia dai raggi del sole d’estate, che dal vento e dalla pioggia d’inverno. In queste circostanze il caffè, abbinato al necessario spirito di cooperazione, mantiene oliato il meccanismo dei lavori.

Una volta completata la preparazione comincia il lavoro vero. Che sia l’imbarco o lo sbarco di una grande gru portuale o il varo di un supply vessel o di un manufatto di carpenteria metallica destinato all’off-shore, l’attenzione è massima.

Movimentando carichi su ruote si deve lavorare in sintonia con il responsabile della movimentazione. Gestendo oggetti molto pesanti, l’assetto della chiatta varierà in maniera notevole al variare della posizione del convoglio in coperta; sarà cura del responsabile della movimentazione evitare il più possibile movimenti inutili che costringano a continue variazioni di assetto e cura dell’operatore della chiatta assecondare la movimentazione. L’aver predisposto al meglio l’assetto della chiatta e la distribuzione della zavorra a bordo consentirà di sveltire la movimentazione, la presenza di personale esperto sia a bordo che dalla parte della ditta incaricata della movimentazione è di importanza strategica per la buona riuscita del lavoro.

Quando si vara, la manovra di affondamento viene gestita dal personale della chiatta con particolare attenzione alla stabilità trasversale. A meno che non siano dotate di cassoni stabilizzatori, le chiatte semisommergibili non possono affondare con assetto longitudinalmente dritto. Questo fa sì che l’affondamento debba avvenire entro certi limiti di profondità, che permettano alla chiatta di appoggiarsi sul fondo in sicurezza. Per evitare che la chiatta, immergendosi libera, possa veder compromessa la sua stabilità trasversale, si deve avere cura di mantenere un assetto positivamente appoppato fino al raggiungimento dell’appoggio dello specchio di poppa sul fondale. Una volta soddisfatta questa condizione, si potrà completare l’allagamento delle casse di zavorra prodiere fino al raggiungimento della massima immersione. L’emersione, che sia a seguito di un varo o per mettere a secco una piccola unità navale o un manufatto galleggiante è un operazione altrettanto delicata. Si pompa aria per espellere la zavorra e far emergere la prua fino a quando non si è in grado di garantire la stabilità trasversale della chiatta, dopodiché si espelle zavorra dalla poppa per provocarne il distacco dal fondale. Una volta avviata, l’emersione della poppa è molto rapida e non può essere arrestata. Sui fondali fangosi, l’effetto ventosa del fondale rende l’emersione ancora più subitanea e meno controllabile.

Alternativamente all’effettuazione delle operazioni con immersione ed emersione in acqua libera, varo e messa a secco possono essere effettuati dentro ad un bacino di carenaggio di dimensioni adeguate. La chiatta in questo caso sarà poggiata sullo scalo del bacino ed il livello dell’acqua in vasca gestito dal personale del bacino su indicazioni del personale della chiatta.


Mentre le operazioni di varo e presa in carico sono sempre vissute dentro la dimensione tecnico-nautica tipica della cantieristica navale o dell’offshore, nei grandi trasporti ci si ritrova ad operare in una dimensione terrestre, dove il personale della chiatta spesso è costretto ad interfacciarsi con persone che non hanno la minima idea di cosa sia un trasporto marittimo. In questi casi, i comportamenti dinamici dell’insieme chiatta / carico causati dalle maree, dal vento e dalla risacca del porto, generano nel terrestre il bisogno irrefrenabile di fare domande:

* Perché la chiatta sta affondando? Non stiamo affondando è la bassa marea.

* Perché la banchina è piu’ bassa della chiatta? Siamo in alta marea, il livello del mare è salito.

* Perché la chiatta prima era dritta e adesso è sbandata? Portiamo una struttura alta 70 metri, il vento ci fa sbandare.

* Perché non riuscite ad impedire che si muova quando passano le navi? Perché non siamo un camion posteggiato in un piazzale.

Se il personale del noleggiatore è completamente nuovo a questo tipo di operazioni, alla fine della giornata si torna a casa o in albergo con un bel mal di testa. Quando si lavora fuori sede, il protocollo serale è quello di tutte le trasferte: doccia, rendicontazione della giornata, aperitivo e/o telefonate, cena e giretto in città, quattro chiacchere con i colleghi prima di andare a dormire anche per organizzare le attività del giorno dopo.

Quando si lavora a bordo di queste cenerentole dell’armamento navale le giornate sono lunghe ma le soddisfazioni non mancano. Vedere l’ultimo asse di un grande convoglio che scende a terra o sale a bordo, completare il varo oppure mettere a secco una costruzione navale, vedere la chiatta che si allontana dalla diga trainata dal rimorchiatore d’altura è sempre appagante. Umili quanto versatili, le chiatte semisommergibili possono vantare una flessibilità d’ impiego che non teme paragoni.

 


 

Fausto Mazza, autore del presente articolo, è Comandante di Cantiere e RSPP presso il cantiere navale T. Mariotti S.p.A.

 

Rapallo, 26 Luglio 2018

 

A cura del webmaster Carlo Gatti


W.TURNER - J.CONSTABLE, Pittori di Marina

William TURNER - John CONSTABLE

 

 

PITTORI DI MARINA

A partire dall’era Cristiana, le arti figurative si erano espresse prevalentemente sul piano religioso. In Italia nuovi orizzonti  si aprirono con il Rinascimento e nel Nord Europa con la Riforma protestante e, soprattutto, con l’affermarsi della borghesia mercantile che incise e produsse molti cambiamenti di pensiero e moderne aspirazioni estetiche. Nuove fonti d’ispirazione artistica divennero il paesaggio, la natura morta, il ritratto e le innovative pitture legate al mondo del mare in tutte le sue attività. In particolare, questi ultimi dipinti traevano ispirazione dalle scogliere, dai porti, dalle tempeste e dai grandi vascelli che trasportavano mercanzie in tutti mari del mondo. La “pittura del mare” ebbe quindi la sua origine ed anche il suo successo, nei Paesi a grande tradizione marinara. In Olanda con i due Van de Velde, padre e figlio, e Abraham Storck nel 1600; in Inghilterra, tra ‘700 e ‘800 con Nicholas Pocock, John Higgings, Clarkson Stanfield, Georges Chambers, e naturalmente i più noti: William Turner e John Constable. In Francia troviamo i dipinti di Claude Gillé, di Claude Vernet e successivamente della famiglia Roux, Ange Joseph Antoine, Mathieu Antoine, Frederic e Francois Geoffroi. In Spagna ricordiamo Juan de Toledo e in Germania Claus Bergen J.Holst.

 

La “rappresentazione del mare” in Italia apparve intorno al XVI secolo con i grandi pittori veneti:  Vittore Carpaccio e i vedutisti Canaletto e Guardi che misero in primo piano gondole, barche e velieri di ottima fattura. Nell’800 presero vigore le scuole liguri e campane in sintonia con la crescita delle loro flotte, e nacquero i “ritrattisti di navi” che anticiparono con i loro dettagliati dipinti quel ruolo che da lì a poco sarà esercitato dalla macchina fotografica. Ricordiamo Gian Gianni, i fratelli De Simone, Domenico Gavarrone, Angelo Arpe, Giovanni e Luigi Roberto dei quali sono ricche le pinacoteche e i Santuari di Liguria. Citiamo ancora i triestini Antonio e Vincenzo Luzzo e i livornesi Luigi e Michele Renault. Verso la metà dell’800 questo genere di pittura navale prese un nuovo slancio sulla scia dei famosi Clippers, delle nascenti navi a vapore e del mondo dei Yachts. Non rimasero escluse da questa carrellata marinaresca le navi militari, le cui imprese furono magistralmente dipinte da Agostino Fossati e Rudolf Claudus. Questi due celebri pittori sono presenti nei Musei e nei palazzi delle Istituzioni pubbliche in Italia e all’estero. Tra i pittori figurativi dei nostri giorni, alcuni dei più conosciuti ed apprezzati sono gli inglesi Louis Dodd e Tim Thompson, i francesi Albert Brenet e Roger Chapelet, e gli italiani Renzo Pauletta, Marco Locci, Marc Sardelli, Aurelio Raimondi, Silvio Gasparotti e Lorenzo Mariotti, Mark Sardelli, Allan O'Mill, Alfredo Acciari e Amleto Fiore. Infine altri artisti moderni dedicano il loro impegno creativo ad illustrare l'attività nautica e la simbologia del mare Gildo Becherini, Gianni Bruni, Antonio Cremonese, Pino Criminelli e Sabina Iacobucci. E' un genere d'arte con eccellente produzione e che consente ancora di essere acquistata a prezzi contenuti.

 

William TURNER

William Turner, autoritratto, olio su tela 1798, Tate Gallery, Londra

 

Joseph Mallord William Turner (Londra, 23 aprile 1775 - Chelsea, 19 dicembre 1851) è stato unpittore e incisore inglese. Appartenente al movimento romantico, si può dire che il suo stile abbia posto le basi per la nascita dell'Impressionismo, in particolare Claude Monet studiò attentamente le sue tecniche.

 

Turner non ebbe inizialmente unanimi consensi da parte dei critici, ma oggi è considerato l'artista che ha elevato l'arte della pittura paesaggistica ad un livello tale da poter competere con la pittura storica. È conosciuto con il soprannome di Il pittore della luce. La luce per Turner rappresentava l'emanazione dello spirito divino e questo è il motivo per cui nei suoi ultimi quadri trascurò di rappresentare oggetti solidi e i loro dettagli, concentrandosi sui giochi di luce riflessi dall'acqua e sullo splendore dei cieli e del fuoco. Anche se questi ultimi lavori potrebbero sembrare di tipo impressionista, Turner stava sforzandosi di ricercare un modo di esprimere la spiritualità nel mondo piuttosto che limitarsi a fornire un'interpretazione artistica ai fenomeni ottici ("Il sole è Dio" disse poco prima di morire).

Il talento di Turner fu apprezzato molto presto. La raggiunta indipendenza economica gli permise di dedicarsi liberamente al suo stile innovativo: le sue opere del periodo della maturità sono caratterizzate da un'ampia varietà cromatica e da una suggestiva tecnica di stesura del colore. Secondo quanto scritto da David Piper nella sua The Illustrated History of Art, i suoi ultimi lavori venivano definiti come "fantastici enigmi". Tuttavia Turner era pienamente riconosciuto come un artista di genio: il celebre critico d'arte inglese John Ruskin parlò di lui come dell'artista che più di ogni altro era capace di "rappresentare gli umori della natura in modo emozionante e sincero".

 

Soggetti molto adatti a stimolare l'immaginazione di Turner si rivelarono i naufragi, gli incendi (come l'incendio del parlamento inglese del 1834, un avvenimento a cui Turner corse ad assistere di persona e che immortalò in una serie di schizzi ad acquerello), le catastrofi naturali e i fenomeni atmosferici come la luce del Sole, le tempeste,  la pioggia e la nebbia. Era affascinato dalla violenta forza del mare, come si può vedere in Mercanti di schiavi che gettano in mare i morti e i moribondi (1840).

Turner si servì di figure umane in molti dei suoi dipinti, da un lato per mostrare il suo amore per l'umanità (indicative le frequenti scene di persone che bevono, festeggiano o lavorano ritratte in primo piano), dall'altro per evidenziare la vulnerabilità e la volgarità dell'umanità stessa al confronto con la suprema natura del mondo. Suprema sta ad indicare una natura che ispira soggezione, di una selvaggia grandiosità, un mondo naturale che l'uomo non può dominare, segno evidente del potere di Dio. - Un tema che vari artisti e poeti dell'epoca stavano affrontando.

 

 

 

 

William Turner - La Battaglia di Trafalgar (1806)

 

 

 

 

 

William TurnerLa valorosa Téméraire, 1839

 

 

W.Turner - Il Naufragio del “Minotauro”, 1793 – olio su tela

 

 

William TurnerIl Molo di Calais, 1803

 

William Turner, Tempesta di neve, battello a vapore al largo di Harbour’s Mouth 1842

 

William Turner, Incendio delle Camere del Parlamento 1834

 

William Turner

 

William Turner – Peace

 

William Turner – Mare in tempesta

 

William Turner - Attesa del Pilota

 

William Turner - L’amore per il mare

 

William Turner, Dutch Boats in a gale (1801)

 

William Turner - Bell Rock Lighthouse

 

William Turner, Barche da pesca con rivenditori

 

William Turner - the shipwreck (1805)

John Constable

Jonh Constable - Autoritratto

 

John Constablespiaggia di Brighton con le navi a vela

 

John ConstableNave Victory 1806

 

John ConstableMarina con nuvole 1827

 

John ConstableFaro di Harvich 1820

 

John ConstableCostruzione di una barca

John Constable - Wiew over London with double raimbow

John Constable - Shipping in the Orwell near Ipswich

I due pittori a confronto

(...anonimo)

Joseph Mallord William Turner (1775-1851) e John Constable (1776-1837) salirono alla ribalta della “grande”  pittura inglese praticamente nello stesso periodo quando si stavano ormai concludendo le esperienze artistiche di William Blake e di altri pittori britannici (Beechey, Hoppner, Opie, Raeburn ecc.).

 

Entrambi si occupavano di paesaggi ed avevano alle spalle le esperienze di Thomas Gainsborough. A parte le differenti propensioni per i viaggi (Turner amava ad esempio venire in Italia e Constable era più attaccato alla sua campagna) ed i diversi approcci filosofici, Constable era meno sofisticato, tutti e due avevano molta attenzione per la "memoria". Sia Constable che Turner, all'inizio delle loro carriere, si ispirarono poi alle opere del Lorenese.

 

Constable era figlio di un mugnaio ma le sue doti artistiche richiamarono l'attenzione di un esperto. Dopo aver iniziato copiando importanti opere (incluse alcune di Annibale Carracci) si espresse fin dagli esordi con immediatezza. Anche nei paesaggi più consueti sapeva interpretare alcuni aspetti con grand lirismo. Successivamente, forse per gli studi fatti su Rubens, le sue opere divennero, anche per grandezza, più ambiziose. Elementi rilevanti dell'arte di Constable furono comunque la ricerca del "chiaroscuro nella natura" (contrasto fra vivacità della luce e le ombre) e degli aspetti realistici. Con l'attenzione alla verità metteva quindi da parte i motivi pittoreschi che spesso avevano avuto largo seguito. Alcune sue opere significative: Valle di Dedham, Cavallo Bianco, Stratford Mill, il Cavallo al Salto, il Campo di Grano, Il Carro di Fieno (esposto nel 1824 al Salon di Parigi con grande successo);

 

Turner era invece figlio di un barbiere londinese. Iniziò a lavorare come topografo e poi si avvicinò alla pittura per via di un lavoro sugli acquarelli di John Robert Cozens. Successivamente anche grazie a tanti studi (su Tiziano e diversi maestri italiani), riuscì ad esprimersi con originalità contribuendo all'affermazione del principio che gli artisti che esprimono paesaggi hanno la stessa validità degli artisti dediti ad altri generi pittorici. Dopo le fasi iniziali si dedicò particolarmente allo studio delle possibilità espressive di elementi quali il fuoco, l'acqua, l'aria, le condizioni atmosferiche ecc. e prestò attenzione al sublime che generano talora queste energie. Nelle sue opere più mature ci sono anticipazioni dell'impressionismo ma anche spunti di astrattismo (infatti in ampi spazi dei dipinti non ci sono figure). Pur ricercando, con grande capacità, taluni effetti (sorpresa, drammaticità ecc..) Turner sapeva offrire visioni romantiche della natura. Alcune delle sue più importanti opere sono: Levar del sole nella bruma, Didone che edifica Cartagine, Tormenta sul Mare, Pioggia vapore e velocità. Quest'ultimo grande quadro -del 1844- prende spunto da un elemento del tutto nuovo nei paesaggi inglesi: i convogli ferroviari. Diverse opere di Turner furono dedicate ovviamente ai suoi viaggi ed anche a Venezia dove soggiornò in tre occasioni. Alcuni contemporanei lo designarono come il "grande pittore del mare".

 

 

Carlo GATTI

 

Rapallo, 16 luglio 2015

 

 

 

 


La Storia della M/n FAIRSEA

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FAIRSEA

SITMAR LINE

OGNI NAVE HA LA SUA STORIA. OGGI CI OCCUPIAMO DI UNA NAVE CHE NACQUE NEGLI STATI UNITI COME C-3 Class - FU TRASFORMATA IN ESCORT CARRIER – VISSE A LUNGO COME NAVE PASSEGGERI CON IL NOME FAIRSEA ED EBBE UN TRISTE EPILOGO: SUBI’ UN INCENDIO IN SALA MACCHINE, FU RIMORCHIATA - IN EMERGENZA - A PANAMA DA UNA NAVE DA CARICO. IL SUO COMANDANTE, CAP. S.L.C. CIRO CARDIA SI CARICO’ TUTTO IL PESO DELLA PERDITA DELLA SUA NAVE  E, DA VERO UOMO DI MARE DI VECCHIO STAMPO, SI TOLSE LA VITA NELLA SUA CABINA. POCO TEMPO DOPO, QUALE COMANDANTE DEL RIMORCHIATORE OCEANICO VORTICE, FUI INCARICATO DAI MIEI ARMATORI GENOVESI DI DIRIGERE VERSO LA SPONDA ATLANTICA DEL CANALE DI PANAMA PER PRENDERE A RIMORCHIO LA NAVE PASSEGGERI FAIRSEA CHE SI TROVAVA ANCORATA NELLA RADA DI COLON. IL CANTIERE LOTTI DI  SPEZIA L’ATTENDEVA PER COMPIERE L’ULTIMO ATTO DELLA SUA LUNGA E GLORIOSA CARRIERA: LA DEMOLIZIONE.

Nel primo dopoguerra, si creò negli USA un notevole surplus di navi che diede luogo ad un mercato mondiale dell’usato. Molte nazioni europee in seria difficoltà nel settore dei trasporti marittimi, tra cui l’Italia, colsero la grande opportunità per far ripartire il volano dell’economia. Nel 1938 l’armatore Alexander Vlasov fondò la SITMAR (Società Italiana Trasporti Marittimi) e nel 1947 acquistò dal Governo USA la sua prima nave: Vassar Victory (Cl. Victory) che fu trasformata per il trasporto di 1.132 emigranti e fu ribattezzata Castelbianco. La nave operò con bandiera italiana per la IRO (International Refugee Organisation). Nel 1952 fu parzialmente ricostruita e ritornò in servizio come Castelbianco (vedi foto sotto) con la stazza lorda aumentata da 7.604 a 10.139.

M/n Castelbianco

Dopo alcuni viaggi per l’Australia, prese servizio sulla linea del Brasile-Plata, poi ritornò sulla linea per l’Australia. Nel 1950 fu acquistata dalla SITMAR e fu ribatezzata Castelverde.

M/n Castelverde

Nell’ottobre del 1950 fu acquistata la  nave passeggeri Fairstone di 12.450 t.s.l.

M/n Castelfelice

ribatezzata Castel Felice (nella foto) che fu messa inizialmente sulla linea dell’Australia, poi su quella centro americana e successivamente su quella del Brasile-Plata. La SITMAR introdusse l’alternanza stagionale dei viaggi sulle rotte di maggior traffico: nel periodo invernale, dal Nord Europa per l’Australia e la Nuova Zelanda - via Suez oppure via Panama, e nel periodo estivo dal Nord Europa per il Canada e gli USA. Le due Castelbianco e Castelverde furono trasformate in moderne navi per il trasporto di un migliaio di passeggeri ciascuna e furono messe sulla linea Nord Europa-Centro America.

 


Portaerei di scorta Attacker

Sullo scafo della portaerei Attacker (foto sopra) fu costruita la Castelforte (1950-1960) che divenne Fairsky (1960-1977) che poteva trasportare, con aria condizionata, 1.462 passeggeri. La linea per l’Australia-N.Zelanda fu inaugurata nel 1958 con partenza da Southampton.

Come annunciato all’inizio, ora prendiamo in esame l’ultima nave passeggeri acquistata dalla SITMAR, la FAIRSEA, già portaerei di scorta Charger (foto sotto). Questa nave seguì lo stesso percorso iniziale della Castelbianco. Nel luglio 1958, dopo un refitting che gli consentì il trasporto di 1.412 passeggeri, inalberò la bandiera italiana ed entrò in linea fissa per l’Australia.

Portaerei di scorta HMS Charger

La nave iniziò la sua carriera con il nome: HMS Charger

M/n Fairsea
La nave FAIRSEA terminò la sua carriera con questo “shape” della metà degli anni ‘60.

Una bella immagine portuale del Fairsea a Fremantle (Perth)-Australia

La FAIRSEA nacque come nave della Classe C3, (1)* da carico-passeggeri, con il nome di RIO DE LA PLATA per la Moore-McCormack Lines. Fu costruita dal Cantiere Shipbuilding & Drydock Co, Chester USA. Fu varata il 1 marzo 1941. Aveva un piccolo record, si trattava della prima (con tre gemelle) ad essere propulsa da un potente motore Diesel costruito in USA. Nella sua veste di cargo-passengers ship, era destinata a trasportare merce varia e 70 passeggeri da New York al Sud America. Ma prima di essere completata, fu rilevata dal Governo USA e trasformata in Portaerei di scorta per la US Navy e, infine fu rinominata HMS CHARGER e fu ceduta alla Royal Navy inglese. Entrò in servizio il 3 marzo 1942. La nave fu adibita alla scorta dei convogli in Nord Atlantico e dovette superare numerosi momenti critici, ma ne uscì sempre indenne. Più tardi la nave fu restituita alla US Navy cambiando la sigla iniziale HMS in USS CHARGER e fu impiegata in Pacifico servendo gli S.U. con valore.

La Charger concluse il suo periodo di militarizzazione il 15 marzo 1946 e ritornò presso il Cantiere Moore-McCormack che la costruì. Fu rimosso il ponte di volo e fu convertita in trasporto truppe. Questo servizio fu breve e presto fu inserita nella RESERVE FLEET (Mothball) insieme a molte altre navi della sua stessa classe sul James River e fu messa in vendita sul mercato che in quegli anni era molto attivo a causa delle perdite belliche subite dalle nazioni belligeranti.

La FAIRSEA iniziò la sua carriera con un noleggio di tre viaggi per la IRO (International Refugee Organisation), da Napoli a Melbourne (Australia) via Suez a partire dall’11 maggio 1949. La nave ritornò sempre vuota dall’Australia per questioni contrattuali, quindi, in quel periodo, non era ancora un SITMAR Liner.

Dalla cruda e semplice descrizione di quei tre viaggi della salvezza non emerse mai nulla, almeno in Italia, delle tragedie umane di quei 6.000 profughi europei che si lasciarono alle spalle storie di campi di concentramento, di bombardamenti, di violenze, di fame e miseria. Tutto finì nell’oblio della liberazione per favorire la ripartenza verso una nuova vita ispirata, finalmente, a valori di civiltà e libertà.

L’11 maggio la FAIRSEA partì con 1.896 persone a bordo, inclusi 457 bambini che erano stati liberati da diversi campi europei. La nave passò il Canale di Suez il 18 maggio e dopo una breve sosta a Fremantle diresse a Merlbourne dove attraccò l’8 giugno al Prince’s Pier. Ritornò vuota a Napoli, ripartì nuovamente per l’Australia il 21 luglio con 1.896 persone a bordo. Sebbene sei nazioni fossero rappresentate a bordo, ben 660 erano profughi polacchi. La nave sostò a Fremantle e continuò gli sbarchi a Newcastle (Aust.) il 19 agosto 1949. Il terzo viaggio della FAIRSEA ebbe inizio il 23 settembre a Napoli e si concluse il 19 ottobre a Merlbourne con lo sbarco di 1.890 profughi.

La M/n FAIRSEA, finalmente sotto il controllo della SITMAR e, al comando del Comandante rivierasco Stagnaro, partì il 3 dicembre, arrivò a Sydney il 31 dicembre ed ormeggiò alla banchina N°13 Pyrmont. Ma questa volta la nave potè finalmente imbarcare passeggeri anche per il ritorno in Italia.   Pur restando immutata la destinazione finale: l'Australia, cambiò l’itinerario. Il porto di partenza diventò Bremerhaven.

Lo Stemma sociale riporta la V dell’armatore Vlasov

 


31 dicembre 1949. La M/n FAIRSEA durante il suo viaggio inaugurale come “nave passeggeri di linea” (2)*


Questa cartolina fu stampata nel gennaio 1954

Nel novembre del 1953, mentre si trovava ormeggiata a Merlbourne, scoppio un incendio in sala macchine che presto fu domato con il completo allagamento del locale. Fu svuotata e ripulita e la nave continuò i suoi viaggi.

La FAIRSEA fotografata nel 1954 con una nuova ciminiera ed un nuovo albero (tripode) sul ponte di comando.

Nel dicembre 1953, la FAIRSEA subì alcuni ritocchi estetici alla ciminiera e nell’albero. Avendo navigato regolarmente intorno all’Australia, fu soltanto nel febbraio 1957 che essa intraprese the home voyage navigando, per la prima volta, verso Est compiendo il suo viaggio inaugurale verso la Nuova Zelanda e proseguendo la traversata dell’Oceano Pacifico fino a Panama, che attraversò per la prima volta.

Manifesto Pubblicitario

Nel 1957, la FAIRSEA subì altre trasformazioni nel Cantiere di Trieste. Fu aggiunto un ponte sul deck promenade, una stiva diventò piscina e fu installata l’aria condizionata, furono migliorate le cabine che furono in grado di ospitare 1.460 passeggeri. La stazza lorda fu portata a 13.432 GRT. Gli interni assunsero l’Italian Style e, al suo completamento, risultò un’elegante unità.

Sopra e sotto: La FAIRSEA dopo l’ultimo refitting del 1957. Sebbene lo shape dello scafo ricordasse ancora la Classe C3, le sue linee erano molto migliorate.


La M/n FAIRSEA nel 1961

Essendo ancora sotto 'contratto governativo', la FAIRSEA continuò il trasporto dei passeggeri inglesi verso l’Australia e la Nuova Zelanda. Nel 1961 si sottopose ad un ulteriore refitting per migliorare l’accoglienza dei passeggeri. Nel nuovo progetto di ristrutturazione, la capacità passeggeri diminuì fino a 1.212. Facendo leva sulla popolarità acquisita negli anni da questa nave italiana, la Sitmar decise di impiegarla - in anteprima - come nave da crociera. La FAIRSEA partì da Sydney il 7 luglio 1966, visitando Cairns, la Grande Barriera Corallina (Hayman Island) e Merlbourne. Anche in seguito, nell’intervallo tra due viaggi di linea, era impiegata in crociere occasionali.

Dati Nave:

Costruito dal:       Sun Shipbuilding & Dry Dock Co, Chester USA

Yard Nr:              188

Tonnellaggio:       11,678 GRT (di costruz.)-13,432 GRT come Fairsea dopo refit-1958

Lunghezza:          492ft / 150 mt.

Larghezza:           69.2ft / 21.1 mt.

Pescaggio:            24.ft / 7,20 mt.

Motore:                Doxford Geared Diesels by the builder - 9,000 CV

Screws:               Una Elica

Velocità:              16 nodi – 17 max

Passeggeri:          1,800 Classe Unica

40 in 1° classe e 1400 in Classe Turistica

Fully air-conditioned

La FAIRSEA fotografata a Wellington-New Zealand – 1967

Il 14 gennaio 1969, la FAIRSEA partì da Sydney con 986 passeggeri diretti a Southampton (UK). Il 23 gennaio, quando si trovava 900 miglia a Ovest del Canale di Panama scoppiò un incendio nel locale macchine. La nave rimase in panne, cessò di funzionare la maggior parte dei servizi e degli impianti: motori ausiliari-elettrogeni, cucina, aria condizionata, bagni, acqua distillata ed altro.

SS Louis Lykes vista dal lato dritto della FAIRSEA

Photograph © Peter Bradford

Il primo tentativo di salvataggio fu operato da un rimorchiatore oceanico, ma fallì perché il mezzo rimase senza carburante. Il travaso di nafta (non appropriata) dalla nave mandò definitivamente in avaria il rimorchiatore. Passarono ben sei giorni prima che giungesse la nave da carico SS Louise Lykes che rispose alla chiamata di soccorso e che la rimorchiò felicemente a Balboa. Durante la lunga attesa, il Comandante Ciro Cardia ed il suo equipaggio dovettero fronteggiare la comprensibile reazione di 1000 passeggeri che sentendosi abbandonati dal mondo, reclamavano l’essenziale per sopravvivere in un ambiente per loro diventato ostile e incerto. Le condizioni meteo, per fortuna, si mantennero buone, ma non si può ignorare che la paura fosse ormai diventata la vera responsabile della pesante tensione psicologica che il comandante Cardia dovette fronteggiare con un grande dispendio di energie nervose. Dopo essere entrato in contatto con la nave soccorritrice ebbe, infine, la certezza che tutto si sarebbe risolto per il meglio. Ma l’uomo aveva ormai dato tutto ciò che gli era rimasto dentro per la sua nave, i suoi passeggeri e per il suo amato equipaggio. Al termine di quei sei giorni di grande pena, sentì d’aver assolto il suo compito di uomo di mare e per scusarsi di colpe a lui non imputabili, donò la propria vita pensando di salvare il proprio onore di “antico” capitano.

A questo punto possiamo aggiungere ancora alcuni particolari che mi sono stati descritti da un socio-Comandante di Mare Nostrum che navigò, poco dopo, con un ufficiale del comandante Ciro Cardia. Dalla descrizione di quello sfortunato uomo di mare, emerge la figura di un Capitano molto preparato, coscienzioso, prudente e molto amato dal suo equipaggio. Era un uomo all’antica, di grande prestigio e onore, più simile ai Comandanti di una volta che battevano tutti i mari preferendo rispondere direttamente a Dio del proprio operato, piuttosto che scendere a compromessi con assicurazioni, armatori, banche, autorità varie, raccontando storie più o meno vere tendenti a vendere soltanto la propria dignità. Attenzione quindi ad emettere giudizi o, ancor peggio, sentenze che siano in sintonia soltanto con i noti disvalori di quest’epoca, in cui si muovono tanti marinai “da tempo buono” .... e pochi uomini d’onore!

I danni subiti dalla FAIRSEA, specialmente in macchina, furono giudicati molto gravi; all’armatore non rimase che l’unica scelta possibile, la più triste, venderla ad un demolitore italiano.

RIENTRO ALLA BASE

M/R Vortice - 8.000 CV

Il ritorno in Italia della FAIRSEA a rimorchio del VORTICE fu inondato di sole e di bonaccia, dalla partenza da Colon, avvenuta il 9 luglio 1969, fino all’arrivo a Spezia. La potenza del rimorchiatore oceanico, tra i più “mastini” al mondo di quell’epoca, era di poco inferiore a quella della nave in esercizio, pertanto La velocità fu molto alta, intorno alla 8 miglia di media, con punte di nove miglia/h evitando sforzi inutili. (4)* Il viaggio durò 27 giorni e fu caratterizzato da un’anomala atmosfera di mestizia che toccò ognuno di noi nel profondo del cuore. All’arrivo del convoglio a Spezia, il dott. Lotti, titolare dell’omonimo Cantiere di demolizione e ultimo proprietario della FAIRSEA, mi chiese se poteva omaggiarmi di un ricordo della nave. Insieme ci recammo a bordo e lo condussi nella cabina del Comandante. Aprii un armadio dove avevo messo al sicuro la strumentazione della nave, indicai il SESTANTE di bordo e gli dissi: quello strumento é il simbolo della nave e del suo Capitano, lo vorrei custodire come una reliquia alla memoria di un vero uomo di mare. Sono passati quasi 45 anni e ogni mese ancora lo pulisco come se dovessimo usarlo insieme.

Note:

1*- Nel 1936, con il “Merchant Marine Act”, il Congresso approvò l’istituzione della United States Maritime Commission (USMC), con l’incarico di creare una nuova flotta mercantile moderna ed efficiente, da costruirsi negli Stati Uniti per assicurare i commerci americani via mare. Inoltre, le nuove navi dovevano risultare idonee all’impiego per compiti militari e ausiliari in caso di guerra; al vertice dell’USMC fu nominato l’ammiraglio Emory S.Land. I mercantili progettati dall’USMC vennero contraddistinti dalle sigle C-1, C-2, e C-3, ove “C” indicava il tipo “Cargo” mentre i numeri 1, 2, 3 ne indicavano la lunghezza (rispettivamente inferiore a 400 piedi, tra 400 e 450 piedi e superiore a 450 piedi - < 120m, tra 120 e 135 m, > 135 m. I progetti di altri tipidi unità erano identificati da ulteriori prefissi: T/”Tanker”) per le petroliere, P (“Personnel”) per i trasporti truppa ecc; tutte le nuove costruzioni erano propulse da apparati motore a vapore, in grado di imprimere velocità tra i 14 e i 16 nodi.

2* - La SITMAR (Soc.Italiana Trasp.Marittimi) fu fondata da un emigrato di nazionalità russa, tale Alexandre Vlasov. Egli lavorò nel settore marittimo con navi di diversa nazionalità, da quelle italiane a quelle inglesi e greche, prima, durante e dopo la 2^ guerra mondiale, da non confondere con l'altra Sitmar fondata a Roma nel 1913.

La Sitmar di Vlasov aveva una grande V sui lati dei fumaioli così come la bandiera sociale.

3* - Un discreto numero di navi USA, della classe C-3, furono convertite in navi-trasporto emigranti, inclusa la Mormacma, gemella della FAIRSEA che diventò la German Seven Seas, noleggiata dalla Holland America Line. Essa operò in Canada, US, Australia ed anche in Nuova Zelanda, anche come nave da crociera. Altre diventarono: Flaminia (Cogedar), Roma e Sydney (Flotta Lauro) anch’esse impiegate sulla rotta della Australia e Nuova Zelanda.

4* - Il Vortice disponeva di un cavo da rimorchio da 56 m/m sul winch automatico (troller) della lunghezza di 2.000 metri. Sulla prua della nave approntammo una "patta d’oca di catena" di grande diametro data volta alle bitte. I due penzoli scendevano dai due passacavi fino ad un paio di metri sull’acqua. Tra il cavo del ‘troller’ e la patta d’oca venne ingrillato un gherlino di Perlon (nylon) da 120 m/m per dare elasticità al convoglio. I runners di bordo (personale del Cantiere italiano) provvedevano a ingrassare le parti di frizione dei componenti del rimorchio e controllavano eventuali usure e sforzi anomali. La nave aveva i  fanali di navigazione regolamentari alimentati da bombole di gas provviste di cellule solari che venivano sostituite dai runners permanentemente collegati al Vortice via Walkye-Talkye. Numerose sono state le visite a bordo, tramite lo ‘zodiac’ per il controllo generale dello scafo e delle attrezzature in lavoro.

-  L’intento principale della nostra Associazione é la divulgazione della Storia Navale il più possibile aderente alla verità. Per questo motivo, la storia della FAIRSEA é stata (in parte) liberamente tradotta dal sito ufficiale della SITMAR LINE dal sottoscritto webmaster Carlo Gatti, autore dell’articolo. Ringrazio pertanto la Società per la concessione.

- Ringrazio infine il socio comandante Nunzio Catena per le ricerche storiche effettuate e per i contatti avuti con i testimonials dell’epoca.

Carlo GATTI

Rapallo, 8.1.2013

 


CONTROCORRENTE….

CONTROCORRENTE….


La voragine provocata dalla mareggiata del 29/30 ottobre 2018

In quel terribile episodio, come mostra la foto sopra, ad erodere gli strati sottostanti il manto stradale é stata la mareggiata da SSW. Come é potuto succedere? Perché la copertura della strada poggiava su terreno friabile e non su strati di massi pietrosi resistenti e adatti a far defluire l’acqua di mare sulla battigia sottostante.

28 aprile 2019 - Strada provinciale 227 - Ecco come si presentava la voragine (2mt X 3 mt X 1mt prof.) provocata dalla pioggia all’inizio della strada carrabile che da Paraggi porta a Portofino.

Il problema é che i nostri figli, nipoti ed amici che lavorano nel borgo di Portofino non si fidano più a transitare su quella strada che, paradossalmente, é riparata dai “quadranti pericolosi” del mare, ma non dagli effetti disastrosi della pioggia che scende a picco dalle pareti di roccia cercando il mare. Nella sua rovinosa caduta, la pioggia scava e scioglie il terreno che si trova sotto il manto stradale, come dimostrano le fotografie sopra.

Gli ingegneri del 1890-1900 che costruirono questa strada, avrebbero dovuto assimilare scienza e conoscenza dagli esempi lasciati in eredità dai loro avi “romani” che operarono a partire dal IV secolo a.C.

Sappiamo benissimo che la viabilità agli inizi del ‘900 era prevalentemente equestre… ma non é un alibi che regge, in quanto é noto che gli ingegneri dell’epoca erano i progenitori degli attuali Morandi…

UN PO' DI STORIA...

“I Romani posero ogni cura in tre cose soprattutto, che furono dai Greci neglette, cioè nell’aprire le strade, nel costruire acquedotti e nel disporre nel sottosuolo le cloache”. Plinio il Vecchio

Le strade furono pensate dagli Antichi Romani per durare a lungo e, sicuramente, questo intento ha avuto enorme successo dal momento che ancora oggi numerose strade costruite all’epoca dell’Impero Romano sono tuttora funzionanti ed utilizzate. Volutamente evitiamo di soffermarci sugli acquedotti, ponti, cloache, fontane e monumenti romani che ancora oggi tutto il mondo c'invidia.

STRADE ROMANE TUTTORA ESISTENTI

- Salaria: antichissima via romana, il cui tracciato era già percorso dal IV sec. a.C., deve il suo nome dal trasporto del sale effettuato dall'Adriatico a Roma.

- Cassia: strada consolare romana, che da Roma conduceva a Luni nell'Etruria settentrionale.

- Aurelia: antica strada romana, iniziata nel II sec. a.C., che univa Roma ad Arelate (Arles) lungo la costa tirrenica, passa per Civitavecchia, Pisa e Genova.

- Flaminia: Strada romana da Roma andava ad Ariminum (Rimini); la sua costruzione fu iniziata dal censore Flaminio nel 220 a.C.

- Postumia: Strada romana costruita dal console Postumio Albino nel 148 a.C.; collegava Genova a Concordia Sagittaria passando per Piacenza, Cremona, Verona e Vicenza.

- Claudia Augusta Altinate: Antica via romana che conduceva da Altino al Danubio.

- Emilia: Strada romana aperta nel 187 a.C. dal console Marco Emilio Lepido tra Piacenza e Rimini, per collegare i territori del Nord con la via Flaminia.

- Appia: Antica strada romana che conduceva da Roma a Capua, poi prolungata fino a Brindisi, iniziata nel 312 a.C. dal censore Appio Claudio.

Ma come venivano costruite le strade nell'antichità?

Dalla ricostruzione virtuale si notano, a partire da sinistra, i quattro strati  della sede stradale, composta di pietre e pietrisco che permettevano il defluire dell’acqua piovana da ambo i lati.

§ - Statumen, uno strato più profondo di sassi e argilla;

§ - Rudus, un secondo strato composto da pietre, resti di mattoni,sabbia, mischiati   con calce;

§ - Nucleus, un terzo strato con pietrisco e ghiaia;

§ -Summum dorsum o pavimentum, una copertura di lastre levigate  generalmente in massi di pietra basaltica di eccezionale durezza e indistruttibile (il basolato che indica appunto la nota pavimentazione romana).


La foto della voragine di Paraggi é simile a quella del tratto stradale spaccato dalla mareggiata a meno di un KM di distanza in direzione Santa Margherita. Si può facilmente notare che sotto il manto stradale c'era solo terra che nel tempo l’acqua piovana ha trascinato in mare, per cui sotto quei 20/30 cm di manto stradale non é rimasto più nulla a sorreggerlo.

Quante voragini sono pronte ad aprirsi? Questa é la domanda che tutti si pongono da queste parti! Ma la cosa peggiore é che il passaggio di auto, corriere, furgoni e camion che utilizzano la strada provinciale 227 é sempre in aumento e sotto … non c’è più nulla a sorreggerne il peso. I crolli saranno inevitabili? Chi vive vedrà!

Pertanto si ritorna sempre a parlare della fragilità del nostro territorio, se non piove si paralizza l’economia, se piove le frane sono accettate ormai come eventi normali… come succede a due passi dalla casa di chi scrive… sia dal lato di ponente che dall’altro versante di levante di Via sotto la Croce.

Con l’attuale Amministrazione Comunale, per fortuna, la reazione di ripristino é stata immediata, ma i lavori fatti a regola d’arte prendono molti mesi di tempo e di non pochi disagi.

Il 14 dicembre 2018 avevo scritto nell’articolo:

PORTOFINO COM’ERA… ma come sarà???

“Agli amici di Portofino “allungo” qualche amichevole pensiero personale:

Non temete l’isolamento! Voi residenti di Paraggi, Portofino e San Fruttuoso ritornate a pensare all’antica, da isolani. Chi viene da voi é un pellegrino alla ricerca di Santuari Naturali dove trovare la pace, i colori ed i profumi più rari del mondo. Amate il vostro isolamento e condividetelo con i turisti che vi raggiungeranno via mare e dai sentieri montani perché sarete ancora più RARI ed AMBITI nel panorama mondiale della mediocrità divorata dal traffico, dagli schiamazzi, dalla pazzia, dalla velocità e dal consumismo.

Tenetevi stretto quel traghetto "furesto" che non é un intruso… ma una necessità oggettiva che vi rende estranei e LIBERI da un mondo impazzito!

Nelle innumerevoli isole del globo terracqueo, così come nelle terre che confinano col mare e sono divise dai fiumi: si vive, si commercia, si lavora, ci si sposta regolarmente sui traghetti dove spesso in inverno ci sono nebbie, neve e tempeste. Ci sono nazioni che esistono GRAZIE all’operosità multipurpose dei traghetti. Le baie delle più grandi città del mondo pullulano di questi mezzi che sono sempre più raffinati, pratici, comodi e rapidi. Pensate soltanto alle 10.000 isole che orlano la Scandinavia e che sono abitate soltanto grazie al servizio continuo dei traghetti.

In una decina di minuti di viaggio infinitamente bello e panoramico, siete raggiungibili da Santa Margherita e dalle altre località del Tigullio in un tratto di mare che é famoso per le sue bonacce!

Per voi del promontorio, trasferirvi via mare, deve essere il vostro modo di vivere che riflette i vostri caratteri, il vostro DNA. Liberatevi di quelle centinaia di camion, corriere e furgoni che impestano l’aria, creano ingorghi e deturpano il vostro paradiso terrestre.

Mettete la parola FINE a quell’assalto quotidiano della cosiddetta civiltà dei consumi.

Ritornate all’antico, a ragionare come i vostri avi! Reagite alla “triste” sconfitta subita dall’uragano del 29 ottobre 2018 rimettendo in ordine la vostra vita quotidiana!

Amate e difendete i doni ed i privilegi naturali che avete avuti dal Padreterno.

So di navigare controcorrente, di urlare nel deserto… ma il silenzio é complice … e sappiamo tutti di chi … !!! “

Cari Portofinesi, oggi, alla luce di altre voragini causate dalla pioggia, ribadisco con maggior convinzione: la strada più sicura ed economica… é quella via mare!!!

 

Carlo GATTI

Rapallo, 30 Aprile

 


L'AVVENTUROSA MANOVRA DELLA "TUBUL"

L'AVVENTUROSA MANOVRA

DELLA "TUBUL"

di Massimiliano GAZZALE - Pilota del Porto di Genova

 

Nel nostro lavoro la possibilità di un'avaria è sempre in agguato. Ogni Pilota del porto di Genova esegue diverse centinaia di manovre all'anno. Nel momento in cui si agguanta una biscaglina, oppure quando si posa il piede sullo scalandrone di una nave, deve diventare automatico girare l'interruttore che scollega i pensieri e i problemi che non riguardano la manovra che si sta per affrontare: pena la mancanza della "presenza" necessaria ad affrontare gli imprevisti. In questo articolo il Com.te Gazzale ci porta con lui durante una di queste avventure. Uno degli obiettivi del sito SBE è quello di far conoscere realtà portuali/marittime poco comuni. E' questo il motivo per cui  trovate numerosi articoli scritti da persone provenienti dalle più disparate realtà. Invito chiunque si riconosca in questa filosofia a farsi avanti con storie, avventure e/o descrizioni, per raccontare il loro mondo visto e vissuto dall'interno. A presto!

J.G.

Quella mattina di Maggio il vento era debole e l’aria iniziava a essere tiepida. Il debole chiarore a levante annunciava l’allungarsi delle giornate.

Nella Stazione Operativa, i piloti montanti guardavano alternativamente gli schermi della programmazione dei lavori e la lavagna elettronica che riportava la cartina e i segnali AIS delle navi, mentre l’operatrice notturna smontante descriveva il traffico in corso e quel che si prevedeva accadesse di li a poche ore.

Lo schermo AIS mostrava una sagoma sulla linea delle 7 miglia. Dirigeva verso l’imboccatura di levante e ci colpì per la bassa velocità mostrata dal target.

Era una portacontenitori e, solitamente, queste navi arrivano in fretta, ma non sono mai abbastanza veloci agli occhi degli interessati alle operazioni commerciali. Per noi non fa nessuna differenza: quando arriva noi la portiamo dentro.

L’operatrice radio ci disse che la nave aveva avuto alcuni problemi, non meglio precisati, alla macchina durante la notte, ma sembrava li avesse risolti. Il VTS (Vessel Traffic Service) era stato informato dalla nave stessa e nessuna indicazione, o richiesta di azione, era stata avanzata verso i piloti. La nave stava regolando il suo ETA autonomamente. Era tutto chiaro.

Questo tipo di nave, per entrare in porto, richiede la presenza di 2 piloti e un certo tipo di garanzia sullo stato di efficienza generale. Chiunque di noi fosse andato a bordo avrebbe fatto più di una domanda al Comandante per essere rassicurato sull’effettiva risoluzione dell’avaria denunciata.

La TUBUL è una nave portacontenitori costruita nel 2011 in Corea del Sud, di circa 90.000 tsl per una lunghezza di quasi 300 m e una larghezza di 45. Considerando gli spazi a disposizione per raggiungere l’ormeggio assegnatole, possiamo dire che è una grossa nave.

Raggiunta la distanza di tre miglia dall’imboccatura, la Tubul fu assegnata a me e al collega che mi seguiva nell’ordine. Contattai la stazione rimorchi per predisporre due “pezzi” per l’arrivo.

La nave e il VTS confermarono le buone condizioni operative per la manovra. Non avevamo idea di quali problemi avesse avuto in macchina ma, evidentemente, non erano stati tali da provocare allerte particolari.

La pilotina uscì in anticipo per andare incontro alla nave: volevamo imbarcare un po’ prima del solito per “annusare” la nave, l’equipaggio e il Comandante.

Girando intorno alla nave con la pilotina, notammo che era molto carica, e che lo specchio di poppa toccava quasi in acqua.

La manovra di ormeggio può essere interpretata in modi diversi e, manovrando in due piloti, si ha l’indubbio vantaggio di poter discutere su diversi punti di vista. Questa volta non avevamo dubbi, non avremmo usato calata Gadda per l’evoluzione (nonostante la praticità che offriva questa scelta) optando per una manovra leggermente più lunga, ma sicuramente più sicura in caso di dubbi sull’efficienza della macchina: l’avamporto.


Un giovane Comandante ci accolse cordialmente sul Ponte di Governo, dove iniziammo lo scambio delle informazioni.

Dopo le formalità circa i dati statici e dinamici, l’ormeggio e la manovra che si intendeva proporre al Comandante, il mio collega venne al sodo chiedendo le condizioni della macchina. Il Comandante ci spiegò che il sistema di allarme li aveva costretti a ridurre la velocità di navigazione, ma che per la manovra non ci sarebbe stato nessun problema.

La conduzione della manovra fu lasciata a me e iniziai a suggerire al comandante rotta, velocità e indicazioni su come "voltare" i rimorchiatori a prua e a poppa.

Girare in avamporto ha vantaggi e svantaggi. In questo caso preferivamo fermare la nave prima di quanto avremmo fatto girando alla Gadda ed evoluire in un bacino più ampio, anche se, in termini di tempo, avremmo impiegato diversi minuti di manovra in più. La manovra in avamporto si esegue ruotando la nave al contrario della via dell’elica, e questo comporta una maggiore resistenza, ampiamente compensata dall’utilizzo di ottimi rimorchiatori e di una buona elica prodiera.

Fermare la nave prima significa scoprire in anticipo come agisce la potenza del motore sul peso della nave e, in quel contesto, verificare se la macchina sarebbe partita indietro, che poi era il dubbio presente nelle nostre menti dal momento in cui ci fu assegnato quel lavoro.

Tutto procedeva regolarmente: il rimorchiatore Svezia era stato voltato a prua e il Germania a Poppa; la macchina partì regolarmente indietro e con un’efficienza tale che non fu neanche necessario mettere il Germania in bozza a frenare. Due “barche” potenti portate da due voci note, eravamo in buone mani.

L’evoluzione iniziò con Svezia e Germania che vogavano più o meno al traverso, aiutati dal bow thruster che, con la sua lunga scia mostrava i muscoli. Avevamo ancora un leggero abbrivo in avanti, e questo mi piaceva: il Germania lo avrebbe smorzato di lì a poco, perché vogando al traverso di poppa, in realtà il rimorchiatore è sempre un pò sguardato e questo lo fa agire anche da freno.


La poppa della nave superò il pontile Ente Bacini Esterno con abbrivo residuo zero come previsto. Poco dopo  il Comandante mi informò sulle  distanze e io gli suggerii di avviare nuovamente la macchina indietro, che partì regolarmente.

Fermati i rimorchiatori, gli indicai di restare pronti “in filo” di prua e di poppa pronti per ogni evenienza. Guadagnavamo spazio verso il punto critico della manovra: lo spigolo del fanale rosso in testata Sanità.

Questo “angolo” del porto di Genova meriterebbe paginate di considerazioni per la brutta fama che porta con sé. E’ l’ostacolo per ogni manovra del Porto Vecchio, è un guardiano implacabile, un monito per tutti, un coltello affilato puntato al fianco di navi comandanti e piloti; va trattato con rispetto, tanto più rispetto quanto più uno intende passarci vicino, perché lui non teme nulla, resta lì, sono le navi e le gambe di chi le governa che tremano guardandolo scorrere al traverso.


Fermai la macchina quando il comandante mi avvertì che avevamo circa 3 nodi di velocità indietro. La poppa era ancora all’altezza del Paleocapa Saar e a tre nodi avremmo impiegato poco più di un minuto per trovarci all’altezza del fanale “rosso”. Tutto perfetto: il giusto abbrivo indietro, macchina ferma e pronta per essere avviata in avanti, rimorchi pronti ad agire in qualunque direzione. Quando lo ritenni opportuno dissi al comandante che avremmo iniziato a ruotare per portarci paralleli alla banchina di ormeggio. Suggerii e chiarii bene le fasi successive, perché gli spazi si sarebbero fatti più stretti e i tempi più corti. Stava per iniziare l’ultima fase della manovra, quella più delicata.

Indicai al Germania di vogare in banchina, cioè verso la Sanità, il bow thruster al lavoro a sinistra e lo Svezia in voga a Nord per far “salire” la prua, valutando istante per istante la curva di evoluzione per passare alla giusta distanza dal fanaletto “rosso”. Nella rotazione la nave avrebbe perso parte della velocità naturalmente, mentre il Germania avrebbe contribuito con una forza vettoriale indietro. Tutto sotto controllo.

La velocità di rotazione della prua era superiore rispetto a quella della poppa e questo mi piaceva: la prua doveva rimontare decine di metri rispetto alla poppa per raggiungere una posizione dinamica parallela alla banchina. A un certo momento fu chiaro che la velocità di rotazione residua sarebbe stata sufficiente, così fermai lo Svezia, il BT (bow thruster) e ricontrollai la velocità indietro:  circa 2,5 nodi come previsto, sufficiente a raggiungere la posizione di ormeggio e a considerare la nave in pieno controllo. E’ una velocità che corrisponde a circa 75 metri al minuto (mi piace, quando manovro, considerare in questo modo la velocità, perché mi dice in un orecchio quanto tempo ho in base allo spazio disponibile e mi aiuta a capire cosa fare, quando farlo e se posso farlo). Calata Sanità è poco più di 520 metri – quando mi trovo al traverso del fanale “rosso” considero sempre 500 per buona misura – e a quella velocità, senza intervenire, ci sarebbero voluti circa 6 minuti per arrivare in fondo, senza tenere conto della perdita di velocità naturale della nave. Avevamo tutto il tempo che serviva. Il Comandante confermò i miei pensieri quando l’ufficiale di poppa gli comunicò la distanza di poppa, 450 metri circa, non sapeva che io stavo contando le bitte in banchina, ed ero molto più preciso di lui.

Suggerii al Comandante di liberare lo Svezia, prevedendo di usarlo alla spinta verso poppa, visto che a prua avevamo il BT e che per affiancare la nave sarebbe servita una spinta trasversale, mentre il Germania sarebbe stato pronto a vogare per allargare la poppa in caso di necessità. Concordato questo ricontrollai le bitte.

400 metri, 5 minuti circa. Dal terminal mi chiamarono via radio dicendo che la posizione questa volta sarebbe stata sulla bitta 8 invece che sulla 5, mi sembrava di ricordare la stessa cosa e confermai via radio, in quel momento feci un riepilogo della situazione al comandante:

· Germania fermo e pronto in fuori,

· Svezia in procinto di essere liberato,

· macchina ferma e BT fermo,

· timone in mezzo.

Il comandante confermò 2,3 nodi di velocità indietro.  A quel punto suggerii di dare macchina avanti, valutando che alla bitta 8 mancavano meno di 5 minuti e considerando che, visto il pescaggio della nave, un nodo di velocità e qualche minuto in più di manovra mi stavano più che bene. Inoltre avrei avuto il tempo di passare i cavi a terra in sicurezza e di avere lo Svezia pronto alla spinta verso poppa in tempo utile.

300 metri, 2 nodi, 5 minuti dalla fine della banchina.

Mr Pilot disse il comandante serio –  la macchina non parte!

Io e il mio collega, che nel frattempo mi aveva raggiunto passando dall’aletta di sinistra a quella di dritta, ci scambiammo uno sguardo che tradotto significava: piano B!

Sapevo di dover continuare a dare indicazioni al Comandante senza allarmarlo più di quanto già non fosse, e sapevo che il mio collega avrebbe avuto la calma necessaria per valutare ogni mia singola parola integrandola se necessario.

In quel momento dalla prua arrivò la notizia che il rimorchiatore era libero. Ottimo! Pensai.

Prima cosa la sicurezza delle persone e quindi avvisai gli ormeggiatori sulla barca, già pronti a prendere gli spring di prua, e lo Svezia di allontanarsi perché avremmo dato fondo alle ancore. Non appena l’area fu sgombra suggerii al Comandante di dare fondo subito a tutte e due le ancore.

250 metri, 2 nodi, 4 minuti.

Il rumore di ferro arrivò dalla prua come un tuono lontano, avvisandoci che le grosse ancore erano sul fondo e stavano chiamando la catena in acqua.

Guardai a poppa, non vidi la scia del’elica e pensai alla poppa della nave e al suo specchio tronco… guardai il mio collega.

Germania! ce la fai a spingere sullo specchio di poppa?

il Germania è uno degli ultimi modelli di rimorchiatori in forza a Genova; oltre ad una potenza micidiale ha anche una prua molto alta e ampia che si presta bene alla spinta e per questo lavoro lo specchio di poppa della Tubul era perfetto.

– Sì, se mi da due minuti mi accorcio il cavo e vado.

Non li hai due minuti Germania, fai quel che puoi, quando ci sei spingi con tutto quel che hai.

– Ricevuto, vado!

Sapevo dal tono di voce del Comandante del Germania che aveva capito perfettamente la situazione. Il mio collega annuiva e guardava il comandante che comunicava con la sala macchine e muoveva la leva del motore. L’aria per l’avviamento era a livelli alti, il problema era un altro e sconosciuto, ma sicuramente non avremmo avuto la macchina in tempi brevi.

Svezia, quando hai recuperato il cavo dirigiti a poppa e spingi insieme al Germania, puoi farlo vero?

Sì certo, sto andando!

Due rimorchiatori di quella potenza utilizzati alla spinta sono una garanzia, in più avevo le catene e le ancore che stavano mordendo il fondo

200 metri 1,7 nodi, meno di 4 minuti

La velocità stava scendendo, buona notizia, tutte le forze a nostra disposizione stavano operando correttamente. Parlando con il comandante, che era molto teso, concordammo di provare a frenare le ancore dopo che la quinta lunghezza fosse andata in acqua. Oltre 100 metri di catena sul fondo avrebbero agguantato maledettamente bene!

– Il Columbia sta arrivando!

La stazione di controllo dei rimorchiatori, che non stava affatto dormendo, aveva già mandato un altro rimorchiatore in assistenza, buona notizia.

150 metri, 1,5 nodi, 3 minuti

Quando il tempo a disposizione diminuisce meno rapidamente della distanza è sempre un sollievo e sentivo che la situazione era sotto controllo. Eravamo tutti in attesa, la velocità diminuiva più lentamente ora. Il mio collega mi informò che aveva già avvisato l’Autorità Marittima e la stazione piloti.

100 metri, 1 nodo, 3 minuti

Pensai ai 50 metri dei rimorchiatori di poppa più i 50 metri residui e immaginai la scia che dirigeva verso la banchina. Presi un’ultima precauzione.

Germania, Svezia, fischiate per avvisare se ci fosse qualcuno in banchina.

– Comandante siamo fermi!

Mi anticipò il Germania, non sapendo che l’abbrivo della TUBUL aveva tutta l’attenzione che ero in grado di avere da qualche minuto; il problema adesso era l’opposto: smorzare l’abbrivo in avanti.

Bene, Germania e Svezia fermatevi! Germania pronta a frenare con il cavo.

Con tre rimorchiatori, la nave in pieno controllo, iniziammo a salpare le catene.

Successivamente e lentamente dirigemmo in banchina, non prima di aver effettuato un paio di test positivi sul motore che partì regolarmente per il sollievo del comandante.

A nave ormeggiata era giunto il momento di congedarsi. Il Comandante ci strinse le mani ringraziandoci calorosamente  per come avevamo condotto la manovra, ben consapevole che di lì a poco sarebbe stato "intervistato" dalle autorità. Dal nostro canto ringraziammo lui e l’equipaggio per l’ottimo lavoro di squadra, e soprattutto i rimorchiatori, rivelatisi decisivi in questa emergenza.

La pilotina era già pronta di poppa. Altre navi ci aspettavano per andare all’ormeggio.

 

Rapallo, 12 Luglio 2018

webmaster: Carlo Gatti

 


 

 



UNA PICCOLA GRANDE STORIA DI MARE

 

UNA PICCOLA GRANDE STORIA DI MARE


Dalla rubrica settimanale PARLO CIAEO creata e condotta da Andrea Acquarone, é emersa dalla polvere depositata dalla storia la lettera di Rinaldo ed una bella quanto realistica ricerca dello scrittore Roberto Polleri.

L’importanza e la bellezza di questa storia consiste nella rappresentazione drammatica della vita quotidiana di un veliero vista e raccontata dal marinaio Rinaldo che vive l’approssimarsi del naufragio che non avviene per puro miracolo…

Ringrazio l’amico Andrea Acquarone per la freschezza del suo racconto in lingua genovese e per avermi fatto conoscere Roberto Polleri: una buona penna marinara! Ringrazio infine L’Agenzia Bozzo di Camogli da cui abbiamo preso l’unica fotografia esistente del brigantino a palo Mac Diarmid.

Carlo Gatti

PARLO CIAEO 03 giugno 2018

L’urtimo viagio da Mac Diarmid. Finiva coscì l’epoca di bregantin

di Andrea Acquarone

In zeneise se ciammavan ascì co’unna poula ingleise, scippe, comme à dî: o barco pe eccelensa. E de fæti i bregantin, avanti do vapô, an fæto a fortuña da nòstra marineria; za verso a fin do secolo l’atro, però, ean in sciâ via do declin, coscì che quande o Roberto Polleri o m’à contou l’avventua da Mac Diarmid, visciua da-o Rinaldo Pistarino (nònno de seu moggê) do 1924, ghe son arrestou doe vòtte. A no l’ea solo unna stöia de mâ de quelle epiche, ma a l’ea ascì feua da-o tempo.

A Mac Diarmid o l’ea un bregantin scosseise con scaffo in äsâ do 1884, che passando de man in man o l’arriva dòppo a primma guæra a-a famiggia Dufour. I 23 de luggio do 1924 a parte donca da Zena pe Montevideo carrega de sâ, e i 14 d’agosto, comme previsto, son à largo do Senegal. Ma da lì in avanti, primma ghe picca addòsso un monson ch’o dua un meise, dapeu pe un atro meise no se mescian pe farta de vento, tant’è che i 30 de settembre se treuvan ancon à l’ertessa da Guinea, quande i mouxi de unna borrasca scciancan doî di erboi. Con tutto, riescian à anâ avanti, e i 8 de ottobre son à 100 miggia da-o Brasile, ma ecco che unn’atra boriaña a î piggia, e unn’atra ancon i 23 de ottobre. Un tòcco de coverta a sata e i òmmi veddan a fin: à bòrdo manca tutto, sorviatutto a speransa. Però strenzan i denti, fan di tappolli pe riparâ i danni, mangian i bagoin pe no moî de famme, scinché o no l’arriva un bon vento fresco che o î pòrta à sarvamento à Montevideo i 4 de novembre. Tutti pensavan che a Mac Diarmid a fïse naufragâ, aivan za fæto dî de messe…

O Rinaldo Pistarino o l’aiva dixineuv’anni quande o l’à visciuo sta traversâ. Tanto pe capî o personaggio, quattr’anni avanti o l’ea scappou de cà pe imbarcâse, e o l’ea za in sciô meu quande un amigo de famiggia ô conosce e o ô ripòrta in derê. A stöia da Mac Diarmid â conoscemmo graçie à lê, ch’o l’à contâ pe lettia à sò fræ (unna lettia tanto bella ch’a dovieiva stâ a-o MUMA). Dòppo avei descrito i seu “cento giorni tra acqua e cielo” o finisce coscì: “mai paura buon marinaio”.

Lescico

Apreuvo: seguenti
Arrestou: (ghe son): sono rimasto sorpreso
Äsâ: acciaio
Bagoin: scarafaggi
Erboi: alberi
Farta: mancanza
Guæi: molto
Mescian: muovono
Mouxi: marosi
Picca: picchia
Sâ: sale
Scciancan: schiantano

UNA PICCOLA, GRANDE STORIA DI MARE
SULL'OCEANO A BORDO DELLA

MAC DIARMID

di Roberto Polleri

La “Mac Diarmid” era un brigantino a palo, dotato di tre alberi con scafo in acciaio, per ben 1.622 tonnellate di stazza. Viene varata il 16 ottobre 1883 dal cantiere dell'Armatore Mac Millan di Dumbarton in Scozia il quale dopo tre anni di navigazione la rivende all'Armatore Michele Amoroso, italiano, che ne affidava il comando al Capitano Cremonini.


Tra i suoi viaggi, nel 1886 la nave veniva registrata a San Francisco (USA) con carico di grano per Queenstown, in Australia. Alla morte dell'armatore Amoroso, gli eredi vendettero il bastimento a George Karran di Castletown (Isola di Man). Nel 1907, il bastimento era partito da Newcastle (Australia) per il Cile, dove incappava in una violenta tempesta che lo disalberava. La nave raggiungeva fortunosamente Auckland in Nuova Zelanda, dove rimaneva abbandonata per due anni finché l'Armatore Capitano Giuseppe Mortola di Camogli, detto "Sanrocchin", probabilmente per la sua origine dalla frazione di San Rocco della cittadina ligure, il quale intuiva che l’acquisto della nave poteva essere un buon affare e diveniva quindi proprietario della “Mac Diarmid” per la cifra di circa 2.400 sterline inglesi, pari a circa 56.000 lire, al cambio del 1909 che indicativamente potrebbero essere attuali 200.000 euro.

Il Capitano Giuseppe Mortola era il maggior armatore italiano di navi a vela di tutti i tempi: era proprietario di venticinque grandi navi e di una trentina di vascelli minori oltre alle quote in altre società di navigazione ed alle numerose carature possedute nei vascelli di diverse famiglie di armatori di Camogli. Acquistato il Mac Diarmid, il "Sanrocchin" lo faceva riarmare e dal 1910 il bastimento riprendeva a navigare ancora proficuamente. Nel 1914 partiva da Marsiglia per Rio de Janeiro in Brasile, con carico generale.


Da li, proseguiva in zavorra, ovvero riempiendo le stive di acqua di mare per stabilizzare la navigazione, in direzione Newcastle (Australia) dove caricava per il Cile da dove proseguiva poi per le Isole del Guano, quali Lobos de Afuera dove caricava il guano, ovvero escrementi di uccelli marini, utilizzato in Europa sia come potente fertilizzante sia come base da cui estrarre il salnitro, elemento necessario alla creazione di polvere da sparo.


La Mac Diarmid sopravvive alla Grande Guerra, al termine della quale fu venduto alla famiglia Dufour di Genova i quali lo utilizzeranno esclusivamente per trasportare sale di Cadice ai saladeros argentini ritornando a Genova con estratto di “quebracho”, una sostanza ricca di tannino utile per la concia delle pelli.


La carriera della nave si conclude nel 1926 a Genova, dove viene disarmato e rimane al molo Duca degli Abruzzi sino al 5 dicembre 1928 quando viene rimorchiato a Savona per essere demolito.


E' uno dei rari casi in cui una nave, nonostante il passaggio a diversi proprietari, non ha mai cambiato il suo nome nei 45 anni di vita e di navigazione.

Il viaggio


La nave lascia il porto di Genova diretta verso l’Uruguay il 23 luglio, già in assenza di vento, con rotta verso ovest per lo stretto di Gibilterra. Dopo circa un mese di navigazione, il bastimento arriva in dirittura delle isole di Madera, Comore e Capoverde, al largo della costa africana all’altezza del Senegal, senza problemi di sorta. E’ il 14 agosto. Da quel giorno in poi, per circa un mese la nave si trova in balia del vento e della pioggia, ci vorrà un altro mese per superare la linea equatoriale, quando la fatica e le avversità iniziano a provare l’intero equipaggio. Eppure il peggio deve ancora arrivare: a fine settembre, il 27 per l’esattezza la nave si trova al largo del golfo della Guinea, zona a forte rischio per la presenza di pirati, dove il bastimento deve navigare a sufficiente distanza dalla costa per scongiurare attacchi.

L’evento più importante di tutto il viaggio è il temporale del 30 settembre. Mare e vento spezzano gli alberi principali e danneggiano seriamente la “Mac Diarmid”. Due mesi di mare e danni all’apparenza tali da far presagire un imminente naufragio. Nonostante i danni, gli uomini stremati e la scarsezza di cibo ed acqua, la nave prosegue la sua rotta verso il Brasile, che in data 8 ottobre è a circa 100 miglia di distanza. Anche qui, però una nuova tempesta sembra dare il colpo di grazia al brigantino. Nuovi danni allo scafo ed al morale degli uomini che vedono ormai vicina la fine. Ottanta giorni in mezzo al mare ed il porto che appare lontano ed irraggiungibile. Nonostante tutto si procede tra i flutti, e si arriva così al 23 ottobre, all’alba del terzo mese trascorso a bordo, quando di nuovo la violenza del mare e del vento segnano profondamente la nave. Una parte della coperta viene sradicata dalla forza della natura. Mancano ormai solo 700 miglia da Montevideo, destinazione dell’imbarcazione.

In tre giorni di vento buono e di mare calmo si potrebbe giungere in porto, ma con la nave così provata dalle intemperie anche il minimo spostamento diventa una fatica enorme per lei e per chi la conduce. Adesso si sta toccando davvero il fondo. A bordo manca tutto, cibo, acqua ma soprattutto la speranza di vedere ancora terra. Per fortuna il vento cambia, i danni sono rattoppati alla meglio con ciò che si ha a bordo e la nave fa rotta verso l’Uruguay.

È l’alba del 3 novembre quando l’urlo liberatorio “Terra! Terra!” risuona sulla tolda e riaccende gli animi dei marinai. Alle 14.00 del 4 novembre 1924, dopo 105 giorni di navigazione, la “Mac Diarmid” tocca il molo di Montevideo. L’equipaggio è interamente salvo anche se decisamente prostrato dall’incredibile viaggio. Eppure, la forza d’animo dei marinai e la forza quasi magica sprigionata dalla “misteriosa Mac Diarmid”, come la definirà Rinaldo, che nonostante le avversità riesce comunque a raggiungere la propria destinazione. A terra, le maestranze si stupiscono dell’arrivo del bastimento che davano per naufragato nell’oceano per il così lungo tempo trascorso dalla partenza. 

L’autore della lettera


Rinaldo Pistarino era nato a Voltri il 23 agosto 1905. Aveva solo quindici anni quando scappa da casa con un piccolo fagottino sulle spalle diretto verso il porto di Genova pronto per imbarcarsi e assecondare la sua grande passione per il mare e la navigazione. Giunto su uno dei moli, viene riconosciuto da un amico di famiglia che ne intuisce la fuga e, prendendolo letteralmente per il colletto lo carica a forza su una delle carrozze dirette verso il ponente genovese, affidandolo al cocchiere e pregando quest’ultimo di tenerlo d’occhio fino all’arrivo nella sua abitazione dove poi di persona si sarebbe sincerato del suo rientro. Il primo tentativo di diventare marinaio finiva così un po’ miseramente...

Eppure, era solo questione di tempo. La sua voglia di partire lo avrebbe condotto in mare aperto a vivere tutto ciò che abbiamo letto nelle sue parole. La sua passione per il mare terminerà solo quando l’incontro con la sua futura moglie lo porterà a decidere di trovare un lavoro sulla terraferma. Il “buon marinaio” è morto a Voltri il 24 maggio 1989.

La lettera

Montevideo, 18 dicembre 1924.

Carissimo Fratello,


vuoi tu dunque conoscere le avventure mie e di questo lungo viaggio? Ebbene, il tuo desiderio in certo qual modo sarà esaudito, ne avrei da raccontarti e forse più che sufficiente sono i particolari, per poter compilare un vero romanzo di avventure e a te farà molto piacere leggere questa mia, dato che sei sempre stato un po’ amante delle avventure più strane e più soddisfazione proverai pensando che chi scrive è tuo fratello, tuo fratello che ha intrapreso un viaggio non privo di emozioni, ma che ora tutto è tornato alla tranquillità.


Immagina si parte dal cantiere il mattino del 23 luglio con poco vento, alla sera siamo già in bonaccia completa e di questa ne abbiamo per tre giorni, siamo sempre in vista della costa spagnola, ma ecco che al quarto giorno una leggera brezza da nord ovest ci fa filare verso questa immensa pianura senza fine e piena di misteri e dopo qualche giorno di questo buon vento si entra, per così dire, nella zona della brezza costante (vento che scende da nord est) questo vento è buonissimo per noi, dato che è in poppa e dovrebbe accompagnarci quasi all’Equatore, per poi prendere l’altra brezza da sud est e quest’ultima dovrebbe accompagnarci sino all’altra parte per poi navigare alla ventura e con venti diversi fino alla meta, ma ecco, che come invece sentirai, tutto il previsto è andato a vuoto.


Entrati che siamo nella prima brezza cioè quella da nord est che ci fa filare e delizioso è il navigare con si buon vento e così si arriva al 17 agosto, durante questo frattempo siamo passati al largo di qualche isola.


Il 6 agosto l’isola di Madera, l’11 agosto le Comore, il 14 l’isola di Capoverde che si trova al 13° di latitudine a nord, tutte però invisibili ad occhio nudo.


Ed eccoci al 17 agosto, dopo aver navigato per circa un mese senza incidenti di sorta, si comincia e potrei paragonare che da oggi non si naviga più come cristiani ma da vere bestie.


Eccoci al primo temporale, vento forte da prua, pioggia e mare grosso, si tenta di bordeggiare ma il tempaccio non ci permette, ora devo spiegarti in gergo marinaresco certe manovre, non potendo altrimenti ci mettiamo alla trinca dopo che la furia del vento ci asportò qualche vela dopo vari giorni il vento si rinforza e pare che dica voglio vincere io, infatti qualche altro disastro succede.


Questo ventaccio dopo aver soffiato a volontà ci regala un po’ di calma, ma ci rimane ancora i colpi di mare i quali non ci assicurano di stare in coperta, sempre piove, siamo al 14 settembre, ossia da 52 giorni che siamo in mare e da 27 che siamo sotto una pioggia continua e che non si vede il sole. La notte dal 14 al 15 settembre altro vento forte di prua e di questo ne abbiamo per qualche giorno ancora e ti confesso che noi tutti siamo quasi esausti, forse già troppo siamo stati provati da questi elementi, eppure non è ancora finita.


Finalmente eccoci al 18 settembre e abbiamo un po’ di calma. Ora ti spiego brevemente che cos’è questo ammassamento di vento furioso e continuo.


Il suo nome è Munson e proviene dall’Oceano Indiano attraversa l’Africa Equatoriale e con impeto di forza si butta nell’Atlantico tra il 13° di latitudine nord e l’Equatore e si perde poi credo nella Cordigliera delle Ande, la sua durata in generale è di sei mesi fra i quali ha 53 giorni e 16 ore di maggior violenza, e questo massimo si sente in detta posizione dal 10 di agosto al 20 ottobre circa.


Ora siamo al 15 settembre, si sta tirando un lungo bordeggio con prua verso la costa africana, oggi stesso si taglia l’Equatore, ossia si lascia l’emisfero nord per inoltrarsi all’emisfero sud onde ci attendono altri disastri.


Il caldo si fa sentire ed è insopportabile da 45 a 50 gradi ma grazie ai continui piovaschi, che sono per noi un vero sollievo, del Munson più nessuna traccia, ormai abbiamo oltrepassato la sua zona devastatrice e siamo nella continua bonaccia equatoriale.
Al 27 settembre siamo vicini al Golfo della Guinea, con calma di vento e corrente forte che ci spinge sempre più nel golfo, questo è un po’ pericoloso dato che è frequentato da piroghe di indigeni della Guinea i quali assaltano depredandoli i bastimenti che per disgrazia trovansi in questi paraggi, ma grazie a un po’ di brezza la quale ci da modo di allargarci alquanto da questo brutto posto.


Il 28 settembre, un po’ di vento buono ci fa guadagnare cammino, ma eccoci al 30 altra giornataccia, alle 4 pare si navighi con il vento in poppa, questo in un batter d’occhio cambia e di poppa si gira e si ferma di prua, tutto questo succede senza che nessuno se ne avveda, così che le vele invece di essere gonfie alla buona, ossia come si vorrebbe dire in gergo marinaresco, si rigonfiano al rovescio, in modo che i due alberi delle vele quadre, trinchetto e maestra, oscillano e si teme da un momento all’altro abbiano a cascare in mare, intanto si sentono scricchiolii di cavi che si spezzano, griglie del sartiame che come la grandine cadono in coperta, vele che si strappano completamente e se ne vanno con il vento, ma nemmeno qui ci diamo per vinti, non è ancora trascorso un minuto dall’ira di tutto ciò, che si sente una voce gridare con tutta la forza, coraggio e sangue freddo, è la voce del comandante che grida dando gli ordini più opportuni, lascio a te immaginare il momento che si sta passando, sembriamo matti furiosi, ma ognuno ha il suo compito, il suo dovere da compiere e con sangue freddo riusciamo per vero miracolo ad evitare una vera catastrofe, bastavano pochi minuti e poi addio
Mac Diarmid e i suoi uomini, nota che tutto questo è successo in pochi minuti.


Questo temporale del 30 settembre era infortunale e come abbiamo appreso al nostro arrivo a Montevideo perì con il suo equipaggio una nave tedesca proveniente dall’Europa e diretta come noi a Montevideo e un piroscafo inglese, tutti e due naufragarono proprio il 30 settembre.


All’indomani il vento cessa e si ritorna alla bonaccia, dopo nuovamente vento e si rifà cammino, tanto che il 7 ottobre siamo già vicini alla costa del Brasile, il giorno 8 siamo a 100 miglia e qua subito di gira di bordo e nuovamente al largo.


Eccoci alla notte fra 8 e 9 ottobre un altro disastro che merita di essere spiegato a parte. 
Il suo nome è Pampero, la sua origine credo nasca dal Messico, poi con velocità e forza incalcolabile scende verso l’America Meridionale seguendo la Cordigliera delle Ande, fino alla Terra del Fuoco, ossia al Capo Diurno, colà le montagne fanno specie di gomito in modo che questo vento è obbligato a buttarsi in Atlantico e ritorna indietro per via mare, con una forza tale che ora sentirai.


Dunque siamo alla notte tra 8 e 9 ottobre, il vento soffia tanto forte e con una potenza tale che buona parte delle vele viene asportata, i colpi di mare devastano tutto ciò che trovano in coperta, dopo qualche giorno vento e mare prendono forza con un aspetto tale che non sappiamo proprio a che Santo votarci per raccomandarci, sono circa 80 giorni che siamo in mare, si avrebbe bisogno di un po’ di riposo, il giorno dell’arrivo è ancora lontano, anzi per dirti il vero e per dirti tutto ora aspettiamo con rassegnazione da un momento all’altro il fatale momento.


La nave sembra non abbia più la forza di resistere, è un vero disastro perché prima il velaccio poi trinchetto e parrocchetto, dell’albero di trinchetto, velaccio gabbia e maestra dell’albero maestro tutto è stato asportato dal vento, non contento di questo, la forza del mare e del vento provocano la rottura di due stralli, cavi d’acciaio abbastanza grossi e un paterazzo della grossezza del braccio di un uomo, per questo l’albero maestro minaccia di cascare, ma grazie ad un tentativo ancora si riesce provvisoriamente a riparare.


Il 16 ottobre abbiamo un po’ di calma, e così via fino al 22, in questo giorno ecco un’altra volta il Pampero e con altra violenza che ci mette in serio pericolo, specie per certe manovre che dobbiamo fare in coperta vere montagne d’acqua si rovesciano in coperta, con una violenza tale che si vede la fine.


All’alba del 23 un’ondata più potente stacca dalla salda imperniatura circa 10 metri di bordo al lato sinistro della prora, non ci batte pure contro il boccaporto di maestra arrecando altri danni, siamo a circa 700 miglia da Montevideo ci basterebbero tre giorni di vento buono per coprire questa distanza ed essere a salvamento ma invece no, l’infuriare del vento e del mare non ci permettono nemmeno di stare alla trinca, così che si è obbligati ad appoggiare e perdere il cammino, che sudore di sangue ci costò e così in questa corsa vertiginosa, pensa con una vela sola si passano le 18 miglia all’ora e si va verso il Capo di Buona Speranza, la punta estrema dell’Africa, qua abbiamo un altro disastro, il pennone gabbia spezza i cavi di sostegno e pericola di cascarci in coperta ma anche qui si riesce a riparare, siamo al 25 ottobre, il vento sembra concederci un po’ di calma, ma Dio mio quale disastro si presenta.


I viveri cominciano a scarseggiare, quindi mano alla cinghia, ogni giorno stringo sempre di più e l’indizio di buon vento e dell’arrivo non si presenta. Gli scarafaggi diventano il nostro cibo. Ormai ogni speranza è per noi perduta, da 100 giorni siamo tra cielo ed acqua.


Eccoci al 29 ottobre, abbiamo un po’ di vento a favore, questo si rinfresca sempre più se continuasse così ora si fila verso quella terra che porta il nome di America.


Ecco il buon vento salvatore continua anche oggi.


Siamo al 1 novembre a 500 miglia da Montevideo, all’alba del 3 vediamo in lontananza terra e tutti a una voce si grida Terra! Terra! Non ci speravamo proprio più, seppur sfiniti e malconci la speranza si riaccende in ognuno di noi.


Verso sera siamo in vista dell’Isola Flores, all’alba del 4 avvistiamo l’Isola dei Lovi e alle 2 pomeridiane si giunge nella rada di Montevideo finalmente!
La nave, dico io, misteriosa
Mac Diarmid.


Appena arrivati è venuto un rimorchiatore portandoci viveri e notizie, infatti ci siamo sentiti dire che ormai non ci aspettavano più e che una S. Messa era stata celebrata in nostro suffragio, tanto più che qualche giorno prima una nave tedesca completamente disalberata causa una forte pamperada. Sul giornale (La Stampa) venne pubblicato un articolo sul temporale che infierì da queste parti e venne pure segnalata la perdita di qualche veliero.


Anche i nostri cari ormai non avevano più speranze di poterci rivedere, così appena giunti a Montevideo il nostro capitano ha mandato subito un telegramma alla compagnia e questa tempestivamente avvisò le nostre famiglie tranquillizzandole.
Potevamo proprio dire di essere stati fortunati.


E qui finisce il mio racconto che ormai non è che un ricordo.
(Mai paura buon marinaio)


Rinaldo

 

 

 

Brigantino a Palo MAC DIARMID

 

Epoca della foto: anno 1928

Fotografo: sconosciuto

Origine: Archivio Cap. Pro Schiaffino, Camogli

 


 

La nave Mac Diarmid fotografata nel porto di Genova nel 1928.

Scafo in acciaio, stazzava 1.622 tonnellate.

Venne varata il 16 ottobre 1883 dal cantiere dell'Armatore Mac Millan di Dumbarton il quale dopo tre anni la rivendette all'Armatore Michele Amoroso che ne diede il comando al Cap. Cremonini.

Ottimo e robusto bastimento, navigò per molti anni su tutti gli oceani.

Nel 1886 è registrato a San Francisco sotto carico di grano per Queenstown.

Alla morte dell'Armatore gli eredi vendettero il bastimento a George Karran di Castletown (Isola di Man).

Nel 1907, partito da Newcastle (Australia) per il Cile, incappò in una violenta tempesta che lo disalberò.

Raggiunta fortunosamente Auckland (N. Z.), vi rimase abbandonato per due anni finché l'Armatore Cap. Giuseppe Mortola di Camogli, detto "Sanrocchin",  fiutò l'affare ed acquistò il Mac Diarmid per £st. 2.400 pari a lire 56.000 al cambio del 1909.

Il Cap. Giuseppe Mortola è stato il maggior armatore italiano di navi a vela di tutti i tempi: era proprietario di venticinque grandi navi e di una trentina di vascelli minori oltre alle quote in altre società di navigazione ed alle numerose carature possedute nei vascelli di diverse famiglie di armatori di Camogli.

Acquistato il Mac Diarmid, il "Sanrocchin" lo fece riarmare e dal 1910 il bastimento riprese a navigare ancora proficuamente.

Nel 1914 partiva da Marsiglia per Rio de Janeiro con carico generale. 

Lì giunto proseguiva in zavorra per Newcastle (Australia); caricava per il Cile da dove proseguiva poi per le Isole del Guano.

A Lobos de Afuera caricava guano per l'Europa.

Sopravvisse alla Grande Guerra, al termine della quale fu venduto ai Dufour di Genova i quali lo ridussero a brigantino a palo e lo utilizzarono esclusivamente per trasportare sale di Cadice ai saladeros argentini ritornando a Genova con estratto di quebracho per la concia delle pelli.

Disarmato nel 1926 in Genova, rimase al molo Duca degli Abruzzi sino al 5 dicembre 1928 quando venne rimorchiato a Savona dove fu infine demolito.

E' uno dei rari casi in cui una nave, nonostante il passaggio a diversi proprietari, non cambiò mai il suo nome nei suoi 45 anni di vita.

 


A cura di

CARLO GATTI

 

Rapallo, 6 Giugno 2018



SAN FRANCESCO DA PAOLA-Protettore della gente di mare

 

SAN FRANCESCO DA PAOLA

Paola, Cosenza, 27 marzo 1416 - Plessis-les-Tours, Francia, 2 aprile 1507 -

Nel 1943 papa Pio XII, in memoria della traversata dello Stretto, lo nominò

Protettore della Gente di Mare

 

La sua vita fu avvolta in un'aura di soprannaturale dalla nascita alla morte. Nacque a Paola (Cosenza) nel 1416 da genitori in età avanzata devoti di san Francesco, che proprio all'intercessione del santo di Assisi attribuirono la nascita del loro bambino. Di qui il nome e la decisione di indirizzarlo alla vita religiosa nell'ordine francescano. Dopo un anno di prova, tuttavia, il giovane lasciò il convento e proseguì la sua ricerca vocazionale con viaggi e pellegrinaggi. Scelse infine la vita eremitica e si ritirò a Paola in un territorio di proprietà della famiglia. Qui si dedicò alla contemplazione e alle mortificazioni corporali, suscitando stupore e ammirazione tra i concittadini. Ben presto iniziarono ad affluire al suo eremo molte persone desiderose di porsi sotto la sua guida spirituale. Seguirono la fondazione di numerosi eremi e la nascita della congregazione eremitica paolana detta anche Ordine dei Minimi. La sua approvazione fu agevolata dalla grande fama di taumaturgo di Francesco che operava prodigi a favore di tutti, in particolare dei poveri e degli oppressi. Lo stupore per i miracoli giunse fino in Francia, alla corte di Luigi XI, allora infermo. Il re chiese al papa Sisto IV di far arrivare l'eremita paolano al suo capezzale. L'obbedienza prestata dal solitario costretto ad abbandonare l'eremo per trasferirsi a corte fu gravosa ma feconda. Luigi XI non ottenne la guarigione, Francesco fu tuttavia ben voluto ed avviò un periodo di rapporti favorevoli tra il papato e la corte francese. Nei 25 anni che restò in Francia egli rimase un uomo di Dio, un riformatore della vita religiosa. Morì nei pressi di Tours il 2 aprile 1507.

Patronato: Calabria, Naviganti, pescatori.

 

Etimologia: Francesco = libero, dall'antico tedesco

 

Martirologio Romano: San Francesco da Paola, eremita: fondò l’Ordine dei Minimi in Calabria, prescrivendo ai suoi discepoli di vivere di elemosine, senza possedere nulla di proprio né mai toccare denaro, e di mangiare sempre soltanto cibi quaresimali; chiamato in Francia dal re Luigi XI, gli fu vicino nel momento della morte; morì a Plessy presso Tours, celebre per la sua austerità di vita.

Il MIRACOLO PIU’ IMPORTANTE DI

S. FRANCESCO DA PAOLA

San Francesco da Paola - CHARITAS

 

E’ il prodigio tanto famoso del passaggio dello stretto di Messina: prodigio, che, senza dubbio, non si riscontra se non raramente nella vita dei santi. Il nostro Taumaturgo meglio dell’apostolo Pietro, il quale per andare sulle acque incontro al Divino Maestro, dovette essere da lui sorretto, ci si presenta nel secolo XV quale figura dello stesso Cristo, quando incedeva sereno e maestoso sulle onde del lago di Tiberiade.  Lo stretto di Messina divide le sponde calabresi da quelle siciliane, discoste non più di sei chilometri, e nel tratto di minor distanza poco più di tre chilometri. Il servo di Dio era giunto con i suoi compagni a Catona, villaggio nella provincia di Reggio, a cinque chilometri da Villa San Giovanni, che sorge dirimpetto al faro di Messina, ed è il punto più prossimo per l’imbarco dal continente alla Sicilia. In quella spiaggia s’apriva un piccolo porto, dal quale partivano ogni giorno barche da trasporto e, Francesco sperava che lui ed i suoi frati, sebbene sprovvisti di denaro, per carità avrebbero trovato posto in qualcuna di esse. Difatti, come narrano i testi, appena giunto al porto, una barca carica di legname da costruzione era sul punto di far vela per Messina. Il sant’ Uomo si avvicinò al padrone, per nome Pietro Coloso e, dopo averlo salutato cortesemente, lo pregò, per amor di Gesù Cristo, ad accoglierlo nella barca con i due confratelli per la traversata dello stretto. – Volentieri, rispose seccamente il Coloso, purchè mi paghiate. - Ma noi, o buon fratello, ci siamo rivolti alla vostra carità, perché non abbiamo neppure un soldo. – E che importa a me? Replicò con malgarbo. - Se voi non avete denaro da pagarmi, io non ho barca per portarvi -. Questa brusca ripulsa non turbò l’Uomo di Dio, il quale visti fallire i mezzi umani, ricorse con maggior fiducia all’aiuto divino. Senza più insistere avvertì i compagni di attenderlo un momento, mentr’egli avanzandosi lungo la spiaggia quanto un tiro di pietra, si mise in ginocchio a pregare per pochi istanti Colui, che altra volta, attraverso le acque del Mar Rosso, aveva aperto al popolo sicuro passaggio. Il Signore ascolta la sua preghiera e gli ispira il da farsi. Francesco si alza, benedice il mare, e in quell’istante, quanti erano presenti – tra i quali i nove viandanti che l’avevano accompagnato – lo vedono distendere il suo mantello sulle onde , montarvi sopra risolutamente, e tenendone stretto un lembo alla estremità superiore del suo bastone, come a servirsene di vela, procedere rapido e sicuro (solo o accompagnato?) verso le coste siciliane. All’insolito spettacolo gli astanti prorompono in grida di ammirazione e di gioia, mentre il nostromo Coloso, non so se più attonito che confuso, per riparare in qualche modo al malfatto, si affretta a prendere sulla barca uno o tutti e due i frati rimasti sulla riva; chiama indarno il prodigioso navigante e parte… Ma è vano ogni suo sforzo per raggiungerlo! Il santo Taumaturgo, senza voltarsi mai indietro, tira diritto verso l’altra spiaggia. E già era vicino a toccare terra, quando s’avvide che anche dal porto di Messina molta gente l’aveva scorto! Fu perciò che, a schivare le loro acclamazioni, piegando un poco verso destra, andò ad approdare in un punto alquanto discosto e solitario. Questo sostanzialmente il prodigio tanto celebrato del passaggio dello stretto di Messina, che avvenne nella piena luce del giorno, sotto gli occhi di numerosi spettatori: prodigio che non ci è trasmesso soltanto dalla tradizione, ma ci viene attestato da deposizioni giurate nei processi. … Vogliono alcuni scrittori che il Santo abbia preso terra a Messina, in quel punto della Spiaggia detta del Santo Sepolcro, dove nel 1503 fu edificato il nostro convento; o poco lungi, dov’è la chiesa della Madonna della Grotta; altri invece, e tra essi il Lanovio, che sia approdato direttamente a Milazzo, e infine gli Atti municipali di Milazzo, notano espressamente che egli “passò il faro ed approdò sotto il Casale del Gesso”. Ma la maggioranza dei biografi che l’attestano, sia il fatto stesso che il Servo di Dio si spinse fino a Catona, donde ordinariamente le barche non fanno viaggio che per Messina, rendono insostenibile l’opinione di quei pochi, che lo fanno sbarcare presso Milazzo.  …. Parimenti nelle lezioni storiche del Breviario romano si legge che il Santo traversò quel tratto di mare sul suo mantello, in compagnia di un altro frate. Così pure nel citato documento dell’archivio municipale di Milazzo, vien detto ugualmente “ch’egli distese il suo mantello su l’acque assieme col p. Francesco Majorano, religioso milazzese, passò il Faro, ecc.“  Ricorderò i belli epigrammi con cui il Frugoni ha illustrato questo portentoso avvenimento:

 

Già sei anni dopo papa Leone X nel 1513, lo proclamò beato e nel 1519 lo canonizzò; la sua tomba diventò meta di pellegrinaggi, finché nel 1562 fu profanata dagli Ugonotti che bruciarono il corpo; rimasero solo le ceneri e qualche pezzo d’osso.
Queste reliquie subirono oltraggi anche durante la Rivoluzione Francese; nel 1803 fu ripristinato il culto. Dopo altre ripartizioni in varie chiese e conventi, esse furono riunite e dal 1935 e 1955 si trovano nel Santuario di Paola; dopo quasi cinque secoli il santo eremita ritornò nella sua Calabria di cui è patrono, come lo è di Paola e Cosenza.

 

Quasi subito dopo la sua canonizzazione, furono erette in suo onore basiliche reali a Parigi, Torino, Palermo e Napoli e il suo culto si diffuse rapidamente nell’Italia Meridionale, ne è testimonianza l’afflusso continuo di pellegrini al suo Santuario, eretto fra i monti della costa calabra che sovrastano Paola, sui primi angusti e suggestivi ambienti in cui visse e dove si sviluppò il suo Ordine dei ‘Minimi’.

 

 

San Francesco da Paola - Santuario dei marinai (Genova). Il Santuario di San Francesco da Paola, posto nella zona Principe, sovrastante il porto, con vista a mare, retto dai Padri Minimi di S. Francesco da Paola, è stato annoverato tra i Santuari dopo che Papa Pio XII ha proclamato S. Francesco "Patrono della gente di Mare", il 27 marzo 1943. Il Santo Paolano, grande taumaturgo, ha soccorso i suoi fedeli con grazie e miracoli nel corso dei 600 anni della sua azione nella Chiesa. Lo testimoniano numerosi "ex voto" esposti nell'atrio d'ingresso della Basilica. Una targa di bronzo che lo raffigura nell'attraversamento dello stretto di Messina viene posta sul ponte di comando delle navi. "La campana del mare" suona ogni sera in memoria dei defunti in mare. La festa del Santo con processione nel porto si celebra la prima settimana di maggio: la cerimonia prevede il lancio in mare della corona in memoria dei caduti.

 

Tradizionalmente, fissata sul ponte di comando di molte navi italiane (circa cinquecento di oltre 100 società marittime), viene posta una targa di bronzo, ideata e progettata a Genova da p. Nicolini e dal cap. P. Castello, per le navi e le Società Armatoriali, per onorare San Francesco di Paola, patrono della gente di mare.

 

Sempre a Genova la Campana del mare, voluta da p. Giacomo Tagliaferro, con i suoi rintocchi, ogni giorno ricorda ai vivi gli eroi vivi e morti del mare.

 

I genovesi usavano chiamare i frati minimi "i religiosi del principe di Oria", perché alla costruzione del convento di Genova Caldetto contribuirono benefici patrizi e cittadini tra i quali gli antichi biografi hanno annoverato, come uno dei più insigni per devozione e generosità, il principe d’Oria.

 

 

CARLO GATTI

Rapallo, 13 Giugno 2015

 


UN CICLONE DA LIBECCIO devastò il Porto di GENOVA (19.2.1955)

Genova, 19.2.1955

UN INFERNALE CICLONE DA LIBECCIO

Frantumò oltre 400 metri di diga, irruppe nello scalo genovese e fece strage di moli e di   navi.

Dalla Relazione sui Pilotaggi effettuati nel Porto di Genova

durante il Ciclone del 19 febbraio 1955.

Notizie meteorologiche.

Fin dalle prime ore del venerdì 18 febbraio 1955 si prospettava maltempo; una fortissima depressione gravava sul Golfo di Genova estendendosi alle due Riviere. Al mattino del sabato 19 febbraio 1955 il mare era gonfio. Grosse ondate investivano paurosamente la diga foranea di protezione al nostro porto.

Mare e vento fortissimo di libeccio avevano già aperto delle piccole brecce nella diga stessa; con l’alzata del sole, il tempo si faceva sempre più minaccioso; verso le 14.00 il tempo era ciclonico con onde altissime che frangevano tanto violentemente contro la diga da causarne – tra le 14 e le 15 – la rottura e lo sfondamento all’estremità del Bacino di Sampierdarena per circa 400 metri. In tal modo grosse ondate investivano l’ormeggio al Pormolio, e alle calate viciniori, provocando ingentissimi danni alle opere portuali, alle navi e ai natanti situati nella zona. Fortunatamente nessuna vittima umana.

Alle 15.00 si avvertivano, via radio, tutte le navi dirette a Genova che, data la forza del mare, la pilotina attendeva a ridosso, all’imboccatura di levante del Porto, non potendo fare servizio fuori, essendo pericoloso per le navi fermarsi per l’imbarco del pilota stesso, si davano istruzioni sulla manovra da seguire.

Quanto esposto é cosa più unica che rara per il Porto di Genova; una cosa normalissima per i porti del Mare del Nord. Nessuna nave, per ovvii motivi di prudenza, si é avvicinata al porto; solo alle 17.00, la nave Città di Catania, si é presentata ed é stata abbordata dalla pilotina con le norme sopra citate.

I Fatti:

Già da alcuni giorni, forti mareggiate avevano martellato Genova e le due riviere con estrema violenza. Verso le 15 la diga foranea del porto (zona di ponente) crollò come sotto i colpi di un maglio. Da quel momento il mare vivo trovò via libera, e nella zona tra ponte Canepa, molo N.Ronco e calata Derna successe l’inferno.

I Danni:

La petroliera Camas Meadows, posizionata di punta (due ancore a mare, poppa a terra) a calata Derna, ruppe tutti gli ormeggi e trovatasi in balia delle onde, andò a colpire ripetutamente le navi vicine e le opere portuali. Infine s’inclinò paurosamente fino a capovolgersi per poi apparire come una grossa balena morente.

L’altra petroliera presente in zona, la Atlantic Lord che era posizionata tra i due denti del molo N.Ronco, rotti gli ormeggi e danneggiate le banchine, cominciò a brandeggiare sulle ancore e a colpire con la poppa  calata Derna e la Camas Meadows. Urti fragorosi produssero falle e fuoriuscita di carburante. I rimorchiatori riuscirono ad agganciare la nave ma poi strapparono i cavi. La lotta ingaggiata dai piloti, rimorchiatori, ormeggiatori e vigili del fuoco contro le forze scatenate della natura durarono a lungo, mentre a non troppa distanza si andava consumando un’altra catastrofe.

Ormeggiato a ponte Eritrea ponente, il cargo svedese Nordanland, sospinto dal mare vivo e dalla fortissima risacca, urtò e si lesionò lentamente contro la banchina d’ormeggio. Dalle numerose falle penetrò acqua di mare che lentamente entrò in contatto con le 400 tonnellate di acetilene (carburo), contenuto in barilotti nelle stive centrali della nave.

Quando la nave cominciò a sbandare, il comandante svedese fece evacuare l’equipaggio e subito si udirono i primi colpi sordi, secchi e staccati come colpi di tamburo che annunciavano una tragica esecuzione. Presto quei rulli nefasti diventarono esplosioni sempre più forti, mentre tutta l’area portuale fu investita dal fumo nero e acre.

Alle 19.20 la Nordanland esplose con un terrificante fragore. Lo scoppio, come una bomba, fu avvertito in tutta la città e molti vetri delle case vicine  andarono in frantumi.

Alle 21 cessarono le esplosioni ed i Vigili del fuoco si aprirono la strada attraverso il fumo dell’incendio mentre le fiamme continuarono a distruggere lo scafo. Anche la nafta cominciò a defluire in mare e distendersi sulle onde. Poi una scintilla del rogo cadde sull’acqua, sulla nafta. Una lingua di fuoco corse veloce sulle onde diffondendosi  in mare tra i ponti Eritrea e Somalia e cominciò così a divampare su centinaia di metri quadrati di mare. I Vigili del fuoco con le loro attrezzature si misero così ad estremo baluardo dei capannoni stivati di juta ed altro materiale infiammabile. Alle 23,  ripresero più ovattate le esplosioni all’interno della Nordanland ridotta ad un rottame incandescente. Poi le spingarde dei pompieri con i loro poderosi getti ebbero la meglio su quelle strisce di fuoco che presto apparvero come tanti lumini in un camposanto spettrale.

Un fascio di luce accecante e sinistra s’incunea sulla scena del disastro. Sulla destra in alto si nota la spaccatura della diga e l’entrata del mare vivo che spazza il Ponte Canepa. La Atlantic Lord resiste sulle ancore con la prora al mare mentre la sua poppa é loibera, senza cavi a terra, pronta per colpire la Camas Meadows rovesciata e chiusa nell’angolo.

Una significativa istantanea del fotografo F.Leoni che é riuscito a cogliere l’azione del salvataggio di un marittimo per opera dei Vigili del Fuoco, nell’attimo del massimo sforzo di trazione sul va-e-vieni.

A sinistra notare l’incavo profondo dell’onda di risacca nel chiaroscuro di questa foto eccezionale di F.Leone. I segni evidenti dei ripetuti urti sono visibili sullo scafo rovesciato della CAMAS MEADOWS.

Il mare vivo ha sfondato la diga anche all’altezza di Samperdarena, e la risacca ha ripetutamente scagliato contro Ponte Eritrea la NORDANLAND che é sbandata per effetto dell’acqua imbarcata dalle falle nella parte sommersa dello scafo. I testimoni oculari, presenti nell’istantanea di F.Leoni, non sanno ancora che la nave ha 400 tonnellate di acetilene nelle stive.

 

L’equipaggio ha evacuato la NORDANLAND. Soltanto i pompieri stanno stanno cercando di raddrizzare la nave pompando acqua fuoribordo. A causa della risacca, le falle  sono ormai numerose ed il destino della nave svedese é segnato.

 

Sono le 19.20. Francesco Leone ha colto il tragico attimo dell’esplosione della nave svedese Nordanland. In breve tempo le strutture della nave si deformeranno a causa delle alte temperature dei roghi alimentati dall’acetilene nelle stive. La Nordanland é esplosa, ed é scesa sul fondo piegandosi verso la banchina mentre l’albero si appoggia pateticamente ai ruderi sconnessi di Ponte Eritrea.

Per tutta la notte la nave svedese  ha continuato a sprigionare fiamme  che il vento trasformava in lugubri fantasmi e, come si vede da questa foto, il relitto ha continuato a emanare fumo e odore acre anche il giorno dopo.

Il ciclone é passato. I segni della devastazione sono ancora più evidenti il giorno dopo, sia in mare che in banchina. La petroliera Camas Medows” ormeggiata di punta a calata Derna, ruppe tutti gli ormeggi e trovatasi in balia delle onde, andò a colpire ripetutamente le navi vicine e le opere portuali. Infine s’inclinò paurosamente fino a capovolgersi per poi apparire come una grossa balena morente.

Da questa veduta aerea scattata il giorno dopo la devastazione, tra Ponte Nino Ronco e Ponte Canepa, si nota la decapitazione della diga e di altre opere portuali come gli ormeggi resi inagibili per molto tempo dal passaggio del ciclone.

Carlo GATTI

"Genova, Storie di Navi e salvataggi".

Le foto del grande maestro Francesco Leone appartengono all'archivio dell'autore.

Rapallo, 20.11.2012