COME TE CERRO, IO VORREI... Poesia

 

 

 

COME TE CERRO, IO VORREI...

di ADA BOTTINI


Voglio anch’io, nel mio tardo inverno

una chioma folta e rossiccia,

capace di resistere ai venti e alle intemperie

e radici salde nella terra

incuranti del gelo.

Come te cerro

ancora vestito nel bosco spoglio

testimone testardo di continuità di vita

ma flessibile al mutare delle stagioni

io voglio essere

Insegnami a resistere.

 

Rapallo, 4 Aprile 2019

 


LA NASCITA DI UN...ORMEGGIATORE PORTUALE

LA NASCITA DI UN…. ORMEGGIATORE PORTUALE

di Alessandro Serra

Premessa

LA MANOVRA PORTUALE POGGIA SU TRE ORGANIZZAZIONI:

Piloti-Rimorchiatori-Ormeggiatori

 

Alessandro Serra, Presidente Europeo degli Ormeggiatori, schiude la porta sul loro mondo.

 

Non c'è politica, né retorica né, tanto meno, burocrazia nel caloroso articolo scritto da Alessandro Serra. Piuttosto uno spaccato di vita raccontato con il cuore, per presentare una categoria che ha una storia ricca di avventura, di professionalità e di aneddoti che diventano una vera e propria scuola di vita.

 


Vorrei provare a rendervi partecipi di come nasce un ormeggiatore del porto, o più semplicemente di come io ritenga di essere diventato ormeggiatore.

Giova probabilmente, per il proseguo della lettura, descrivere per sommi capi cosa è e cosa fa un ormeggiatore. Figura antica quanto la navigazione, l’ormeggiatore, lo dice la parola stessa, ormeggia e disormeggia, da sempre, le navi nei porti di tutto il mondo. Un tempo collocando e trasportando le ancore dei bastimenti chiamati “legni” nella posizione opportuna all’interno della rada portuale, oggi connettendo e disconnettendo i cavi delle navi alle bitte delle banchine portuali, dei pontili in/off shore, dei campi boe, garantendo la sicurezza dell’ormeggio per tutta la durata dello stazionamento nell’ambito portuale.

Oggi gli ormeggiatori utilizzano potenti motobarche e verricelli, addirittura innovazioni tecnologiche di tensionamento e monitoraggio dei cavi delle meganavi che solcano i mari e che devono trovare approdi sicuri.

Il mio intento però è provare a tratteggiare più la componente umana che quella professionale, più quella intima e pittoresca che quella tecnica e di moderna innovazione – che comunque l’ormeggiatore ha dovuto ovviamente mettere  nel proprio bagaglio di lavoratore – più la nascita (l’essere) dell’ormeggiatore che quello che fa.

 

In Italia, il primo obbligatorio passaggio per la nascita di un ormeggiatore, e’ quello di partecipare a un bando di concorso tenuto dalla Capitaneria di porto, che seleziona i marittimi che si candidano sulla base di prove pratiche di “arte marinaresca” e di prove teoriche sulle materie tecnico-nautiche e marittime.

Coloro che risultano vincitori devono entrare nella locale organizzazione di ormeggiatori, nel mio caso il Gruppo Antichi Ormeggiatori del porto di Genova. Il giovane vincitore di concorso si presenta presso gli uffici del Gruppo, dove, insieme agli altri vincitori, è accolto dal Capogruppo con un rapido discorso di benvenuto, di presentazione della cooperativa, modalità di assunzione e formazione e soprattutto di avviamento al lavoro, in quanto “meno male che siete arrivati ci sono turni in banchina da coprire e i soci non vedono l’ora di conoscervi”. Il presagio che ci sia un forte bisogno di forza lavoro c’è, e per circa un mese tutto fila via paludato, teorico e formativo per quel che prevede la norma, a volte asettico e a volte si prova la sensazione quasi di essere coccolati: poi arriva il primo turno, la prima giornata. Si monta alle 5.30 am, ma si sa che è bene, soprattutto per i neoassunti, presentarsi un po’ prima. Sveglia alle 4.30 e via per la sede del gruppo, felici perché inizia la nuova avventura, consapevoli della propria preparazione, ma con una ragionevole dose di ansia per tutto quello che si è sentito raccontare…… E dunque……… Si entra in “sala“ dove si incontrano alcuni neo colleghi, uomini di tutte le età….. è l’ora del cambio quindi non si capisce chi monta e chi smonta…… le navi che stanno entrando in porto una dopo l’altra chiamano ai VHF…… e chiamano i piloti…… e chiamano le squadre di ormeggiatori già operative in banchina….. si ascoltano i movimenti dei rimorchiatori…….. e alcuni dei presenti nemmeno ti salutano (anche se sanno benissimo chi sei), altri ti dicono “fai veloce, cambiati che c’è da andare”….. (ma come, sono montato mezz’ora prima per fare con calma?!)…….. e alle 5.20, dopo una bella corsa in macchina per le strade di un porto ancora sonnacchioso, ti ritrovi nell’oscurità di una banchina che non sai se sia l’Etiopia o l’Eritrea, levante o ponente, radice, prolungamento o testata, (eppure avevo studiato tutto)…. cammini verso il ciglio della banchina, verso il mare e improvvisamente appare come un’astronave la nave che devi ormeggiare, che con il suo bagliore illumina tutto. Si segue come un’ombra il collega più anziano…. ci si rende conto che a prora c’è un’altra squadra di ormeggiatori…. ne arriva un’altra con il gozzo…… tutto diviene più frenetico e tu hai il cuore in gola….. la nave e’ in prossimità della postazione di ormeggio…. si comunica a voce (urla belluine) con gli uomini dell’equipaggio della nave (con un gergo marittimo portuale che sembra inglese ma che, capisci dopo, in realtà è un mix di linguaggi delle marinerie più numerose in giro per il mondo, compreso un po’ di dialetto genovese) per concordare come e quali cavi dare, si comunica con piloti e rimorchiatori via VHF per la posizione finale della nave…… ti lanciano da bordo l’heaving-line (sagola da lancio o appesantita), in genovese si traduce “u livellaine”, cui uno dopo l’altro sono voltati i cavi da ormeggio…. il gozzo con i tuoi colleghi te ne porta altri in prossimità della bitta e quasi magicamente la nave è ormeggiata!


A quel punto capisci di non aver colto quasi nulla di quello che si è fatto, di essere lì per fare l’ormeggiatore ma di non essere ancora un ormeggiatore, e un po’ di timore si insinua dentro di te e ti domandi quando sarai in grado di gestire tutto quello che hai visto solo nella tua prima ora e mezza di lavoro.

Passano i giorni, passano i mesi, a volte gli anni e il quadro a tinte fosche inizia a divenir nitido: si matura la conoscenza dei colleghi che lavorano insieme a te per turni di dodici ore, degli uomini del Corpo Piloti, dei pilotini e degli equipaggi dei rimorchiatori, si impara ad ascoltare la radio VHF quarzata sui canali marittimi dedicati ai servizi portuali e alle emergenze; si inizia ad usare la gestualità marinaresca per salutare e comunicare con gli equipaggi di tutto il mondo. Le navi chiamano, i piloti rispondono e tu riesci a calcolarne  i tempi di evoluzione e manovra a seconda della postazione di ormeggio, dell’utilizzo dei rimorchiatori e della presenza di altre navi: il porto da teorica mappa diventa il tuo habitat naturale e materiale, lo tocchi, lo vivi, ne conosci ogni angolo, ogni insidia, ogni bitta e ogni parabordo e il tuo sapere diviene “saper fare”!

Quando sali sul tuo gozzo e riconosci se il suono del motore sia o meno la musica giusta, controlli le bozze di banco per voltare anche i cavi più “maleducati”, verifichi che il tuo coltello sia alla via, quando ti muovi con destrezza tra i bulbi delle navi che vanno all’ormeggio e i remoni (scie) dei rimorchiatori che le aiutano ad arrivare in banchina, quando capisci anche dal tono di voce del pilota se e quando devi parlare al VHF e quando non devi occupare il canale, allora vuol dire che hai la consapevolezza di riuscire a lavorare riducendo al minimo le insidie che si presenteranno.

E quando poi realizzi che chi non ti aveva dato nemmeno il buongiorno il tuo primo giorno di lavoro e’ proprio colui che più di tutti  è stato attento alla tua incolumità fino a quel momento, allora torna tutto, il primo vagito, ci siamo: è nato un ormeggiatore ……e si deve solo iniziare a crescere!

 

Rapallo, 6 Giugno 2018



ENRICO DANDOLO - UN MITO SU CUI RIFLETTERE

ENRICO DANDOLO

(1107-1205)

IL CORAGGIO E LA FORZA DA LEONE DI UN DOGE VECCHIO E CIECO

UN MITO SU CUI RIFLETTERE…

Da un po’ di tempo in Italia e solo qui da noi, si parla di “rottamazione” come soluzione di numerosi problemi della politica italiana ma, a noi di una certa età, certe parole, così come certi slogan partoriti e abusati con troppa fretta e poco buon senso, ci spingono a scrutare con attenzione la storia del nostro Paese e scoprire, ad esempio, che tra tanti formidabili “vecchietti” ce n’é uno che manda a gambe all’aria l’intero mondo della rottamazione. Si tratta del veneziano Enrico Dandolo che diede alla SERENISSIMA il meglio di sé quando era ormai ottuagenario e per di più menomato dalla cecità.


Di antichissima e aristocratica famiglia veneziana Enrico Dandolo venne eletto 41° Doge a 82 anni. Fu uomo di fine intuito politico, ma anche condottiero valoroso e marinaio di grande esperienza e coraggio. Conquistò Costantinopoli a 94, dopo essere stato uno dei più grandi ammiragli della Serenissima.

I fortunati che arrivano a 82 anni d’età, in genere sono bisnonni e molto vicini alla conclusione della loro vita terrena.

Ma il nostro Grande Ammiraglio era un vegliardo molto VISPO di mente e di spirito ed aveva miracolosamente mantenuto un fisico asciutto, nervoso e molto forte. Dicono che avesse le mani grandi e forti e i suoi occhi azzurri fossero due fari capaci d’indagare severamente in profondità chiunque si parasse davanti a lui.

Enrico Dandolo era stato Ammiraglio della flotta, nobilomo da mar, vincitore di battaglie marittime, e poi Ambasciatore duro ed energico a Palermo presso Guglielmo II di Sicilia e a Costantinopoli presso l’Imperatore Emanuele Comneno. Così duro ed energico che Comneno, per punirlo dell’ardire e dell’arroganza con cui pretendeva la restituzione di Venezia di alcuni prigionieri, lo fece arrestare e “abbacinare” (antica forma di supplizio) con gli specchi ustori. Ne rimase semicieco e anche questa infermità si aggiungeva alle preoccupazioni di coloro che vedevano salire alla massima autorità della Repubblica Serenissima un uomo di età così avanzata e persino limitato in quei suoi occhi che lo resero celebre.

Ma il destino aveva ormai scritto per lui pagine luminose di storia e come per incanto la sua anagrafe subì dei sussulti mostrando subito a tutti quanto fosse brillante il suo smalto e decisa la sua volontà.

Era il 1192 quando giunse al soglio dogale. La stipula della “promissione dogale” fu il suo primo atto quasi rivoluzionario: un documento con il quale s’impegnava a concedere libertà popolari mai prima godute dai cittadini, a rispettare tradizioni e consuetudini, a limitare il suo stesso potere sovrano eletto. Il suo debutto fu sensazionale!

Subito dopo dovette affrontare il primo problema militare e non perse tempo nel prendere decisioni immediate.

I pisani avevano occupato Pola di sorpresa, una città del dominio veneto. L’affronto era molto grave, soprattutto perché si era consumato in acque troppo vicine a Venezia. Era un imperdonabile provocazione.

Dandolo prese il comando della flotta ma, da grande marinaio quale era, si accorse subito che con quel naviglio non sarebbe andato lontano… Organizzò allora un deciso quanto astuto colpo di mano: requisì tutte le navi che si trovavano alla fonda dentro e fuori la laguna, le armò e ne affidò il comando a Giovanni Baseggio e a Tomaso Falier.

Quindi, con quella squadra mercantile, in fretta e furia militarizzata, mosse verso Pola, colse di sorpresa i pisani, distrusse gran parte delle loro navi e costrinse il resto dei legni alla fuga. Non ancora soddisfatto della punizione, inseguì gli invasori e li raggiunse nelle acque della Morea e li sconfisse definitivamente, rompendo il blocco del canale d’Otranto che i pisani avevano posto a Venezia, con l’aiuto dell’imperatore Enrico VI, re di Sicilia.

Si trattò di un eccellente debutto, un trampolino di lancio che lo proiettò molto in alto destando la preoccupazione non solo delle altre Repubbliche Marinare italiane, ma anche di tutti i rivali di Venezia che non erano pochi e studiavano segretamente le mosse della Serenissima tra le quattro sponde del Mediterraneo e dell’intera Europa.

L’esordio al dogato fu così eclatante da spingere i principi cristiani d’Europa a presentarsi a Venezia per chiedere l’appoggio e l’alleanza della Serenissima in vista della IV Crociata.

A questo punto Dandolo condusse molto abilmente una trattativa che si concluse con un contratto in base al quale Venezia s’impegnava a fornire ai crociati, entro la fine di giugno 1202, il trasporto delle truppe crociate: 33.000 soldati, un numero ambizioso, in cambio di un sostanzioso pagamento; il contratto fu ratificato dal papa.

Era un vero e proprio contratto di trasporto e rifornimento e, per soddisfare la corposa richiesta, i veneziani garantirono anche la costruzione di 50 navi da guerra e 450 vascelli da carico.

Inoltre, la Repubblica di Venezia si sarebbe assunta l’onere di armare in proprio 50 galere partecipando ai rischi dell’impresa ed agli eventuali profitti nella misura del cinquanta per cento, con la clausa del possesso delle terre conquistate durante la spedizione.

Tutti si dichiararono soddisfatti e lo storico Michaud scriverà del Doge: “… e Dandolo, accoppiando le passioni più generose alle idee di calcolo e di economia, proprie dei suoi compatrioti, dava un’aria di grandezza a tutte le imprese di un popolo commerciante”.

A questo punto sorge un problema piuttosto grave. I crociati non hanno danaro sufficiente a mantenere gli impegni presi. Il Doge propone astutamente un baratto: Venezia fornirà il trasporto e i viveri pattuiti, purché i guerrieri della croce l’aiutino prima a conquistare Zara.


La Resa di Zara

di Domenico Tintoretto

Tutti si ritrovano d’accordo! Invece della crociata, avviene la sanguinosa espugnazione della città dalmata, che alla Serenissima non costa una sola vittima.

Ma Zara non fu una tappa pacifica, l’ostilità degli abitanti e delle truppe ungheresi conclusero in un assedio, sfociato in assalto e saccheggio. I veneziani furono incolpati e quindi scomunicati dal Papa.

Nel frattempo, mentre le truppe crociate svernano sull’Adriatico nell’attesa di rimettersi in viaggio, Alessio Angelo, figlio dell’imperatore Isacco II di Costantinopoli, incontra Enrico Dandolo per raccontargli che il padre é stato destituito da suo fratello Alessio III, acerrimo nemico di Venezia.

Il giovane Alessio chiede aiuto per rimettere in trono il genitore: in cambio promette di mandare le forze bizantine alla crociata e propone inoltre, fatto d’importanza assoluta, di unire le chiese romana e greca dopo il devastante scisma del 1054.


1204, La Presa di Costantinopoli

di Palma il Giovane

Dandolo, senza alcuna esitazione, coglie l’occasione al volo ed accetta. L’ammiraglio riprende il comando della flotta e fa vela verso il Bosforo. Assedia Costantinopoli, prende una parte delle mura e subito in città scoppia la rivoluzione, Alessio III é cacciato, Isacco é ristabilito sul trono. Ma quando si tratta di mantenere fede all’impegno di unire le due chiese, Costantinopoli si ribella violentemente: allora il Doge decide di conquistarla e nel 1204, a 94 anni d’età, l’indistruttibile Enrico Dandolo, che ha guidato personalmente la battaglia, pianta la bandiera di Venezia con il leone di San Marco sulla fortezza della capitale dell’Impero d’Oriente. Una delle massime conquiste militari della storia.

A questo punto non vi é il minimo dubbio Enrico Dandolo diventa l’uomo più potente d’Europa, forse del mondo. Ottiene per sé e i suoi successori il titolo di “signore di una quarta parte e mezza dell’Impero romano”, con le terre di tutta la regione costiera dell’Albania fino al Mar di Marmara, le isole Ionie, le Cicladi, Negroponte, un terzo di Costantinopoli e, per baratto l’isola di Candia, più l’Epiro e Gallipoli.


L’Europa che conta si esalta e vuole eleggerlo IMPERATORE, ma il vegliardo rifiuta, indicando al suo posto Baldovino di Fiandra; in compenso il veneziano s’impossessa del meglio che può esserci nella città conquistata e, tra l’altro, invia a Venezia i famosi quattro cavalli di San Marco, che erano statue romane portate a Costantinopoli dopo la scissione dell’Impero.

Fanno rotta per Venezia anche innumerevoli icone, gemme, perfino i corpi di santi ai quali intende far erigere chiese in patria. Il bottino di guerra é immenso, come la gloria del Doge.

Venezia, grazie a questo vecchio e incrollabile nobilomo da mar, é ora la più grande potenza coloniale e marittima del Mediterraneo.

In questo contesto di gloria e di grandi risultati militari e politici, Dandolo non ha mai dimenticato di essere stato fatto accecare dall’imperatore di Costantinopoli, solo così si comprende fino in fondo la sua terribile vendetta…


Ma il capolavoro di ASTUZIA che passò alla storia fu: La presa di Costantinopoli ad opera dei crociati si realizzò in cambio del trasporto via mare supportato dalla Serenissima e nemmeno fino in Terra Santa.

In quella intrepida operazione militare, nulla era stato studiato ed eseguito per “servire” il Papa, ma il risultato finale fu quello di aumentare la potenza militare e commerciale di Venezia.

Il 14 giugno 1205, a 95 anni d’età, Enrico Dandolo morì, quasi all’improvviso, mentre guidava con straordinaria abilità le truppe in Tracia contro il re dei Bulgari che aveva fatto prigioniero e assassinato Baldovino di Fiandra, appena eletto imperatore di Costantinopoli.

L’eccesso di stress di quell’ultima impresa causò probabilmente l’abbattimento della vecchia quercia eppure, fino a quel momento, il grande Doge era rimasto lucido e determinato, accentrando nelle sue mani il supremo comando. Dandolo aveva tenuto la massima magistratura di Venezia per tredici anni; non fu un lungo periodo, ma  i successi ottenuti lo fecero balzare sul podio più alto nella storia della Serenissima.

La lapide del sepolcro del Doge

Non fu riportato in patria: Il suo corpo, quello di uno dei più grandi marinai d’ogni tempo venne sepolto a Costantinopoli, la città che lui aveva conquistato, sotto il portico della basilica di Santa Sofia.

Scrisse di lui il Laugier: “Pervenne al supremo grado in età decrepita, e vi si distinse con tutte le qualità che formano l’uomo vigilante senza inquietudine, giusto senza rigore, buono senza debolezza. Era riservato a lui solo il vedere gli estremi della caducità divenire l’epoca della maggiore sua gloria. In età di oltre novant’anni, fu generale di una grande flotta, motore ed agente della più meravigliosa azione di guerra che mai si fosse intrapresa: diede battaglie, comandò assalti; le sue fatiche, le sue vigilie, le sue imprese rovesciarono un grande impero, decisero della fortuna di due grandi nazioni, e portarono la potenza veneziana a quella sublimità di splendore, al quale sia ella mai pervenuta…”.

Il giudizio della Storia:

Oggi Enrico Dandolo è considerato uno dei più grandi Dogi nella storia di Venezia. Prese il controllo di una potenza commerciale in declino, minata dalla corruzione e dall'inefficienza e sfidata da potenze grandi e piccole in tutta la regione. Il commercio era andato in declino e la sua potenza militare era quasi nulla. Alla sua morte Dandolo aveva posto fine a tutte le minacce esterne all'influenza veneziana, facendone ancora una volta la più grande potenza commerciale del Mediterraneo. Gli storici hanno definito Dandolo "fondatore dell'impero coloniale veneziano". La città rimase prospera, stabile e sicura per tutto il secolo successivo.



L'Enrico Dandolo (S 513) è stato un sottomarino italiano della classe Toti costruito negli anni sessanta e messo in disarmo negli anni novanta.  Si trova oggi esposto presso L’Arsenale di Venezia.

Questo è il secondo sommergibile intitolato ad Enrico Dandolo e la terza unità della Marina Militare a portarne il nome. La prima unità fu una corazzata progettata da Benedetto Brin e costruita nell'Arsenale di Spezia tra il 1873 e il 1882. La nave era stata intitolata all’Ammiraglio veneziano e le fu dato il motto:

Qui si deve vincere

parole attribuite al Doge durante l'assedio di Costantinopoli del 1203.

Questa nave partecipò alla Guerra Italo turca e alla Prima guerra mondiale per essere radiata nel 1920.

In seguito ebbe il nome di Enrico Dandolo un sommergibile della classe Marcello, entrato in servizio nel 1938. Il battello partecipò attivamente alla Seconda guerra mondiale, prima nel Mediterraneo e poi nell'Atlantico dalla famosa base di Betasom. Dopo l'8 settembre fu trasferito negli USA ed impiegato per addestramento delle Marine alleate; rientrato in Italia nel dopoguerra fu radiato in osservanza delle clausole armistiziali.


Il nome del grande DOGE é stato sempre presente nelle varie epoche anche nella Marina Mercantile italiana. In questa foto ricordiamo la bella nave da carico ENRICO DANDOLO della Società di Armamento SIDARMA di Venezia.

Bibliografia:

- - GRUPPO WSM

- - CIVILOPEDIA Online

- - Enciclopedia TRECCANI

- - Wikipedia

- - L’Occidentale-Orientamento Quotidiano

- - Navi e Marinai

Carlo GATTI

Rapallo, 5 Aprile 2018

 

 

 

 


LA MIA GUERRA fra PRA' E PEGLI

LA MIA GUERRA TRA PRA' E PEGLI

10 giugno 1940. Mussolini dal balcone di palazzo Venezia. Il discorso della dichiarazione di guerra.

 

Il giorno in cui fu dichiarata l’ultima guerra ero, con la famiglia, in villeggiatura a Visone, un paesino vicino ad Acqui Terme; sentimmo l’annuncio, anche se di quel messaggio io capii ben poco. Dall’evidente immediata preoccupazione dei miei genitori e dall’improvviso silenzio che piombò nelle vie del piccolo borgo, in contrasto con il clangore che dalla Piazza di Roma la radio faceva arrivare sino a noi, avrei dovuto capire che qualcosa di grave stava succedendo ma, si sa, i ragazzi, privi d’esperienze di riferimento e sensibili solo alle cose che vedono, non avvertono il pericolo se non quando ormai lo stanno correndo.

Mio padre, che aveva combattuto nella prima guerra mondiale e mia madre, che quella guerra l’aveva subita, compresero subito il dramma; io ci arrivai solo dopo qualche anno.

 

La prima reazione dei miei fu di ritornare subito a casa come se, una volta là, fossimo al sicuro; ma la “tana” é pur sempre, in emergenza, il luogo istintivamente più protettivo in cui rifugiarsi.

 

Trascorso il primo anno, la guerra promessa come veloce e facilmente vincibile, si rivelò, per chi sapeva esaminarla obiettivamente, aver preso ben altra piega. A mano a mano che il tempo passava, sempre più frequentemente si sentiva riferire da conoscenti che loro amici, rientrando dal fronte di guerra per curarsi da ferite sofferte o per una convalescenza seguita a quelle, riportavano notizie d’enormi inspiegabili sbagli, di presunti sabotaggi perpetrati dai nostri contro i nostri combattenti e di un’allarmante generale impreparazione.

 

 

Tutte queste cose contrastavano con quanto quotidianamente si sentiva dalla radio o io leggevo sul giornalino il <Balilla >, che il “regime” distribuiva nelle scuole; però anche sul <Vittorioso >, Romano vinceva sempre.

 

Ben presto, la mamma, sorella di un “marcia su Roma” e promotrice essa stessa di una colletta per erigere, nel suo paese natale, un monumento al fante italiano caduto per la Patria nella prima guerra, cominciò a disapprovare quello che stavano facendo i nostri governanti; come tutte le madri aveva intuito, per istinto, che la strada imboccata era quella sbagliata.

 

I versi che Vito Elio Petrucci ha voluto dedicarle, mi pare centrino il personaggio:

 

 

….a cammin-na in to tempo

 

comme’ na ciossa attenta

 

a-e vire do farchetto….

 

Libera traduzione: …e cammina nel tempo come una chioccia attenta ai volteggi del falco…

 

Mio padre, questa nuova guerra non la capì mai perché era partito, nel 1915, volontario in marina per combattere e vincere, come fece, i tedeschi; a lui che per onorare la parola una volta data era disposto a tutto, non andava proprio giù doverli accettare adesso come alleati. Così facendo avrebbe dovuto considerare nemici da combattere, i figli di quelli che, ventitré anni prima vide arrivare da altri continenti per dargli una mano e molti morire al suo fianco mentre, assieme, combattevano l’austriaco nemico comune.

 

Credo che questo fosse lo stato d’animo di molti italiani, sicuramente di quelli che, da sempre, rappresentano la maggioranza silenziosa, nel subire la tragedia che ci coinvolgeva.

 

Noi ragazzi scoprivamo le cose giorno dopo giorno, maturando più in fretta di quanto non lo avesse fatto la generazione che ci aveva preceduto e certamente più di quella che, dopo poco, ci seguì e così le successive; c’entusiasmavamo ad ogni atto eroico del “Balilla” di turno, colpiti anche dalle illustrazioni sempre puntuali d’Achille Beltrame sulla <Domenica del Corriere >, una specie di C.N.N. di allora, non certo per la tempestività dell’informazione ma per la dovizia di particolari disegnati che facevano rivivere al lettore la drammaticità dell’episodio evocato.

 

A fronte delle festanti “oceaniche” adunate, documentate dalla stampa e dal cinegiornale Lux, contrastavano gli improvvisi, disperati scoppi di pianto in casa dei vicini, dopo che un carabiniere n’era uscito frettolosamente; qualcuno doveva pur portare le ferali notizie. Sempre più andavo prendendo coscienza che il tutto non fosse un gioco.

 

Le notti poi, destati di soprassalto dal lugubre ululato delle sirene d’allarme, bisognava fuggire nei rifugi antiaerei, veri e propri cantieri mai finiti, sommariamente avvolti in coperte e con in gola l’immancabile alitosi sulfurea dovuta alla levataccia che interrompeva la digestione; ad ogni incursione aumentava sempre più la gente che ricorreva alle gallerie-rifugio, assolutamente inadatte perché ancora in costruzione. Era gente tremante, infreddolita e rannicchiata in quegli acquitrinosi cantieri, mentre il cielo si rischiarava, a sprazzi, per i laceranti, fragorosi scoppi delle cannonate della contraerea. Tutte queste cose innescarono paure mai più sopite; ancor oggi continua a mettermi a disagio il sentire lo scoppio lacerante del “colpo tonante” che avverte della fine dei fuochi d’artificio, sparati in occasione di feste patronali.

 

A noi però bastava una successiva giornata di sole per dimenticare, apparentemente, la squassante notte, ma non così per gli adulti che assommavano alla loro, anche la paura per la nostra incolumità, con davanti, ogni giorno, sempre più nere prospettive.

 

Il 25 Luglio del ‘43 ed il successivo 8 Settembre, sconvolsero la vita della mia famiglia; l’alleato tedesco, sentitosi tradito dai nostri governanti, si tramutò di colpo in aguzzino, cercando di evitare che il soldato italiano gli sgusciasse fra le grinfie, rivestendosi in borghese con abiti rimediati, aiutati in ciò dalla popolazione e per di più convinto, visto che nessuna autorità lo smentiva, che la guerra fosse davvero finita e, comunque, da sfuggire. Non voleva essere lui a pagare le colpe di codardi pasticcioni che in quel dramma ci avevano trascinato e poi, felloni, erano fuggiti lasciandoci soli e senza guida.

 

Era obiettivamente difficile capirci qualche cosa; noi ormai parteggiavamo per quello che, ufficialmente, avrebbe dovuto essere ancora il nostro nemico.

 

 

Ascoltavamo i suoi notiziari, diffusi da Radio Londra nel buio della sera; si cercava di captarla, sintonizzandosi sino a che non si sentiva l’inconfondibile lugubre ripetitivo tambureggiare che segnalava l’inizio del notiziario, subito seguito dalla trasmissione vera e propria che, ancorché disturbata dalle interferenze emesse dalla censura fascista, riuscivamo, in qualche modo, a sentire, compreso i criptici <messaggi speciali > che l’emittente mandava in onda in chiusura e rivolti ai partigiani per coordinarli; ognuno di noi, sentendoli, li interpretava a modo suo, decifrandone ad orecchio l’astruso significato.

 

 

The Gost Plane “Pippo” – De Havilland Mosquito

 

Erano i nuovi alleati che, da nemici, erano tornati amici come nel ’15 -’18, anche se continuavano a bombardarci o tenerci svegli con il loro onnipresente “Pippetto”, l’estenuante ricognitore De Havilland “moschito” costruito per  non essere facilmente individuabile da eventuali radar che noi non avevamo e idoneo al volo notturno.

 

Mio padre, non avendo aderito alla causa fascista, non trovava facilmente lavoro e, buon per noi che, almeno alla fine ci sia riuscito, rimediandone uno insolito e “asettico”; poco prima dello sfascio nazionale, lo accettò anche perchè fuori Genova: il cercatore d’oro alle Ferriere, due cascine poste sopra il lago di Lavagnina, nella zona di Lerma, ad Ovada. Và anche detto che quelle miniere erano già state sfruttate e abbandonate dalle legioni romane e, poi, dai napoleonici.

 

Solo ora capisco che la società che gli garantì il lavoro, sicuramente aveva, all’italiana, trovata la strada per ottenere un qualche finanziamento per il recupero e la riattivazione di vecchie miniere d’oro, nell’intento, ormai vitale, di procurare nuove ricchezze da buttare nel divorante crogiuolo della guerra.

 

Per la verità, d’oro se n’estraeva una quantità ininfluente, ma evidentemente sufficiente ad ottenere nuovi finanziamenti, specie se elargiti da mano compiacente. A tutte queste cose però all’epoca nessuno pensava e, meno che meno, mio padre che, concordato lo stipendio, si buttò nella nuova avventura con l’entusiasmo che lo contraddistinse in tutte le sue intraprese che, prima di tutto, per attirarlo dovevano stimolarlo. Molto giocò sulla scelta il fatto di poterci portare lontano dai pericoli insiti nel restare a vivere in Città.

 

Mi ricordo di quando si inventò un’attività, sempre per cercare di sbarcare il lunario durante il conflitto senza dover arrivare a compromessi con le sue convinzioni contrariamente a molti suoi colleghi che invece lo fecero ritrovandosi, alla fine, ricchi e incensurati. Il suo atteggiamento d‘allora, ancor oggi condivido. Ma torniamo alla nova iniziativa: si mise a rigenerare le lime perchè durante quegli anni terribili non si trovava quasi nulla, essendo tutto finalizzato alla produzione bellica. Immaginarsi quindi l’acciaio che era divenuto, al di fuori del giro bellico, introvabile per chi, artigiano, lavorava senza poter accedere alle “commesse” militari. Realizzò dei vasconi di legno che riempì con soluzione elettrolitica e, nei quali immergeva vecchie lime usurate; la corrente galvanica che le attraversava, corrodeva uniformemente le superfici esposte, rimodellando in qualche modo le asperità iniziali. Meglio che niente!

 

Tutta la famiglia, non appena noi figli terminammo il  lacunoso anno scolastico, frequentato a singhiozzo fra un allarme aereo ed un bombardamento, si trasferì nel basso Piemonte a Cravaria, ai piedi delle Ferriere e poco prima della diga che formava il lago della Lavagnina, zona lontana dalle incursioni e che, essendo agricola, garantiva la farina, il latte delle vacche locali ed un forno a legna per cuocervi del pane casereccio e potervi arrostire la selvaggina che mio padre, abile cacciatore, ci procurava. Per noi ragazzi tutti quei prati da potersi godere in assoluta libertà ci facevano scoprire un’indipendenza inattesa; la fantasia era poi stimolata da dei grandi cumuli di sassi, ancor oggi esistenti, ammonticchiati lungo il fiume da generazioni successive di cercatori d’oro, che immaginavamo rovine di vecchi castelli, crollati sotto i nostri assalti. E’ paradossale ma in tempo di guerra si gioca alla…..guerra.

 

Lì ci sorprese l’8 Settembre del 1943.

 

Con mio fratello, dopo aver procurato ai pochi soldati italiani presenti in zona a protezione della menzionata diga, degli abiti civili per consentir loro di tornare alle rispettive case, andammo ad ispezionare le due batterie di mitragliatrici pesanti antiaeree, sistemate ai lati di quello sbarramento e proprio sopra la casa del guardiano. Arrivati, anche se non molto pratici, c’industriammo per sabotare quelle armi e, tanto toccammo e girammo, che riuscimmo a smontarne tutti gli otturatori, gettandoli poi nel sottostante lago assieme alle cassette contenenti i pezzi di ricambio. Convinti di non essere stati visti da alcuno, dopo l’irreparabile sabotaggio rientrammo a casa senza far menzione della nostra impresa; purtroppo le cose non andarono lisce come noi pensavamo. Il guardiano pare ci avesse visto e subito riferì ai suoi superiori; questo è almeno quello che ci siamo sempre sforzati di credere per scartare la delazione politica, che ci avrebbe visto, all’epoca, nei panni di vendicatori impietosi.

 

Fatto si è che due giorni dopo una colonna militare motorizzata, composta di quattro o cinque mezzi tedeschi, sbucò dalla polvere sollevata dalla strada di terra battuta che arriva da Lerma, fermandosi al bivio di Cravaria davanti all'allora nostra casa; ancor oggi, proseguendo in piano, si va alla centrale elettrica mentre, salendo, si arriva alla diga.

 

Mia madre, alla quale avevamo poi raccontato quel segreto per noi troppo grande, seguì, celata dalla tendina, i movimenti di quei militari, cercando di capire, attraverso gli atteggiamenti e i gesti, quali ne fossero le intenzioni. Dalla prima anfibia, che seguiva la staffetta in moto, dopo un concitato parlottare e sbattere di tacchi, si staccò un Maresciallo dei Carabinieri, certamente guida e interprete, che si diresse senza titubanze verso di noi e bussò alla porta.

 

Facile immaginare l’effetto che quel battere fece su tutti noi; quando mia madre aprì, papà era per fortuna a lavorare, credo le si leggesse in viso tutto il dramma. Il Maresciallo, usando un linguaggio volutamente burocratico, fece finta di non averci identificati ma ci fece chiaramente capire che sarebbe stato meglio, anzi, molto meglio se quando fossero ritornati dalla loro ispezione, dopo aver attinto maggiori notizie dal guardiano delatore, non ci fossimo fatti più trovare. Per il momento avrebbe preso tempo, riferendo che non gli eravamo sembrati i ricercati.

 

Sono convinto che la nostra famiglia gli debba la vita; da quel giorno ho capito perché l’arma è nota anche come “Benemerita”. Quel sant’uomo, che non abbiamo mai più rivisto, speriamo non abbia pagato con la vita, altri gesti di generosità compiuti, come questo, per puro altruismo.

 

Tornati a Pegli, per noi ragazzi ci fu un solo scopo; continuare a fare quello che iniziammo lassù. C’intrufolammo fra i tedeschi che occupavano la zona, giocando alla guerra con divise e finte armi simili alle loro ma da noi confezionate, in modo da accattivarci le loro simpatie; alcuni erano padri e altri addirittura nonni, richiamati alle armi come truppe d’occupazione, così da liberare i loro giovani per poterli mandare a morire al fronte.

 

Stivali da ufficiale della Wehrmacht

 

Di loro mi è rimasto l’acre afrore del sego, largamente usato per mantenere morbidi gli stivaletti e le pelletterie, parte importante dell’abbigliamento e l’insolito gusto e odore della loro gialla margarina spalmata sullo squadrato, acidulo pane di segale. Da queste frequentazioni ricavammo la notizia che stavano ultimando di minare i sentieri e i dintorni che portavano alla batteria contraerea della Bastia, posta sulla punta del colle che accoglie la Torre Cambiaso, a Prà, subito a ponente di quella della Marina installata sul Castellaccio, una collina che sovrasta il Lido di Pegli.

Decidemmo di “dare una mano agli alleati” anglo-americani, sminando quei sentieri. Il pomeriggio stabilito mio fratello, il cucino Franco ed io c’intrattenemmo, più a lungo del solito in modo che, al primo buio, anziché tornare a casa, avevamo informato i nostri ignari genitori che saremmo rimasti più tempo colà, c’inerpicammo per le “fasce” per raggiungere la zona prefissata.

 

Mina antiuomo tedesca: Schrapnellmine (S-mine) anche chiamata: “Bouncing Betty”

 

La luce della luna, sbucando ogni tanto fra le smagliature delle nuvole che correvano veloci sfilacciate dallo scirocco, rischiarava ad intermittenza non prevedibile, la zona, stagliando, ogni volta contro il cielo scuro, ma non del tutto nero, la sagoma della sentinella armata che, alla sommità della collina, faceva la guardia girando fra le varie piazzole della batteria camminando sul basso muretto che le contornava. Noi, inerpicandoci dal di sotto, eravamo nascosti alla sua vista dalle lunghe ombre dei cespuglietti mentre, lei, era visibile ogni volta che ispezionava quelle proprio sopra di noi; raggiunto il sentiero, avanzando carponi, dovevamo innanzi tutto capire dove e com’erano state sotterrate le mine antiuomo, congegni anch’essi a noi sconosciuti. Più tardi scoprimmo che erano scatolette di legno con, appena appoggiato sopra, un coperchio mobile e imbottite d’esplosivo; pigiando inavvertitamente con il piede sul coperchio, questi si rincalcava sulla scatola sfilando la sicurezza che tratteneva la molla con il percussore che, colpendo il detonatore, innescava l’esplosione.

 

 

Mine tedesche: Tellermine 29

 

Camminavamo gattonando in fila indiana; il primo sondava con un bastoncino di legno il tratturo antistante nel tentativo di scoprire almeno un po’ di terreno smosso; al primo indizio, scavammo con delicatezza e vedemmo che avevano sotterrata quella mina vicina al ciglio esterno dello stretto percorso, mentre, al centro, la terra appariva compatta; lentamente, con le mani la dissotterrammo scoperchiandola, così da evitarci brutte sorprese in caso d’inavvertita pressione.

 

Chi la scavò la passò, aperta, a chi lo seguiva e, da questi, una volta neutralizzato il percussore-detonatore, al terzo che doveva riporla in un sacco. Riprendemmo, sempre acquattati, a ricercare la seconda; impresa non facile per chi, come noi, non aveva la più pallida idea di come le avessero dislocate. Bisognava, ad ogni bagliore di luna, individuare altra terra smossa, prima di poter avanzare o appoggiare le mani su un territorio così infído; occorreva anche controllare che la sentinella non ci scorgesse, ogni qual volta il suo ripetitivo giro di ronda la portava sopra di noi.

 

Finalmente ecco la seconda mina; era occultata alla base della scarpata, dalla parte opposta della prima, sul lato verso monte del sentiero, ma mezzo passo più avanti della prima trovata; fu facile poi scoprire lo schema perché le avevano seppellite a scacchiera lungo i lati del percorso, distanziate dello spazio di un normale passo, lasciando invece accessibile il centro. Trovata la chiave, proseguimmo estraendo la terza e poi la quarta; la quinta, nel passarcela di mano, sfuggì alla presa.

 

Trattenemmo il fiato mentre la scatoletta, per fortuna senza più il coperchio che, rotolando, avrebbe potuto far scattare il percussore nel bel mezzo di un campo minato, ruzzolava balzellando lungo la scarpata. Morti di paura ad ogni suo cozzare contro un ostacolo, la seguivamo senza neppure più respirare; finalmente si fermò e, tutto quello che a noi sembrò un trambusto, non fu avvertito dalla sentinella che si trovava in quel momento, evidentemente, dalla parte opposta. Senza parlarci ma con gli occhi dilatati, decidemmo di abbandonare l’impresa e, quatti quatti, tornare a casa.

 

Finita la guerra, solo vedendo i film sui marines intuimmo il perché di quell’inspiegabile posizionamento; vedemmo che abitualmente avanzavano in fila, camminando sui cigli, così da lasciar sgombra la corsia centrale per usi di servizio ed, in oltre, in caso d’attacco aereo era più facile sottrarvisi, buttandosi al riparo delle scarpate, piuttosto che rimanere facile bersaglio, visibile a centro strada.

 

Naturalmente, come capita ai ragazzi, una volta che scoprimmo il “giochino” ne scemò anche l’interesse e non vi ritornammo più; la paura del pericolo scampato non c’influenzò più di tanto, perché solo ora ne capiamo il vero rischio di quello che, all’epoca, ci sembrava un eccitante gioco.

 

Per fortuna gli alleati non aspettarono il nostro contributo per venirci a liberare.

 

Nel frattempo, eravamo agli inizi del ’44, alla Lavagnina e dintorni, molti ragazzi genovesi in età di leva, vi si rifugiarono per non partire per il fronte, essendo voce comune che la guerra, ormai definitiva persa, da lì a poco, sarebbe finita; l’idea di <resistenza > venne dopo, anche se proprio in quel periodo iniziarono a coagularsi le Brigate partigiane, che capitanate da ex ufficiali dell’esercito italiano cominciarono a darsi un’organizzazione, collegandosi con gli alleati.

 

La presenza in zona di sempre più numerosi “renitenti” che i nazisti chiamavano “banditi”, non passò inosservato ai tedeschi sino a che, un brutto giorno, una nutrita autocolonna risalì quelle strade, non più accompagnata da comprensivi Carabinieri ma, questa volta, spalleggiata dalle squallide Brigate Nere con il compito di fare piazza pulita di tutti quei giovani disarmati. Fu una carneficina; un folto gruppo fu tradito dal fanciullesco attaccamento ad un cagnolino randagio, che, adottatolo, portarono con loro a nascondersi nel buio delle gallerie delle miniere d’oro, i cui lavori, ripresi da mio padre, erano nuovamente sospesi per il precipitare degli eventi. Al vociare dei perlustratori, il bastardino iniziò ad abbaiare, tradendo il gruppo. Nessuno si salvò.

 

Un altro, studente di medicina all’Università di Genova, fu ferito in un bosco, di là del fiume, proprio davanti a Cravaria e lì dovette morire dissanguato, fra lamenti strazianti, perché fu proibito ai contadini di portargli soccorso; la prima a scoprirlo fu un'anziana pia donna, tale fu davvero la pietosa signora Volpe, che sino a che il giovane era in vita, nonostante le lacrimevoli perorazioni, non riuscì ad impietosire il responsabile di quella carneficina. Solo quando, dopo quarant’otto ore, la voce non si avvertì più, le fu concesso di avvicinarsi al corpo di quel martire che, a furia di sfregare la nuca a destra e sinistra per il dolore, aveva lasciato nel terreno un incavo.

 

Mi piace pensare, e questo ho sempre detto ai miei figli, che anche da quella piccola cavità, sia germogliato l’albero della nostra libertà.

 

Dovettero passare molti anni per non sentire più, nelle notti di vento, quelle strazianti invocazioni di soccorso, inutilmente emesse da un giovane, non ancora ventenne, rimasto anonimo e che non accettava una morte così atroce ed inutile.

 

7.4.1944 - Qui furono fucilati i martiri della Benedicta (Genova)

 

Tutti quei giovani, anche quelli i cui nomi non sono incisi nel marmo, ma che egualmente caddero, sparpagliati, nelle zone vicine, sono e debbono essere accomunati con i <Martiri della Benedicta >.

 

Ogni qual volta ritorno in quella vallata salendo da Lerma, fermo la macchina poco più avanti del bivio con Casaleggio e, nel silenzio di quei luoghi non frequentati, nell'ascoltare dall’alto lo sciacquio del sottostante torrente Lavagnina, penso a quanto scrisse il poeta Edoardo Firpo né <Ai Martiri di Crovasco >

 

………………………………

Ma in ta gran paxe di monti

 

se sente l’eco de l’aegua

 

lontan ch’a-i ciamma, ch’a-i ciamma.

 

Libera Traduzione: Ma nella gran pace dei monti si sente l’eco dell’acqua lontana che li chiama, che li chiama.

 

In quel periodo, noi tre, sempre più affiatati, eravamo consapevoli di appartenere alla medesima “banda”; nonostante imbevuti di spirito patriottico che, come Balilla, c’era stato inculcato il senso dell’onore e della patria, come per tutti i ragazzi, la libera “banda” d’appartenenza, era cosa più importante. Certo una mano ad alimentare il nostro disincanto ce la davano, senza saperlo, anche i famigliari, evidenziando gli errori che commetteva chi governava l’Italia in quei tempi.

 

Il termine <partigiano > cominciò a circolare poco dopo, anche se loro, per i nazisti e per i residui fascisti erano ricercati, lo abbiamo già visto, come <banditi>; a noi, tali non parevano e fu quindi naturale che il nostro giovanile spirito di contraddizione ce li facesse, al di là delle nostre convinzioni, ammirare; decidemmo di stare con loro visto che molti di loro erano nostri amici anche se un po’ più anziani di me. La ricostituzione dell’esercito italiano dopo l’otto Settembre, avvenne al Nord, sotto il pungolo e il controllo nazista che, allo scopo, manovrava i fascisti aderenti alla appena inventata Repubblica di Salò; crearono reggimenti che, almeno nel nome, usurpavano pagine di gloriose eroiche epopee passate, nella vana speranza di accattivarsi le simpatie del popolo. Ricostituirono così gli alpini, gli assalitori di marina, la X MAS ed, in fine, i bersaglieri.

 

Contemporaneamente un altro esercito si era ricostituito sotto l’egida alleata e capitanato dai vecchi comandanti, iniziò, al fianco di quelli, a risalire l’Italia per liberarla. Di loro e di tutti i loro morti, la strumentalizzata propaganda del dopoguerra non ne parla mai, così come non menziona mai i seicentomila militari italiani lasciatisi marcire nei lager nazisti pur di non aderire al nuovo governo fantoccio che continuamente li blandiva assicurando loro una mendace libertà. E si che gli uni e gli altri sono stati, a tutti gli effetti, combattenti e morti per la nostra libertà, quindi dovrebbero essere commemorati ogni qual volta si parli di Resistenza. Ma si preferisce esaltare chi molto spesso occupò le città solo dopo che i tedeschi occupanti se ne erano andati, vedi Genova e Milano.

 

Al confine fra Prà e Pegli, nella grande area delle ex ferriere Ratto, poi divenuta ILVA, c’erano dei capannoni abbandonati con un gran piazzale che li univa, attraversato e servito da binari dell'abbandonata rete ferroviaria interna che, un tempo, collegava il vicino pontile sul mare cui attraccavano i battelli che fornivano il minerale ferroso, alle fonderie e, da queste, alla rete ferroviaria nazionale. Queste peculiarità fecero sì che tutti gli eserciti che si sono succeduti, utilizzassero il sito come prima zona d'accorpamento e successivo smistamento. Iniziarono i tedeschi che la occuparono in forze così come fecero con il resto dell’Italia non ancora liberata dagli alleati; poi, ricostruito l’esercito italiano fantasma, vi acquartierarono i giovani di leva, chiamati a difendere il nuovo regime, ma che non avevano però pienamente aderito da poter essere inquadrati fra le forze fasciste, tipo Brigate Nere o Muti. A loro bastava non essere considerati renitenti.

 

Furono accorpati in un raccogliticcio reggimento di bersaglieri e, proprio lì, completavano il loro addestramento; n'approfittarono anche per utilizzarli, come comparse, in documentari cinematografici che il regime faceva “girare” nei boschetti di Villa Doria a Pegli, ambientandovi improbabili azioni anti-partigiane che, distribuiti nelle sale cinematografiche sotto il loro controllo, dovevano figurare essere avvenute sul serio e in montagna.

 

Quando toccò il turno degli Alleati,  anche loro la requisirono per mettervi a riposare, nell'attesa d'ordini, i loro uomini stanchi del fronte. Noi della “banda”, a quel tempo, abitavamo in quella che era stata una vecchia masseria dei Marchesi Cambiaso, proprio al di qua del muro di cinta di quel piazzale e non potevamo quindi che subire l’influenza e il fascino di tanta variegata umanità in divisa.


Carro Leggero Italiano L6/40

Durante l’occupazione dei bersaglieri e della Wehrmacht, quel parco ferroviario con annesse officine, divenne luogo ove raggruppare per effettuare riparazioni e manutenzione, treni ricolmi di mezzi cingolati avariati sui vari fronti; un giorno arrivò un convoglio stracolmo di carri armati leggeri italiani, nuovi di fabbrica, con la tipica mimetizzazione da utilizzarsi nella guerra d’Africa; peccato però che nel frattempo l’avevamo già persa unitamente al Sud e al Centro d’Italia.

Di notte il treno era minuziosamente sorvegliato mentre, di giorno, vista la contemporanea presenza di tanti militari, aveva fatto ritenere superfluo un tale impegno. Nell’ora del rancio, mio cugino Franco, senza avvisarci, salì su di un vagone, s’infilò nel carro armato più vicino al gran cancello in disuso, arrugginito, rabberciato e utilizzato solo raramente come uscita d’emergenza dei treni. E’ poi rimasto un mistero come, lui ragazzino, possa essere riuscito, ci disse di essersi aiutato utilizzando gli attrezzi in dotazione al carro trovati all’interno, a smontare e trascinare fuori la mitragliatrice che affiancava il cannone, il cui peso è elevato; basti pensare alla canna esterna che, per proteggerla dalle armi nemiche, era costruita con esuberanza di acciaio. A cose fatte ci venne a chiamare e, poco prima del coprifuoco, allora ormai in vigore, andammo a prelevare l’arma da lui sommariamente nascosta, per riporla nel nostro nascondiglio segreto che, ben presto, si riempì d’armi d’ogni tipo, tutte sottratte a quello che, nel frattempo, era divenuto il nemico della nostra “banda”.

 

Tutta quest'attività non poteva poi che sfociare nelle Squadre d'Azione Partigiana, nel frattempo formatesi e operanti in Città in appoggio coordinato con i partigiani sui monti; l’unico rammarico fu che, solo mio fratello, il più anziano dei tre, fu accolto nel locale 334 Brigata Partigiana di Prà. La nostra “banda” però continuò ad operare come prima ma, adesso, fiancheggiando chi si era prefissata un’azione orientata al bene comune; questa decisione ci diede la prima vera responsabilità.

 

Senza saperlo avevamo dato l’addio al ragazzino che ormai non era più in noi.

 

RENZO BAGNASCO

Rapallo, 4 Maggio 2015

 

 

 

 


Nave a Palo ITALIA- C. CONCORDIA, due naufragi a confronto

IL NAUFRAGIO DELLA NAVE A PALO ITALIA

La perdita del più grande veliero italiano di tutti i tempi fu un duro colpo per la marineria ligure.

Alcune analogie con il naufragio della Costa Concordia

Siamo nel 1908. Gli affari più redditizi stanno passando ai piroscafi, concorrenti che i velieri non riescono più a contrastare perché sono sempre più affidabili e, non dipendendo dai capricci del vento, assicurano consegne più regolari secondo precisi impegni di noleggio. Insomma, all’orizzonte c’é più fumo che vele e la gente di mare sente sulla propria pelle che il progresso sta voltando le spalle ai silenziosi bastimenti a vela. Il commercio marittimo riguarda prevalentemente il guano cileno, il salnitro peruviano, il carbone europeo o australiano, il grano americano, i minerali di nickel neocaledonesi, la lana australiana, il petrolio in cassette, il legname e il pesce dei mari nordici. Ma é anche il tempo della corsa all’oro californiano. S’inaugura il flusso di migranti dalla costa orientale a quella occidentale degli USA in cerca di fortuna, sempre via Capo Horn, ma l’apertura del Canale di Panama é imminente (1914) e provoca alla vela ulteriori perdite operative e cali di noli.

In questo quadro marcato dai forti colori del tramonto, si muovono ancora con grande fierezza le famose  navi a palo oceaniche; sono grandi, famose e veloci, sono l'orgoglio della nostra cantieristica navale e dei loro armatori che credono fermamente nell’economicità del vento rispetto al costoso carburante dei piroscafi. Sono costruiti in ferro ed hanno quattro alberi. In tutto sono una decina. Questi ultimi splendidi velieri  hanno svolto un buon servizio regalando prestigio alla nostra Marina. Sette di loro sono stati costruiti in Liguria.

L’Emanuele Accame, varata a La Spezia nel 1891, attiva su tutti gli oceani, fu la nave a palo forse più famosa e longeva. L’Edilio Raggio, varata a La Spezia nel 1903 dal cantiere Pertusola, fu la prima nave a palo realizzata con un progetto nostrano. Le gemelle Gabriele D’Ali’ (1901) e Principessa Mafalda (1903) furono varate nel Cantiere Nicolò Dodero della Foce di Genova. L’Erasmo fu varata a Riva Trigoso nel 1903 per conto degli armatori Raffo e Bacigalupo di Chiavari. Unità veloce, guadagnò primati malgrado le molte tempeste oceaniche nelle quali ha avuto la ventura d’incappare. La Regina Elena - Armata da Casa Milesi di Genova, fu varata a Riva Trigoso nel 1903. La settima fu la nave a palo Italia, della quale stiamo per raccontarvi il triste epilogo.

Con la portata di 4.200 tonn. fu il più grande veliero costruito dai cantieri nazionali ed anche l’ultimo di quella breve stagione. La nave a palo fu varata al Muggiano (La Spezia) nel 1903 per conto degli armatori Cavalieri Becchi e Sturlese di Genova. Fu una nave splendida ma sfortunata. La sua vita durò soltanto 3 anni, e fu divisa in altrettante campagne. La prima di circumnavigazione del globo; la seconda tra Europa, Australia e ritorno via Capo Horn; infine nel 1908, partì per la sua terza campagna dall’Australia diretta al porto cileno di Iquique. Dopo una veloce traversata di 43 giorni dell’Oceano Pacifico, l’Italia arrivò verso sera in vista delle colline di Antofagasta, ma improvvisamente le venne a mancare il vento lasciando le vele inerti e la nave in balia della corrente. La nave era in forte anticipo sulla data prevista, ma i rimorchiatori cileni non lo sapevano e non si fecero trovare pronti “al gancio”. Il mare lungo da Sud-Ovest che arrivava dagli sconfinati spazi oceanici, spinse il veliero contro la costa a picco sul mare. La perdita della nave fu inevitabile, complice il profondo fondale e l’inesorabile corrente che fu impossibile contrastare con le ancore di bordo. Il comandante Marchese tentò all’ultimo momento una manovra disperata ruotando la nave, ma troppo tardi. La poppa si sfasciò contro le rocce che aprirono una falla che le fu fatale. All’equipaggio non rimase che allontanarsi con le lance di salvataggio, che vennero poco dopo soccorse da alcuni pescherecci locali.


Venerdì 1° Maggio. Due eccezionali fotogrammi che testimoniano il naufragio della nave a palo “Italia”. L’albero di contromezzana (o palo) é crollato a seguito del contraccolpo nella zona poppiera, dovuto all’impatto col fondo roccioso. Queste immagini sono state rinvenute nel libretto del Capitano Emilio Marchese soltanto nel 1975. (Archivio Museo Navale Internazionale – Imperia)

Dal PROCESSO VERBALE riportiamo alcuni stralci della drammatica relazione del Comandante riguardante il naufragio della nave a palo ITALIA.

Io sottoscritto Emilio Marchese, Capitano del veliero Italia della matricola del Comp. Marittimo di Genova....omissis....Si Partì da Newcastle (Australia) il 17 marzo 1908 con carico di carbone destinato per Iquique (Cile); felicemente dopo una favorevole navigazione e sollecita, si avvista la costa del Chilì (Cile) alle alture circa di Antofagasta. Da qui segue rotta al Nord per la destinazione succitata. La mattina del venerdì 1° maggio, fatto giorno, la posizione della nave era al traverso di Punta Petache, alla distanza di 10 o 12 miglia con quasi calma di vento e variabile e mare gonfio da Sud Ovest. Si effettuano durante il giorno varie manovre onde allontanarci dalla costa, cambiando le mure, ma a causa altresì di una corrente abbastanza considerevole portante verso il Nord o Nord-Nord Est, nonostante tutti gli sforzi fatti, ci avvicinammo alla punta Cuchumetta in sì breve lasso di tempo; cosa da rimanere stupefatti; vedendo che non si poteva più oltrepassare detta punta per l’assoluta mancanza di vento, immediatamente si scandaglia trovando 35 braccia di fondo, si ancora subito, senza indugiare un istante, l’ancora di sinistra filando circa 60 braccia di catena fuori, ciò essendo verso le ore 04,30 p.m., ma vedendo che la nave non veniva trattenuta, derivando sempre alla via di terra, si ancora anche quella di destra immediatamente, filando catena circa 40 braccia. Fatto ciò, il bastimento cominciò a presentare la prua fuori all’Ovest, ma disgraziatamente esso toccò ripetutamente la poppa battendo fortemente sul fondo di scoglio. Sondata la sentina, si trovarono sei piedi d’acqua nella stiva, da cui si deduce che lo scafo ha portato forti avarie nel fondo sott’acqua. Immediatamente si mettono fuori in mare le due imbarcazioni di poppa, perché queste erano le più pronte ed alla mano guarnite con le grue con lo scopo di salvare le vite dell’equipaggio (in questo frattempo un urto violento causò completamente rottura e disarmo del timone) che colle guide di due pescatori poi fummo a terra tutti. Prima di lasciare la nave, più o meno le ore 6 p.m. potemmo convincerci come la falla andava prendendo proporzioni sempre maggiori, perché l’immersione della linea d’acqua fuori bordo raggiungeva il livello pressapoco alla coperta. Trovandosi in deplorevoli condizioni, risolvemmo prender la via di terra, dirigendosi in un ridosso, piccola Caleta, ove il mare era molto più camo, colle guide di due pescatori pratici del luogo, che poterono assisterci nel momento fatale e che tutto presenziarono.....

Descrizione del bastimento Italia: Armatori: Bechi & Sturlese di Genova

Misure dello scafo: Lunghezza: mt.100 – Larghezza: mt. 14.54 - Pescaggio: piedi 22,5 - Stazza Tonn. Registro: 3.030 - Portata massima: Tonn. 4.200 - Nominativo: PWNK Velatura: mq 3.000 - Attrezzato a nave a palo con i ritrovati più recenti, con 18 vele quadre, randa e 12 vele triangolari, albero maestro di 50 m d’altezza.

La campagna nell’oceano Pacifico della nave a palo “Italia”. Passato il Capo Horn, la nave raggiunse Seattle poi si diresse in Australia, a Melbourne, quindi attraversò ancora il Pacifico per due volte facendo scali nel Cile, a Junin e Pisagua, fino al tragico naufragio del 1° Maggio 1908.

Alcune analogie con il naufragio della Costa Concordia

1 - Le due navi sono state tra le più grandi della loro epoca e nessuno avrebbe immaginato che potessero naufragare per una causa diversa da un incendio, da una tempesta, da una collisione, dalla rottura di un albero, nel caso del veliero; oppure per il blackout dei motori, perdita delle eliche e timone nel caso della nave passeggeri.

2 - Il veliero ITALIA naufragò per una causa davvero remota: blackout del vento, come se una nave di oggi si schiantasse sugli scogli per mancanza di carburante.

3 - La nave passeggeri Costa Concordia é naufragata per un causa altrettanto impensabile: imprudenza grave del suo capitano nel scegliere una rotta troppo vicina alla costa.

4 - In entrambi i casi, il destino é stato crudele ed efficientissimo nel programmare e realizzare due naufragi da manuale, nonostante le condizioni meteo fossero ottime.

5 – Il veliero italiano era sprovvisto di stazione radio.* Per questo motivo non fu emesso alcun segnale di soccorso, pur trovandosi la nave in acque “quasi” portuali.

6 – Allo stesso modo, dopo 104 anni di progresso tecnologico, si deve parlare di carenza nei contatti radio nave-terra-nave anche per la Costa Concordia. 32 sono state le vittime della tragedia e si ritiene, da più parti, che si debba imputarne la causa all’inefficienza delle comunicazioni interne ed esterne alla nave.

7 – Il naufragio delle due unità non é stato immediato. Nel caso del veliero, l’affondamento fu ipotizzato con largo anticipo, e l’abbandono nave fu preparato secondo la prassi. Nel caso della nave passeggeri, lo scafo s’é adagiato con il fianco destro su un provvidenziale gradone roccioso che lo accoglie a tutt’oggi (Maggio-2012) con una certa stabilità.

8 - Sia l’Italia che la Concordia sono naufragate cozzando contro la terraferma e non in mare aperto. In entrambi i casi, i naufraghi si sono salvati con i mezzi di bordo e di terra evitando di morire assiderati nelle fredde acque del Pacifico in aprile, o davanti all’Isola del Giglio in gennaio.

9 – In entrambi i casi, si può “marinarescamente” parlare di evento straordinario, degno di essere ricordato con molti ex voto per grazia ricevuta. L’Italia si trovò, infatti, “senza governo” in balia della corrente e l’impatto contro la costa avvenne non distante dal porto di Iquique (Perù), per questa fortunosa circostanza, il recupero dell’equipaggio fu quasi immediato.

La Costa Concordia, subito dopo l’urto contro le “Scole”, si é trovata “senza governo”, in balia di deboli elementi meteo e di un forte sbandamento compiendo, con l’abbrivo residuo, una curva magica verso terra e non verso il largo. Questo miracoloso sentiero della salvezza l’ha portata a posarsi dolcemente sulla riva e a consegnare i suoi “ospiti” tra le braccia di quei fantastici gigliesi che oggi tutti applaudiamo.

10 - Chiuderei questa serie di coincidenze con un pensiero sul Gigantismo Navale di cui, probabilmente, le due navi sono state vittime. Per secoli e secoli i velieri fecero uso delle scialuppe di bordo per togliersi dai guai a forza di remi: nelle manovre portuali, per evitare i bassifondi, per superare le calme equatoriali, per scappare dalle rade pericolose ecc... La scialuppa é sempre stata l’arma segreta, una risorsa indispensabile del Comandante di un tempo, non solo come forza trainante, ma anche come vedetta, esploratore, procacciatore di acqua, di viveri, per trasbordare personale, autorità, feriti, merci di scambio ecc... Ma il comandante Emilio Marchese dell’ITALIA, a causa del peso eccessivo della nave e del suo carico, non prese neppure in considerazione l’idea di servirsi delle scialuppe per vincere la corrente a forza di braccia. Per quanto riguarda l’impatto della Costa Concordia contro gli scogli, diversi esperti del settore hanno affermato che la nave, qualora fosse stata di poco più corta, avrebbe scapolato con la poppa gli scogli delle ‘Scole’ e, nonostante i numerosi errori del suo comandante Francesco Schettino, si sarebbe salvata.

Note: * Il primo uso della radio a bordo di una nave con relativa richiesta di soccorso si ebbe nel Marzo 1899 da parte della nave faro Goodwin che navigava a sud delle coste inglesi immersa in una fitta nebbia. Il messaggio di richiesta di soccorso fu ricevuto da una stazione costiera che mando' la nave S. Matteo in aiuto alla Goodwin. Nel 1904 molti transatlantici furono equipaggiati con stazioni radio ricetrasmittenti a bordo, con operatori che conoscevano la telegrafia provenienti dalle ferrovie o dagli uffici telegrafici postali.

Ringrazio il comandante Flavio Serafini, per aver riportato alla luce, con il suo libro: “NAUFRAGIO NEL PACIFICO”, (da cui ho tratto le fotografie), la drammatica storia della nave a palo ITALIA. Flavio lo ha fatto con la passione del vero ricercatore di razza, in un Paese che certamente non brilla nella salvaguardia delle memorie storiche.

Carlo GATTI

Rapallo, 18.04.12


QUASI UNA RIVELAZIONE - Poesia


Maria Grazia BERTORA

Rapallo, 29 Marzo 2019


UNA GIORNATA DA COMANDANTE di Rossella Balaskas

 

UNA GIORNATA DA COMANDANTE

di

Rossella Balaskas


Immaginiamo una giornata di navigazione tipica, con tempo buono: sveglia tra le 7 e le 7:30, un’occhiata fuori, un’altra al GPS e al ripetitore ECDIS sopra la scrivania; bevo il caffè davanti al computer, mentre invio i messaggi di ETA (estimated time of arrival) al prossimo porto e agli eventuali porti successivi.

Poi salgo sul ponte.

Dalle 8 alle 12 è di guardia il 3°Ufficiale, solitamente una persona di giovane età e con poca esperienza di mare, quindi da seguire attentamente: rispondo alle sue domande, lo incoraggio, gli lascio qualche lavoro da fare nel pomeriggio…

Alle 9 aprono gli uffici a terra e, puntualmente, arrivano copiose le e-mail: documenti da preparare per i prossimi porti; ispezioni da organizzare; chiarimenti su materiale da ordinare; controlli da fare sulla base di osservazioni fatte ad altre navi, per essere sicuri di non avere gli stessi problemi…

Personalmente preferisco rispondere subito, in modo che il lavoro non si accumuli; così, con l’aiuto del 1°Ufficiale, controlliamo ciò che ci viene richiesto, approfittando dell’occasione per fare un giro in coperta e controllare i lavori di manutenzione.

Il Direttore di Macchina ci aiuta per la parte tecnica. La vecchia rivalità tra macchina e coperta viene superata quando le persone si conoscono e si stimano!


A mezzogiorno si pranza ed è subito il momento di mandare il Noon Report: un messaggio alla compagnia in cui sono indicate condimeteo, miglia percorse, consumi ecc.

Nel pomeriggio ci prepariamo all’arrivo.

Poiché si tratta di una nave che fa principalmente cabotaggio, tutti noi conosciamo i porti, ma un piccolo ripasso non fa mai male: dò un’occhiata alla carta accertandomi che il 2°Ufficiale abbia riportato correttamente le chiamate da effettuare a Piloti, Capitanerie ed eventuali VTS e lascio detto quando chiamarmi per la manovra (ma tanto li frego, salgo sempre prima di essere chiamata!).

La speranza che l’ormeggio non sia disponibile e che si sia “costretti” ad andare alla fonda per un giorno o due c’è sempre. Purtroppo, spesso è una speranza vana! Così anche oggi, dopo aver consultato i Piloti un’ora prima dell’arrivo, abbiamo ricevuto conferma che andremo all’ormeggio.

Telefono al Direttore, anche lui già al suo posto in Centrale Controllo Propulsione, per informarlo.

Prima dell’arrivo faremo alcune prove e controlli, di cui il più importante è il test del timone e, inoltre, qualche miglio prima di arrivare alla Stazione Piloti, ci fermeremo brevemente per testare la macchina indietro.

Il bello della nave piccola è che si ferma tranquillamente in un paio di miglia! Anche se per sicurezza e quieto vivere, quando non ci sono particolari esigenze, me la prendo più comoda.

Più tardi, richiamo quindi il Direttore per dargli l’orario ufficiale del PIM – pronti in macchina  (SBE -standby engine in inglese ndr), chiedergli di mettere in moto i generatori e informarlo che inizierò a ridurre la velocità.

Una piccola curiosità, gli orari sono sempre divisibili per 6, retaggio di quando non esistevano i computer e i conti si facevano a mano, per semplificare!

A questo punto mandiamo via e-mail la Lettera di Prontezza, comunicazione ufficiale che la nave è pronta a caricare o scaricare (in alcuni porti italiani, la prontezza si notifica anche via VHF al terminale o all’Avvisatore Marittimo).

Dopo avere diminuito la velocità e provato la macchina indietro, approcciamo la Stazione Piloti dove imbarca il Pilota.

Un altro vantaggio di stare su una nave che fa sempre gli stessi porti è che conosciamo bene i Piloti, e loro conoscono bene la nave, quindi lo scambio di informazioni è abbastanza conciso: Pescaggi, una ripassata alle caratteristiche di manovra, qualche convenevole; poi si entra nel vivo! La manovra, se il tempo è buono, dura da mezz’ora a un’ora; di norma sono presenti (obbligatoriamente, per via del carico pericoloso che trasportiamo) uno o anche due rimorchiatori.

Una volta ormeggiati, sale a bordo l’Agente Raccomandatario per ritirare i necessari documenti; in alcuni Paesi è accompagnato dalle Autorità locali (in tal caso i documenti si moltiplicano!).

Una volta sbrigate le formalità di arrivo e mandata l’ennesima e-mail, con gli orari fino all’ormeggio, scendo a fare un po’ di pubbliche relazioni con il Loading Master (rappresentante del terminale) e Cargo Surveyor (ispettore del carico); della parte tecnica si occupa il 1°Ufficiale, ma qualche firma da mettere c’è sempre e, quindi, non manco di farmi vedere.

È tardi e la cena è saltata, ma due chiacchiere in buona compagnia possono risollevare il morale! Infatti anche Loading Master e Cargo Surveyor sono, in larga parte, volti noti e amichevoli.

Ormai manca solo di vedere l’inizio delle operazioni commerciali per mandare l’ultima e-mail della giornata poi, con la nave al sicuro in banchina, potrò andare a dormire il sonno dei giusti!

In tutto questo, il mio gatto mi guarda sonnacchioso dal divano, come a dire “perché mai affannarsi?”


P.s.: Ovvio che le giornate non sono tutte identiche ne sempre idilliache: maltempo, malumore e maleducazione a volte la fanno da padroni e allora bisogna consolare, incoraggiare, a volte rimproverare… in questo aiutano molto ironia e soprattutto autoironia.

Spesso una battuta ben azzeccata scioglie le tensioni e vale più di mille discorsi!

ROSSELLA BALASKAS

Rapallo, 22 Maggio 2018


 

 

 

 

 

 

 

 



L'ANTICO PORTO DI CESAREA MARITTIMA

CESAREA MARITTIMA

ISRAELE

Dopo aver visitato ed esplorato gli antichi porti di Claudio, Ostia, Traiano, Mileto, Nemi ed altri, oggi andiamo a Cesarea Marittima per riscoprire altre novità sull’ingegneria degli antichi romani che non finiscono mai di stupirci.

"Il sogno di Re Erode: Cesarea sul Mare"




Questo mosaico, rinvenuto a Caesarea Maritima, di epoca romano-bizantina, dà l'idea della bellezza della città  e dei suoi monumenti. Il mosaico policromo é abbellito con animali, piante, alberi e motivi geometrici. Al suo centro regna una divinità femminile locale, di nome Kalokeria, un nome sicuramente grecizzato di una Dea locale, che mostra, come Dea della fertilità e della prosperità,  un cesto di frutti della terra, che doveva assicurare la ricchezza alla bellissima città.

Questo libro: "Il sogno di Re Erode: Cesarea sul Mare" pubblicato negli anni ottanta, tratta del materiale raccolto per una mostra in Israele, ed offre una splendida narrazione della rinascita archeologica di una delle città più belle dell’Impero Romano di Oriente e del suo porto di prima grandezza: Cesarea Marittima, la quale competeva dunque con Leptis Magna, il Pireo-Atene, Ostia, Alessandria, Rodi e molti altri, per tutta una circolazione straordinaria di beni ed il passaggio di idee e dottrine Oriente-Occidente e viceversa.

Oggi CESAREA si presenta così…






Oggi Cesarea ce la possiamo solo immaginare in tutta la sua bellezza con le ricostruzioni degli studiosi.




La fonte principale di informazioni é lo storico ebreo Giuseppe Flavio. Situata 40 km a nord dell’attuale Tel Aviv, Caesarea Maritima venne fondata lungo una delle più importanti vie di comunicazione che collegavano le aree popolate del Medio Oriente con la costa mediterranea. La costruzione della grande città fu condotta a ritmi sostenuti con il lavoro di migliaia di operai e schiavi, e terminata in tempi davvero brevi (nove o dieci anni prima di Cristo).

Un acquedotto forniva a Cesarea l’acqua potabile, e un sistema di fogne sotto la città portava al mare acqua e liquame. L’impresa più importante però fu la costruzione del porto artificiale.

UN PO DI STORIA:

Erode il Grande (regnate tra il 40 e il 4 a.C.) aveva ricevuto in dono il sito da Cesare Augusto insieme a Samaria e ad altre città minori. Dopo avere ricostruito Samaria, che chiamò Sebaste, rivolse l’attenzione alla costa e iniziò la costruzione di una città e di un magnifico porto presso la Torre di Stratone, costruzione che richiese 10-12 anni; l’inaugurazione avvenne (secondo alcune fonti autorevoli) verso il 10 a.C. Trattandosi di opere costruite in onore di Cesare Augusto, Erode chiamò la città Cesarea e il porto Sebastos (che in greco significa Augusto). La città era bellissima, sia per i materiali edili impiegati sia sotto il profilo architettonico; c’erano un tempio, un teatro e un anfiteatro abbastanza grandi da ospitare una folla numerosa.

La città venne costruita ampliando a dismisura il piccolo porto villaggio di Straton (detto anche “Torre di Straton”), nato secoli precedenti come scalo per i traffici marittimi tra Fenicia ed Egitto. Tra alterne vicende Cesarea durò fino al 1265, quando le truppe musulmane, guidate dal sultano mamelucco Baybars, posero fine alla sua millenaria esistenza allo scopo di privare i crociati di una formidabile base di penetrazione in Terrasanta. La città era già stata conquistata da Saladino nel 1187; ripresa dai crociati francesi dopo circa vent’anni, venne fortificata nel 1251 per volere di re Luigi IX di Francia, ma le possenti mura, tutt’oggi visibili attorno al nucleo centrale della cittadella, non bastarono a fermare la furia dei Mamelucchi, decisi a ributtare in mare gli invasori. Da quel momento le rovine di Cesarea divennero il regno della sabbia e della salsedine. Il sogno di Erode fu inghiottito dalle dune costiere.

La città possedeva un porto molto grande con un molo che proteggeva gli attracchi da sud e da ovest. Sul porto si ergeva il tempio di Augusto e Roma, in posizione sopraelevata. Un doppio acquedotto portava l'acqua in città dalle sorgenti del Monte Carmelo. I ruderi di un imponente anfiteatro sono ancora visibili oggi come resti del citato acquedotto. La città era fiorente e abitata da popolazioni di varia etnia, ebrei, greci, romani, samaritani. Fu molto ben descritta da Flavio Giuseppe nei suoi libri Guerra giudaica e Antichità giudaiche.


Il Teatro di Cesarea Marittima (sopra e sotto)

Cesarea Marittima, Israele: colonne del parco archeologico

Il suo porto fu inaugurato nel 10 a.C. dallo stesso Erode in onore di Cesare Augusto. Per costruirlo si usò un tipo di cemento idraulico messo a punto dai romani: la «pozzolana», un miscuglio di polvere vulcanica del Vesuvio, fango e pietrisco che si indurisce a contatto con l'acqua. Ci vollero dodici anni e migliaia di uomini per portare a termine l'opera: molti furono fatti venire anche da Roma. Tra loro si distinguevano i tuffatori che si immergevano trattenendo semplicemente il fiato oppure in campane subacquee.

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CONCLUSIONE

La prosperità si ebbe finché resse l'impero romano che senza razzismi o preclusioni, favorì i commerci ed ogni tipo di arte in ogni parte e ad ogni gente del suo impero. Quando però questo decadde vennero a mancare cultura, scuole, leggi, commerci e ricchezze, e tutto ricadde nella barbarie. Da qui l'oscuro medioevo.

Bibliografia:

-Geografia e Archeologia

-Biblioteca on line

-I porti romani sul mare

-Associazione culturale Liutprand: il cemento degli antichi romani

-Il sito archeologico di Cesarea Marittima

-Daniele Mancini Archeologia

-Terrasanta.net

-Archeologia Viva-vivere il passato. Capire il presente.

-IMPERIUM ROMANO

-FELICI: La ricerca sui porti romani in cementizio.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 22 Marzo 2018

 

 

 

 


TRE FISCHI PER IL VECCHIO MARINAIO

 

TRE FISCHI PER IL VECCHIO MARINAIO

Passaggio sottocosta a Camogli

Nota: La foto mi è stata gentilmente donata dall’amico “Poeta”Andrea Bodrati (aveva il negozio di alimentari sul piazzale del boschetto), con la seguente dedica A Mario :

 

"La foto di un mare calmo in cui giocavi da bambino; poi hai dovuto confrontarti con le sfide degli oceani !  Andrea".

 

 

Riporto questo articolo scritto sul Secolo XIX, il 20 agosto 2000, dalla Sig.ra Tina Leali Rizzi di Camogli, quando i passaggi delle navi sotto costa erano considerati tradizione marinara.

 

 

Camogli. Era una bella tradizione, quella dei comandanti camogliesi, quella di passare con le navi a salutare i vecchi marinai  (marinai – Capitani e macchinisti navali) ospitati nella casa di riposo sul mare. Tre fischi dalla nave che passava “rasente” agli scogli grazie ad una perfetta conoscenza dei fondali, mentre sul pennone della terrazza delle casa di riposo i vecchi marinai commossi alzavano la bandiera. A mantenere viva la tradizione è il comandante Mario Terenzio Palombo, camogliese. Domenica uscendo dal porto di Genova ha puntato su Camogli con la splendida Costa Victoria per un omaggio alla cittadina e un saluto al suo anziano padre Francesco “Cechino”, 93 anni, ospite della casa dei marinai. La nave, imponente e maestosa, dopo i tre fischi di saluto si è fermata vicinissima, per poi ripartire lentamente, dopo altri tre fischi, tra lo stupore di tutti.

 

 

 

CSLC Mario Terenzio PALOMBO

Rapallo, 23 Febbraio 2015

 


 


Mario T. PALOMBO un Comandante nella "tempesta" mediatica

Mario Terenzio PALOMBO

un Comandante nella “tempesta” mediatica

Nel novembre 2010 Mare Nostrum organizzò la Mostra: “La famiglia Costa, un pianeta che parla rapallino”. L’evento ebbe come testimonial il comandante Mario Terenzio Palombo che lasciò un’impronta indelebile con un’avvincente conferenza sulla marineria del nuovo millennio. Fu proprio in quella circostanza che i nostri lettori conobbero il “Personaggio Palombo”, Comandante carismatico della Costa Crociere, protagonista di una storia ormai rara che parte dai segreti della vela, raccontati dal nonno Biagio, armatore di un pinco-goletta, ed arriva all’assoluta padronanza delle moderne tecnologie installate sulle grandi navi da crociera che lui stesso ha allestito e poi comandato.

Il comandante Mario Terenzio Palombo

Le poche righe che seguono, fanno parte della presentazione di Mario Terenzio Palombo che lessi al pubblico di MARE NOSTRUM RAPALLO nel novembre 2010:

"Nel primo dopoguerra, prima di partire con il bastimento “Nettuno”, mio padre che mi sembrava un gigante, un vero “lupo di mare”, ci ordinava di andare a prendere le gallette e i fichi secchi presso il panificio. Questa era la loro provvista di base. Durante la navigazione pescavano e mangiavano il pesce arrosto. Nelle cale della Sardegna si ancoravano, andavano nell’entroterra e dai contadini  scambiavano il  pesce con delle belle forme di formaggio di vari tipi e salumi. A quei tempi con le lenze si prendevano molti pesci. Lungo la costa calavano il tramaglio che in poco tempo era già stracolmo. Mentre il bastimento usciva dal porto di Camogli  lo guardavamo sbalorditi, mentre spiegavano le vele. Stavamo a guardarlo a lungo, sino a che diventava un puntino invisibile all’orizzonte. Sono immagini che restano impresse nelle mente, di tanto in tanto è bello ricordare".

Mario Terenzio Palombo é da qualche anno in pensione e si può tranquillamente sostenere che molti  degli attuali comandanti ed ufficiali di Costa Crociere sono cresciuti alla sua Scuola. Anche il comandante F. Schettino, al primo imbarco da Comandante in seconda, proveniente da altra Compagnia fu suo sottordine per circa 5 mesi nel 2002/3, a bordo della Costa Victoria, in crociera ai Caraibi. In questo periodo, Il comandante Palombo ebbe modo di poter valutare le capacità professionali di Schettino, che riportò in  una scheda  datata 18 maggio 2003, (già pubblicata da vari quotidiani) dove scrive:

< omissis….Posso dire che, mentre professionalmente è valido, tuttavia, ha manifestato alcune lacune relative alla gestione del Personale e  Disciplina di bordo. Ho notato, sin dall’inizio, un suo notevole impegno nel conoscere la nave e nel dedicarsi alla manutenzione della stessa. Non c’è stato inizialmente con me un buon rapporto in quanto, per orgoglio professionale o per suoi motivi caratteriali, il Sig. Schettino, in molti casi, preferiva mentirmi piuttosto che ammettere di aver sbagliato. Questo fatto naturalmente ha causato una perdita della mia fiducia sino a quando, dopo il nostro terzo serio colloquio, cominciava a capire come doveva comportarsi. Gli ho dato molti insegnamenti che mi auguro ne faccia tesoro specialmente per quanto concerne i rapporti con il Personale ………omissis……..Ha un buon carattere, come uomo è umile e buono d’animo, per questo ho voluto aiutarlo a superare le difficoltà incontrate a bordo ed a cambiare il suo comportamento, facendogli così acquisire più personalità, capacità di gestione del personale ed esperienza sulla conduzione nave per quanto concerne le sue mansioni >.

Mario Terenzio Palombo durante l’inverno e per 9 mesi all’anno vive a Grosseto. La sera del 13 gennaio 2013, 15/20 minuti circa prima dell’impatto della Costa Concordia contro “Le Scole”, mentre stava guardando la TV, veniva chiamato al cellulare dal Maitre d’Hotel della nave, Antonello Tievoli, originario dell’isola del Giglio. I due sono legati da buoni rapporti di famiglia ma il Comandante non sapeva dove si trovasse la nave in quel momento. Tievoli, nel salutare rapidamente Palombo, riferiva di trovarsi sul Ponte di Comando e che il comandante Schettino stava deviando dalla rotta per mostrare più da vicino l’isola del Giglio ai passeggeri e allo stesso Tievoli, i cui genitori abitano di fronte al mare. Palombo rimase indispettito da quell’inaspettata telefonata, in quanto il Maitre sapeva che lui si trovava  a Grosseto e rimase ancor più indispettito quando gli passò al cellulare, senza averlo chiesto, il comandante Schettino che non sentiva da anni, nemmeno quando andò in pensione per motivi di salute, ma soprattutto perché non erano rimasti in rapporti di amicizia.  (M.Palombo sbarcò dalla Costa Fortuna nel porto di Napoli nel 2006 per infarto. N.d.r.) Lo colpì ancora di più quando Schettino gli chiese informazioni sui fondali adiacenti alla zona del porto dell’isola, specificandogli che voleva passare ad una distanza di 0,4 miglia dal molo (circa 750 metri). Molto stupito da questa domanda, e pur sapendo che la nave era ben fornita di tutti gli strumenti nautici e dei dati per la  navigazione, Palombo riferiva che i fondali in quella zona erano buoni, ma tenuto conto della stagione invernale, non vi era assolutamente motivo di avvicinarsi e lo invitava a fare un rapido saluto suonando la sirena e di rimanere al largo.


Detto questo, soltanto l’apertura della “Scatola Nera” potrà spiegare il movente che spinse il comandante della Costa Concordia a pianificare  tanta scelleratezza... Comunque sia, la tragedia della COSTA CONCORDIA, avvenuta il 13 gennaio di quest’anno, ha cambiato la vita del Comandante Mario Terenzio Palombo che é diventato, suo malgrado, il personaggio più corteggiato, ma anche travisato e screditato dai media nazionali e stranieri. Questa diffusa pratica che si chiama “diffamazione”, ha suscitato la reazione degli abitanti dell’Isola del Giglio che, conoscendo a fondo il valore del loro figlio prediletto, hanno voluto esternare la loro amarezza con un “appello” apparso in versione murale nel paese, ma anche sul sito di GiglioNews.it che ora vi proponiamo insieme alla risposta del protagonista, vittima di una cinica quanto ingiustificata campagna denigratoria.

Di questo scambio di lettere, ci colpisce soprattutto la distanza siderale che esiste tra la sensibilità di chi conosce profondamente il mare ed il “personaggio Palombo” e  coloro che osano scrivere di navi e di gente di mare senza appartenere a questo mondo tanto difficile da capire quanto  affascinante da vivere. “I Vivi, i Morti e i Naviganti” é forse la più sintetica definizione di come é stato visto e diviso il mondo da un grande saggio che la sapeva lunga sull’animo umano.

"Giù le mani dal comandante Palombo"

Lo urla a gran forza il popolo gigliese e lo fa attraverso un eloquente striscione comparso nella notte su un balcone del porto, proprio di fronte al relitto della Concordia. Non piace agli isolani la gogna mediatica a cui viene sottoposto il loro concittadino Mario Palombo, ex Comandante di massimo prestigio della Costa Crociere.

"Quale sarebbe la colpa di Mario? - ci dicono infuriati gli isolani - Non è possibile vederlo additato su tutti i giornali e le trasmissioni televisive per il solo fatto che attraverso il suo libro ha descritto con passione l'amore per la sua gente espresso a volte attraverso passaggi ravvicinati alla sua isola!" 

"Prima di tutto non chiamateli inchini, che sono un'altra cosa - continuano i gigliesi - Gli sporadici passaggi ravvicinati del comandante Palombo ed alcuni suoi colleghi avvenivano sempre a distanza di sicurezza (almeno mezzo miglio) e ad una velocità minima che non creava pericolo né disturbo ai fondali"

In effetti i passaggi ravvicinati a cui abbiamo assistito nelle estati passate non avevano nulla di illegale e la distanza di mezzo miglio era ben oltre il limite di 100 metri stabilito dalle Ordinanze balneari. In più c'è da aggiungere che a mezzo miglio dall'isola i fondali raggiungono profondità importanti tanto da garantire la sicurezza per ogni genere di imbarcazione.

 "Il passaggio di quelle navi è sempre stato uno spettacolo unico - conclude stizzita la gente dell'isola - che piaceva a tutti noi gigliesi (nessuno escluso), ai nostri turisti ma anche ai passeggeri a bordo delle navi che potevano godere di uno scenario da favola. Nessuna necessità di farsi pubblicità, né dell'isola né tantomeno di Costa, solo omaggi tra gente di mare fatti, lo ripetiamo, in massima sicurezza e trasparenza. "

Per tutti questi motivi si è alzata, per la prima volta, la voce dell'isola che si è prodigata silenziosa e senza clamore quella tragica notte in una straordinaria azione umanitaria e che in cambio non ha chiesto nulla ma pretende adesso almeno il rispetto per la sua gente difendendo con forza e determinazione uno tra i suoi più stimati concittadini.

Segue la risposta del comandante Mario Palombo.

Cari Gigliesi,

non potete immaginare la mia sorpresa quando venerdì mattina un giornalista dell’Ansa mi ha chiamato comunicandomi che nella notte sulla mia isola era comparso uno striscione in mio onore su un balcone del porto.

Subito dopo, attraverso GiglioNews, ho potuto vederlo e leggere i pensieri e le parole della gente isolana in mia difesa che mi hanno riempito di gioia concedendomi una boccata di ossigeno in un momento per me veramente difficile.

Mi vedo ogni giorno attaccato e denigrato senza motivo da giornalisti cinici e senza scrupoli alla ricerca spesso di processi alle intenzioni piuttosto che alla verità dei fatti, senza nessuno di essi che riesca a spiegarmi quale sarebbe la mia colpa e quale relazione avrebbe la mia persona con questa tragedia della Costa Concordia.

Vedo spesso il mio libro spulciato con morbosità, con l’intento di trasformare parole di amore verso il Giglio e Camogli in assurde profezie di sventura! Ridicoli e goffi tentativi di trovare in quelle righe, scritte con il cuore e dense di emozioni vissute, chissà quali verità e ricostruzioni fantasiose.

Il mio pensiero è fisso verso quella nave tristemente adagiata sul fondale della Gabbianara, i suoi passeggeri morti durante una vacanza ed i parenti disperati in attesa alcuni di ritrovare i dispersi; l’orgoglio mio e dei miei colleghi comandanti e l’immagine di una società rispettabile come la Costa feriti, per un’assurda coincidenza, dagli scogli granitici della mia isola.

Ho sempre agito negli anni del mio lavoro con massima trasparenza e professionalità, con un grande senso di responsabilità nei confronti dei passeggeri delle mie navi e soprattutto forte di un infinito rispetto del mare. Non ho mai messo a rischio la vita di nessuno con manovre spericolate ed i miei passaggi  sono sempre avvenuti mettendo in atto tutte le misure di  sicurezza, rallentando sensibilmente la velocità, avvicinandomi in prossimità del porto sia al Giglio che a Camogli, dove salutavo i vecchi marinai  ospitati nella Casa di Riposo Gente di Mare.  Non sono stati assolutamente una consuetudine come i media hanno scritto, ma sporadiche e felici  occasioni che ho avuto nel corso della mia carriera.

Questo i miei concittadini lo sanno bene e me ne hanno dato conferma alzando la voce e prendendo le mie difese di fronte a bieche speculazioni giornalistiche. Proprio loro che del silenzio e dell’anonima operosità hanno dato prova in quella tragica notte e che adesso sono l’orgoglio mio, della Costa Crociere e di tutta Italia!

Finché la Concordia rimarrà lì, non me ne vogliate, non riuscirò a metter piede sull’isola. Il mio cuore è ferito proprio come quella nave e come le anime di tutte le persone che in quel tragico venerdì notte hanno perso i propri cari.

Mario Terenzio Palombo

CSLC Mario Terenzio PALOMBO

Sono nato a Savona il 30 agosto 1942 da famiglia di tradizioni marinare. Mio padre Francesco, autentico “lupo di mare”, era originario di Porto Santo Stefano (Monte Argentario), mia madre Renata Mattera, era dell’Isola del Giglio. La mia famiglia nel 1935, per esigenze di lavoro, si trasferì in Liguria, nella pittoresca cittadina di Camogli. Mio nonno Biagio, già armatore del pinco-goletta ”Nettuno”, comandato da mio padre, si  mise in società con una famiglia camogliese ed iniziò i trasporti e la vendita a Camogli e Santa Margherita Ligure, di carbone e legna proveniente dalla Sardegna.

Dopo 58 anni vissuti felicemente a Camogli, per esigenze familiari, mi sono trasferito con la famiglia a Grosseto dove vivo per 9 mesi all’anno trascorrendo l’estate all’Isola del Giglio. Non manco mai  di ritornare a  Camogli almeno  una volta all’anno.

Mi sono diplomato nel 1963 all’Istituto Nautico “Cristoforo Colombo” di Camogli. Dopo 9 anni di esperienze su navi da carico e petroliere, nel 1972 iniziai la mia carriera su navi passeggeri con la società di navigazione Home Lines imbarcando sulla T/n HOMERIC e, subito dopo, sulla T/n DORIC. Raggiunsi il grado di Com.te in 2nda, nel 1979 sulla T/n OCEANIC e, il mio primo comando nel 1982 sulla M/N ATLANTIC, di cui avevo seguito l’allestimento, in Francia, da Com.te in 2nda.

Seguii anche l’allestimento in Germania della nuova M/N HOMERIC. Nel novembre del 1988  questa società fu venduta e venni, nello stesso mese, assunto dalla società Costa Crociere, imbarcando da Com.te in 2nda sulla T/n EUGENIO COSTA e, pochi mesi dopo, ripresi il grado di comandante  sulla  CARLA COSTA.

Con la società COSTA CROCIERE  ho maturato sempre più la mia esperienza professionale partecipando a vari allestimenti di nuove navi, con l’affidamento del comando di navi prestigiose.

Con la Costa Crociere ho comandato: CARLA COSTA – COSTA ROMANTICA - COSTA CLASSICA- COSTA VICTORIA- COSTA ALLEGRA - COSTA ATLANTICA – COSTA FORTUNA.

Allestimenti : COSTA ROMANTICA – COSTA VICTORIA – COSTA FORTUNA

Sono rimasto a ruolo con la Costa Crociere sino al giugno 2007, ritirandomi in pensione.

Carlo GATTI

Rapallo, 13.04.12