MEMORIA IN SERVIZIO PERMANENTE (Poesia)
MEMORIA IN SERVIZIO PERMANENTE
Per noi
Ragazzi anni '60
è la Riviera
Il volo dalla città
la bellezza del mondo
il richiamo atteso.
Sugli scogli
pizza fredda
birra calda
sapore di sale
sapore di mare.
In villa
incontri nuovi.
Tra gli ulivi
verdazzurro, giallo
di acqua, di monte, di fiore.
L'Aurelia ancora
mi porta lì
in servizio permanente
di memoria.
Gabriella VEZZOSI
Rapallo 2014
QUALCHE PAROLA SUI RIMORCHIATORI-PORTO DI GENOVA
Qualche parola sui rimorchiatori
John Gatti
l rapporto tra il Pilota e il Comandante dei rimorchiatori va costruito e curato nei dettagli.
Il filo che li lega deve essere il risultato di una profonda conoscenza reciproca basata sul senso marinaresco, sulla fiducia, sulla complicità, sull’abilità, sul rispetto e sulla stima.
E’ importante conoscere le differenze tra i vari rimorchiatori per apprezzarne i pregi e capirne i difetti, come lo è capire quando e come conviene usarne uno piuttosto che un altro o sapere cosa si può pretendere da loro e a cosa si deve rinunciare per non correre inutili rischi.
Tuttavia non è sufficiente.
Per entrare in sintonia con il Comandante del rimorchiatore è fondamentale vivere alcune esperienze dal Ponte di Comando di quei mezzi: solo così è possibile dare il giusto peso alle difficoltà che si hanno a voltare i cavi(assicurare i cavi alle bitte) dovendo rimanere quasi a contatto con la prora della nave in movimento, o per realizzare cosa significhi l’impatto della corrente di scarico di un’elica potente che parte all’improvviso; per non commettere imprudenze, inoltre, occorre sapere come cambia la prospettiva per chi si trova in posizione pericolosa tra la nave e un ostacolo, mentre il rapporto spazio/tempo diminuisce velocemente.
E’ di grande aiuto riuscire a “riconoscere” i Comandanti dalla voce al VHF (ricetrasmettitore, fisso o portatile, per le comunicazioni marine) perché con alcuni si lavora meglio che con altri e, in certe situazioni, la sintonia potrebbe essere il valore aggiunto determinante sull’ultima carta da giocare. Anche per questo è importante essere psicologicamente pronti a raccogliere i consigli giusti: l’umiltà di accettarli può aiutare a non commettere errori e un rapporto costruito su solidi basi fa in modo che, comunque, non vengano compromessi l’autorità e il controllo della manovra.
In tutto questo è ovviamente necessario considerare la figura e le competenze del Comandante della nave: un uomo di mare che potrebbe anche non parlare la nostra lingua, ma che capisce esattamente le difficoltà di una manovra impegnativa. Per questo e per molti altri motivi lo si deve informare sulla manovra che si intende fare e sui rimorchiatori che verranno impiegati.
Tramite il Tavolo Tecnico, condotto dall’apposita sezione della Capitaneria, i rappresentanti dei Servizi Tecnico Nautici, riunendosi giornalmente, hanno l’opportunità di discutere di procedure, limare incomprensioni, smussare problemi, valutare rischi e trovare soluzioni a manovre complicate, ma anche comprendere e ribadire il fatto che ogni operazione coinvolge altri soggetti e che non si può non tenerne conto.
Detto questo, e solo a scopo discorsivo, elenco alcuni punti delicati da tenere sempre a mente quando si utilizzano dei rimorchiatori in manovra:
- – Se i rimorchiatori vengono voltati (assicurati con il cavo alla bitta) fuori dalle acque ridossate (riparate) dalla diga del porto, non bisogna dimenticare che le onde li fanno rollare (movimento oscillatorio di un nave provocato dai marosi che la colpiscono trasversalmente) e che ci sono dei marinai a lavorare sul Ponte di Coperta bagnato e spazzato dal mare. E’ imperativo regolare la velocità e la rotta per rendere l’operazione più agevole e sicura.
- – La fase in cui si voltano i rimorchiatori è molto delicata: per dare o ricevere il cavo si devono avvicinare fin quasi a toccare la nave e più è alta la velocità più l’operazione diventa pericolosa. Sei o sette nodi, compatibilmente con le caratteristiche dei propulsori, è di solito il giusto compromesso, soprattutto per il rimorchiatore di prora che, nell’avvicinarsi alle grosse petroliere e alle portacontenitori di ultima generazione, sparisce completamente alla vista di chi dirige le operazioni dal Ponte di Comando.
- – Se la nave in manovra utilizza due rimorchiatori è buona norma, quando possibile, voltare prima quello di poppa e poi quello di prora; per mollarli vale il contrario: prima quello di prora e poi quello di poppa. Questo perché, nella malaugurata ipotesi di un problema al rimorchiatore di prora, si ha sempre la possibilità di utilizzare quello di poppa per frenare la velocità o per aiutare l’accostata.
- – L’effetto giratorio che agisce sul rimorchiatore, dovuto alla massa d’acqua spostata dalle grandi petroliere, è da valutare con molta attenzione: mentre lo stesso è quasi assente nella manovra di navi dalla stellatura prodiera molto accentuata (affinamento delle forme della carena, riferita soprattutto alla sezione prodiera e poppiera; in pratica: più queste forme sono tonde, meno sono stellate, portacontainer, navi passeggeri, ecc.). Pertanto, in queste condizioni e anche se non si sviluppano grandi velocità, bisogna considerare che durante le operazioni di passaggio del cavo parte del moto avanti del rimorchiatore è annullato per mantenere la direzione; effetto che sparisce allontanandosi di una decina di metri circa.
- – Avvisare sempre i rimorchiatori di qualsiasi variazione di rotta e velocità, informarli non appena sono stati voltati, se si intende modificare la manovra concordata e prima di usare la macchina o di dare fondo alle ancore.
- – Precisare al Comandante della nave dove si intendono voltare i rimorchiatori spiegandogli l’importanza di usare un heaving line (lanciasagole appesantito ad una estremità con lo scopo di facilitarne il lancio) con un peso adeguato: troppo spesso il vento porta via la messaggera (cima maneggevole di piccola sezione, usata per virare a bordo il cavo del rimorchiatore), con conseguente perdita di tempo… e più è lungo l’intervallo in cui il rimorchiatore rimane sotto la prua della nave in movimento, più alto è il rischio d’incidenti, senza considerare che nel frattempo la nave avanza con scarsa capacità di governo.
- – Prima di liberare il rimorchiatore di poppa, è necessario creare le condizioni affinché il cavo non finisca nell’elica in movimento e, anche in questa fase, gli ordini all’equipaggio devono essere chiari e tempestivi.
- – Accertarsi che il personale al posto di manovra sia a distanza di sicurezza dal cavo in lavoro del rimorchiatore.
- – Avere sempre un margine di sicurezza. Quando si parla di manovra, il senso di questo concetto è spesso legato al bollard pull (misura convenzionale riferita alla potenza di tiro) necessario a contrastare le condizioni del vento, della corrente e del moto ondoso: non bisogna dimenticare che la potenza sviluppata dai rimorchiatori dipende dalla lunghezza del cavo e dalla direzione del tiro, oppure, usandolo alla spinta, dalla direzione che avrà quest’ultima.
Ogni elemento che contribuisce alla buona riuscita della manovra ha un peso specifico relativo molto grande: le condizioni meteo-marine, la nave e la sua efficienza, il Comandante e il suo equipaggio, il Pilota, gli ormeggiatori e, ovviamente, i Rimorchiatori e chi vi è imbarcato. Armonia nel lavoro di gruppo e fiducia reciproca:
– La chiamata del rimorchiatore viene fatta dopo che il Pilota è imbarcato ed è successiva al confronto con il Comandante. Al momento della richiesta, quindi, la nave probabilmente si trova già a meno di un miglio dall’imboccatura. Dato il poco preavviso, per il rimorchiatore arrivare puntuale non è sempre né facile né possibile, ma l’impostazione della manovra dipende spesso dal momento in cui si è certi di avere il rimorchiatore voltato (legato).
- La manovra viene vista e vissuta in modo differente a seconda della posizione da cui la si guarda: gli ormeggiatori dalla barca o da terra, gli ufficiali da prora o da poppa, i Comandanti dei rimorchiatori dai punti in cui operano. Da ognuno di questi posti si vede solo una porzione di manovra. Gli unici ad avere il privilegio di una visione d’insieme (pur considerando diversi angoli ciechi), che sanno esattamente cosa stanno facendo la macchina e il timone e che hanno un programma ben preciso della manovra, sono il Comandante e il Pilota. Per questo motivo è importante che venga dato il “ricevuto” a qualsiasi comunicazione radio d’interesse: spesso è impossibile vedere direttamente cosa sta facendo il destinatario del messaggio e il dubbio che sia stato ricevuto e capito resta attivo fino a quando non viene confermato.
- Essere precisi nelle comunicazioni. “Tra qualche minuto sono sotto bordo…”, “Lo sto già facendo…” (come risposta a un comando), “Sto tirando/spingendo a tutta…”, ecc. A queste risposte segue un’azione. Va da sé che a risposta imprecisa seguirà un’azione errata.
- La potenza dei rimorchiatori spesso permette di risolvere situazioni complicate ma, proprio perché può incidere così tanto sullo scenario generale, il Comandante deve stare sempre concentrato sulla manovra e prevedere le conseguenze delle sue azioni; mi viene in mente la possibilità di rompere il cavo; quella di far perdere il controllo della nave tirando o spingendo troppo; oppure quella di creare difficoltà alla barca degli ormeggiatori con le scie dei suoi propulsori; o, ancora, sottovalutando l’effetto del rimorchiatore sulla manovra non mettendo il cavo perfettamente in bando quando richiesto oppure appoggiandosi allo scafo della nave.
Per affrontare almeno parte del mondo del “rimorchio” in modo approfondito, occorrerebbe molto spazio e sarebbe necessario entrare nei tecnicismi della professione che lo circonda. Non si può non tenere conto, ad esempio, dei diversi tipi di rimorchiatori (ASD, ATD, RSD, ecc.) perché ognuno di questi ha pregi e difetti, punti deboli e punti forti da poter sfruttare; occorrerebbe parlare dei pericoli insiti nel rapporto rimorchio/nave; dei sistemi di valutazione per determinare il numero di rimorchiatori da utilizzare; della lunghezza del cavo di rimorchio, quando è meglio utilizzarlo alla spinta piuttosto che voltato; quando usare il cavo nave e quando quello del rimorchiatore; ecc…, ma andare così in profondità non è l’intento di questo articolo.
Voglio però entrare in punta di piedi nella pratica raccontando un episodio di tanti anni fa che ha contribuito efficacemente ad accrescere la mia esperienza e che fa capire l’essenzialità del lavoro di squadra.
L’importanza dell’esperienza.
Ero passato Pilota effettivo da poco e le cose stavano andando bene: mi sentivo sereno e sicuro di me. Probabilmente troppo.
Al termine di una giornata tranquilla, proprio nell’ora del cambio turno tra Piloti diurni e notturni, il caso volle che fossi io il primo di “spia” (registro che riporta i nomi dei piloti in servizio e le manovre eseguite) all’arrivo di una nave di discrete dimensioni e con un pescaggio importante. Doveva andare “prua a terra”, il che significa “senza evoluzione”. In pratica si sarebbe dovuto procedere lungo il canale per poi accostare a dritta una volta raggiunta la banchina di destinazione: niente di particolarmente difficile… per chi ha l’esperienza necessaria a valutare e svolgere bene ogni passaggio.
Erano tutti contrari a mandarmi a bordo, soprattutto il Capo Pilota di allora. Ricordo infatti di aver insistito parecchio per conquistarmi la sua fiducia. Alla fine cedette, alla condizione che avrei usato due rimorchiatori; se il Comandante avesse voluto procedere con uno soltanto, allora sarei dovuto sbarcare per far salire al mio posto un Pilota più esperto.
Arrivato in plancia mi trovai di fronte un uomo di nazionalità tedesca, gentile, ma piuttosto “quadrato” e non fu facile convincerlo a prendere il secondo rimorchiatore, anche perché la nave era fornita di un bow thruster (elica di manovra prodiera, azionabile dal Ponte di Comando, che genera una forza laterale utile in manovra) discretamente potente.
Assenza di vento, niente corrente, due rimorchiatori, elica di prua, Comandante tranquillo: nulla che facesse prevedere che quella sarebbe stata una delle manovre che mi sarei ricordato meglio negli anni a venire.
In realtà l’errore che feci non fu di proporzioni enormi, semplicemente ritenni non fosse il caso di applicare una semplice regola che i Piloti più esperti mi avevano ripetuto più volte: “quando vai prua a terra con una nave di pescaggio, prima fermala e poi inizia l’accostata!”
Ricordo che durante i tre quarti d’ora necessari a raggiungere la banchina pensai più volte a come la nave rispondeva bene al timone e di come il Molto Adagio Avanti producesse una velocità perfettamente adeguata alla stazza della nave.
Fermai la macchina per tempo lasciando che l’abbrivo (impulso con cui inizia o aumenta gradualmente la velocità della nave; indica anche la quantità di moto che conserva quando cessa l’azione dei mezzi propulsivi) diminuisse piano piano, con l’intenzione di fare una manovra prudente. In effetti arrivammo tra le testate delle due banchine con una velocità di poco superiore al nodo: praticamente quasi fermi. Era quel “quasi” che non andava bene…
A quel punto avrei dovuto dare macchina indietro o, quanto meno, mettere il rimorchiatore di poppa in bozza a fermare…
La verità è che mi sembrava di andare talmente piano e che il timone rispondesse in modo così preciso che, invece di fermare la nave, feci mettere il timone a dritta per infilarmi sfruttando la poca velocità residua.
All’inizio andò bene, ma poi, all’improvviso, la nave smise di venire a dritta: sentiva maledettamente il fondale e la prua si fermò puntando direttamente il prolungamento della banchina di fronte.
Non eravamo vicinissimi e per questo motivo non mi preoccupai più di tanto. Feci mettere la macchina Indietro Adagio e il rimorchiatore di prora a piegare piano.
Risultato: la nave non rallentò neanche un po’ e la direzione restava la stessa, solo che nel frattempo lo spazio a disposizione diminuiva.
Cominciai a preoccuparmi. Indietro Tutta, rimorchiatore di poppa in bozza a fermare e quello di prora a piegare a tutta forza!
Risultato: la nave continuava ad andare avanti e la rotazione riprese in modo quasi impercettibile.
Nel giro di qualche minuto la situazione precipitò: il Comandante saltava da un’aletta all’altra come un grillo imprecando senza sapere cosa fare, mentre io cominciavo a sudare freddo realizzando di essermi giocato tutte le carte che avevo a disposizione.
Fu a quel punto che il rimorchiatore di prora, continuando a vogare a tutta forza, si girò quasi a spring (cavo d’ormeggio che da prua guarda verso poppa o da poppa verso prora ostacolando o impedendo alla nave di avanzare o retrocedere) e quello di poppa si sguardò quel tanto che bastava per rendere il massimo nella frenata aiutando anche l’accostata.
Sfiorammo il cemento… ma passammo indenni!
I due Comandanti dei rimorchiatori sono ormai in pensione da diversi anni, ma quando mi capita di incontrarli li ringrazio ancora per l’abilità e l’occhio dimostrati quel giorno.
Sono tante le storie che potrei raccontare dove il binomio Comandante del rimorchiatore e il suo Direttore hanno dimostrato una preparazione e una padronanza che è possibile acquisire solo dopo un percorso lavorativo molto specifico. Sono professioni che lasciano ancora spazio all’abilità personale, dove si creano equilibri che rendono difficile sostituire un uomo con un altro.
JOHN GATTI
Rapallo, Mercoledì 9 Maggio 2018
CAMOGLINI, uomini di mare
CAMOGLINI, uomini di mare
Così, come il vecchio sagrestano che, per eccessiva familiarità ormai non si genuflette più passando davanti all’altare, altrettanto capitava ai genovesi che, eterni dirimpettai del mare, raramente si lasciavano irretire dall’esotica, suadente pubblicità delle crociere; e pensare che, all’epoca, la più grande Compagnia specializzata nel ramo era genovese ed aveva sede proprio a Genova.
Mia moglie ed io invece ce ne lasciammo tentare; felice scelta. Ci fece scoprire e gustare un mare sino allora insolito; era la crociera di fine d‘anno che, passato in navigazione quando i figli sono ormai grandi, ti fa rivivere tempi e ritmi dimenticati, fugando immancabili malinconie.
Per il pranzo del primo dell’anno eravamo ospiti del Comandante, genovese D.O.C.; attraverso i velari delle vetrate della grande sala da pranzo, s’intravedeva una fredda ma soleggiata giornata illuminare il mare piatto e lucido, quasi fosse mercurio.
In tavola caviale, salmone e certamente a seguire, da quanto l’inizio lasciava intuire, ogni ben di Dio; la garrula signora del tavolo accanto disquisiva, con quella sua voce penetrante, sulla temperatura di servizio del caviale e del “bouquet” dello champagne che lo accompagnava.
Occupammo i nostri posti e il cameriere, garbatamente, accompagnò la poltrona mentre mi accingevo a sedermi di fronte al Comandante; non so perché ma, per un attimo pensai, “metto i piedi sotto la tavola” e, con il poeta Vito Elio Petrucci, anch’io pensai:
E gambe sott’ä töa
euggi che rïan in gïo:
derrùe o mondo che mi l’ammio.
Libera traduzione; Le gambe sotto alla tavola occhi che ridono in giro: crolli il mondo che io lo sto a guardare.
Inaspettata, una rasoiata di sole s'infilò fra le tende appena discoste e il suo riflettersi nel piatto, mi abbacinò; quel lampo, mentre ancora cercavo di capire il perché quella frase mi fosse affiorata proprio in quel momento, m'illuminò un ricordo legato al mare.
Il Santuario della Madonna del Boschetto
A Camogli ho conosciuto un Comandante, forse l’ultimo cresciuto e vissuto all’antica perché aveva imparato l'abbecedario del mare facendo il mozzo sugli ultimi velieri e, anche lui, come tutti i camoglini, era devoto alla Madonna del Boschetto. Anticamente quella Vergine, per loro, non era solo la Regina dei Mari ma anche una “socia”; e che socia!
Fu proprio in questa cittadina che nacque il moderno concetto di multiproprietà; allora fu inventato per permettere alla marineria locale di trovare i soldi necessari per costruirsi e gestirsi i propri vascelli. Il piccolo paese, dalle scarse risorse e dai bassi redditi, non avrebbe mai potuto, contrariamente a Genova dove poche, ricche casate, erano le vere proprietarie dell’intera flotta della Repubblica, permettersi di possedere velieri. Con questo marchingegno finanziario invece, riuscirono a costruirsi bastimenti a vela, contando sull’autofinanziamento reperito fra più persone che si univano per sostenerne gli oneri, con la prospettiva di dividersene gli utili.
Basti pensare che con questo sistema di finanziamento, nella seconda parte dell’ottocento, la flotta camoglina registrata poteva contare su oltre 800 velieri, escludendo i grossi Leudi e le Bilancelle.
Ognuno poteva partecipare comprando quote dette “carati” da un unico soggetto responsabile: l’armatore. Ogni carato corrispondeva alla ventiquattresima parte del valore del vascello ma, a loro volta i carati erano cedibili dividendoli per due, quattro e così via, in modo da permettere anche a molti piccoli risparmiatori di partecipare. Per snellire la gestione ed avere la rappresentatività anche delle piccole parti che altrimenti avrebbero potuto intralciarne l’operare, abbiamo visto che, inizialmente, la totalità dei carati interi veniva sottoscritta da un armatore che ne rispondeva quale responsabile unico ma, a sua volta, suddividendoli nel modo sopra detto, li rivendeva a tanti che da lui si facevano rappresentare. Ancora oggi questo “modus operandi” ha fatto la fortuna di armatori coraggiosi ma con poche sostanze personali da impegnare.
Un’ulteriore peculiarità, tutta camoglina, consisteva nell'accattivarsi la benevolenza divina, indispensabile a quei tempi per chi andava per mare, devolvendo una delle tante carature alla Madonna del Boschetto. Per evidenti ragioni pratiche, quel carato era consegnato al Parroco “pro tempore”, identificando in lui il legale rappresentante della Vergine…. quantomeno in quel di Camogli e limitatamente a quel frangente.
A quest’ultima insolita compartecipazione, molti concorrenti dell’epoca attribuivano le leggendarie fortune dei marittimi del borgo; senza voler sminuire l’intervento soprannaturale, questo vincolarsi l'uno all’altro, senza perciò farsi concorrenza ma anzi agendo come una sola flotta, fece la loro fortuna.
Si potevano possedere carati di più navi, come pure partecipare in molte iniziative; tutti erano interessati al buon esito, a cominciare dagli stessi Comandanti che, a loro volta, spesso erano comproprietari del vascello di cui erano al comando e, contemporaneamente, anche di altri che navigavano per i mari sotto il comando di colleghi camoglini. Sempre con lo stesso principio crearono anche un sistema di copertura assicurativa, che poi verrà ripresa dai mitici Lloyd’s di Londra.
Di Camogli e della sua flotta ce ne parla il poeta Nicolò Bacigalupo (1837 – 1904) nella sua <Camogli>
Camogli, bella naiade accuegâ
Coi pê in te l’aegua e a testa sotto i pin,
Che ombrezzan dal’artùa de Portofin
A valle dove ti te spegi in mâ,
Ricca e bella t’han reiso i brigantin
Che andavan da-o to porto a caregâ
O carbon, che ò t’ha faetro guadagnâ
Di milioni adreitùa de cavorin.
………………………………..
Libera traduzione: Camogli, bella naiade sdraiata con i piedi nell’acqua e la testa sotto i pini che ti fanno ombra dall’altura di Portofino sino a valle dove ti specchi in mare, ■ ricca e bella t’hanno resa i brigantini che andavano dal tuo porto a caricare carbone, che ti ha fatto guadagnare milioni, addirittura in pezzi da due lire.
L’attuale Stemma di Genova
A Genova invece, l’abbiamo visto, ciascuna delle potenti famiglie in eterna lite l’una contro le altre, possedeva le proprie navi, poi passate alla storia come la <flotta della Repubblica >; ma non era per nulla così. Ogni qual volta si riteneva necessario che una flotta di Genova dovesse combattere un nemico comune, in genere un concorrente commerciale, si riunivano le famiglie più importanti, che erano poi le più interessate e, allestite e armate le proprie navi per la guerra, provvedevano alla bisogna sotto un unico gonfalone, quello della Repubblica di Genova affidando il comando ad un solo capo responsabile; prima di farlo però ottenevano il beneplacito e la garanzia della rifusione dei costi, dal Senato della Repubblica, guarda caso anch’esso formato da membri delle stesse famiglie dominanti.
L’aver invece cointeressato anche il comandante alle fortune della nave posta sotto il suo comando fece sì che, quelli di Camogli più d’ogni altro, agissero sempre portando a termine ciascuna intrapresa, badando primariamente al bene del battello nel quale avevano investito anche il loro personale patrimonio; non a caso erano stimati e apprezzati in tutti i porti del Mediterraneo.
Torniamo però a “quell’ultimo” Comandante da me conosciuto; di taglia robusta, eterno signorino, era cresciuto sul mare avendo avuto come maestri, ai quali seppe carpire i più remoti segreti, gente del livello degli Schiaffino, i Ferrari o i Mortola, veri e propri miti della marineria locale. Dal diverso “arzillo” dell’aria o dall’umidità che avvertiva nei capelli, prevedeva infallibilmente il tempo del giorno dopo, cognizione indispensabile per non trovarsi, impreparati, in mezzo ai guai anche se ormai non si navigava più con i velieri.
Appena finita la guerra, comandava le petroliere quando il trasporto dell’oro nero dava utili inimmaginabili; era noto perché, ogni primavera e sempre in anticipo sugli altri, inaugurava la rotta artica. Infilava la sua prua fra le crepe che l’iniziale disgelo apre nella banchisa che ricopre, per mesi, il mare del Nord, risparmiando preziose giornate di viaggio fra oriente e occidente, a discapito della concorrenza che quella rotta non osava ancora solcare. Una vera fortuna per i suoi armatori che, nel tempo, gli rimasero sempre fedeli, cosa insolita in un'epoca in cui, offrendo di più, si cercava di accaparrarsi i Comandanti migliori sulla piazza perché, i più validi, erano purtroppo defunti nell’ultima guerra da poco terminata. Logico quindi che lo coccolassero come fosse una prima genitura dalla salute cagionevole e, ogni suo eventuale capriccio, era da loro esaudito; ma lui di "capricci" non ne fece mai.
Una sola debolezza lo rendeva irrazionale; quando, dopo mesi di navigazione senza sbarcare per più di un giorno, non potendone proprio più, inviava agli armatori il solito telegramma con il quale li avvisava, appunto, di <non poterne più >. Al primo porto concordato, puntuale come un orologio svizzero, non a caso i suoi armatori erano per l’appunto elvetici, c’era ad attenderlo il supplente e lui, a costo di trasvolare tre quarti del globo, tornava diritto a Camogli. Certamente, anche lui, si sarebbe ritrovato nella poesia di Vito Elio Petrucci intitolata <Se no ghe fïse > dove, meglio di ogni altro poeta, ha saputo descrivere l’amore viscerale che lega i genovesi alla loro terra:
Se no ghe fïse un ciaeo,
se no ghe fïse lunn-a e manco stelle,
s’avesse i euggi bindae a ancon serrae
comm un figgieu in nascion;
e fïse a-o largo con un mâ de ciappa,
sensa ‘na bava d’äia;
se mettesse o mae cheu in sce’n timon
mì m’attrovièva a-a Foxe
Libera traduzione : Se non ci fosse un lume, se non ci fosse la luna e neppure le stelle, se avessi gli occhi bendati o ancora chiusi come un bimbo quando nasce; ■ e fossi al largo con un mare piatto, senza un filo d’aria; ■ se mettessi il mio cuore sopra un timone mi troverei alla Foce. (la foce del Bisagno, primitivo porto di Genova.)
A qualunque ora arrivasse, abbracciata la madre che sempre più invecchiava ma ogni volta, come quand’era ragazzo, qualcosa da lagnarsi aveva sempre, andava alla vecchia Manuelina (non ancora nel luogo del nuovo ristorante che oggi onora Recco, né era altrettanto famosa) in allora gestito dalla prima proprietaria, capostipite della famiglia, una sempre disponibile e tollerante matura “Sporcacciona”, dal soprannome che nei vecchi borghi si appioppava con tanta incosciente facilità.
Lì saziava la sua nostalgia degli aromi che gli avevano profumato l’infanzia, le sue uniche irrinunciabili radici. Era un formidabile mangiatore, come oggi se ne vedono sempre meno, che non ha mai sofferto di mal di testa né tanto meno di pesantezza allo stomaco. Molte volte, noi giovani nottambuli, finivamo le nostre serate ritrovandoci, a tarda ora ma sarebbe più corretto dire sulle prime del giorno dopo, nella stessa, tollerante, trattoria; a volte lo incrociavamo mentre usciva per rincasare e allora, regolarmente, rientrava unendosi al nostro gruppo per ricominciare a cenare sino a che, alla fine, si usciva tutti quando il chiarore iniziava ad illuminare le ultime nicchie scure della notte nel sottostante torrente Recco.
Così trascorreva il suo tempo a terra da “sbarcato” ma, giorno dopo giorno, ci avvedevamo delle sue crescenti manifestazioni d’insofferente irrequietezza, lo stesso stimolo che in precedenza lo aveva indotto a sbarcare. Il suo potere a bordo, monarca assoluto, qui non gli era riconosciuto e tutte le nostre quotidiane vessazioni, per lui divenivano insopportabili; era costretto perfino ad attendere il suo turno, in fila, prima di essere servito nei negozi. Era intollerabilmente troppo e così, come i primi sintomi ci avevano lasciato presagire, inviava un altro telegramma, questa volta per segnalare la sua ritrovata disponibilità; e subito, in qualche parte del globo, gli restituivano il comando.
Al momento dell’ultimo tradizionale brindisi conviviale, sapevamo che per molti mesi non lo avremmo più rivisto ma, di una cosa eravamo certi: il mezzogiorno di Natale, ogni anno, fermava le eliche in qualunque mare si trovasse, perché tutti dovevano pranzare “da fermi e con i piedi sotto la tavola, come dei veri cristiani”. Lui, già dal primo mattino era sceso nelle cucine e aveva preparato, personalmente, i ravioli misti alla genovese, perpetuando la tradizione del Natale, nel modo che suo padre gli insegnò; quello doveva essere <giorno dell’uomo, non delle macchine >
Altra figura camoglina, oggi scomparsa, era il “Comandante”, dal soprannome che lo individuava ma che in realtà, questo grado, mai volle raggiungere, per sua scelta.
A detta di chi lo conosceva bene, era il miglior “Secondo” che un comandante potesse desiderare perché tutti i porti del mondo, il mare, lo stivaggio, l’equipaggio, per lui non avevano segreti; li conosceva a memoria come l’<Angelo di Dio >.
Sempre gioviale, era fisicamente una specie di tenente Kojak, ma grande e grosso il doppio o, forse meglio, un’incarnazione di <Poldo mangiapanini > dei cartoons, ma senza i caratteristici baffi.
Omone dai modi un po’ affettati, più familiari ad un Commissario di bordo che non ad un graduato di coperta, specie su una nave mercantile, ha vissuto con l’incubo di passare “Comandante”, riconoscimento che l’età e il curriculum ampiamente meritavano. Non avrebbe retto alla responsabilità diretta che il grado, e lo stipendio, comportavano, anche se in pratica, a bordo, in più di un’occasione si comportò come se lo fosse perché, lo abbiamo già visto, a quei tempi circolavano certi Comandanti che solo la moría bellica dei migliori, aveva promosso a quell’immeritato ruolo. La responsabilità totale, quella che solo in mare spetta a chi comanda, lo terrorizzava; il sapere che un altro, per contratto, se l’era assunta, lo rendeva deciso, scaltro, coraggioso e accorto.
Un brutto giorno o, meglio, una brutta notte, chi n’aveva il ruolo, spirò senza lasciargli alternativa alcuna; vittima di un secco infarto che, con il fulmineo arrivo e la subitanea dipartita, si portò via, oltre all’anima del comandante di ruolo, anche la tranquillità del nostro amico. Lui, novello Cireneo, si trovò a farsi carico di condurre la nave al porto più vicino programmato e, raggiuntolo, si sbarcò con effetto immediato, nonostante l’armatore lo blandisse con un'alettante offerta.
Traumatizzato, si rifugiò a Camogli per riprendersi dallo shock patito e la cosa durò alcuni anni. Era continuamente sollecitato da chi ricercava gente in gamba, onesta e di provata perizia ma, ogni profferta, era per lui come se una mano sadica gli rigirasse un coltello arrugginito in una piaga ancora sanguinante; dopo qualche anno, ormai uscito dal giro, gli capitò l’occasione d’imbarcarsi nel suo ruolo “naturale” di Secondo e partì da Camogli. L’età non era certo più compatibile con il grado, ma lui, entusiasta come lo fu al suo primo imbarco da <Allievo di prima nomina >, partì dopo averci invitati, la sera prima, tutti dalla solita Manuelina.
Anche lui era una formidabile forchetta e, durante il convivio, gli piaceva parlare delle molte cucine che, per il mondo, aveva avuto la ventura di assaporare; affascinante affabulatore, con quella sua voce baritonale, trasformava il locale in cui era nel ponte dei cannoni, in piena battaglia di Trafalgar.
Durante l’ultima guerra questo suo timbro da bombarda gli servì per sovrastare il frastuono di una taverna nel porto di Buenos Aires, all’epoca territorio neutrale. Un’orchestrina, a pagamento, suonava le canzoni richieste dal miglior offerente.
Capita sovente ai marinai che per tanto tempo stanno lontani da casa di ricercare il “calore” nell’alcool o nelle facili avventure; lo stesso accadde al Nostro quando, prima inconsciamente poi dando al gioco valore di sfida, si trovò a competere con altri per far suonare la propria canzone del cuore.
A mano a mano che la posta aumentava per la ripicca di qualcuno, uno dopo l’altro i vari concorrenti rappresentanti mezzo mondo, da giocatori si tiravano fuori, divenendo spettatori; lui si ritrovò da solo a fronteggiare un gruppo di marinai americani, unici, irriducibili concorrenti. I vari perdenti avrebbero potuto far proprie nei suoi confronti le parole che Plinio scrisse a proposito della conquista della Liguria < difficilius erat invenire quam vincere >.
D’altra parte, sulla puntigliosità ligure, il Nostro aveva precedenti assai più illustri in Genova.
La Basilica di Carignano, quella le cui inconfondibili cupole dominano il cuore della Città ben visibili da chi vi giunge dall’autostrada e percorre la Sopraelevata, è opera cinquecentesca dell’Alessi, da sempre Cappella privata, gestita dalla Curia, ma non di sua proprietà. L’opera sorse a seguito di una motivazione, quantomeno, inusitata. Questa monumentale Chiesa fu il frutto di una ripicca ad uno sgarbo subito dalla contessa Fieschi quando, una Domenica, inviò un suo servo dai marchesi Sauli nella cui loro Chiesa, Santa Maria in Via Lata lì vicino, la Fieschi si recava abitualmente a santificare la festa, con la richiesta di voler, eccezionalmente per quella mattina, ritardare l’inizio della funzione di mezz’ora perché lei, impegnata, vi sarebbe altrimenti giunta in ritardo; i Sauli, per tutta risposta, le fecero sapere che <Chi vuole dei comodi, se li procuri >. Detto fatto: la risposta fu….. l’attuale Basilica di Carignano.
Immaginarsi quindi il Nostro davanti ai continui “rilanci” degli americani; lui offriva lire, moneta dei perdenti e quelli, dollari dei vincitori. Si dissanguò bruciandosi l’intero ingaggio del viaggio ma, alle prime luci dell’alba l’orchestra intonò, quale canzone vincente di quella notte brava, la sua < Ma se ghe penso >.
Lui aveva vinto mentre noi, dall’altra parte del mondo, stavamo definitivamente perdendo.
Questi erano i marinai di un tempo, aperti al mondo ma legati come bambini cocciuti alla loro casa, l’unica che riconoscevano come vera patria.
RENZO BAGNASCO
Rapallo, 10 Febbraio 2015
PIBIMARE PRIMA, Un Rimorchio pericoloso sulla Rotta della Costa CONCORDIA
PIBIMARE PRIMA
UNA ROTTA SCONSIGLIATA
Il vecchio e saggio Portolano di bordo suggerisce ai comandanti di navi di passare al largo dell’arcipelago toscano.....
Canale tra il promontorio dell'Argentario e le isole del Giglio e di Giannutri
Era l’alba del 27 febbraio del 1970 quando il comandante della Pibimare Prima, Attilio Ruggeri segnalò al suo armatore problemi al propulsore. La petroliera italiana, 15.000 tonnellate di stazza lorda, stava eseguendo “prove di macchina” nel medio Tirreno dopo importanti lavori al motore principale eseguiti presso un Cantiere nazionale. Raggiunto l’accordo per il contratto di rimorchio tra le rispettive Società, il Torregrande lasciò Genova alle 16 e poco dopo i due comandanti entrarono in contatto per scambiarsi i rispettivi punti-nave e gli orari dei successivi appuntamenti-radio. La Pibimare Prima si trovava in panne al largo delle spiagge romane e con pochi giri di macchina lottava per rimanere alla cappa (con la prua al mare) contro una forte burrasca da libeccio. Il punto d’incontro fu raggiunto dal rimorchiatore genovese dopo una dura cavalcata di 17h 30m con il mare al mascone di dritta. L’operazione d’aggancio delle due unità avvenne tra onde alte 5-6 metri e non mancarono le difficoltà, tuttavia, dopo circa mezz’ora il convoglio era disteso con 600 metri di cavo alla via verso Genova. Alle 10h 00m del 28.2 Charly fece il punto nave con il radiogoniometro e s’accorse che il convoglio scarrocciava verso terra e decise , insieme al Comandante della Pibimare Prima Attilio Ruggeri, di risalire verso Genova sulla rotta più breve a ridosso dell’Arcipelago Toscano. Gli sforzi sofferti dall’attrezzatura di rimorchio erano stati notevoli e il giovane comandante voleva fare un accurato controllo degli attacchi prima d’affrontare la notte e il mare aperto. Lasciato verso le 23h lo scoglio di Giannutri a sinistra, il convoglio stava ormai imboccando il Canale tra L’Argentario e l’Isola del Giglio. Charly fece accorciare il cavo da rimorchio per non toccare con la catenaria (curva formata dal cavo sott’acqua) la Secca di Mezzo Canale (-24 metri). Il convoglio ridotto alla corta volava alla splendida velocità di 8 nodi. Nel frattempo la depressione era slittata a levante esaurendo la libecciata, ma innescando un fresco vento di grecale (da terra). Il mare da SW era ancora lungo e fastidioso, ma la bonaccia era lì davanti, a poca distanza. La frittura di triglie fresche che il peschereccio di Papetto aveva regalato al Torregrande per antica amicizia, era quasi pronta per il primo assalto...
La Pibimare Prima a rimorchio
Poco dopo, improvvisamente, il potente motore del Torregrande si piantò di colpo senza alcun preavviso, e per l’effetto combinato del peso del cavo d’acciaio e della sua forma tozza, perse subito l’abbrivo nello spazio di qualche decina di metri. Fortunatamente lo scafo piegò a dritta proprio nel momento in cui la Pibimare Prima gli piombò addosso velocissima come un falco. Charly ebbe solo il tempo di attaccarsi alla sirena di bordo per avvisare l’equipaggio di mettersi in salvo. Era quasi mezzanotte e sul Torregrande c’era il cambio di guardia, in pratica l’equipaggio era tutto in servizio e pronto a gettarsi in mare come ultima soluzione per salvarsi. Solo il Direttore di macchina Guido Bianchi, agendo d’istinto, si precipitò in sala macchine ignorando gli urli di Charly di mettersi in salvo. Il rimorchio senza governo sfiorò letteralmente la poppa del rimorchiatore e scivolò via silenzioso nel buio. Quando il cavo di rimorchio venne in forza con uno schianto pauroso, vi fu un’esplosione di scintille e ripetuti scossoni. Sembrava che le vibrazioni spaccassero ogni paratia del Torregrande che, sbandando in una vorticosa rotazione, fu alla fine trascinato per la poppa dalla Pibimare Prima che a sua volta ruotò intorno alla propria prora. Rimorchiatore e rimorchio, attratti da una forza assassina erano di nuovo in rotta di collisione. Charly ebbe in quei lunghi attimi di terrore la percezione di un’impotenza infinita. La costa era lì ad un passo, buia, spettrale e pronta ad inghiottire quel convoglio impazzito tra i suoi scogli. Li separavano forse 30 metri dalla collisione ormai inevitabile. Un’angoscia interminabile pervase l’equipaggio che con molta freddezza si preparava ad assorbire il colpo. Quando nessuno pensava più al motore, questi ripartì sornione mugugnando qualcosa come per scusarsi. Charly lo prese per le corna urlando “AVANTI TUTTA” con la forza residua che aveva nei polmoni. La “collisione di ritorno” fu evitata con una potentissima smacchinata all’ultimo metro. Il convoglio ritornò lentamente ad allungarsi sull’asse del canale. Il peggio svanì d’incanto con la stessa velocità con cui quel pugno di uomini vide poco prima il ghigno beffardo della morte colpire, sparire e lasciare per sempre una profonda ferita in “Quelli del Torregrande”. Guido compì un atto d’eroismo riattivando una valvola bloccata da un improvviso “arresto cardiaco”... a lui andò il perenne ringraziamento dell’equipaggio.
Tratto dal libro “QUELLI DEL TORREGRANDE” – di Carlo Gatti – Nuova Editrice Genovese - 2001
Ho inteso riproporvi il racconto di questa disavventura per un semplice motivo: anche il sottoscritto sfiorò la tragedia nel 1970, proprio in quelle acque divenute tristemente famose dopo la tragedia della Costa Concordia. Per quanto mi riguarda, ho già spiegato che tutto ebbe origine da un’improvvisa avaria e che dovetti scegliere la rotta più interna per necessità nautiche e di controllo dell’attrezzatura di rimorchio fortemente compromessa. Già! Ma le avarie sono come certe malattie, arrivano quando meno te le aspetti e si riciclano con nomi sempre nuovi, ma il risultato é sempre lo stesso: dalla fine della Seconda guerra mondiale, ogni anno spariscono 360 navi, una al giorno. Le cause sono molteplici, ma il punto scatenante é sempre lo stesso: l’imprudenza umana.
Com’é potuto accadere questo disastro ad un gigante del mare così moderno, attrezzato e sicuro com’era la Costa Concordia? La motivazione “ufficiale” sarà data dal processo in corso. Noi possiamo solo ricordare che la rotta “ufficiale” Civitavecchia-Savona, passa a ponente dell'Isola del Giglio, ciò significa che nella normale navigazione commerciale l'Isola del Giglio viene lasciata a dritta.
La nave aveva scelto invece di passare (di notte) per il Canale dell’Argentario, nello stretto braccio di mare che separa l’Isola del Giglio dalla costa continentale (Argentario). L’antico e benemerito amico dei naviganti: il Portolano, presente su tutti i ponti di comando delle navi in circolazione, indica due rotte vicine e parallele per navigare da Civitavecchia a Savona. La prima sale verso nord al largo della costa Est della Sardegna e della Corsica, ed una seconda più interna che si lascia anch’essa l’Arcipelago Toscano sulla propria destra mentre naviga verso la Liguria.
L'Arcipelago Toscano
In questa cartina, entrambe le rotte consigliate dal Portolano Italiano passano lungo il passaggio rappresentato, per l’occasione, dalla scritta Arcipelago Toscano.
Una volta lasciata l’isola di Giannutri a sinistra, la Costa Concordia decise di proseguire lasciandosi anche il Giglio a sinistra. Si potrebbe disquisire a lungo sulle distanze, le batimetriche, le correnti e le secche, ma alla fine, le linee guida per la navigazione costiera di grandi navi da crociera dovrebbero consigliare margini di sicurezza tali da poter affrontare accostate d’emergenza ed avarie del tipo sofferto di recente dalla Costa Allegra nell’Oceano Indiano. Eppure, già da tempo, le grandi navi da crociera percorrevano la rotta più suggestiva ed economica che passa internamente tra il continente e le isole toscane. Come mai nessuno se n’é accorto?
ALBUM FOTOGRAFICO
Dedicato all'amico Comandante Attilio Ruggeri mancato nel 2014
Comandante Attilio Ruggeri
M/n PIBIMARE PRIMA
M/N PIBIMARE PRIMA
Carlo GATTI
Rapallo, 04.04.12
NOSTRA SIGNORA DELLA FORTUNA - UNA POLENA MARIANA
NOSTRA SIGNORA DELLA FORTUNA
UNA POLENA MARIANA
Franco Casoni, l’ultimo costruttore di polene nel suo laboratorio di Chiavari.
Una polena benaugurante per la Goletta Verde, l'imbarcazione di Legambiente che da anni attraversa il Mediterraneo per monitorare lo stato del mare italiano. L'ha realizzata lo scultore chiavarese Franco Casoni e consegnata al Comandante, che l'ha issata e legata alla barca per poi “battezzarla” prima nel mare e poi con un goccio di vino rosso. Una tradizione marinara rivisitata dagli ambientalisti quando tempo fa si sono ritrovati, prima della partenza alla volta della Toscana, sul molo del porto turistico di Chiavari.
Non solo i marinai, ma anche i “mezzi marinai” che vivono e risiedono sulla costa, sanno cos’é la POLENA di un veliero, forse per averla “ereditata” dai racconti dei nonni, oppure per averla vista in qualche oratorio vicino al porticciolo, o tra gli ex voto dei Santuari, veri e propri musei marinari che vigilano sui nostri borghi che hanno le radici sul bagnasciuga.
Oggi qualche polena viaggia ancora sotto il bompresso delle navi scuola (Tall Ships) e di qualche armatore di Yacht innamorato del passato eroico e fiabesco, irto di pericoli e di ostacoli, ma sempre avvincente agli occhi di chi ama il mare e la sua storia.
La polena era parte integrante del tagliamare delle navi di un tempo… spaccava le onde del mare, ne assorbiva la forza più viva per proteggere scafo e marinai da marosi, ma per quegli equipaggi lontani, ma mai dimenticati, era soprattutto uno scudo soprannaturale dai poteri addirittura mistici.
La polena doveva essere particolarmente robusta, forse indistruttibile perché la superstizione degli equipaggi prevedeva, in caso di lesioni o cedimenti della stessa, presagi di sventure nautiche per la spedizione.
La Polena della "STAD AMSTERDAM" (Veliero-Clipper Passeggeri)
LA POLENA ERA QUINDI UN MISTO DI SACRO E PROFANO della quale, spesso, oppure solo qualche volta… i marinai s’innamoravano, specialmente quando quel simulacro proteso verso le onde, era un volto femminile, una dea o semplicemente il busto nudo e turgido della moglie dell’armatore.
UNA POLENA MARIANA
Presso la chiesa di San Carlo in via Balbi a Genova, sull’altare maggiore, fa mostra di sé la statua della Madonna rinvenuta in acque portuali il 22 gennaio del 1636 dopo una furiosa tempesta da libeccio che aveva in quei giorni devastato il porto di Genova affondando centinaia di imbarcazioni. Custodita per un periodo in casa Lomellini, le furono poi attribuiti molti miracoli e per questo motivo, con una sontuosa cerimonia, fu collocata nel sito dove oggi si trova. E’ una scultura lignea straordinaria perché, mentre è ben visibile la sua struttura originaria che è semplice, stilizzata e di una certa rigidità, riesce nel contempo ad esprimere la sua dolcezza di Madre Misericordiosa.
Ben presto gli esperti del settore si accorsero che quella statua di MARIA, monca e molto danneggiata in qualche sua parte, altro non era che l’unico reperto sopravvissuto al naufragio di un legno irlandese e si trattava proprio della sua POLENA.
Raffigurazione pittorica di un galeone nella tempesta
Sono passati 363 anni da quel sensazionale ritrovamento della polena raffigurante la Madonna scaraventata in mare dalla violenza delle onde e poi scarrocciata indenne sottovento fino alla Darsena evitando miracolosamente un galeone che ne ostruiva l’imboccatura.
A portarla in salvo fu un uomo di Levanto, un venditore di vino, a tutti noto come il Figlio del Merlo, fu lui a portare a salvamento la Statua di Nostra Signora della Fortuna, era il 22 gennaio del 1636.
IL SIMULACRO DI MARIA CHE TIENE GESU’ BAMBINO SUL BRACCIO SINISTRO E SULL’ALTRO LA CORONA DEL ROSARIO, HA ANCORA OGGI IL POTERE DI UNIRE CON UNA IMPIOMBATURA MARINARA, LA FEDE DEI MARINAI E LA VOCAZIONE MERCANTILE DEI GENOVESI.
La Madonna della Fortuna e assai venerata dai Genovesi, anche perché alla statua fu attribuito il miracoloso salvataggio di una bimba caduta da una finestra di quello stesso edificio ove era conservata. Il prodigio fu confermato dal Papa Urbano VIII e la statua, alla quale fu attributo il titolo di Nostra Signora della Fortuna, fu solennemente incoronata il 17 gennaio del 1637, primo anniversario del naufragio, ed esposta alla venerazione dei fedeli nella chiesa di San Vittore, da cui fu trasferita in San Carlo nel 1799. La tradizione popolare: il si dice dei fedeli… vuole che la statua si sarebbe mossa da sola per posarsi sul piedistallo che era stato per lei preparato.
La statua-polena della Madonna col piccolo Gesù fu restaurata da artisti famosi e poi rivestita e venerata come la Regina della tradizione Mariana amata da milioni di cristiani cattolici e ortodossi.
MADONNA DELLA FORTUNA
Primo piano
PREGHIERA ALLA MADONNA DELLA FORTUNA
Ricordati, o pietosissima Vergine, Nostra Signora della Fortuna, non essersi mai udito al mondo che alcuno abbia ricorso al Tuo patrocinio, implorato il Tuo aiuto, chiesto la Tua protezione e sia stato abbandonato. Animato da tale confidenza, a Te ricorro o Madre, Vergine delle vergini, a Te vengo e peccatore contrito innanzi a Te mi prostro. Non volere o Madre del Verbo disprezzar le mie preghiere, ma ascoltami propizia ed esaudiscimi. Amen.
Fonti:
https://www.placidasignora.com/tag/nostra-signora-della-fortuna/.
http://www.biagiogamba.it/nostra-signora-della-fortuna-una-polena-irlandese/.
http://www.genovatoday.it/eventi/cultura/leggenda-madonna-fortuna.html.
https://dearmissfletcher.wordpress.com/2017/09/11/genova-1636-i-prodigi-di-nostra-signora-della-fortuna/.
https://biscobreak.altervista.org/2018/01/nostra-signora-della-fortuna/.
https://www.tripadvisor.it/ShowUserReviews-g187823-d9802069-r370038768-Chiesa_dei_Santi_Vittore_e_Carlo-Genoa_Italian_Riviera_Liguria.html.
https://musicasacra.forumfree.it/?t=50740573.
Un RINGRAZIAMENTO particolare a Miss Fletcher per regalarci meravigliosi spunti di riflessione ed immagini di grande pregio.
Carlo GATTI
Rapallo, 13 Marzo 2019
LA BALENIERA CHARLES W.MORGAN
LA BALENIERA CHARLES W.MORGAN
Museo Mystic River - Connecticut (USA)
COMUNICAZIONE:
Sabato 24 Marzo, alle ore 17,30, presso la sede della Lega Navale Italiana – Sezione di Chiavari (Porto turistico di Chiavari, box 51), si conclude la rassegna “Uomini e Navi”.
Ernani Nanni Andreatta parlerà di “Charles W. Morgan, La ricostruzione dell’ultima Baleniera”: la baleniera Charles W. Morgan costruita nel 1841 nei cantieri di F. Zacharias Williams a Bedford, USA. Era lunga 33,5 metri e aveva una stazza di circa 300 tonnellate. L’equipaggio era composto di 35 persone. La Morgan ha avuto una vita di 80 anni navigando in tutti gli oceani del mondo.
L’incontro è aperto a tutti.
Un po’ di Storia …
LA CHARLES W. MORGAN E LA CACCIA ALLE BALENE
Scritto da admin il 22 agosto 2010
Considerata una delle navi più antiche degli Stati Uniti d’America, dal suo varo nel 1841 la Charles W.Morgan è stata utilizzata per quasi un secolo per dare la caccia alle balene.
Quando l’avvento di nuovi combustibili sostitutivi del grasso di balena, la diminuzione degli esemplari e l’introduzione di alcune innovazioni tecnologiche nella caccia segnarono il declino delle baleniere di stampo classico, la Charles W. Morgan finì la sua carriera.
Semi-distrutta da un incendio negli anni ’20 l’imbarcazione fu messa a riposo, per poi essere acquistata dal Mystic Seaport Museum del Connecticut, il più grande museo marittimo del mondo.
L’ente museale si è interessato della restaurazione della nave e, dopo più di cinque anni di lavoro, la Charles W. Morgan è stata allestita come uno spazio museale sull’acqua dedicato alle balene, volto a informare e sensibilizzare le persone sulla vita, le abitudini e sul critico stato di conservazione di questi cetacei.
Quando, il 6 settembre del 1841 il Charles W.Morgan salpò per il suo viaggio inaugurale dal porto di New Bedford, nel Massachusetts; erano trascorsi solo nove mesi da quando un’altra nave, la baleniera Acushnet aveva imbarcato per la sua prima esperienza di caccia un giovane scrittore rispondente al nome di Herman Melville. Oggi, quel che di più tangibile resta dell’epopea delle baleniere americane è quanto di vero Melville scrisse in “Moby Dick“, e poi c’è la Morgan, ultima superstite di una flotta che contava 2700 navi dedicate alla sola caccia ai cetacei.
E’ dal 1967 che il Charles W. Morgan è diventato per volere del ministero degli Interni Usa, Monumento di Interesse Nazionale; aperto alle visite del pubblico al Mystic Seaport Museum, nel Connecticut. Ma c’è dell’altro, perché da pezzo da museo, il veliero che per gli storici è tra le baleniere americane quella andata più lontano, tornerà a vivere, che per una nave significa tornare a prendere il mare. E questa volta non sarà più per arpionare balene.
Apprendiamo dal New York Times che ciò avverrà all’inizio dell’estate prossima, alla fine (quasi) di quei complessi lavori di restauro (e non sono i primi) che col costo di dieci milioni di dollari e con l’uso delle tecnologie più sofisticate, apriranno all’imbarcazione un nuovo capitolo della sua ultracentenaria storia.
Una storia che merita di essere raccontata, e inquadrata in quel contesto ottocentesco che vedeva gli Stati Uniti come paese giovanissimo e dall’economia ancora tutta da consolidare. Nel corso del secolo, l’industria delle balene finì allora per diventare talmente importante che la vita del cacciatore di balene divenne un segno distintivo dell’esperienza americana, segnalando – per la prima volta – la presenza a stelle e strisce in tutto il pianeta. Dalle balene si ricavavano olio per illuminazione, lubrificanti per macchinari, grasso per candele, aste flessibili per gli usi più disparati, mentre i fanoni e le ossa erano usati come oggi la plastica. In sintesi, il gigante marino poteva essere considerato come un vero e proprio pozzo di petrolio. E non a caso, attorno al 1920, con la raffinazione dei prodotti petroliferi, l’industria baleniera cessò di essere. Ma non prima d’aver messo in grave pericolo la sopravvivenza del gigantesco animale. Si ritiene che nel XVIII secolo, prima che cominciasse la decimazione (operata non solo da americani, ma pure da olandesi, norvegesi etc) gli Oceani ospitassero almeno 4 milioni e mezzo di balene, scese a un milione e mezzo nel 1930. E così si sono estinte razze che la scienza neppure ha avuto il tempo di scoprire, come la balena grigia atlantica, la balena scrag per i balenieri del New England, che l’annientarono.
Ma facciamo un passo indietro, torniamo sulla Morgan in quel 6 di settembre del 1841. A bordo ci sono 33 persone, più il capitano con famiglia. C’è una grande scorta di viveri ed anche animali vivi, che assicureranno cibo anche dopo mesi di navigazione. Quello inaugurale sarà uno dei viaggi più lunghi della nave, dopo aver attraversato Capo Horn ed essere entrata nel Pacifico: tre anni e quattro mesi dopo ritornerà a New Bradford con un carico di 2.400 barili d’olio di balena e 5 tonnellate di stecche per un valore di 56.000 dollari (del tempo).
Cominciò così per il veliero una storia di navigazione lunga 80 anni per 37 campagne che durarono da nove mesi a cinque anni. Al termine della sua carriera aveva portato a casa 54.483 barili d’olio e 70 tonnellate di stecche di balena prendendo all’arpione 2500 giganti marini. Aveva solcato tutti gli oceani, era sopravvissuta agli uragani, al fuoco, al ghiaccio artico e alle razzie dei Confederati; la storia ci dice che nelle isole del Sud Pacifico fu anche attaccata dai cannibali e l’equipaggio prese le armi per respingere le canoe cariche di indigeni.
Con la crisi dell’industria baleniera, nel 1921 la Morgan, andò in disarmo ma la sua vita non si spense del tutto, non subito. Prima fu adoperata come set cinematografico di film muti – Java Head (1921) e Down to the Sea in Ships (1922) – martoriata da un urgano nel 1938, quando ancora era ancorata a South Darmouth, affidata alle “cure” di un erede dei costruttori; nel 1941 venne rimorchiata nel porto di Mystic, per essere preservata dalla Whaling Enshrined Inc.
Alla fine del 1973 venne restaurata e nella primavera del 1974 fu rimessa in mare all’ancora al Molo Chub, continuando i lavori di restauro.
Oggi ad occuparsi della baleniera sono esperti di scansioni laser e di macchine portatili a raggi X. Per rimetterla in sesto sono al lavoro specialisti di medicina legale, storici e artisti grafici per scovare i dettagli nascosti della sua costruzione e le sue condizioni. “Il progetto, iniziato nel 2008, sta producendo un ritratto rivelatore che mostra la posizione esatta e lo stato di molte migliaia di tavole, costole, travi, chiodi, perni di rinforzo, pioli di legno e altre parti vitali del Morgan, dando maestri d’ascia una guida ad alta tecnologia per la ricostruzione della storica nave […]
Se tutto va come previsto, il rinnovato Morgan sarà dotato di sartiame nuovo alla fine del 2012”. Ma prima di allora, nell’estate 2011, la baleniera potrebbe tornare a prendere il mare per un viaggio lungo la costa del New England, toccando cioè quei luoghi che hanno avuto un significato particolare per la caccia alle balene, come New Bedford che ne fu la capitale.
Nota finale: non abbiamo raccontato la storia del Morgan per fare apologia della caccia alle balene, attività che riteniamo disgustosa e che oggi viene effettuata ancora da alcuni paesi con viltà e l’uso di mezzi sempre sofisticati quali radar, sonar e arpioni dalla lunghissima gittata che hanno pericolosamente decimato la specie. (A.D)
Da TVDaily.it
ALBUN FOTOGRAFICO
Foto di GIUSEPPE SORIO
A cura di GATTI CARLO
Rapallo, 20 Febbraio - 2018
I PESCATORI DI MERLUZZI A TERRANOVA
I PESCATORI DI MERLUZZI
TERRANOVA
Charly aveva toccato almeno quindici volte Lisbona e Punta Delgado (Azzorre) con gli “evergreen” Saturnia e Vulcania.
Merluzzi al vento…
Da questi due siti portoghesi, le due navi trasportavano alcune migliaia d’isolani ogni anno; erano pescatori destinati alle campagne del merluzzo sui banchi di Terranova. Lo scambio degli equipaggi avveniva nel porto di Halifax (Nuova Scotia-Canada), scalo preferenziale della Soc. Italia.
Museo Navale di Lisbona – Un gozzo dei pescatori di merluzzo
“Era il 1962” - racconta Charly – “… ricordo con nostalgia i racconti del mio capo guardia e carissimo amico, Baj Schiaffino di Camogli; quando mi anticipava che i nostri amici portoghesi pescavano ancora su piccoli gozzi con i classici bolentini. La fittissima nebbia, che per lunghi mesi gravava sui banchi di Terranova, era il loro vero pericolo, ma non l’unico; le zone di pesca, infatti, si trovavano proprio sulle rotte dei famosi liners europei e americani che sfilavano a tutta velocità, preoccupati soltanto dei loro ETA (estimate time arrival).
Il corno da nebbia era l’unico strumento a disposizione dei pescatori di merluzzo per tenersi in contatto tra loro ed anche l’estrema difesa per urlare la loro presenza. Molti di loro, purtroppo, sparivano travolti nelle acque gelide dalle navi in transito, del tutto ignare dei loro drammi. Un brigantino ancorato solitamente a ridosso di qualche ansa tra i banchi, era la loro base. Quante disperate ricerche, vane attese e veglie in preghiera ogni anno!
Quante tragedie colpirono nei secoli i pescatori di tutto il mondo e le loro famiglie lontane! Grandi uomini ed eroi del Mare, cancellati sull’altare dell’oblio e della modernità, sepolti troppo in fretta dalla memoria di chi oggi neppure riconosce la loro lunga scia di sangue versata sugli oceani ...
Il brigantino a palo portoghese Sagres in navigazione sul fiume Tejo a Lisbona.
TORRE DI BELEM – LISBONA
Già! Avete capito bene, si trattava proprio di un brigantino che Charly e Baj, in una splendida giornata di Giugno, videro scivolare a Lisbona con le vele gonfie di vento in processione sul fiume Tejo. A bordo c’era il Cardinale che inaugurava, con la benedizione della statua della Madonna di Fatima, la stagione della pesca”.
Carlo GATTI
Rapallo, 1 febbraio 2018
UN PO’ DI STORIA
Dal blog si ASPO-Italia, sezione italiana dell'associazione internazionale per lo studio del picco del petrolio e del gas (ASPO) riassumiamo:
Una delle storie più emblematiche é quella dei merluzzi di Newfoundland.
Cinque anni dopo la scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo, dunque nel 1497, un altro italiano, Giovanni Caboto, navigatore al soldo degli inglesi, raggiunse le coste americane. Sbarcò molto più a nord, probabilmente nell'attuale Newfoundland (Terranova), in territorio canadese. Al suo ritorno in Gran Bretagna raccontò, fra le altre cose, che "lassù il mare è coperto di pesci".
Qualche decina di anni dopo, chi sfruttò al meglio quello che Caboto aveva scoperto riguardo alla pescosità dell'Atlantico nord occidentale furono però i francesi. A metà del sedicesimo secolo, 150 imbarcazioni francesi attraversavano ogni anno l'Atlantico per raggiungere quel paradiso della pesca. Gli inglesi seguirono a ruota, espandendo quei territori di pesca più a sud, al largo di quelle che oggi sono le coste del Massachusetts. Pescavano moltissimo, e soprattutto merluzzi. Al punto che chiamarono una di quelle località, un promontorio, Cape Cod: cod è il nome inglese del merluzzo, appunto.
Nei successivi 3-400 anni la pesca continuava a prosperare, sebbene le tecniche di pesca, in qualche modo ancora artigianali, restassero più o meno immutate. Pescavano praticamente con la lenza; molte lenze per ogni barca, ma pur sempre lenza, cioè filo da pesca con in fondo un amo e un'esca. I pesci pescati venivano puliti e messi sotto sale.
Nel diciannovesimo secolo si erano ormai uniti al banchetto anche americani e portoghesi, e fu in questo periodo che le semplici lenze lasciarono il passo alle longline (in italiano sono i palamiti). Lenze lunghe anche chilometri, ognuna delle quali attrezzata con migliaia di ami. Una tecnica molto efficace che permette bottini spaventosi. Nel solo New England, nel 1895 furono pescate 60.000 tonnellate di merluzzi. Che sembravano non finire mai. Addirittura un grande biologo e ricercatore come Huxley affermava: credo che la pesca dei merluzzi, così come le altre risorse del grande mare, siano inesauribili...
Nel 1905, una nave da pesca, guardata con sospetto, se non peggio, dagli altri pescatori, salpò dal porto di Boston. Era la prima nave americana equipaggiata con uno strumento che già si usava in Inghilterra, e che per la prima volta arrivava in quelle acque: una rete a strascico. I merluzzi sono pesci che amano mangiare sul fondale, e dunque la rete a strascico, che sul fondale corre e raccoglie tutto quello che trova, serviva benissimo a pescare merluzzi. Talmente bene che nel 1914 la Commissione della Pesca degli Stati Uniti formò un comitato per indagare quali danni potesse fare agli stock ittici. La risposta fu che, almeno nel Mare del Nord, le nuove tecnologie stavano già causando un declino del pescato, anche se ancora non dei prolifici merluzzi. Non furono prese contromisure.
In quegli anni, il principale obiettivo divenne un altro pesce, l'eglefino, parente stretto del merluzzo e dal sapore simile. Negli anni '20 poi furono introdotti sul mercato i filetti surgelati (come li mangiamo ancora oggi). Era un bel salto dal classico merluzzo sotto sale, e soprattutto i pescatori del New England corsero a riempire la nuova nicchia di mercato: nel 1929 si pescarono 120.000 tonnellate di eglefino, in quella zona. Cinque anni dopo le catture saranno già crollate a 28.000 tonnellate.
I merluzzi intanto continuavano a essere regolarmente pescati, a cifre attorno alle 8.000 tonnellate all'anno. Questo fino al 1954, l'anno in cui tutto accelerò verso il baratro. Fu quando arrivò in quelle acque la Fairtry. Era una nave enorme fatta costruire da un'industria baleniera scozzese, la quale vedendo diminuire sempre più le catture dei grandi cetacei, decise di buttarsi in altri mercati. La Fairtry era una nave industria che permetteva di pulire e congelare i merluzzi già a bordo, stoccandone in grandi quantità. E le sue reti erano enormi. Talmente ampie che, in un mare ancora così pescoso, a volte si rompevano sotto al peso delle tonnellate di pesce pescato. Quella nave, e quelle che seguirono poi, poteva pescare in un'ora quanto una tipica imbarcazione del sedicesimo secolo faceva in una stagione. La Fairtry venne presto raggiunta da altre navi industria, provenienti dalla Germania, dall'Unione Sovietica e da altri paesi stranieri. Nel 1968 i merluzzi pescati raggiunsero la cifra impressionante di 810.000 tonnellate! La fine era scritta, bastava sapere leggere i segnali.
A metà degli anni '70 gli eglefini erano ormai scomparsi, e la "produzione" di merluzzi era scesa a meno di 250.000 tonnellate. I pescatori locali, impotenti e in ginocchio, implorarono l'aiuto dei loro governi, canadese e statunitense. Questi risposero estendendo il limite delle acque territoriali a 200 miglia. In pratica, il dominio delle navi straniere sui grandi banchi dell'Atlantico nord-occidentale era finito. Adesso USA e Canada avevano l'occasione per salvaguardare le loro risorse ittiche, instaurando finalmente una pesca sostenibile. Ma non lo fecero.
L'euforia dell'allontanamento degli stranieri colpì soprattutto la gente del Newfoundland, che viveva solo e soltanto di pesca. Il futuro ora sembrava roseo e il DFO (Department of Fisheries and Oceans), cioè il Dipartimento della Pesca e degli Oceani canadese, in qualche modo cavalcò l'onda e sbagliò le previsioni, calcolando che le catture di merluzzi, scese a 139.000 tonnellate nel 1978, sarebbe risalite a 350.000 nel 1985. Ma adesso, a posteriori, sappiamo che nel 1977 il numero di merluzzi in fase riproduttiva, al largo di Newfoundland, era diminuito del 94% rispetto ai valori del 1962. La catastrofe era ormai pronta.
I pescatori canadesi, nei primi anni ottanta non riuscirono mai a raggiungere la quota di pescato permessa dal governo, ma stavano comunque pescando molto più di quanto la popolazione residua di merluzzi potesse sostenere. Con la cacciata degli stranieri, la pesca aveva ripreso vigore e gli strumenti migliorarono ancora, con l'introduzione dei sonar che permettono di localizzare i grossi banchi di pesce. A metà anni '80 la DFO continuò a sostenere che gli stock sarebbero cresciuti, e il 1986 fu un anno eccezionalmente produttivo, e quindi alimentò le certezze di alcuni e le speranze di altri. Che vennero però duramente colpite dalle previsioni per gli anni successivi: i ricercatori erano certi, ci sarebbe stato un crollo. Nel 1989 biologi e studiosi cercano di convincere la DFO a dimezzare la quota di merluzzi, abbattendola a 125.000 tonnellate. Ma l'industria della pesca era all'apice dell'espansione e il Dipartimento canadese non se la sentì di infierire il colpo. La quota venne ridotta solo di un decimo.
Ma di merluzzi ne erano rimasti pochi, e per mantenere i loro guadagni i pescatori li cercavano molto più duramente, avventurandosi sempre più al largo e anche in condizioni di mare spaventose. Nel 1991 vennero pescati 180.000 tonnellate di merluzzi: erano, oggi lo sappiamo, più della metà di tutti quelli rimasti là fuori.
Il DFO stabilì questa quota anche per il 1992. Ma ogni quota era ormai inutile, la festa era finita. Non c'era più niente da pescare, e a luglio del 1992 il ministro fu costretto a chiudere completamente la pesca al merluzzo.
Dall'oggi al domani 30.000 persone persero il lavoro. Il disastro si era compiuto.
A tutt'oggi la pesca al merluzzo a Newfoundland non si è più ripresa, oggi l'economia di quel paese è basata sulla pesca alle aragoste e soprattutto sullo sfruttamento delle risorse boschive e minerarie. I merluzzi non sono più tornati. Pesci come i capelin, un tempo prede dei merluzzi, oggi sono divenuti molto comuni, e mangiano i merluzzi appena nati. Quell'ecosistema oggi è dominato da granchi e gamberi.
FINE
NOLI - Repubblica Marinara dal 1192 al 1797
NOLI
REPUBBLICA MARINARA DAL 1192 AL 1797
Alla scoperta di un piccolo angolo di medioevo sull'antico mare della Liguria
Il primo incontro con la cittadina di NOLI, in provincia di Savona, risale al mio primo viaggio da allievo Ufficiale di coperta su una petroliera, ed avvenne tramite un giovane 3° Macchinista nativo di quella Repubblica Marinara Minore. All’epoca la mia testa era piena di punti nave, “rette d’altezza”, caricazioni di “crude oil” in Golfo Persico e scaricazioni del medesimo, per ben sei volte, nei porti del Giappone. Ascoltavo con finto interesse il glorioso racconto del passato di Noli, che però registravo in qualche cellula della mia mente ripromettendomi di verificare a tempo debito quelle notizie che, per la verità, mi sembravano un po’ esagerate. Tuttavia, dopo averne ammirato più volte, soltanto di passaggio, la golfata, i castelli e la bella passeggiata a mare, venne il giorno che decisi di fare una gita proprio a Noli.
Prendendo le sembianze di un turista qualunque, mi armo di macchina fotografica e di una valida “guida” del Touring che consulto prima di addentrarmi nel centro storico.
“Il termine Repubbliche Marinare venne attribuito tra il X e il XIII secolo a quattro città costiere italiane: Amalfi, Pisa, Genova e Venezia, poiché le flotte di queste città dominarono nei commerci l'intero Mediterraneo. Questo titolo però venne anche assegnato ad altre città quali Ravenna, Comacchio, Noli, Gaeta, Palermo e Brindisi. Le Repubbliche marinare rappresentano una variante alla civiltà comunale dove i mercanti istituirono le prime forze economiche di capitalismo: coniarono monete d'oro, misero a punto nuovi generi di trattative, brevettarono nuovi sistemi di contabilità e incentivarono progressi nella navigazione”.
Il mio amico Piero aveva ragione! E voi avete capito bene! Noli é quel Comune di 2.797 abitanti in provincia di Savona che dal 1192 al 1797 fu capitale della Repubblica omonima che ebbe forti legami con la Repubblica di Genova. Continuo a documentarmi: Le antiche pergamene conservate nell’Archivio storico del Comune di Noli comprovano, insieme alle altre vicende storiche della Repubblica, anche i trattati di alleanza stipulati con Genova dai quali emerge chiaramente che Noli, già dal 1202, fu sempre “alleata paritaria” e mai “succube” della Repubblica genovese.
Noli, tuttavia, vanta origini blasonate ben più lontane. Antico centro dei Liguri, fu municipio in Epoca Romana . Nel Medioevo collezionò botte e occupazioni provenienti da ogni direzione: fu base Bizantina . I Longobardi la distrussero nel 641 fu dominio anche dei Franchi di Carlo Magno. Allo smembramento dell'Impero Carolingio fu inserita, assieme alla vicina Varigotti, nei possedimenti della Marca Alemarica e della famiglia Del Carretto, del ramo di Savona. La gloriosa storia di Noli iniziò alla fine del primo millennio quando divenne compartimento di una notevole flotta e quindi un importante centro marinaro. Diventò famosa quando prese parte alla Prima Crociata nel 1099 ricevendo privilegi politici, ma soprattutto commerciali, dal re di Gerusalemme Baldovino I, dal signore feudatario Boemondo I d'Antiochia e da Tancredi di Sicilia.
Noli aveva la fortuna di affacciarsi su un golfo riparato, all’interno del quale le navi del tempo davano fondo l’ancora e facevano operazioni commerciali. Nell’epoca del suo massimo splendore la Repubblica era più vasta e comprendeva anche parti dei vicini territori di Orco, Mallare, Segno e Vado. La potenza e la grandezza di Noli raggiunsero l’apice durante le Crociate e durarono sino alla fine del secolo XIV. Il limite della sua espansione economica fu l’assenza di un vero porto che fosse in grado d’accogliere i traffici del cabotaggio. Fu così che Noli uscì dalle rotte commerciali e cadde nell’isolamento. Da audaci navigatori, avveduti commercianti e persino corsari, i nolesi si trasformarono in pacifici pescatori.
Il suo declino seguì le sorti della Repubblica di Genova, alla quale rimase sempre fedele ricevendone adeguata protezione. Nel 1797 passò sotto la dominazione francese perdendo la propria indipendenza dopo settecento anni di sostanziale libertà.
Panorama della cittadina. Da qualche anno, Noli fa parte dei "Borghi più belli d'Italia".
La Torre Comunale e parte del Palazzo Civico. Alta 33 metri, in pietra verde locale con merli ghibellini. Oggi restano otto case-torri delle 72 originarie. Edificata sul finire del XIII secolo è attigua al palazzo comunale. Pressoché intatta e terminata da merli a coda di rondine, presenta un basamento in pietra verde del luogo e con una parte soprastante in mattoni.
Il Palazzo Comunale, già sede di governo dell’antica Repubblica Marinara di Noli
Inizio il “tour” dalla Loggia della Repubblica, situata a fianco del palazzo del Comune, sotto la quale vi sono delle targhe commemorative di illustri personaggi storici nati nella località o che vi hanno trascorso un periodo della loro vita, come Cristoforo Colombo, Giordano Bruno e Antonio Da Noli.
Di fronte alla loggia si può ammirare una bellissima piazza in cui, con delle piastrelle marmoree, sono rappresentate le bandiere delle Repubbliche Marinare e di Noli che nel decimo secolo era la Quinta Repubblica Marinara.
Sottostante il Palazzo Comunale si trova la Loggia della Repubblica (secc.XIV.XV) con due grandi archi in laterizi che poggiano su una colonna ottagonale con capitello a bugnato tipico della fine del ‘300 - inizi ‘400. Interessanti sono le lapidi infisse nel muro della Loggia stessa, proprio davanti alla porta della prigione bassa o Paraxetto e all’anello di ferro usato per la tortura detta dei tratti di corda. Esse ricordano alcuni uomini illustri che a Noli nacquero o soggiornarono. Da Noli, infatti, passò Dante: “Vassi in San Leo e discendesi in Noli” (Purgatorio IV, 25).
Dalla rada di Noli partì Cristoforo Colombo il 31 maggio 1476 per iniziare, dal Portogallo, il lungo cammino che lo avrebbe portato alla scoperta del Nuovo Mondo. A Noli visse per alcuni mesi, nel 1576, Giordano Bruno insegnando a’ putti la gramatica et legendo la sfera a certi gentilhuomini, prima di morire bruciato come eretico, nel 1600, in Piazza delle Erbe a Roma.
Qui nacque Anton da Noli che scoprì, nel 1460, le isole di Capo Verde.
La Loggia conserva, però, un’altra lapide molto interessante; è la prima a destra verso la Porta di Piazza. Non parla di personaggi ma è l’unico ricordo marmoreo delle ferree leggi che vigevano nella Repubblica.
Poiché nel 1666 gli Antichi Decreti di buon governo, specialmente quelli stabiliti nel 1620 che imponevano, per i forestieri, la sicurezza in cambio del pagamento di 300 scudi, venivano disattesi, il Mag.co Consiglio grande de’ quaranta in legitimo e sufficiente numero congregato deliberava: “Che si facci registrare la sostanza di detto decreto in una pietra marmorea da ponersi ad una delle colonne del pubblico Palazzo, affinché in l’avvenire si tenghi in viridi osservanza, e ogn’uno sappia quello che converrà fare e si guardi bene a non contravenire.”
Questo editto si trova ora infisso sotto la Loggia a perenne ricordo! (Gandoglia, op. cit., pp. 279-280
Al termine di via Sartorio, la vecchia linea ferroviaria che attraversava Noli, ha risparmiato l’unica grande Torre ancora alta fino alla sommità, la Torre del Canto, o dei “Quattro Canti”. così denominata perché situata nel centro geometrico della città e all’angolo della via proveniente da monte. Essa è curiosamente trapezoidale e non quadrata, ed è forse la più antica fra quelle conservate, avendo ancora abbondanza di elementi romanici e poche aperture in alto ...”
L'alta torre è a forma trapezoidale con fusto compatto e con rade aperture in stile romanico nella parte bassa.
La chiesa di San Paragorio, prima cattedrale di Noli
Lasciando la piazza e proseguendo per i caratteristici vicoli, si possono raggiungere le varie Chiese del paese, tra cui quella di San Paragorio, dedicata all’omonimo martire giunto a Noli durante il dominio bizantino e che è stata dichiarata monumento nazionale. PRIMA CATTEDRALE DELLA REPUBBLICA S. PARAGORIO
La chiesa, uno dei monumenti protoromanici più importanti della Liguria, sorge fuori dalle mura cittadine ed è circondata da un’area cimiteriale bizantina e altomedievale. Nella sua forma attuale è databile al primo periodo romanico (sec. XI). Gli scavi, avviati nel 1889 da A. D’Andrade, ripresi da N. Lamboglia, fondatore dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri, che proseguono tuttora per opera della Sovrintendenza archeologica della Liguria ed hanno evidenziato, sotto l’attuale edificio, la presenza di una chiesa paleocristiana.
Casa Pagliano. Costruita nel XIV secolo e restaurata nel 1906 da Angelo Demarchi, assistente dell'architetto Alfredo d'Andrade, il suo interno fu notevolmente trasformato in tale rivisitazione. L'esterno si presenta come la tipica casa medievale nolese: un basamento in grossi conci in pietra verde locale e con poche aperture e una parte superiore in mattoni con bifore e trifore. Fu sede delll'Ordine dei Cavalieri di Malta.
Torre e Porta Papona delXIII-XIV secolo. Edificata fuori le mura antiche del borgo e collegata, con un arco in mattoni, al camminamento che scende dal Castello di Monte Ursino, l'edificio fu nei secoli deposito di armi e munizioni della Repubblica. Presenta bifore e monofore in stile gotico.
La Porta Papona, munita di porta ferrata, si trovava di fronte alla Torre omonima. Nei tempi della Repubblica aveva grande importanza strategica, in quanto sbarrava l’accesso al Monte Ursino che fu sempre l’estremo rifugio degli abitanti di Noli in caso di assalti nemici. La Torre (secc. XIII - XIV), con monofore e bifore gotiche, è posta appena fuori della prima cinta muraria (secc. XI - XII) ed è collegata, con un arco in mattoni, al camminamento delle mura che scendono dal Castello. La Torre servì come deposito per le armi e le munizioni della Repubblica. Dai libri dei conti, conservati nell’A.S.N., si può ricavare che, nel 1581 “il maistro Francesco Colombo era intento a chiudere li barchoni della Torre di Papone, ove si mettevano in deposito le polveri, armi e munizioni portate col leudo di patron Benedetto Badetto”. La polvere da sparo si comprava in barili sia a Genova che a Toirano “al prezzo medio di lire 10 e mezza il rubbo”
Il castello di Monte Ursino (XII-XIV sec.)
Inoltre non bisogna dimenticare il Castello di Monte Ursino, situato sulla collina e che può essere raggiunto a piedi o in macchina e le torri medievali “sparse” per il paese. Il Castello di Monte Ursino, nella sua forma attuale, risale ai rifacimenti che Genova volle venissero effettuati, nel 1552, dal Capitano Andrea da Bergamo per adeguare torri e mura ai nuovi tipi di armi da combattimento come, ad esempio, bombarde e spingarde che impiegavano la polvere da sparo. il Castello è formato da un recinto poligonale irregolare che racchiude il poderoso maschio circolare; ai lati sono visibili i resti di due torri più recenti. La collina di Monte Ursino racchiude, però, altri “tesori”. “Occorre ricordare che, prima dello sviluppo dell’abitato al piano, nel sec. XII, il primitivo borgo feudale, al riparo del Castello dei Del Carretto, aveva cominciato a svilupparsi sulle ripide pendici del monte e presumibilmente fin sul mare mediante una serie di costruzioni in grandi blocchi, simili alle «casazze» di Calvisio a Finale; di esse restano numerosi avanzi fra le fasce e gli uliveti inclusi nella cinta del sec XIII”
Le pietre antiche di Noli hanno un fascino misterioso cui é difficile sottrarsi, tuttavia ciò che mi ha colpito maggiormente é la storia ancor più misteriosa del suo più importante ed emblematico personaggio: Antonio da Noli.
Il Monumento alle Scoperte venne costruito nel 1960 a Lisbona per commemorare i 500 anni dalla morte di uno dei più famosi personaggi della storia portoghese: Enrico il Navigatore, uno dei più grandi imprenditori di spedizioni marittime di scoperte.
Costruito ai piedi del fiume, nel quartiere di Belém a Lisbona, si distacca per la sua magnificenza: 52 metri d´altezza. L´opera venne disegnata da José Ângelo Cottinelli Telmo e Leopoldo de Almeida e rappresenta una caravella e tutto il gruppo della marina comandato per Enrico il Navigatore che si situa sulla prua della barca in cemento. Dietro di lui e per ordine di importanza, troviamo altri eroi marittimi che collaborarono alle scoperte.
Una delle cose più interessanti del monumento è che si può esplorare nella sua interezza e ci sono sia delle scale che l´ascensore che vi porteranno fino al sesto piano, dove potrete ammirare tutta la costa del fiume e la regione di Belém.
La costruzione ha due lati, ovest ed est, ma visitare il monumento e vederlo da ponente è un´esperienza indimenticabile,dato che il sole aiuta a far prendere quasi vita ai marinai dell´imbarcazione.
Da Noli a Capo Verde
Il più antico documento in cui si riferisce l'origine di Antonio de Noli afferma che era un navigatore «di nazionalità genovese e di sangue nobile». L'origine genovese del navigatore è stata confermata nel manoscritto antico Famiglie di Genova. Antiche, e moderne, estinte, e viventi, Nobili, e populari trovato nel 2008 a Genova, che descrive il navigatore come membro della stessa famiglia di Giacomo de Noli, il quale nel 1315 divenne membro del Consiglio di Genova "XII –Anziani” sotto il governo del doge Nicolò Guarco. In questa fonte è indicato anche che l'origine della riferita famiglia Noli di Genova "si può supponere dalla piccola città o Castello di Noli".
Si sostiene che Antonio de Noli sarebbe nato intorno al 1419, forse a Serra Riccò, dove esiste da tempi antichissimi una frazione con il nome di Noli, oppure a Voltri (nel tempo di Antonio Noli anch'essa facente parte della Repubblica di Genova). In passato, alcuni autori legati alla città di Noli (ad esempio Gandoglia, 1919) hanno dichiarato che il navigatore è nato a Noli, provincia di Savona. Nondimeno, né documenti né prove sono mai stati presentati a sostegno di questa ipotesi. Gli stessi autori hanno usato il nome “Antonio da Noli” (una versione portoghese del nome), dove "da" avrebbe significato "proveniente” dalla Città di Noli.
Il navigatore è detto anche Anton da Noli, e potrebbe essere la stessa persona conosciuta come Antoniotto Usodimare, anche se l'identità fra i due non è accertata, né universalmente riconosciuta. Inoltre, la maggior parte degli storici ha fatto riferimento al navigatore genovese nella letteratura italiana e internazionale come Antonio de Noli.
Nel 1449, per ragioni politiche, partì da Genova insieme al fratello Bartolomeo e al nipote Raffaele, con tre galee di sua proprietà e si recò in Portogallo per ottenere l'appoggio dell'"infante" Enrico il Navigatore, noto finanziatore di esplorazioni. Su mandato di questi, tra il 1456 e il 1460 esplorò le coste atlantiche dell'Africa, spingendosi ad esplorare le Isole Bijagos, il fiume Gambia e le isole del Capo Verde delle quali, secondo alcuni, fu il vero scopritore nel 1460. In questo periodo navigò anche con Alvise Cadamosto, fatto che contribuì a far crescere l'incertezza sulle attribuzioni delle scoperte.
Nel 1462 ottenne dal re Alfonso V il riconoscimento ufficiale di scopritore delle isole, insieme al possesso dell'isola di Santiago (conosciuta dai navigatori anche come "Isola di Antonio"). Qui venne fondata Ribeira Grande, dove il de Noli si stabilì per avviare la colonizzazione delle isole. Nel 1466 ottenne l'autorizzazione di esercitare la tratta degli schiavi africani. Nel 1472 venne nominato governatore delle isole del Capo Verde.
Durante la Guerra di successione castigliana iniziata nel 1475 i castigliani occuparono le isole di Capo Verde. Antonio de Noli inizialmente rimase come governatore, ma dopo fu preso prigioniero e portato in Spagna. I portoghesi non chiesero il rilascio di Antonio de Noli mentre era prigioniero in Spagna. Dopo essere stato liberato nel 1477 per ordine del re Ferdinando di Castiglia, se ne persero definitivamente le tracce. Non è documentato cosa in concreto successe ad Antonio de Noli e la sua sorte dopo il recupero di Capo Verde da parte dei portoghesi. Il navigatore aveva una figlia, Branca Aguiar e fonti portoghesi riportano che qui il navigatore aveva anche un figlio che lo accompagnò poi nelle campagne di Gambia. Manoscritti che si trovano presso la Biblioteca Malatestiana indicano che il figlio sarebbe stato Simone de Antonio Noli Biondi (Simone “figlio de Antonio Noli”), della famiglia "oriunda" che era arrivata a Cesena alla fine del Quattrocento e aveva comprato seggi nel Consiglio di Cesena, pagandoli in oro. La figlia Branca Aguiar era stata sposata con un nobile portoghese (Dom Jorge Correia de Sousa, fidalgo da casa real) e quindi le piantagioni dei de Noli a Capo Verde sarebbero diventate patrimonio della Corona portoghese.
Il nome "Antonio da Noli" è stato dato ad un cacciatorpediniere della Regia Marina italiana (vedi foto) che operò durante la seconda guerra mondiale e ad una nave freight-liner della Società di Navigazione ITALIA di 11.245 TSL in servizio di linea tra Genova e Vancouver via Canale di Panama dal 1972 al 1979.
Nel 2009 è stata fondata a Serra Riccò (Genova) dal professore universitario svedese Marcello Ferrada de Noli la rete di ricerca internazionale Antonio de Noli Academic Society.
Carlo GATTI
Rapallo, 4 Dicembre 2014
COSTA CONCORDIA - In mare non ci sono Taverne
L’IRRAZIONALE MANOVRA DELLA
COSTA CONCORDIA
“ IN MARE NON CI SONO TAVERNE “
L'inchino si può fare nel rispetto di poche ma ferree regole marinare
Settembre 2003. La Costa Fortuna saluta l’Isola del Giglio all’altezza dello scoglio Gabbianara. Il tempo é ottimo. La visibilità è molto chiara. La nave si trova a distanza di sicurezza (1 miglio). A giudicare dalla scia, la nave sta viaggiando a 6-7 nodi di velocità. Si tratta quindi di un "passaggio" in sicurezza e di una navigazione parallela alla costa. In questo caso, anche un’improvvisa avaria consentirebbe alla nave di procedere verso il largo senza alcun pericolo per se stessa e per l'ambiente. La tecnologia moderna consente peraltro a questo tipo di nave di poter dar fondo l'ancora dal ponte di comando in qualsiasi momento, ciò significa che in caso d'avaria e di vento verso terra, l'impatto sarebbe evitato con l'uso appropriato delle ancore.
IL SALUTO
E' stata fatta un po' di confusione tra i vari termini marinareschi. Occorre quindi precisare cosa s'intende ad esempio per Navigazione Turistica: con questo termine si intende informare i passeggeri sulle coste o isole VISIBILI che la nave incontra sul percorso che fa da porto a porto, riportandone anche ora e distanza. Non sono passaggi fatti appositamente. Ci si deve passare per raggiungere il prossimo porto. Il Comandante stabilisce, a seconda delle condizioni meteo, la rotta più appropriata. Il rito del Saluto, impropriamente chiamato anche Inchino, ha un senso se é eseguito di giorno e in sicurezza, quando i passeggeri possono immortalarlo tra i ricordi più belli della crociera. L'omaggio della nave alla località costiera é una vecchia consuetudine accettata da tutti se praticata con prudenza, ma in quella notte buia non aveva alcun senso, perché in gennaio l’isola del Giglio é deserta, una parte dei passeggeri della nave stava cenando, mentre l’altra si preparava per la programmata festa di bordo. Mi sento quindi di sostenere che quella ‘strana manovra’ sia stata decisa dal comandante Schettino per motivi personali e di ciò dovrà renderne conto agli inquirenti.
Costa Crociere e gli altri Comandanti della Compagnia, che sono stati tirati forzatamente in causa, non hanno alcuna responsabilità in questa scelta funesta. Così com’é deplorevole l’assalto concentrato dei media alla COSTA-CARNIVAL, il miglior Armamento al mondo sotto tutti i punti di vista.
UN ERRORE DI CONCETTO
In questa carta nautica "rubata" su internet, la linea gialla rappresenta la “rotta turistica” adottata da molte navi, e quella verde la rotta ipotetica seguita dalla Costa Concordia. Ma sappiamo con certezza che le navi di Costa Crociere lasciano l'Isola di Giannutri (in basso a destra) sulla dritta per meglio allinearsi alla costa del Giglio.
Quando il comandante decide di deviare dalla rotta ufficiale Civitavecchia-Savona per passare vicino al Giglio, cambia il quadro operativo. La nave passa di fatto dalla navigazione strumentale alla navigazione manuale di manovra. Il Comandante rileva il comando di guardia ed egli stesso manovra la nave. Le registrazioni delle conversazioni e l’intera dinamica saranno rese note dalla magistratura nel mese di marzo.
La Costa Concordia é andata ad urtare gli scogli come poteva capitare soltanto ad uno sfortunato veliero di qualche secolo fa, e lo ha fatto, per di più, ad una altissima velocità (17 nodi) che cozza terribilmente contro tutte le leggi marinare scritte e non scritte. C’é modo e modo di sbagliare. L’errore appartiene di diritto a tutti gli umani. Chi scrive ha compiuto più di 30.000 manovre di navi e sa che l’errore può capitare in qualsiasi momento, ma quando alla base c’é un errore concettuale: “sfiorare la costa ad altissima velocità”, allora non ci sono attenuanti e il Comandante diventa indifendibile perché si tratta di una SCELTA premeditata che nasconde una profonda ignoranza dei problemi del mare. Sorge anche il dubbio sulla sua preparazione professionale e di colui che gli ha affidato quell’immeritato incarico di grande responsabilità.
C’E’ STATO UN MIRACOLO
Nel momento in cui la nave é stata “segata” longitudinalmente dagli scogli affioranti delle Scole, tonnellate di acqua di mare sono penetrate nello scafo all’altezza della lunga Sala Macchine. Ne é seguito il black-out, l’immediato spegnimento dei motori e lo sbandamento a dritta che ha permesso alla nave di compiere, con l’abbrivo residuo, una curva miracolosa sulla sinistra. Al termine della curva la nave é andata ad appoggiarsi dolcemente su una lunga spalliera del fondale dove giace a tutt’oggi e, come dicono, in buona sicurezza. Quella curva della salvezza é peraltro nota alle scienze idrodinamiche: un’imbarcazione sbandata, abbrivata e senza governo accosta sul lato dove incontra meno resistenza.
Se la nave fosse rimasta dritta, oppure avesse accusato uno sbandamento a sinistra, sarebbe scivolata verso gli alti fondali e la tragedia avrebbe assunto proporzioni apocalittiche. Il miracolo c’é stato comunque ed il mio riferimento al Cristo degli Abissi nel finale non sarà casuale.
IL COMANDANTE HA ABBANDONATO LA NAVE
La manovra sbagliata che ha prodotto lo squarcio nello scafo della nave passeggeri, ed il suo naufragio all’Isola del Giglio, cadrà presto nell’oblio, così come tutti gli altri incidenti stradali e aerei (Cermis compreso) che sono legati al nostro quotidiano operare sotto stress. Dopo la naturale sedimentazione delle emozioni, tutto sarà archiviato, ma un fatto, purtroppo, rimarrà nella memoria collettiva e sarà scritto con inchiostro indelebile: l’abbandono della nave Costa Concordia da parte del suo Comandante, quando centinaia di persone erano ancora bloccate a bordo. Tale comportamento non ha riscontri nelle testimonianze orali e scritte riportate dagli annali dei disastri navali e getta un’ombra d’infamia sulla nostra antica marineria civile e militare che annovera esempi di coraggio, onore e sacrificio della vita tra i più tramandati al mondo.
I passeggeri della Costa Concordia hanno trovato una via di fuga per abbandonare la nave e mettersi in salvo.
C’é qualcosa che va oltre le sentenze giudiziarie, gli interessi di parte e le “sparate” dei vari protagonisti per caso... Il giudice più severo ed imparziale si chiama: storia, il suo giudizio si fa attendere, ma non delude mai. L’esempio più significativo é quello del comandante Calamai dell’Andrea Doria che ottenne giustizia “post mortem” e la sua memoria fu salvata per sempre.
Tralascio quindi di commentare l’assurdo comportamento del comandante Schettino nelle fasi successive all’urto. Per il momento mi vergogno persino a parlarne, e ancora oggi preferisco pensare che il ritardo nel dichiarare l’abbandono nave sia il risultato di un totale quanto comprensibile cedimento di nervi.
IL PROBLEMA DELLA SICUREZZA E’ SEMPRE D’ATTUALITA’
Si pensava che il problema dell’ammainare le lance sotto sbandamento fosse ormai risolto. I fatti, purtroppo, hanno dimostrato che molto c’é ancora da studiare sull’argomento. Un importante ripensamento dovrà essere inoltre rivolto alla gestione del gigantismo navale, sia all’interno delle navi stesse che all’esterno (spazi di manovra nei porti sempre più insufficienti), revisione e aggiornamento della SICUREZZA alla luce di quanto accaduto. Costruzione del doppio scafo per tutte le navi passeggeri. Occorre limitare i danni da collisioni e da urti contro le banchine portuali o scogli, evitando fuoriuscite e inquinamenti di carburante in mare. Un’adeguata sistemazione delle paratie stagne che tenga conto degli effetti “apriscatola” avvenuti in questi ultimi incidenti a navi italiane.
A sinistra il Capitano di Fregata Gregorio De Falco, Capo Sezione Operativa della Capitaneria di Livorno, a destra il Comandante della Costa Concordia Francesco Schettino.
Ma l’autocritica ce l’aspettiamo anche da quegli ambienti autoritari che si sono messi in cattedra attaccando un unico obiettivo e sono poi rientrati dietro le quinte senza aver ottenuto alcun risultato pratico, se non quello di averci fatto criticare pesantemente all’estero. C’é qualcuno che controlla gli spazi marittimi di casa nostra? O siamo rimasti al tempo di Dragut che giungeva a Rapallo nottetempo e rapiva le “rapalline”.... senza grossi problemi?
Si sa che i nostri porti sono dotati di moderni sistemi AIS-VTS, ma a questo punto dubitiamo del loro funzionamento. Nel frattempo, abbiamo saputo che nella vicinissima Francia, tutte le navi di passaggio sono monitorate come gli aerei; vengono prese in consegna dai semafori costieri con il sistema VTS (vessel traffic system) e sono contattate strumentalmente, visivamente e telefonicamente. Basiti abbiamo anche ascoltato in TV la dichiarazione di un giornalista che asseriva che sul Registro della Capitaneria di Livorno, alle 22.00 di venerdì 17 gennaio (quando la C.Concordia era già sugli scogli) risultava scritto: “Nessuna annotazione di rilievo”.
Abbiamo sentito con le nostre orecchie l’ex ministro della difesa on. Crosetto denunciare l’esistenza di due costosissime e identiche commesse (per la Guardia di Finanza e la Guardia Costiera) per "radarizzare" le coste italiane: un DOPPIONE da milioni di euro.
UN DATO INTERESSANTE
Da più parti sono piovute feroci critiche all’equipaggio della C. Concordia per la disordinata evacuazione dei passeggeri. Riporto una piccola tabella che dovrebbe far riflettere. Si tratta del rapporto equipaggio-passeggeri nel quale si evidenzia quanto sia cresciuto nel tempo l’impegno di ogni membro dell’equipaggio per ogni passeggero.
1952 - ANDREA DORIA Equipaggio 572 passeggeri 1.134 R= 1,98
1960 - MICHELANGEL0 -“- 725 -“- 1.775 R= 2,45
2008 - C.CONCORDIA -“- 1100 -“- 3.780 R= 3,44
Purtroppo anche la “sicurezza” ha un costo. Quando il prezzo del biglietto é popolare non ci si può aspettare un servizio principesco.
Qualcuno mi ha chiesto: CHE IDEA SI E’ FATTO DEL COMANDANTE SCHETTINO?
L’idea che mi sono fatto del comandante Schettino é che non sia un uomo di mare, e fin dall’inizio mi é venuto in mente quel vecchio adagio:
“IN MARE NON CI SONO TAVERNE”
in cui si nasconde un mondo di considerazioni filosofiche di grande spessore.
- Pochi sono gli uomini che possano dare del tu al mare, ma non lo fanno mai!
- In mare non ci sono certezze – Non ti puoi rilassare – Il mare non ascolta le tue debolezze – Il mare non accetta le tue bugie perché ti legge dentro - Il mare non sopporta le sfide.
C’é poi un altro proverbio che si attaglia perfettamente al personaggio Schettino e suona come una tremenda sentenza:
“CHI CASCA IN MARE E NON SI BAGNA, PAGA LA PENA”
UN RINGRAZIAMENTO AI GIGLIESI
Sono pieno d’ammirazione per gli abitanti del Giglio che si sono dimostrati all’altezza della loro antica tradizione marinara. Non avevo dubbi, molti di loro e della vicina Porto S.Stefano mi sono stati colleghi e amici in tante avventure di mare ed anche in questa occasione li ho visti reagire da grandi marinai, tutti insieme, dal vicesindaco al più umile pescatore della calata.
Il Comandante della Bianca C. Francesco Crevato, lambito dalle fiamme, dirige stoicamente le operazioni di salvataggio.
La disavventura del Giglio mi ricorda, purtroppo, un’altra tragedia, quella della Bianca C. a Grenada nei Caraibi nel 1961. Ma in quella circostanza, il comandante Francesco Crevato fu davvero l’ultimo a lasciare la nave e salvò l’onore della nostra bandiera. (Sul sito di Mare Nostrum Rapallo, nella sezione Navi e Marinai, si può leggere una mia rievocazione).
Il 23.10.1961 i grenadini si comportarono eroicamente fornendo aiuto, assistenza e persino le proprie case ai naufraghi. L’Armamento Costa di allora ringraziò gli isolani offrendo ai loro rappresentanti il simbolo del mare più caro a noi rivieraschi: la statua del Cristo degli Abissi. Mi auguro che anche i gigliesi possano un giorno ospitare quel Cristo misericordioso che accoglie tra le sue braccia le vittime innocenti di questa tragedia. I gigliesi, come i granadini lo hanno meritato per averci messo un grande cuore marinaro, prima ancora delle loro case.
UN AUGURIO
Ogni tragedia, si sa, reca con sé morte e orrore, ma la vita non può fermarsi ed ecco l’uomo rialzarsi dalla batosta e ripartire con regole nuove. Ogni naufragio diventa così una nuova luce che si accende sul cammino tecnologico e sul progresso scientifico navale. Questa é la speranza che deve animare ognuno di noi.
Carlo GATTI
Rapallo, 12.03.12