UNA GIORNATA DA PILOTA

 

UNA GIORNATA DA PILOTA

Il racconto della prima manovra della giornata

Viviamo qualche ora, tra routine e imprevisti, insieme al Pilota.

La sveglia suona alle tre e un quarto.

Alzarmi presto dal letto non è mai stato un problema.

Mi muovo al buio, in silenzio. Dormono tutti.

Il primo caffè ha il compito di aprire la connessione con il mondo: un rito da vivere senza fretta. Un’occhiata on-line alla scheda delle prime navi che devono muovere, stabilisce il tempo che ho a disposizione per raggiungere la base operativa dei piloti. A quest’ora la strada è sempre libera e in venti minuti supero il varco di controllo per entrare in porto.

Fino a pochi anni fa la sala operativa era posta al quinto piano della Torre Piloti e, da quell’altezza, ruotare lo sguardo da Punta Vagno verso il taglio della Canzio e poi ancora fino al Porto Vecchio, permetteva di inanellare le informazioni necessarie a impostare il lavoro. I fanali di via fornivano i dati sul traffico in arrivo, la disposizione delle navi alla fonda suggeriva la direzione e l’intensità della corrente, i fumi dell’Italsider e della centrale dell’Enel parlavano del vento, e poi le “pecorelle” sull’acqua in avamporto, le bettoline e i pescherecci in movimento e molti altri dettagli “aggiornavano”, a colpo d’occhio, le numerose variabili così importanti per la sicurezza del nostro lavoro.

Dopo il crollo della Torre ci siamo trasferiti a Ponte Colombo. Sono passati quasi cinque anni. In questo periodo abbiamo lavorato per migliorare la logistica e per supplire ai punti deboli dovuti all’infelice posizione.

Quando esco dalla macchina una brezzolina fredda mi porta a chiudere gli ultimi bottoni del piumino intorno al collo.

La sera prima soffiava un vento teso da scirocco che, nella notte, ha lasciato il posto alla tramontana, ma non è ancora sufficientemente forte da spianare le onde. Questo lascia supporre la presenza di una discreta corrente in canale.

Qualche minuto più tardi entro nella sala operativa.

Le luci sono spente. Un retaggio della vecchia Torre, dove aveva un senso restare al buio per poter vedere cosa succedeva all’esterno.

Le lavagne luminose mostrano i dettagli aggiornati delle navi prossime ai movimenti. Ci si consulta con i colleghi, si assegnano i lavori, si controllano eventuali nuove ordinanze della Capitaneria e si leggono le note lasciate dai piloti smontanti. Resta giusto il tempo per il secondo caffè, poi si scende in pilotina. A seconda delle condizioni meteomarine in cui si opera, si decide se usarne una leggera e veloce che consuma poco, fa meno onda ed è più agile nel traffico intenso, oppure una più dislocante, meno reattiva ma precisa ed efficace nel mare mosso.


Oggi é una di quelle giornate in cui imbarcare potrebbe essere un problema e, proprio per questo, ad attenderci troviamo il pilotino Paolo con la Gemini, un’imbarcazione originale Nelson costruita in nord europa su misura per il tempo cattivo.

Tramontana, onde residue da scirocco e corrente in canale: resta solo da scoprirne l’intensità.

Passato l’avamporto accostiamo per levante offrendo la prora al mare che entra. La tramontana fa il suo lavoro e gli spruzzi lavano la fiancata sinistra per poi sfumare verso la diga, dove si mescolano alle onde che passano le ostruzioni.

Avvisiamo le navi di mantenere un miglio e mezzo di distanza l’una dall’altra e di restare almeno a due miglia dall’imboccatura; questo per permettere tutte le accostate necessarie a creare un buon ridosso per imbarcare.

Riduciamo la velocità per due buone ragioni: evitare colpi troppo forti contro i muri d’acqua che ci troviamo davanti,  e per limitare i danni nel caso dovessimo urtare uno dei numerosi tronchi semi-sommersi portati in mare dal torrente Bisagno.

A me tocca la prima nave, pertanto comincio a dare istruzioni al Comandante sulla velocità e sulle accostate da effettuare. Quindici minuti più tardi ci troviamo cinque o sei metri distanti e paralleli alla nave. Se voglio ottenere un ridosso dal vento per non bagnarmi devo farla accostare a dritta, esponendo la pilotina alle onde dello scirocco; se invece voglio evitare di rischiare le gambe a causa delle rollate, devo farla accostare a sinistra… Opto per la prima soluzione, confidando sulla mia agilità per bagnarmi il meno possibile.

È una nave da carico di 180 metri con una biscaglina di circa sei metri che, nella rollata svantaggiosa, finisce alcuni metri sott’acqua. Raggiungo le griselle e salgo alcuni gradini allontanandomi dalla coperta e dalle secchiate d’acqua che arrivano ogni volta che la prua infilza un’onda.

È una questione di tempismo: il beccheggio e il rollio asincroni della nave e della pilotina, l’alzarsi e l’abbassarsi dell’una e dell’altra sull’onda, devono coordinarsi fino ad avere il motoscafo nel punto più alto, altrimenti le gambe rischiano di restare schiacciate tra i due scafi.


E arriva il momento giusto: nave sulla rollata interna e pilotina sulla cresta dell’onda. Uno slancio veloce e passo dalla grisella alla scala di legno e corda. Un istante dopo la pilotina cade sul cavo dell’onda e la nave sale sulla rollata esterna, mentre le gambe pestano veloci sui tarozzi per allontanarsi dal pericolo.

Raggiungo la coperta e con la radiolina portatile dico al Comandante di tornare in rotta; nel frattempo il cervello registra in automatico alcuni particolari: equipaggio filippino, in ordine e ben organizzato; ufficiale con il vhf e salvagente vicino alla biscaglina; illuminazione ok; la nave sembra vecchiotta ma tenuta bene. Non c’è l’ascensore, ma le scale sono pulite e il marinaio che mi accompagna ha un passo decisamente veloce.

Quando apre la porta, scatta lo spegnimento automatico della luce sulle scale ed entriamo nel Ponte di Comando.

Il Comandante croato parla un "italiano" impreciso ma comprensibile e, non essendo la prima volta che viene a Genova, lo scambio d’informazioni viene formalizzato in modo chiaro e veloce.

La  nave non è dotata di elica di manovra prodiera, per cui decidiamo di comune accordo di utilizzare due rimorchiatori, che verranno voltati a prora e a poppa una volta raggiunto il ridosso della diga. Ci allineiamo all’imboccatura mettendoci il mare in poppa, riduciamo la velocità per mantenere la riserva di macchina necessaria a riprendere il governo quando rischieremo di perderlo una volta che lo scafo sarà metà dentro e metà fuori della diga.

La velocità diminuisce di poco… vuol dire che la corrente è più forte di quanto pensavo. Non appena la prua prende il ridosso, la nave accosta decisa a sinistra ed è necessaria l’Avanti Tutta per riprenderne il controllo. Non appena il timone sente la macchina, riduciamo l’andatura per poi fermare del tutto i motori e procedere a voltare i due rimorchiatori in sicurezza. Raggiungiamo l’avamporto con una velocità residua di otto nodi e proseguiamo con un bell’inchino a nord per contrastare la tramontana che nel frattempo sta rinforzando. Attraversiamo il taglio della Canzio bene al vento, ma ancora troppo veloci. Appena passata la Bettolo prendiamo il ridosso di Ponte San Giorgio e dell’Idroscalo che ci permette di diminuire di nuovo la macchina. Davanti a noi si vedono chiaramente le “pecorelle” provocate dal vento sull’acqua tra le testate dei pontili. Tra i venticinque e i trenta nodi. Dobbiamo ormeggiare al levante Somalia. Punto al ponente, fermo la macchina, andiamo di bolina lasciando cadere la poppa. Una volta passato il levante Etiopia ridò macchina avanti, timone tutto a sinistra, rimorchiatore di prora a sostenere al vento. Ci riportiamo in vantaggio e, non appena la poppa si libera dall’Etiopia, ordino al rimorchiatore di tirarmela su. Fermo la macchina per farla ripartire indietro appena possibile. Sull’aletta il vento forte e gelido rende difficile comunicare via radio, ma la poppa prende vantaggio. È il momento di aumentare la macchina e di fermare il rimorchiatore di prua. La nave pesante arranca avanti verso la diga, ma ben presto il motore fa sentire la sua potenza tra scossoni e vibrazioni, il vento passa in filo e la gestione della manovra torna a essere meno “muscolare”.

È arrivato il momento di lavorare di fino: bisogna stare attenti nell’utilizzo della propulsione, perché adesso c’è in giro la barca degli ormeggiatori. Basta un ordine sbagliato per mettere a rischio le loro vite. E poi bisogna affiancare la nave alla banchina parallela e dolcemente, stare attenti alle gru, ai cavi, alla posizione…

Il “good job pilot” pronunciato dal Comandante al termine della manovra non è per niente scontato e soddisfa sempre la parte romantica del nostro lavoro.



 

John GATTI

Rapallo, 31 Gennaio 2018



Le “31.500”: LE SUPERCISTERNE DEGLI ANNI '50 -Work in progress-

Le

“31.500”:

Le supercisterne degli anni ‘50

PRIMA PARTE

di

Francesco ULIVI

Ai CSLC Ernani Andreatta,

al Pilota Carlo Gatti

al DM Vittorio Massone,

A perenne ricordo del Comandante Lazzaro Parodi   e del suo Equipaggio,

T/c “Luisa”, Bandar Mashur, 5 Giugno 1965.

Sommario

Introduzione............................................................pag. 8

Gli anni 50’ e la ricostruzione della Marina Mercantile... pag. 9

Cenni progettuali sulle nuove petroliere. ....................pag.17

Cantieri e commesse................................................pag.37

Introduzione alla rassegna delle unità.........................pag.46

Le turbocisterne della “Villain & Fassio”.......................pag.47

Quattro petroliere per il “Comandante” Lauro..............pag.65

Tre turbocisterne per i D’Amico..................................pag.83

Argea Prima e Miraflores: le 31.500 della Flotta Cameli pag.83

Le due “Purfina”. .................................................... pag.122

Una t/c Italo–Liberia: Il Silverspring e la Flot. Ravano...pag.134

Angelo Moratti: Petroliere ed Armatore........................pag.140

1958: L’anno del “Mirador”.........................................pag.149

Il Santa Isabella della Messana Soc. Nav......................pag.152

Il Sicilmotor: un Diesel tra le turbine...........................pag.156

Una turbocisterna d’oltrecortina..................................pag.183

Le petroliere “sfortunate” della Co. S. Arma.................pag.191

Le Eredi delle “31.500”..............................................pag.206

Ringraziamenti ........................................................pag.210

Appendici ...............................................................pag.211

Alcuni cenni generali sulle petroliere degli anni ‘50........pag.211

Le Livree Sociali sui fumaioli delle “31.500”. ................pag.214

L’Evoluz.nav.cistern.Ital.profili di alcune petroliere.........pag.217

Piani costruttivi della turbocisterna Mirella d’Amico........pag.220

Ripartizione delle unità per Armatore...........................pag.231

Ripartizione delle unità per Cantiere di Costruzione........pag.231

Elenco Generale delle Unità.........................................pag.232

Bibliografia...............................................................pag.233

Siti Internet Consultati...............................................pag.235

INTRODUZIONE

Nel 2017, a definire “Supercisterna” una nave di 31.500 tonnellate di portata lorda, più che curiosità si potrebbe suscitare ironia in un ascoltatore anche solo minimamente edotto di argomenti marittimi. In effetti in questo periodo di gigantismo navale imperante, che oserei definire fin troppo esasperato, le navi che questo lavoro si accinge a descrivere possono davvero sembrare dei moscerini, se poste a confronto con navi che hanno una portata più che decuplicata rispetto a quella di cui disponevano tali unità.

Ma considerando la situazione da altri punti di vista, le “31.500” erano e restano “Grandi Navi”, nel senso più nobile del termine, vere e proprie palestre di vita e mestiere per almeno due generazioni di marittimi Italiani ma non solo, nel periodo forse più radioso del nostro Armamento Mercantile sia Libero che Sovvenzionato; quando sui fumaioli di queste eleganti turbocisterne capeggiavano alcune delle livree più gloriose della Marina Mercantile nazionale quali: Villain & Fassio, Cameli, Ravano, Lauro, d’Amico ed innumerevoli altri.

Molti aggettivi potrebbero essere accostati a queste navi che furono definite come eleganti, robuste, veloci, affidabili e via dicendo, ma un altro riconoscimento della bontà del progetto di questa prolifica classe di petroliere può essere dato dal fatto che la prestigiosa compagnia britannica B.P. Tankers Co. di Londra, in seguito alle brillanti caratteristiche di queste navi, ne fece costruire una versione leggermente ingrandita e migliorata, per un totale di tre esemplari commissionati al cantiere Ansaldo di Genova Sestri.

Questo mio lavoro vuole essere un’umile omaggio a queste navi ed ai marittimi che a bordo di esse vissero momenti a volte lieti, a volte tragici e su cui, purtroppo, in taluni casi vi trovarono la morte. Un Omaggio che vorrei estendere alla Marina Mercantile, cercando di ricordarla nel suo momento di gloria quando, da un Paese devastato da un conflitto immane, seppe risorgere con nuovo slancio verso le sfide di un futuro all’inizio radioso ma che già a metà degli anni 60’ assunse tinte molto fosche e che nel decennio successivo fece molte vittime illustri nel settore marittimo, generando una crisi settoriale che, a mio avviso, tranne qualche rara eccezione, ha provocato una grave perdita di competitività da parte della nostra Marina Mercantile, la quale soffre davvero troppo la concorrenza dei Gruppi Armatoriali esteri; nella mai sopita speranza che questa tendenza si possa invertire al più presto.

Infine una precisazione di carattere pratico: in questo lavoro ho voluto privilegiare in modo particolare l’apparato iconografico, tratto da pubblicazioni, siti internet e simili, in quanto la fotografia è uno dei maggiori strumenti, se non il maggiore, a disposizione degli storici ed appassionati navali per approfondire la conoscenza di questa branca della storia navale così ricca e affascinante ma spesso poco considerata quale è la marineria mercantile.

Francesco Ulivi

GLI ANNI '50 E LA RICOSTRUZIONE DELLA MARINA MERCANTILE

Il secondo conflitto mondiale tracciò una netta linea di demarcazione nella storia della Marina Mercantile Italiana, si passò infatti dall’avere, nel 1940, un flotta mercantile che assommava a 3.400.000 di tonnellate di stazza lorda (pari al 5% del tonnellaggio mondiale[1]) ad una che alla fine del conflitto poteva disporre di 385.716 t.s.l., pari all’11,3% del tonnellaggio d’anteguerra.

Ugualmente drammatica si presentava la situazione per quanto riguardava le condizioni dei porti e delle loro infrastrutture che in ogni parte della penisola avevano subito ingenti danni ed impedimenti, basti pensare agli innumerevoli relitti affondati per i numerosi bombardamenti o per sabotaggio, senza dimenticare la complessa questione del minamento dei porti nazionali.

A mero titolo d’esempio può essere utile riportare la situazione del Porto di Genova a fine conflitto (Aprile 45), in modo da dare un’idea degli ingenti danni subiti da uno dei maggiori porti italiani e che ebbe poi un ruolo fondamentale nel processo di ricostruzione.

Situazione dei danni subiti dal Porto di Genova al 25/4/1945

Genova

Opere Foranee (m)

Banchin (m)

Arred. Portuali (N°)

Bacini di Carenag (N°)

Edifici Portuali (N°)

Distrutti

Gravi Danni

Lievi Danni

 

650

7.062

229

3

17

49

24

Le acque del porto erano disseminate di 139 mine magnetiche e di circa 900 imbarcazioni affondate mentre erano ostruite, da relitti di grandi dimensioni, le due imboccature principali; la diga foranea presentava una breccia di 80m  e gravissima, come già riportato nella tabella sopra, era la situazione delle banchine (distrutte per un 38%) ed analoghe erano quelle di magazzini ed impianti meccanici quali gru ecc. (ambedue subenti perdite pari all’86% del totale). Ma venne da subito intrapresa un rapida ed incessante opera di ricostruzione e sminamento delle acque tale che il 13 Giugno 1945, la prima nave poté attraccare nel porto Ligure.

Disastrosa era inoltre la situazione della cantieristica nazionale che alla fine del conflitto vedeva grandissima parte del suo apparato produttivo quasi totalmente distrutto o gravemente menomato. L’azione aereo navale nemica non risparmiò quasi nessuna azienda cantieristica piccola o grande che fosse da danni o dalla quasi totale distruzione ma tra esse è doveroso citare alcuni di quei cantieri che tanta sofferenza patirono ma che furono alla base della rinascita dell’industria cantieristica nazionale e di conseguenza motore della ricostruzione della nostra flotta mercantile, gruppi cantieristici quali “Ansaldo” S.A. di Genova – Muggiano – Livorno (quest’ultimo assorbito nel gruppo dal 1949) , “C.R.D.A.” di Trieste – Monfalcone, gli stabilimenti di Ancona e Palermo del gruppo “Cantieri Navali Riuniti” di Genova, ed infine il cantiere di Castellammare di Stabia (più orientato sulle costruzioni militari che mercantili).

Anche in questo caso il processo di ricostruzione fu rapido e consistente, tale che nel 1950, a soli 5 anni dalla fine del conflitto, la cantieristica nazionale aveva superato i valori d’anteguerra come illustrato dalla seguente tabella.

Situazione delle Costruzioni Navali nel 1938 e 1950

Anno di Riferimento

1938

1950

Navi Impostate

119

312

Navi sugli Scali

68

329

Navi Varate

126

210

Questi dati possono già dare un’efficace idea dell’incessante processo di ricostruzione e di ritrovata produttività della nostra industria cantieristica e del relativo indotto.

Ma se ciò non bastasse, è significativo il dato relativo alle costruzioni navali prodotte dai nostri cantieri per committenti esteri che nel solo periodo tra il 1 Gennaio 1948 e il 31 Dicembre 1951 ammonta a 64 unità per un totale di 225.947 t.s.l. così suddivise:

-      45 motonavi per 175.454 t.s.l.

-      6 turbonavi per 29.000 t.s.l.

-      6 motocisterne per 14.378 t.s.l.

-      6 motochiatte per 5.794 t.s.l.

-      1 motopeschereccio per 1.321 t.s.l.

 


[1] Fonte: Annovazzi G., La Flotta Mercantile Italiana, Genova, Siglia Effe, 1959, Pag. 15 (op. cit. bibl.)

La motonave mista Rio Jachal, consegnata nel 1950 dai cantieri Ansaldo di Genova Sestri per la Compagnia "Flota Mercante del Estado" di Buenos Aires. fece parte di una commessa di tre motonavi da 11.300 da parte del governo Argentino per la linea Sud America - Europa. (fonte: www.navie armatori.it)

Tra i maggiori committenti esteri del periodo si possono citare l’Argentina, la Norvegia, la Turchia, la Grecia (i costi delle costruzioni vennero scalati nei confronti del governo ellenico) ed altri ancora.

Altre commesse estere dell’Ansaldo nell’immediato dopoguerra: La motonave Tarifa (sopra), costruita per l’armatore norvegese “Whil. Wilhelmsen” di Tonsberg.

(fonte: www.naviearmatori.it),

e la motonave Verna Clausen (sotto) costruita per l’armatore “C. Clausen” di Svendborg in Danimarca (fonte: www.shipsnostalgia.com).


Quello delle commesse dall’estero nell’immediato secondo dopoguerra, ovviamente, non fu un successo solo genovese ma anzi fu esteso a numerosi cantieri nazionali quali l’ex “Orlando” di Livorno ora in orbita Ansaldo, restando nelle acque Tirreniche. Mentre passando sull’altro lato della penisola non si poté non constatare con gioia la ripresa dell’attività navalmeccanica nelle città di Trieste e Monfalcone e quindi del grande gruppo dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico (C.R.D.A.) il quale ricevette, come l’Ansaldo, numerose commesse estere approfittando dei bassi costi dovuti alla favorevole congiuntura economica per gli acquirenti esteri, causata dalla delicata fase di ri mpegno dei cantieri Giuliani per nell’ottica della ricostruzione del tessuto industriale nazionale nonché delle costruzioni navali è assolutamente di rilievo assoluto, fatto questo ancor più rimarcabile se si considera la delicatissima situazione politica della città di Trieste  e del Territorio Libero Triestino che perdurò dal 1947 al 1954, fonte di tesissimi contrasti e preoccupazioni tra la neonata Repubblica Italiana, l’Onu e la Jugoslavia. E non è un caso se al giorno d’oggi il cantiere navale di Monfalcone è uno dei più importanti al mondo nella costruzione del moderno naviglio crocieristico.costruzione industriale e sociale in cui il paese era al tempo impegnato. L'impegno dei cantieri Giuliani per nell’ottica della ricostruzione del tessuto industriale nazionale nonché delle costruzioni navali è assolutamente di rilievo assoluto, fatto questo ancor più rimarcabile se si considera la delicatissima situazione politica della città di Trieste  e del Territorio Libero Triestino che perdurò dal 1947 al 1954, fonte di tesissimi contrasti e preoccupazioni tra la neonata Repubblica Italiana, l’Onu e la Jugoslavia. E non è un caso se al giorno d’oggi il cantiere navale di Monfalcone è uno dei più importanti al mondo nella costruzione del moderno naviglio crocieristico.

Costruzioni Monfalconesi per l’estero: la motonave per carichi refrigerati Sumatra costruita nel 1949 per la compagnia “A/B Svenska Ostasiatiska Kompaniet” di Goteborg; Nella pagina successiva, la petroliera Janus costruita nel 1947 per la compagnia “Western Chartering Co SA.” di Panama. (fonte per entrambe le immagini: www.mucamonfalcone.it)

Non fu certamente minore l’impegno dei cantieri navali nazionali rivolto al mercato interno, anche se per via della già citata congiuntura economica sfavorevole per il mercato nazionale, le principali commesse nazionali vennero piazzate ai cantieri a partire dai primi anni 50’ in poi. Nel quinquennio precedente i cantieri si impegnarono piuttosto in un’opera di recupero e riallestimento di costruzioni danneggiate più o meno gravemente durante l’ultimo conflitto, un’alternativa sicuramente più economica per gli armatori nazionali rispetto a costruzioni ex novo.


Il Marco Polo della Soc. Italia, originariamente varato nel 1942 come Niccolò Giani, affondato nel 1944 e recuperato nel 1947, venne immesso in servizio nel 1948 dopo il suo recupero.

Fonte: (www.naviearmatori.it)

Un fortissimo impulso alla rinascita della nostra marina mercantile venne dall’attuazione del “Piano Marshall” e dal conseguente famoso viaggio della M/n Sestriere dell’Italnavi conosciuto come “La seconda spedizione dei mille” che salpata dal porto di Genova l’8 Novembre 1946 condusse circa 1000 marittimi, tra cui 50 Comandanti e 50 Direttori di Macchina, a Baltimora per ritirare 50 navi Liberty. Infatti nell’immediato dopoguerra il governo statunitense aveva promulgato il cosiddetto “Sales Ships Act” per consentire la vendita di una consistente aliquota dei Liberty assegnati alla Reserve Fleet, a ciò vennero però posti due condizioni:

- Il mantenimento in “naftalina” di una parte della Reserve Fleet ovvero in condizioni di essere posti in armamento in breve tempo.

P   Privilegiare nelle consegne le nazioni ex-alleate

@   Numerosi Armatori Italiani parteciparono alla “Spedizione” tra i quali è doveroso citare: Fassio, Ravano, Lauro, Parodi, Lloyd Triestino, Soc. Italia, Bibolini, D’Amico, Garibaldi ed altri ancora.

Il "Sestriere" dell'Italnavi, per molti questa nave è il simbolo della rinascita della nostra Marina Mercantile dal massacro del conflitto.

(fonte:www.naviearmatori.it)

Ogni Liberty aveva un costo di 530.000 dollari che al cambio in Lire dell’epoca ammontava a circa 135.150.000 Lire. I primi Liberty vennero consegnati a quelle compagnie che avevano subito le maggiori perdite durante il conflitto, come ad esempio Lauro, Ravano e Fassio che alla fine del conflitto dovettero praticamente riprendere da zero la loro attività armatoriale, alla fine saranno 162 i Liberty che dal 1946 inalbereranno il tricolore sui mari di tutto il mondo e che resero ai loro armatori un servizio quasi trentennale praticamente continuo, un fatto ancor più sorprendente se si pensa che queste navi erano progettate per durare pochi viaggi.

Il Liberty Emanuele V. Parodi ex Joseph E. Wing, assegnato alla Soc. V. E. Parodi di genova.

(fonte:naviearmatori.it)

Con maggiore parsimonia vennero concesse all’Italia alcune petroliere turboelettriche del tipo T2, circa una ventina, che insieme ai Liberty consentirono la ripresa dell’attività commerciale dei nostri armatori fino ad arrivare ai primi anni ‘50 quando una nuova fase di crescita economica e la sempre maggiore solidità della classe armatoriale nazionale consentì di cominciare un grande processo di rinnovamento del nostro naviglio mercantile, che permise di guardare con rinnovata fiducia alle sfide degli anni a venire.

La T2 Maria Cristina D. dell'armatore D'amico. (fonte:www.naviearmatori.net)

All’inizio degli anni ‘50 la ricostruzione nazionale era oramai ben avviata e l’ottimismo derivante contagiava gran parte dei settori economici ed industriali del Paese.

Non fu da meno il settore navale mercantile che, grazie all’azione sinergica del Ministero della Marina Mercantile, dell’armamento statale e libero, conobbe un’incredibile incremento, sia dal punto di vista numerico che dal punto di vista del tonnellaggio, il quale in un lasso di tempo di 8 anni risultato praticamente decuplicato; infatti si passò dalle 385.716 tonnellate di naviglio del 1945 ad un tonnellaggio di 3.582.739 tonnellate nel 1953.

Ed è proprio in questo nuovo periodo di fulgore che vengono concepite e successivamente costruite  le navi che sono le protagonista di questo breve lavoro.

La turbonave Andrea Doria sullo scalo del Cantiere Ansaldo di Genova Sestri, pronta al varo. Ritenuta uno dei più famosi simboli della rinascita del paese e della marina mercantile nello specifico.

(fonte:www.naviearmatori.net)

CENNI PROGETTUALI SULLE NUOVE PETROLIERE

Le petroliere da 31.500 t.p.l., cui questo lavoro è dedicato, rivestono un ruolo importante nel novero delle costruzioni mercantili nazionali a cavallo tra gli anni 50’ e i primi anni 60’. Il progetto, caratterizzato da una linea elegante, capace di un’elevata velocità di circa 16 nodi ad andatura normale e dalla buona capacità di carico pari a 42.800mc circa, ebbe un ottimo successo commerciale tale da venir replicato in un totale di 24 esemplari sia per Armatori nazionali e sia per Armatori esteri.

Di seguito viene riportata una breve descrizione della disposizione degli spazi a bordo e le caratteristiche generali delle nuove costruzioni, basandosi sulla monografia del Cantiere Ansaldo SA. Di Genova relativa alla costruzione N°1521 per la Compagnia Internazionale di Genova (Villain & Fassio) che prenderà il nome di Italia Martelli Fassio.

- Lunghezza fuori tutto: 200 m (per altre unità viene riportato il valore di 203 m)

- Lunghezza fra le perpendicolari: 188,80 m

- Larghezza massima fuori ossatura: 26,20 m

- Altezza in fianco al ponte di coperta: 13,90 m

- Altezza del castello di prora: da 2,95 m a 4,45 m

- Altezza del cassero poppiero: 2,50 m

- Altezza delle tughe di centro nave e poppa: 2,50 m

- Immersione media alla portata lorda contrattuale dalla linea di costruzione: 10,30 m

- Portata lorda corrispondente: 31.500 t

- Stazza lorda: 19.000 t circa

- Capacità delle cisterne di carico alla massima capienza: 42.000   mc

- Potenza massima dell’apparato motore (circa 114 giri/1’): 16.000 ca

- Potenza normale dell’apparato motore (circa 110 giri/1’): 14.500 ca

- Velocità alle prove con dislocamento corrispondente alla portata lorda contrattuale e con potenza normale: 16,10 nodi

La portata lorda, all’immersione media di 10,30 m, era calcolata in 31.500 tonnellate metriche, comprendente i seguenti pesi:

- Carico liquido imbarcato nelle cisterne

- Olio combustibile e lubrificanti

- Acqua distillata

- Acqua dolce di lavanda e di alimento

- Acqua potabile

- Equipaggio con relativi effetti personali

- Viveri e dotazioni di consumo sia per il servizio di Coperta che per il servizio di Macchina

- Materiali di dotazione e parti di rispetto aggiuntive a quelle previste dai registri di classifica

Non sono conteggiati nella portata lorda e quindi vengono computati nel peso della nave i seguenti carichi liquidi:

- Acqua a livello nelle caldaie

- Acqua nel generatore di vapore di bassa pressione

- Acqua nei condensatori e negli evaporatori

- Acqua nei deareatori / riscaldatori

- Acqua di mare nelle tubazioni di circolazione

- Acqua dolce, nafta nelle tubolature

- Liquidi non pompabili in sentina

La portata lorda di progetto era ovviamente soggetta a variazioni in seguito ad aumenti o diminuzioni di peso seguenti a lavori extra o modifiche richieste durante la costruzione.

Gli spazi a bordo dedicati ai vari carichi liquidi erano così suddivisi:

- Olio Combustibile: nelle cisterne prodiere e poppiere, nelle celle del doppio fondo N°1 e nelle cisterne di decantazione alla massima capienza (3.300 mc)

- Cassa olio lubrificante per il riduttore: cella N°3 del doppio fondo (13 mc)

- Acqua dolce d’alimento per le caldaie: nel doppio fondo N°2 e nelle due casse a prora del locale timoneria; queste ultime potevano essere anche destinate a contenere acqua distillata (250 mc)

- Acqua dolce di lavanda o eventuale acqua d’alimento: nel doppio fondo N°4 nel gavone di poppa e nella cassa posta all’estrema poppa (320 mc)

- Acqua dolce di lavanda: nelle due casse poste a poppavia del cofano turbine sul ponte di coperta (80 mc)

- Acqua dolce potabile: contenuta in due casse, una nella tuga di mezzanave ed una sul ponte di coperta a poppavia del cofano turbine (55 mc)

- Acqua di zavorra: nelle cisterne d’assetto prodiere e nel gavone di prora (1.530 mc)

- Eventuale acqua di zavorra poteva essere contenuta nelle cisterne prodiere dell’olio combustibile (2.080 mc)

- Cisterne per il carico, in numero di 30 (42.800 mc)

L’ammontare totale dei carichi liquidi presenti a bordo era quindi di circa 50.428 mc; era inoltre disponibile uno spazio per il carico asciutto posto sotto il castello di prora, servito da un apposito boccaporto, della capacità complessiva fuori ossatura di 800 mc.

Viene ora dato un breve accenno all’apparato motore che fu destinato ad equipaggiare queste unità, è opportuno specificare che tutte le navi di questa serie erano turbonavi tranne il Sicilmotor, costruito dall’Ansaldo di Genova - Sestri ed armato dalla società “Sicilnaviglio” di Genova, facente parte del gruppo Italnavi, infatti questa unità venne dotata di un apparato motore a combustione interna che per le sue caratteristiche e peculiarità merita un paragrafo a parte.

Imbarco di una caldaia Foster Wheeler tipo D prodotta dallo Stabilimento Meccanico Ansaldo di Sampierdarena, destinato ad una cisterna in costruzione presso l'omonimo cantiere (fonte:www.fondazioneansaldo.it)

L’apparato evaporatore di queste turbocisterne era formato da due caldaie Ansaldo – Foster Wheeler tipo D (analoghe a quella nella figura poco sopra), dotate di surriscaldatore, economizzatore e desurriscaldatore. Il vapore all’uscita del surriscaldatore aveva una pressione di 42 kg/cm2 ed una temperatura di 450°C (corrispondenti in misure anglosassoni rispettivamente a 600 psi e 850°F).

Il gruppo turboriduttore era composto da una turbina di AP (Alta Pressione) e una di BP (Bassa Pressione) che trasmettevano la potenza alla singola linea d’asse per mezzo di un riduttore ad ingranaggi a doppia riduzione. La turbina per la marcia AD (Indietro) era incorporata nella turbina di BP ed era capace di fornire una potenza pari a circa il 50% di quella della marcia avanti.

Le due turbine era poste a proravia del riduttore e collegate ad esso tramite un giunto elastico a denti. La turbina di AP era di tipo misto, ad azione e reazione , con una ruota ad azione parzializzata e un tamburo a reazione composto da 24 coppie aventi un diametro variabile da 368 a 540 mm.

La turbina di BP era del tipo a reazione a doppio flusso, costituita per la marcia avanti da un tamburo palettato con 16 coppie per parte, aventi un diametro variabile da 760 a 110 mm, e per la marcia addietro da due ruote tipo Curtis del diametro di 1000 mm. I rotori delle due turbine era realizzate in acciaio fucinato ad elevato limite d’elasticità mentre ugelli e palettature fisse erano realizzate in acciaio inossidabile.

Le casse delle turbine erano realizzati in acciaio fuso per quella di AP e per la turbina della marcia AD, mentre quella di BP era realizzata tramite una struttura mista di acciaio fuso e di lamiera saldata. Il sistema era dotato di opportuni collegamenti tra le turbine tali che in caso di emergenza fosse possibile l’utilizzo di una sola turbina. Gli spillamenti del vapore erano tre:

- Dalla turbina di BP per il funzionamento del generatore.

- Dallo scarico della turbina di BP per il supplemento alla tubolatura di scarico vapore dei macchinari rotativi.

- Dalla turbina di BP per l’alimento del primo stadio del riscaldatore d’alimento e per l’impianto evaporatore.

Gruppo Turboriduttore Ansaldo al banco (tratto da Macchine Marine Vol.III op. cit. bibl)

Il complesso dei ruotismi era composto da due pignoni di prima riduzione a dentatura bielicoidale collegati a mezzo di prolungamenti ai pignoni mediante accoppiatoi, due ruote di prima riduzione ingranavano sui detti pignoni e una ruota lenta su cui agivano due pignoni di seconda riduzione facenti parte degli alberi delle ruote di prima riduzione. Per la trasmissione del moto alla singola elica quadripala era inoltre installato a bordo un cuscinetto reggispinta, a poppavia del riduttore, del tipo a doppia serie di pattini oscillanti.

Come già detto tale apparato consentiva di disporre, a pieno carico, di una potenza normale di 14.500 cavalli asse a 114 giri al minuto dell’elica per una velocità di 16 nodi circa, l’elica era di tipo quadripala ed il consumo normale giornaliero di combustibile ammontava a circa 85 tonnellate[1].

Lo scarico del vapore, dopo il passaggio in turbina, avviene il un condensatore di tipo rigenerativo

 


[1] Costigliola T. La Flotta che visse due volte (op. cit. bibl.) pag. 485.

Nella pagina seguente: il gruppo turboriduttore della T/c Adriana Augusta, a destra sullo sfondo è visibile il pannello di controllo della motrice con i due volanti d’immissione del vapore alla turbina. (fonte:www.naviearmatori.net)

Passiamo ora ad illustrare brevemente le peculiarità dell’apparato motore dell’unica motocisterna di questa serie: il Sicilmotor; essendo la Sicilnaviglio, armatrice della nave, facente parte dell’Italnavi ed essndo entrambe di proprietà Fiat, era più che logico che la medesima azienda torinese provvedesse alla fornitura degli apparati motori delle navi della flotta.

Il Sicilmotor occupa di buon diritto un posto d’onore nella tecnica della motoristica navale nazionale del secondo dopoguerra in quanto fu uno dei primi esempi di applicazione di un motore Diesel a semplice effetto, con un potenza superiore ai 10.000 cv/asse ottenuta su un singolo asse di propulsione, questo motore denominato 7512 S fu davvero un brillante esempio di motore diesel a due tempi sovralimentato, tale che la Fiat Grandi Motori che ne curò progetto e costruzione ricevette il premio ANIAI 1959 quale migliore realizzazione di ingegneria meccanica.

Il 7512 S era un motore diesel a 2 tempi, a semplice effetto e sovralimentato, dotato di 12 cilindri del diametro di 750 mm e dalla corsa di 1320 mm, funzionante con nafta da caldaie. Al regime di 132 giri/min la potenza risultava di 14.400 cv. La sovralimentazione era fornita da tre turbosoffianti  tipo “Brown Boveri”, costruiti dalla Fiat su licenza, che realizzavano il primo stadio di compressione dell’aria, il secondo stadio avveniva nelle 12 pompe d’aria a stantuffo affiancate ognuna ai rispettivi cilindri. A pieno carico ad un numero di giri variabile dai 110 ai 130 giri/min la potenza all’asse variava da 9.200 a 14.000 cv/asse, le relative velocità da 14,6 a 16,7 nodi e le temperature dei gas di scarico da circa 260 a circa 340° C. Il consumo orario di nafta variava da 1400 a circa 2350 kg/h ed aumenta di 200 kg/h includendo il consumo degli apparati ausiliari.

Alla velocità di 16 nodi, il consumo giornaliero di nafta era nell’ordine di 50 t/24h, inclusi i consumi degli ausiliari, con un consumo orario specifico di 173 g/cv asse, mentre le turbocisterne della medesima serie avevano un consumo giornaliero nell’ordine di 80 - 85 t/24h.

Una spiegazione più dettagliata sarà fornita nel capitolo dedicato alla singola nave.


Il motore diesel Fiat 7512 S destinato al Sicilmotor, fotografato in officina di montaggio (fonte: Bollettino Tecnico Fiat)

Piano testate del FIAT 7512 S (fonte: Bollettino Tecnico Fiat)

Schema dell’Apparato Motore

della

M/c Sicilmotor

Tratto da: Caocci O., Macchine Marine – Vol. IV: I Motori a Combustione Interna (Op. cit. bibl) fig. 438 - 439


Le unità di questa serie avevano un’equipaggio che ammontava ad una cinquantina di  elementi, la già citata Italia Martelli Fassio, secondo i documenti del cantiere, aveva un’equipaggio cosi suddiviso: 15 Ufficiali, 10 Sottufficiali e 26 uomini della Bassa Forza, per un totale di 51 elementi, compreso il pilota (se imbarcato), lo standard degli alloggi a bordo era elevato per le costruzioni navali dell’epoca, basti pensare che cabine, mense ed aree comuni erano dotate di aria condizionata. Inoltre la turbocisterna Adriana Fassio fu la prima nave mercantile Italiana a disporre di alloggi singoli per ognuno dei membri del suo equipaggio, un segnale importante del cambiamento in atto nello stile di vita dei marittimi imbarcati che potevano ora disporre a bordo di maggiori comodità e comfort atti ad alleviare la monotonia dei lunghi imbarchi in special modo a bordo delle petroliere. Tra gli altri comfort presenti a bordo vanno ricordati una biblioteca ed il cinematografo.


La sala equipaggio della turbocisterna Adriana Fassio in cui si può notare l'elevato standard degli allestimenti interni di queste unità.

(fonte: Vocino M., La nave nel tempo, op. cit. bibl.)

Vista dell'elegante Sala da pranzo Ufficiali del Ginevra Fassio.

(fonte: Vocino M., La nave nel tempo, op. cit. bibl.)

Di seguito viene fornita per sommi capi una descrizione generale di queste navi; costruite mediante il sistema a due paratie longitudinali gemelle e del tipo a singolo ponte con copertini inferiori e con castello, tuga centrale su più livelli e cassero poppiero con ulteriori tughe sullo stesso. Il ponte di comando era posto sulla tuga di centro nave mentre l’apparato motore, come anche il fumaiolo di forma elegante ed aerodinamica , era posto a poppa in corrispondenza del cassero di poppa, la propulsione era affidata ad una singola elica quadripala.

Lo scafo aveva una prora inclinata in avanti con bulbo nella parte immersa e poppa del tipo “a incrociatore”; il ponte di coperta non aveva insellatura per tutta la lunghezza della nave mentre il castello presentava un’insellatura pronunciata, il ponte di coperta e quelli delle sovrastruttura avevano un bolzone di 520 mm mentre i copertini non lo avevano.

Il camminamento da prora a poppa era facilitato, specialmente in condizioni di mare agitato, dalla presenza di una passerella metallica, soprelevata rispetto al ponte di coperta, che univa il castello alla tuga di centronave e quest’ultima al cassero poppiero.

Nel locale dell’apparato motore, per quasi tutta l’estensione dello stesso, era presente un doppio fondo cellulare atto a contenere acqua dolce ed olio per i servizi di macchina e di scafo.

Le dotazioni per la movimentazione del carico prevedevano due coppie di bighi (l’Adriana Augusta ne imbarcava una ulteriore coppia per un totale di sei) e quattro turbopompe da 1000 mc/ora per la caricazione e la discarica, mentre il Sicilmotor aveva due elettropompe e due motopompe, ognuna di esse capace di una portata di 1.200 mc/ora.

Per sostenere l’antenna del radar e per le segnalazioni a bandiere era installato in controplancia un’alberetto metallico di forma aerodinamica.

Ingrandimento in cui viene mostrato l'alberetto della M/c "Sicilmotor", armata dalla Italnavi di Genova. (tratto da: Bollettino tecnico fiat A. 11 – N° 4, op. cit. bibl.)

Gli spazi compresi sotto il ponte di coperta erano suddivisi per mezzo di paratie stagne trasversali nei seguenti compartimenti, di seguito elencati, a partire da prora:

-      Gavone di prora con soprastanti depositi del nostromo e pozzo delle catene.

-      Cisterne prodiere, di sinistra e dritta, per acqua di zavorra.

-      Cisterne prodiere, di sinistra e dritta, per olio combustibile ed eventualmente acqua di zavorra, nello stesso locale era sito il locale pompe prodiero con il relativo cofano.

-      Intercapedine prodiera.

-      Gruppo delle cisterne del carico, che era costituito da dieci cisterne centrali e venti cisterne laterali.

-      Intercapedine poppiera.

-      Cisterne alte poppiere per olio combustibile, nelle stesse era ricavato il locale pompe poppiero con relativo cofano.

-      Locale Caldaie ed Ausiliari.

-      Locale turboriduttore, turboalternatori ed ausiliari.

-      Gavone di poppa, con soprastante locale della macchina del timone, e casse d’acqua d’alimento.

I locali al disopra del ponte di coperta erano disposti nel castello, nella tuga di mezzanave e nel cassero poppiero erano disposti nel seguente ordine da prora a poppa:

-      Nel castello di prora: lo spazio per il carico asciutto, il deposito del nostromo, la fanaleria (proiettore Suez) e la cala delle vernici. Adiacente alla paratia del castello si trovava la tuga del locale pompe di prora.

-      Nella tuga di mezzanave sul ponte di coperta:depositi di vario genere, il laboratorio del carpentiere, il locale igiene per il personale di terra, la cassa d’acqua potabile, la cassa di raccolta degli scarichi e lo spazio per lo stivaggio delle manichette.

-      Al secondo livello della tuga di mezzanave: gli alloggi per i quattro Ufficiali di coperta con relativo locale igienico; i locali medici comprendenti ambulatorio, infermeria cabina d’isolamento, il locale di disinfezione e locali igienici attigui; la segreteria di coperta , due depositi ed il locale condizionatori d’aria.

-      Al terzo livello della tuga di mezzanave: gli appartamenti del comandante e dell’armatore composti entrambi da salotto, cabina e locale igienico; il salone con riposteria attigua, le cabine del pilota, del cameriere ed un’altra ad uso di un’ufficiale di coperta, due depositi.

-      Nella tuga di navigazione: plancia, sala nautica, stazione R.T., cabina del marconista , locale radar, locale girobussola e locale delle batterie di accumulatori.

-      Sul cassero di poppa: le cabine e i locali igienici dei sottufficiali e della bassa forza, due depositi per le cerate, lavatoio per la bassa forza, il locale dei macchinari frigoriferi, cabina ristoro, cambusa, le celle frigorifere per la conservazione dei cibi, la stazione CO2 e due depositi.

-      Adiacente alla paratia del cassero di poppa era sita la tuga del locale pompe di poppa.

-      Nella tuga del cassero di poppa: l’alloggio del direttore di macchina con salotto, cabina e locale igienico; gli alloggi degli ufficiali di macchina con i relativi locali igienici, le mense dei sottufficiali e bassa forza, la segreteria di macchina, la sala soggiorno per l’equipaggio, la cucine ed un deposito.

-      Sul ponte delle imbarcazioni poppiero: la mensa ufficiali con annesso riiposto e la relativa sala soggiorno ed i cofano di macchina e delle caldaie.

Interno di una cisterna della T/c Adriana Fassio,  fotografata durante la costruzione della nave presso i Cantiere Ansaldo di Livorno.

(fonte:www.fondazioneansaldo.it)

L’allestimento interno di una 31.500 nelle foto dell’Adriana Augusta

Le immagine seguenti sono tratte da sito www.naviearmatori.net

Centrale di controllo del carico

Mensa Ufficiali

Sala Nautica

Sala Radio

Le dotazioni di salvataggio erano composte da quattro lance, di cui due a remi e due dotate di motore monocilindrico Buck, poste a centro nave e due sul ponte imbarcazioni del cassero poppiero, oltre che da dotazioni individuali quali, ad esempio,  salvagenti ed anulari, mentre per le esigenze di servizio e di trasbordo, da e verso la nave, vi era una motobarca da 5,50 m.

Per concludere questa breve descrizione generale di questa serie di turbocisterne, è opportuno soffermarsi brevemente su uno degli elementi distintivi della loro linea ovvero il basso fumaiolo, di forma aerodinamica e slanciata che contribuiva alla generale eleganza di queste costruzioni.

Durante i primi viaggi delle prime unità della serie venne evidenziata l’incapacità del fumaiolo, nella sua forma originaria, nel convogliare adeguatamente i fumi della combustione lontano dalla nave facendo si che le zone aperte verso poppa fossero quasi impraticabili. Gli uffici tecnici dei vari armatori ovviarono al problema installando un canotto di prolunga sulla sommità del fumaiolo.[1]

 


[1] Massone V., Una Vita sul Mare (op. cit. bibl), pag.87

In entrambe le immmagini è raffigurato il fumaiolo della turbocisterna Argea Prima nelle sue diverse versioni, a sinistra la versione originale di cantiere e, a destra, si nota l'aggiunta del canotto di prolunga per risolvere il problema dei fumi.

[1] Massone V., Una Vita sul Mare (op. cit. bibl), pag.87

In questo ingrandimento, la turbocisterna sovietica Dzhuzeppe Garibaldi mostra la nuova forma del fumaiolo, tipico delle più recenti “31.500“. (fonte:www.naviearmatri.net)

Sulle costruzioni più recenti della serie, il problema della ricaduta dei fumi venne ovviato direttamente in cantiere durante l’allestimento delle unità mediante l’adozione di un nuovo fumaiolo di forma leggermente troncoconica e di altezza maggiore, in alcune di queste nuove realizzazione era altresì posto un canotto di prolunga e nel caso della “Picci Fassio” vi era anche un piccolo alettone che si protendeva verso poppa per massimizzare l’efficienza nella dispersione dei fumi.

In questo ingrandimento, la turbocisterna sovietica Dzhuzeppe Garibaldi mostra la nuova forma del fumaiolo, tipico delle più recenti “31.500“.

(fonte:www.naviearmatri.net)

Il fumaiolo della turbocisterna Picci Fassio, ove si può ben vedere il piccolo alettone alla sua sommità (fonte:www.naviearmatori.net)

CANTIERI E COMMESSE

Siccome il progetto di massima di queste turbocisterne fu realizzato dell’Ufficio Tecnico dell’Ansaldo, lo stesso cantiere genovese operò come capo commessa, compresi i cantieri del Muggiano e di Livorno sempre di proprietà dell’Ansaldo, per un totale di 22 unità, mentre i cantieri di Trieste e Monfalcone del gruppo C.R.D.A. ebbero la commessa di una nave ognuno.

Nella seguente tabella viene riportata l’esatta ripartizione delle commesse tra i vari cantieri.

Cantiere

Numero di Unità Commissionate

Ansaldo – Stabilimento di Genova Sestri

14

Ansaldo – Stabilimento del Muggiano

5

Ansaldo – Stabilimento di Livorno

3

CRDA – Cantiere Navale di Monfalcone

1

CRDA – San Marco di Trieste

1

E’ opportuno prima di continuare spendere qualche parola su questi cantieri, limitandoci all’immediato secondo dopoguerra quando videro la luce le “31.500”, in modo da rendere giustizia a queste grandi imprese che rappresentarono la punta di un settore industriale che il mondo invidiava all’Italia e di cui oggi, per scelte politiche e/o aziendali sbagliate, ne rimane una troppo piccola parte.

· Stabilimento Ansaldo di Genova Sestri

Duramente provato dai danni del conflitto, il cantiere Ansaldo di Genova Sestri seppe, in breve tempo, tornare a ricoprire un ruolo di primaria importanza nel settore cantieristico nazionale dando molta importanza alla produzione di elementi prefabbricati a terra. Dagli scali di questo antico cantiere scesero in mare alcune delle più famose realizzazioni navali italiane tra le quali si possono leggere i nomi di Rex, Littorio, Duilio, Bolzano, Roma, Augustus, AndreaDoria, Cristoforo Colombo, Gripsholm ed innumerevoli altre sia per armatori nazionali che stranieri. Tra le maggiori costruzioni mercantili dell’immediato secondo dopoguerra, oltre le 15 navi cisterna da 31.500 tpl., si possono ricordare le sette motonavi da carico secco costruite per la “Villain & Fassio” (Serie “Angela Fassio” e “Gimmi Fassio”), la turbocisterna Agrigentum da 52.000 tpl. E le già citate turbonavi passeggeri Andrea Doria e Cristoforo Colombo per la Società Italia.

Aveva, nel 1958, un’estensione di 240.000 mq di cui 80.000 mq di fabbricati coperti, quali uffici, officine e magazzini, e 160.000 mq di aree scoperte. Capace di una potenzialità annua di 45.000 tonn. di materiale da scafo e 16.000 tonn. di materiale d’allestimento e apparati motore, potendo costruire navi mercantili di qualunque tipo fino a 65.000 tpl.

Antistante al cantiere vi era uno specchio acqueo riservato e delimitato da dighe, per un’area complessiva di 250.000 mq, suddiviso in due distinti bacini: quello a levante servente le officine di allestimento e quello di ponente destinato all’effettuazione dei vari in condizioni di calma e sicurezza.  Il cantiere disponeva di due scali fissi in muratura da 250 m di lunghezza utile e tre volanti con taccate mobili da 200 m di lunghezza utile.


Pianta del Cantiere Ansaldo di Genova Sestri (tratto da "Ansaldo Navi" op. cit. bibl)

L’area degli scali e quella del piazzale di prefabbricazione erano servite da un impianto di sollevamento costituito da 33 teleferiche correnti su funi tesate lungo una travata che poggia su quattro piloni a monte ed altri quattro a mare.

La banchina di allestimento, della superficie di 16.000 mq, veniva utilizzata per lo stoccaggio od il montaggio delle strutture prefabbricate o dei materiali in attesa di imbarco, era servita da gru mobili su rotaie, di cunicoli per il passaggio di tubature ed era connessa alla rete ferroviaria mediante tre binari tronchi.

Vista del Cantiere Ansaldo di Genova Sestri durante il varo della turbocisterna Agrigentum da 52.000 tpl.

· STABILIMENTO ANSALDO DEL MUGGIANO

Gravemente toccato dagli eventi bellici, come del resto l’intero golfo della Spezia, questo moderno cantiere seppe in breve tempo dotarsi di infrastrutture e macchinari d’avanguardia tali da essere uno dei pionieri della moderna tecnica della prefabbricazione in campo navale. Il cantiere prima del conflitto costruì numerose unità militari tra cui l’incrociatore leggero Duca degli Abruzzi e numerosi sommergibili e naviglio sottile. Tra le maggiori costruzioni navali del dopoguerra prodotte da questo stabilimento si possono ricordare una serie di dodici rimorchiatori d’alto mare per l’Unione Sovietica, la motonave Europa del Lloyd Triestino, il rimorchiatore fluviale Riode La Plata per l’Argentina e soprattutto la fortunata serie delle motonavi da carico della serie “Capitani d’Industria” per Bibolini a cui seguirono i tipi similari migliorati della serie “Laminatore” per la Ilva – Sidermar. Attrezzato per la costruzione di unità mercantili fino a 45.000 tpl, con un potenzialità annua di 20.000 tonn di materiale da scafo e 7.000 tonn di materiale d’allestimento e di apparati motore. Il cantiere si estendeva su una superficie complessiva pari a 185.000 mq di cui 50.000 mq di fabbricati e 135.000 mq di aree esterne per le lavorazioni. Gli scali principali del cantiere adiacenti al piazzale di prefabbricazione erano in cemento armato, della lunghezza utile di 185 m, ed erano serviti da otto gru scorrevoli di cui 4 da 35 t e quattro da 5 t; in aggiunta agli scali principali, il cantiere era dotata nella parte orientale dello stabilimento di ulteriori quattro scali, della lunghezza utile di 190 m, usati come ausilio ai primi o per costruzioni minori e serviti da cinque gru a colonna da 5 t.

L’area attigua alla darsena d’allestimento raggiungeva la superficie di 19.000 mq e veniva usata come deposito o per il montaggio degli elementi a bordo, che avveniva sull’attigua banchina che si sviluppava per 650 m ed servita da gru scorrevoli ed altri servizi.

Pianta del cantiere Ansaldo del Muggiano (Tratto da "Ansaldo Navi" op. cit. bibl.)


La motonave Oscar Sinigaglia della serie “Capitani d’Industria” costruita per la compagnia "Carboflotta" (Bibolini) di Genova, pronto al varo da uno degli scali del cantiere del Muggiano (fonte:www.naviearmatori.net)

STABILIMENTO ANSALDO DI LIVORNO

Il cantiere navale di Livorno era capace di costruire qualunque tipo di nave mercantile fino a 85.000 tpl, con una potenzialità annua di 15.000 tonn di materiale da scafo e 7.000 tonn tra materiale d’allestimento e apparati motore. Tra le principali costruzioni navali del cantiere possiamo citare l’esploratore sovietico Tashkent e nel secondo dopoguerra numerose navi militari minori per la Marina Militare e per marina estere, la motonave Enotria dell’Adriatica, oltre che a navi passeggeri per la Grecia e la Turchia. La superficie occupata dal cantiere era di 235.000 mq totali ripartiti in 65.000 mq di fabbricati e 170.000 mq di aree aperte. Nella zona nord-est del cantiere vi era una darsena per l’allestimento delle nuove costruzioni per un’area di 40.000 mq.

Un’altra banchina d’allestimento era situata all’interno del porto Mediceo collegato all’attigua darsena d’allestimento da un canale con ponte girevole. Il cantiere disponeva di quattro scali in cemento armato di lunghezza utile fino a 265 m, uno rivolto ad occidente verso il mare aperte ed i rimanenti tre verso la darsena interna del porto mediceo, questi ultimi erano del tipo a fossa con porta stagna e uno di essi era del tipo a rotaie con carrello centrale. I mezzi di sollevamento a disposizione degli scali comprendevano due gru scorrevoli da 60 t, due da 35 t, una da 25 t più altre di minore portata. Le aree delle banchine d’allestimento della darsena e del molo mediceo si estendevano su una superficie di 13.000 mq, le banchine avevano una lunghezza totale di 400 m rispettivamente di 190 m sulla darsena e di 210 sul molo mediceo, entrambe le banchine sono servite da gru scorrevoli, da 5 t per quelle sulla darsena e da 30 t quelle del molo mediceo.

Pianta del cantiere Ansaldo di Livorno

(tratto da "Ansaldo Navi" op. cit. bibl.)

· IL CANTIERE C.R.D.A DI MONFALCONE

Come praticamente tutti i cantieri nazionali, anche lo stabilimento isontino sito nel Golfo di Panzano subì devastanti danneggiamenti in seguito al conflitto ma, grazie alla competenza professionale ed allo spessore umano di dirigenti quali Nicolò Costanzi ed Egone Missio, seppe velocemente riprendersi fino a raggiungere un ruolo di primissimo piano nel novero della cantieristica giuliana prima e nazionale poi.

Nell’immediato secondo dopoguerra da questi scali scesero i primi transatlantici fatti costruire in Italia dalla fine della guerra ovvero le motonavi Giulio Cesare per la Soc. Italia e Africa per il Lloyd Triestino, ed innumerevole altro naviglio quale le turbonavi merci Pia Costa e Maria Costa per la Costa Armatori di Genova unitamente a molte altre unità sia mercantili che militari, diventando un centro di rilievo specialmente nella costruzione di navi cisterna. Nel medesimo periodo nel suddetto cantiere si verificarono due eventi molto significativi, quasi un passaggio di consegne, per la Marina Mercantile quali la demolizione di ciò che rimaneva del Conte di Savoia e la ricostruzione del Conte Biancamano.

Nel 1958 l’area del cantiere si estendeva per 673.200, comprendendo anche le strutture ricettive ad uso dei dipendenti; gli scali di costruzione erano dieci, tutti in muratura, di cui uno di 218 m, tre di 215 m, tre di 160 m ed uno di 120 m. Lo scalo principale era servito da gru della capacità di 50 t, cinque scali era serviti da dodici gru fisse e mobili da 20 t ed i restanti quattro da un sistema a teleferica “Bleichert” da 4 t.

Le banchine d’allestimento avevano uno sviluppo lineare di più di un chilometro ed erano dotate di tredici gru fisse e semoventi, una delle quali era capace di sollevare fino a 90 t, per l’imbarco di materiali a bordo delle costruzioni in allestimento, il cantiere disponeva inoltre di un piccolo bacino galleggiante e di un raccordo alla rete ferroviaria che lo collegava alla stazione di Ronchi dei Legionari Sud.

Due istantanee raffiguranti il varo della m/c Taormina costruita a Monfalcone per l’armatore Cameli di Genova, originariamente pensata come nave fattoria venne modifica in petroliera in corso d’opera.

(fonte per entrambe le immagini:www.naviearmatori.net)

Pianta del cantiere navale di Monfalcone del 1958. (tratto da "Storia del cantiere navale di Monfalcone" op. cit. bibl.)

IL CANTIERE C.R.D.A SAN MARCO DI TRIESTE

La situazione nell’immediato dopoguerra del grande stabilimento Triestino fu più complessa in quanto ai problemi insiti nel processo di ricostruzione bisognava aggiungere la travagliata situazione della città di Trieste posta sotto il controllo militare alleato, unitamente al Territorio Libero Triestino, e la situazione diplomatica molto tesa con la Jugoslavia di Tito.

Non si può parlare adeguatamente di questo cantiere senza citare alcune delle costruzioni navali varate dai suoi scali tra le due guerre, nomi scolpiti a caratteri dorati in un ipotetico albo d’oro delle costruzioni navali mondiali, quali la M/n Victoria per il Lloyd Triestino, Il Conte di Savoia per ltalia Flotte Riunite e molte costruzioni militari quali, a mo di esempi, l’incrociatore leggero Giuseppe Garibaldi e le navi da battaglia Vittorio Veneto e Roma.

Tra alti e bassi comunque il cantiere seppe risollevarsi dalla grave situazione in cui versava alla fine del conflitto ed a metà degli anni 50’ si estendeva su di una superficie di 195.400 mc e disponeva di tre scali lunghi rispettivamente 160, 200 e 280 m, serviti da tredici gru semoventi a torre con bracci mobili capaci di 25 t. Per l’allestimento delle unità si poteva contare su circa 565 m di banchine servite da gru, era inoltre collegato alla rete ferroviaria da un tratto di 2500 m circa di binari.


Cantiere San Marco, Varo della M/n Victoria (II) per il Lloyd Triestino.

(fonte:www.naviearmatori.net)

INTRODUZIONE ALLA RASSEGNA DELLE UNITA'

Finita questa breve rassegna dei cantieri che furono i costruttori delle petroliere da 31.500 tpl, prima di cominciare la rassegna della unità è opportuno fare qualche precisazione.

Innanzitutto è opportuno precisare che le tonnellate di portata lorda possono variare, in eccesso oppure in difetto, di qualche centinaio di tonnellate dal valore “medio” di 31.500 tpl.

I dati per le navi costruite entro il 1960 sono presi, principalmente dall’annata 1959/60 del “Lloyd’s Register of Shipping”(op. cit. bibl.), per quelle successive generalmente viene usata come fonte primaria “L’Almanacco Marittimo Italiano 1963”(op. cit. bibl.).

Per quanto riguarda le varie date inerenti la “vita” delle singole navi verranno inserite solo quelle conosciute, è quindi possibile trovare qualche data mancante per qualche unità e di ciò l’Autore si scusa.

Come è ben risaputo, una nave mercantile quale è una nave cisterna non ha una vita “movimentata”, più tipica magari delle navi militari per una serie di ragioni direttamente legati al tipo e all’uso di questa tipologia di naviglio, le unità mercantili siano esse navi passeggeri in servizio di linea o all’estremo opposto carrette del mare svolgono un servizio silenzioso ed incessante che poco si presta ad eventi eclatanti tranne che, purtroppo nella maggioranza degli eventi, in casi drammatici. Per questi motivi descrivere la storia di una nave mercantile non è cosa facile, specie se non si dispone di testimonianze di marittimi imbarcati o comunque testimonianze in presa diretta, ad ogni modo in questo lavoro si cercherà di mettere il massimo impegno nel descrivere la “vita” delle unità che ci si accinge a trattare.

Come già ribadito verrà dato conto di eventi particolari, se conosciuti, occorsi alle varie unità in oggetto oltre a fornire un breve cenno, limitatamente al ramo cisterniero se non per inevitabili richiami ad altro tipo di naviglio, sulle varie compagnie armatoriali, se non altro per quelle maggiori.


Silhoutte di una "31.500" tpl. (fonte:www.mucamonfalcone.it)

LE TURBOCISTERNE DELLA VILLAIN & FASSIO

La  “Villain e Fassio," Società anonima italiana di navigazione mercantile” venne fondata il 24 Luglio 1929, da Ernesto Fassio, a Genova in Via Garibaldi 2 con un capitale sociale di 3.000.000 di Lire e attiva principalmente nel trasporto petrolifero. In concomitanza alla prima venne fondata anche la “Villain e Fassio, Società anonima di navigazione”, con  4.000.000 di Lire di capitale sociale, che aveva in gestione la nave passeggeri Franca Fassio, impiegata sulla linea sovvenzionata a cadenza settimanale Genova – Barcellona.

La flotta cisterniera della società prima del conflitto arrivò ad una consistenza di 24.000 t affrontò una delicata fase iniziale dovuta alla grave depressione imperante all’epoca ma comunque perseverò nel suo operato incoraggiata dall’incremento del mercato petrolifero nazionale e dei traffici che di conseguenza si rendevano necessari per il suo sostentamento, non disponendo all’epoca, l’Italia, di giacimenti petroliferi nazionali, che vennero scoperte nel secondo dopoguerra (uno dei più noti fu quello di Cortemaggiore nel piacentino), a riprova della bontà di questa scelta, la richiesta d’importazione di prodotti petroliferi continuò a crescere dalle 461.000 t importate nel 1926 fino ai circa 4 milioni di tonnellate (di cui 1,5 – 2 milioni erano usati per bunkeraggio) alla vigilia del conflitto così come la consistenza della flotta petroliera nazionale che passò da 101.000 t nel 1924 a 400.000 t nel 1939, pari al 12% del tonnellaggio nazionale complessivo.

Il conflitto rappresentò una tragedia per le fortune della compagnia Genovese che si vide provata di tutte le sue navi per eventi bellici, tre vennero affondate per azione nemica (Alberto Fassio, Franca Fassio e Picci Fassio) e due requisite dagli alleati in seguito al loro internamento in Messico (Giorgio Fassio) e Venezuela (Jole Fassio). Alla fine del conflitto, Fassio cominciò un’incessante opera di ricostruzione della sua flotta, il cui ramo cisterniero rinacque  nel 1950 con la fondazione, a Genova in Via Balbi 2, della “Compagnia Internazionale di Genova per il Commercio, Industria e Navigazione” anche conosciuta come “Cia Marittima Effe S.p.A.), dedicata alla gestione delle petroliere della Compagnia, la quale riuscì ad ottenere tre TE-2 dagli Stati Uniti (Alberto Fassio, Federico G. Fassio e Franca Fassio) con cui riprendere il trasporto di prodotti petroliferi.

L’ampliamento della flotta cisterniera Fassio proseguì con l’acquisto, tra il 1952-53, di tre motocisterne da 17.000 tpl costruite in Germania (Ferdinando Fassio, Giovanni Fassio ed Itala Fassio), che rappresentarono le prime navi petroliere fatte costruire ex novo dalla compagnia e non acquistate di seconda mano.

La Turbocisterna "Ernesto Fassio Jr." al passaggio del Canale di Suez (fonte:www.naviearmatori.net)

Successivamente la flotta sociale venne ampliata con l’acquisto di due nuove turbocisterne da 19.000 tpl (Ernesto Fassio Jr. e Giorgio Fassio) costruite dai CNR di Ancona nel 1954.

E, finalmente, nel 1957 venne intrapresa la costruzione della prima delle cinque “31.500” per quella che era una delle maggiori compagnie marittime dell’Armamento Libero Italiano, nello stesso anno vi fu un riassetto societario che vide la “Villain e Fassio” (gestore delle navi da carico e bananiere) fondersi con la “Compagnia Internazionale di Genova” formando la “Villain e Fassio – Compagnia Internazionale di Genova” con un capitale sociale di 450.000.000 di Lire.

Le altre quattro “31.500” vennero costruite tra il 1959 ed il 1961, rispettivamente 2 nel 1959, una nel 1960 e l’ultima nel 1961. L’entrata in servizio di queste cinque turbonavi coincise con un fortunato periodo caratterizzato da un noleggio quinquennale di tutte le petroliere di Fassio da parte della “Shell” a condizioni vantaggiosissime per la compagnia genovese.

Nel suo periodo di massimo fulgore la società assurse ad una posizione di primissimo piano nella gerarchia degli armatori italiani, con una flotta che nel 1962 assommava a 21 navi per un totale di oltre 369 mila tonnellate di stazza lorda. Dalla seconda metà degli anni 60’, incominciò un periodo di grave crisi per via della contrazione del prezzo dei noli, la società genovese si vide costretta a disarmare e/o vendere gran parte delle sue navi, la già grave situazione venne ulteriormente aggravata dalla morte improvvisa di Ernesto Fassio nel Luglio 1968. Tra alterne vicende la società, oramai un lontano ricordo di quella dei tempi d’oro, continuò l’attività fino al 1978 quando venne avviata la procedura di fallimento, ponendo fine a quella fu una delle più grandi compagnie marittime genovesi e nazionali del secondo dopoguerra.

Nella Pagina Seguente: La M/c Ferdinando Fassio (fonte:www.naviearmatori.net)

Bandiera sociale della Villain & Fassio

Al 1963 la società aveva i seguenti riferimenti societari:

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova –

Società Riunite di Navigazione,

Genova, Via De Amicis 2,  Telefono 590.441,  Telegrafo “Villanto


Il Cav. Ernesto Fassio fotografato al termine del varo della bananiera Marzia Tomellini Fassio, Riva Trigoso, 15 Giugno 1957.

La turbocisterna Italia Martelli Fassio alla fonda (fonte:www.naviearmatori.net)

 

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruz.

N° di Costruz.

Armat.

 

1957

Ansaldo -      Genova Sestri

1521

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova

 

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

20.762

12.180

31.395

IBIC

 

Prima nave delle cinque “31.500” che comporranno la spina dorsale della flotta cisterniera della “Villain & Fassio” nel periodo di massimo splendore del gruppo genovese. All’atto della sua consegna, il fumaiolo venne dipinto con i colori della “Cia Marittima Effe S.p.A., essendo stata consegnata prima del riassetto societario avvenuto successivamente nello stesso anno.

Lo scafo della costruzione 1251 prende forma su uno degli scali del cantiere Ansaldo di Genova Sestri (Fonte:www.fondazioneansaldo.it)

La nave venne varata il 18 Novembre 1956 e consegnata all’Armatore nel Luglio dell’anno successivo venendo immediatamente impiegata per viaggi a noleggio per la “Shell”.

Nel 1969, dopo dodici anni al servizio della “Villain & Fassio”, in un periodo di grave crisi societaria segnato ad un profondo ridimensionamento della flotta sociale, l’Italia Martelli Fassio venne venduta alla società “Victoria Tpt Corp.” di Monrovia (Liberia) e registrata nel medesimo porto con il nome di Minos, navigò sotto bandiera liberiana per altri otto anni, fino all’Agosto del 1977, quando venne disarmata e venduta per demolizione al cantiere di demolizione “Desguaces Cataluna” di Barcellona.

Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatore

Periodo di Proprietà

Italia Martelli Fassio

Cia Marittima Effe S.p.A. – Genova

1957

Italia Martelli Fassio

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova - Genova

1957 - 1969

Minos

Victoria Tpt Corp.

1969 - 1977

La petroliera Italia Martelli Fassio fotografata durante una manovra di ormeggio, assistita da due rimorchiatori, si noti che mostra ancora i colori della “Cia Marittima Effe”, fumaiolo arancione con banda bianca e due bande blu più sottili poste sia sopra che sotto la prima e parte superiore nera. (fonte:naviearmatori.net) Nella pagina seguente: Una bella immagine della nave nel 1957, infatti ha ancora la livrea di cui sopra al fumaiolo. (fonte:www.naviearmatori.net)

La turbocisterna Adriana Fassio in navigazione (fonte:www.naviearmatori.net)


Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

Bandiera

1959

Ansaldo -       Livorno

1538

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova

Italiana

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

Porto di Registro

21.064

12.454

31.405

IBTN

Genova

La seconda “31.500” per i Fassio venne impostata sullo scalo “Morosini” del cantiere Ansaldo (ex Orlando) di Livorno, il 28 Giugno 1958; nello stesso momento in cui lo scalo stesso veniva sottoposto a lavori di ampliamento, per cui i tecnici del cantiere furono costretti a puntellare i blocchi prefabbricati dello scafo metro per metro.

La nave, prima unità della “Villain & Fassio” costruita nel cantiere della città labronica, venne varata il 22 Febbraio 1959 con la complicità di una bella giornata di sole, madrina fu la Signora Jole Fassio, moglie del Cav. Ernesto Fassio. Numerosi furono gli invitati illustri tra i quali vanno ricordati: il Sottosegretario alla marina mercantile, On. Francesco Tornaturi, in rappresentanza del Ministro Jervolino, il Sindaco di Livorno, Prof. Badaloni; in rappresentanza della società armatrice erano presenti l’armatore Ernesto Fassio, il Gr. Uff. Vittorio Fassio (fratello di Ernesto e presidente della “Vitfassio – Società di Navigazione”), il Dott. Alberto Fassio ed inoltre era presente anche Mr. Drew, presidente della “Shell Tankers Ltd.”, società a cui la nave era, già dal varo, noleggiata.

Non mancavano anche rappresentanze dell’Ansaldo tra cui il Presidente Avv. Federico De Barbieri, dal direttore generale Federico Lombardi  e il Direttore del cantiere di Livorno, Ing. Mauceri.

Dopo la benedizione impartita dal Vescovo di Livorno, Mons. Pancrazio, prese la parola l’Avv. De Barbieri annunciando l’impostazione ormai prossima, sullo stesso scalo, di una nuova turbocisterna da 52.000 tpl per lo stesso armatore Fassio (che sarà l’Antonietta Fassio), con il varo dell’Adriana Fassio saliva a otto il conteggio delle navi costruite dall’Ansaldo per la “Villain & Fassio”.

Nel successivo discorso tenuto dal Cav. Fassio, dopo i ringraziamenti, sempre dovuti e graditi a quelle maestranze operose che formavano l’organico dei nostri cantieri navali, fu posto l’accento sulle difficoltà dell’industria cantieristica ed armatoriale dell’epoca. Il discorso, di grande acume e sensibilità viene di seguito riportato[1]:

“Chiunque affronti in terra o in mare iniziative che comportano enormi investimenti non solo in denaro ma anche in energie, che devono essere altrettanto, se non di più, considerata e valutate, ha diritto, Signori, di poter lavorare in tranquillità di animo e di poter contare sulla piena efficienza delle leggi in base alle quali si è fiduciosamente impegnato. Orbene, noi tutti sappiamo che questo non si è realizzato. La legge Tambroni, foggiata per costruire uno strumento organico e permanente di potenziamento delle costruzioni navali, ha conseguito, in un primo tempo, brillanti risultati ed arricchito la marina mercantile italiana di numerose modernissime unità. Ma questa legge è stata violata nel suo spirito informatore ed addirittura manomessa, quando si è preteso di far decorrere i benefici accordati ai cantieri dalla data di impostazione sullo scalo, dimenticando, e questo farà certamente sorridere quanti di Voi attendono alle costruzioni navali, che la nave medesima è in gran parte prefabbricata e che la sua vita, con le conseguenti, ingentissime esposizioni di capitali, comincia con la lavorazione a terra.

E’ facile comprendere come questa nuova ed assolutamente arbitraria interpretazione della legge rappresenti un gran danno per i cantieri e per quella parte dell’armamento che si è spinta nelle commesse ed ha voluto, con piena dignità, mantenerle,  facendo affidamento sulla parola e sugli impegni dello Stato legislatore.

 


[1] Si veda il volume “ Cantiere Flli. Orlando: 130 Anni di storia dello stabilimento e delle sue costruzioni navali” (op. cit. bibl.) alle pagg. 557-558.

Ove questa fiducia venga meno, nessuno si meravigli se assisteremo alla contrazione di queste commesse; per quanto mi concerne con il mio più vivo rammarico ho rinunciato ad ogni nuova iniziativa. Di fronte ai gravi ed evidenti errori che sono stati commessi, il nuovo Governo si decida a correggerli ed a rimediare senza indugi, con prontezza ed energia, riconducendo la legge Tambroni alla sua forma iniziale di applicazione e restituendo alle imprese marittime quello che vorrei definire “il diritto di avere fiducia” nella continuità e nella coerenza delle leggi.

E poiché a nessuna tribuna più idonea di questa, che sorge in mezzo alle concreta realtà di lavoro, potrebbe partire l’invito ad una più coraggiosa politica marittima, mi sia consentito augurare che la saggezza del nuovo Governo e il personale impulso del Ministro Jervolino, che quale relatore del bilancio della Marina Mercantile al Senato, ha data perspicue prove di una chiara visione delle nostre necessità. Valga a conseguire prontamente, nell’interesse superiore dei Cantieri e della Marina Mercantile, quelle indispensabili provvidenze che pongano l’armamento nazionale in condizioni di battersi nella competizione del marcato marittimo mondiale.

Signori, Dirigenti, Lavoratori di Livorno, rinnovo a Voi Tutti il più cordiale saluto, il più caldo ringraziamento per l’opera geniale e solerte data dalla costruzione di questa nave.”

(Ernesto Fassio)

Alla fine della cerimonia del varo che vide la nave battezzata con il nome di Adriana Fassio, conclusa con piena soddisfazione di Armatore, Maestranze ed Invitati, la nave venne rimorchiata alla banchina allestimento del molo mediceo[1] dove ebbe inizio il processo di allestimento che proseguì per i successivi cinque mesi, quando fu pronta per eseguire le prime prove in mare.

A fine Giugno del 1959 furono eseguite le prove agli ormeggi e quelle preliminari in mare, successivamente la nave venne trasferita a Genova, il 1° di Luglio, dove venne immessa in bacino per preparare la carena alle imminenti prove in mare ufficiali del 4 Luglio seguente, che dovevano essere eseguite in condizioni di mezzo carico come previsto dalla, già citata, legge Tambroni.

Il giorno delle prove erano presenti a bordo ben 233 persone, per la società armatrice erano presenti l’armatore Ernesto Fassio, insieme all’omonimo nipote e l’Ing. Martinoli dell’Ufficio Tecnico della “Villain & Fassio”, per la “Shell Tankers Ltd” erano presenti i Sigg. Griparos e Millburn, presenti inoltre i periti dei più importanti enti di classifica quali Lloyd’s Register, American Bureau of Shipping e il R.I.Na ed infine era presente in rappresentanza del cantiere costruttore l’Ing. Mauceri.

Uscita in mare alle 6:30 del mattino, effettuò il primo passaggio sulla base misurata di Portofino alle 11:41, l’ultimo passaggio venne effettuato alle 17:43. Durante le sei ore di prova, la nave confermò i già lusinghieri risultati delle prove preliminari e si allineò ai risultati conseguiti poco tempo prima dalla gemella Polinice costruita al Muggiano per Lauro, a riprova della bontà del progetto di queste petroliere. Tra l’altro i consumi risultarono minori di 25 grammi rispetto ai 220 grammi/cv ora dell’Italia Martelli Fassio.

 


[1] Si veda la breve descrizione del cantiere di Livorno alle pagg. 33 e 34.

Le prove si svolsero su quattro corse doppie, sviluppando 14.300 cv/asse corrispondenti a 17,7 nodi; due giorni dopo si svolsero le prove ufficiali a pieno carico che videro la nave superare di nuovo i 17 nodi (la velocità di contratto era fissata a 16,3 nodi) con somma soddisfazioni di tutti.

Dopo pochi giorni la nave venne consegnata alla “Villain & Fassio”, una gradita innovazione di questa nave fu, come già citato precedentemente, che poteva disporre di alloggi singoli per ciascun membro del suo equipaggio, evidenziando una volta di più l’interesse della società armatrice al benessere dei suoi marittimi, una qualità per cui al giorno d’oggi è ancora con nostalgia ricordata.

Posta immediatamente sotto contratto con la “Shell”, espletò tale compito fino al 1963 quando tornò sul normale mercato dei noli, navigò per la “Villain & Fassio” fino al 1975 quando venne trasferita alla “Compagnia Marittima Effe S.p.A.”, sempre facente parte del gruppo Fassio e creata in seguito al riassetto societario dovuto alla crisi del periodo, fino al 1978 quando venne disarmata e venduta per la demolizione, che avvenne presso i cantieri Santa Maria di La Spezia.

La poppa dell'Adriana Fassio scende in acqua dallo scalo "Morosini" del cantiere di Livorno. 

(fonte:www.naviearmatori.net)

Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatori

Periodo di

Proprietà

Adriana Fassio

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova - Genova

1959 -

1975

Adriana Fassio

Compagnia Marittima Effe S.p.A.

1975 -

1978

Due immagini, che riprendono rispettivamente in navigazione

e alla fonda, l'Adriana Fassio

(fonte per entrambe le immagini: www.marina-mercantile-italiana.net)


Due immagini, che riprendono rispettivamente in navigazione e alla fonda, l'Adriana Fassio.


Ginevra Fassio in navigazione

fonte:www.naviearmatori.net

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

 

1959

Ansaldo - Sestri Ponente

1537

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

 

20.760

12.180

31.500

ICTQ

Seconda turbocisterna della serie costruita dallo Stabilimento Ansaldo di Sestri Ponente per il gruppo armatoriale “Villain & Fassio”, viene impostata il 3 Dicembre 1957, varata il 7 Settembre 1958, madrina ne fu la Sig.ra Adriana Fassio, e consegnata alla compagnia il 9 Marzo 1959, dopo le prove di accettazione.

Il "Ginevra Fassio" in una rada, notare i due picchi di carico, posti sulla passerella centrale, armati e alati.

(fonte:www.marina-mercantile-italiana.net)

La nave restò in armamento con la “Villain & Fassio” fino al 1973 quando venne venduta alla società “Sicula Partenopea di Nav SpA” di Palermo e rinominata Ginevra, nel 1976 cambiò nome in Gin restando in armamento alla medesima compagnia. Nello stesso anno venne venduta per demolizione, avvenuta presso il cantiere della Zui Feng Steel Corp. di Kaohsiung.

Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatore

Periodo di Proprietà

Ginevra Fassio

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova - Genova

1959 - 1973

Ginevra

Sicula Partenopea di Nav SpA

1973 - 1976

Gin

Sicula Partenopea di Nav SpA

1976

Il Ginevra Fassio in navigazione

(fonte:www.naviearmatori.net)

La poppa del Ginevra Fassio, raffigurata all'ormeggio in banchina, in una bella foto a colori, dove tra l'altro si può apprezzare la particolare livrea del fumaiolo della "Villain & Fassio"-

(fonte:www.naviearmatori.net)

 

Il Ginevra Fassio, fotografata da sottobordo, alla fonda (fonte:www.marina-mercantile-italiana.net)

Il Maria Fassio in navigazione a forte andatura (fonte:www.naviearmatori.net)

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

 

1960

Ansaldo -    Muggiano

1556

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

 

20.593

12.208

31.417

ICNX

Non ci sono molte informazioni sulla vita di questa petroliera, si sa solamente che venne varata nel Maggio 1960 e completata nel Novembre successivo, navigò solamente per la compagnia originaria fino al 1977, quando venne venduta per demolizione ai “Cantieri Navali del Golfo” di La Spezia, nell’Aprile dello stesso anno.

Il Picci Fassio in manovra assistito da un rimorchiatore (fonte:www.naviearmatori.net)

 

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

1961

Ansaldo -    Muggiano

1557

Villain & Fassio – Compagnia Internazionale di Genova

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativ Internazion.

20.704

12.222

31.368

ICUP

 

Varata il 27 Novembre 1960 e consegnata nel Luglio dell’anno successivo, navigo solamente per la “Villain & Fassio” fino al 1977 quando venne disarmata e demolita nell’Aprile 1977 presso il cantiere “Santa Maria” di La Spezia. Da notare la differenza nella forma del fumaiolo rispetto alle altre navi della serie, come già evidenziato nel paragrafo dedicato di pagina 28.

QUATTRO PETROLIERE PER IL "COMANDANTE" LAURO

Un soprannome, quel “Comandante” che nell’ambiente armatoriale prima e nella storia marittima poi ha assunto dei connotati quasi leggendari ma che a tutti fa venire in mente una e una sola persona: Achille Lauro, sindaco, presidente del Napoli ma soprattutto armatore.

Con eccezionale acume imprenditoriale sia prima del conflitto che dopo, seppe portare la sua azienda ad assoluti vertici tra le compagnie marittime nazionali ed internazionali, risultando ancora oggi la più grande azienda del Mezzogiorno.

Fondata nel 1920, la Flotta Lauro cominciò la sua attività acquistando navi sul mercato dell’usato, arrivando, alla vigilia del conflitto, a possedere ben 59 unità per circa 354.000 t tra nuove costruzioni e navi usate, tali da rappresentare il 12% del tonnellaggio privato italiano che ammontava a 1.956.257 tsl, è incredibile la crescita che caratterizzò questa società vista anche la recessione imperante all’epoca, una società che nel 1938 dava lavoro a circa 3000 persone tra personale amministrativo e marittimi imbarcati.

Lauro nel suo modello di business aziendale diede molta importanza alla comproprietà delle navi, da condividere con parenti, dipendenti, amici ed equipaggi, che de facto furono tra i primi caratisti della navi della Flotta.

Anche Achille Lauro, come pure Fassio di cui era amico ed estimatore, si trovo una situazione societaria disastrosa al termine del conflitto che vide la grande flotta, dal fumaiolo color “Blu Lauro” e la stella bianca a cinque punte, completamente annientata dagli eventi bellici. La ricostruzione della flotta cisterniera cui rimaneva solo la motocisterna “Fede”, varata nel 1943 e consegnata nel 1948, seguì più o meno le stesse orme di molti armatori nazionali, cioè acquisendo delle turboelettriche TE-2 sul mercato americano, a tassi agevolati grazie agli incentivi garantiti dal Piano Marshall.

La Flotta Lauro si dotò di tre TE-2 che presero i nomi di Achille Lauro, Amalfi e Verbania che consentirono alla Flotta di riprendere il trasporto del greggio che raggiunse in quel periodo quantitativi inimmaginabili, tra il 1946 e la prima metà degli anni 50’ furono impiegate sulle più disparate rotte, potendo contare su noli sempre più alti, Nello stesso periodo veniva impostato il piano di rinnovamento della flotta cisterniera Lauro, comprendente anche le “31.500”, che formavano la spina dorsale della compagnia per i trasporti petroliferi.

A partire dal 1955-56, a seguito dell’entrata in servizio nella Flotta, di petroliere sempre più moderne, le tre T2 vennero convertite al carico granario, per evitarne il disarmo, tra i porti Statunitensi e del Nord Europa fino al 1962 quando a seguito di un rialzo dei noli sul mercato petrolifero vennero riconvertite al ruolo originario fino all’anno successivo quando vennero disarmate e poi demolite.

La TE2 Achille Lauro, ex Sharpsburg (fonte:www.marina-mercantile-italiana.net)

Dopo l’acquisizione delle T2, il programma di potenziamento del settore cisterniero della compagnia proseguì con l’ordine al cantiere Ansaldo di Genova Sestri, tra il 1951 ed il 1953, di tre motocisterne da 17.000 tpl (M/c Volere) e 17.250 tpl (M/c Tenacia e Coraggio) che possono essere considerate come le prime “Supercisterne”, caratterizzate dai primi aspetti dell’embrionale innovazione tecnologica che caratterizzerà le petroliere del secondo dopoguerra, tra i quali l’ampio uso della saldatura elettrica in luogo della chiodatura, la costruzione mediante blocchi prefabbricati e l’installazione a bordo di turbopompe per il carico che andarono a sostituire quelle alternative.

La costruzione del Volere venne intrapresa dall’Ansaldo, fin dalla fase progettuale, sotto forti pressione della Flotta Lauro per avere la nave consegnata in breve tempo data la carenza di petroliere della stessa compagnia, consegnando quindi una nave che presentava difetti non indifferenti.

Tra i principali inconvenienti che si presentarono è opportuno citare:

- Notevoli problemi di discarica e di caricazione dovuta alla posizione a bordo del locale pompe, doveva essere eseguito un adeguato zavorramento sia a poppa che a prora per favorire il lavoro delle pompe, a seconda delle cisterne che andavano scaricate o viceversa.

- Si riscontrarono gravi difetti nelle saldature delle lamiere che risentivano della novità nell’applicazione di questa nuova tecnica, tali difetti portavano alle creazione di cricche sulle lamiere stesse, favorite anche dalla non eccelsa qualità dell’acciaio disponibile in Italia nell’immediato dopoguerra.

A causa di questi problemi sorse un non trascurabile contenzioso tra la Flotta Lauro e l’Ansaldo che ebbe per la compagnia partenopea un epilogo favorevole consistente in un indennizzo per gli inconvenienti riscontrati e la priorità negli ordini delle nuove turbocisterne, che saranno le 31.500, in un periodo in cui in cantieri navali erano al limite della loro capacità produttiva e gli armatori godevano di un momento molto favorevole del mercato dei noli.

Il Volere all'ormeggio in banchina

(fonte:www.naviearmatori.net)

Varo della m/c Tenacia Cantiere Ansaldo - Genova Setri, 11 Gennaio 1953 (fonte:www.naviearmatori.net)

La T/c Aretusa in rada a Genova, 18 Novembre 1963, al comando del C.L.C Vito Gargiulo.

(fonte:www.naviearmatori.net)

Costruz

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

Bandiera

1957

Ansaldo -   Genova Sestri

1517

Aretusa Soc. di Navigazione per Azioni  - Palermo

Italiana

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

Porto di Registro

20.729

12.211

30.996

ICUA

Palermo

Prima di quattro turbocisterne della serie delle “31.500” costruite per la Flotta Lauro, venne impostata il 15 Marzo 1956, varata il 28 Aprile 1957 e consegnata all’armatore il 15 Novembre successivo.

La nave venne data in gestione alla societa “Aretusa” di Palermo che gestiva questa sola nave, è da notare che all’epoca molte grandi gruppi armatoriali per motivi amministrativi e fiscali davano in gestione singole navi a società a loro dedicate e la Flotta Lauro non fece eccezione, sotto vengono riportati i principali riferimenti amministrativi della società:

“Aretusa” Soc. di Navigazione per Azioni

Palermo, Via Roma 386, Tel. 40.541,  Telegr. Aretusa.

L’Aretusa fu la prima delle quattro 31.500 che venne noleggiata a lungo termine alla BP insieme alle gemelle che erano in costruzione . Dopo 15 anni di continuo impiego tra noleggi al servizio di grandi majors petrolifere venne venduta alla società “Cala Sinzias S.p.A.” di Cagliari, per la somma di 980.000.000 di Lire e consegnata ai nuovi armatori nel porto di Taranto, l’8 Maggio 1973, venendo rinominata Barbagia e navigando sotto i nuovi colori fino al 1975 quando venne nuovamente venduta alla “Forest Maritime Inc.” e cambiando nome in Aretussa, venne demolita nel Giugno 1976 a Santander presso il cantiere “Recuperaciones Submarinas”.

Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatore

Periodo di Proprietà

Aretusa

Aretusa Soc. di Navigazione per Azioni  - Palermo

1957 - 1973

Barbagia

Cala Sinzias SpA - Cagliari

1973 - 1975

Aretussa

Forest Maritime Inc.

1975 - 1976

 

La T/c Aretusa va ad ormeggiare ad un pontile per la discarica del greggio.

(tratto da "La flotta che visse due volte" op. cit. bibl.)

L'Aretusa in una rada, con delle imbarcazioni che attorniano lo scalandrone di dritta.

(fonte:www.marina-mercantile-italiana.net)

Dicembre 1963, la turbocisterna Aretusa alle prese con un Atlantico infuriato (tratto da: "La flotta che visse due volte" op. cit. bibl.)

28 Aprile 1957, la turbocisterna Aretusa pronta per il varo al cantiere Ansaldo di Genova Sestri (tratto da:"La flotta che visse due volte" op. cit. bibl.)

L'Elios in rada (fonte:www.naviearmatori.net)

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

Bandiera

1958

Ansaldo – Genova Sestri

1523

Elios Società di Navigazione per Azioni - Palermo

Italiana

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

Porto di Registro

20.725

12.217

30.845

IBJE

Palermo

Impostata, sempre presso il cantiere Ansaldo di Genova Sestri, il 27 Aprile 1957, venne varata il 22 Dicembre dello stesso anno e consegnata alla compagnia armatrice “Elios Società di Navigazione per Azioni, il 20 Maggio del 1958. Anche questa società, come la “Aretusa”, era deputata alla gestione di questa singola nave (e più tardi anche della M/c Raffaele Cafiero, a partire dal 1962).

La società aveva i seguenti riferimenti che tra l’altro erano identici, per indirizzo e numero telefonico a quelli dell’Aretusa:

“Elios” – Soc. di Navigazione

Palermo, Via Roma 386, Tel. 40.541


1965, L'Elios durante un viaggio dal Golfo Persico al Giappone. In seguito ad un grave infortunio, un marinaio viene prelevato da un'elicottero Sikorsky S-58 del corpo dei Marines, circa 300 miglia al largo dell'Isola di Okinawa.

(tratto da: "La flotta che visse due volte" op. cit. bibl.)

Come la gemella Aretusa anche questa turbocisterna venne noleggiata alla BP, per un quinquennio, ancora prima della sua consegna all’armatore Lauro, successivamente navigò per la medesima compagnia fino al 1973 quando anch’essa venne venduta alla società “Cala Sinzias S.p.A.” di Cagliari, per la somma di 882.000.000 di Lire e consegnata al nuovo armatore nel porto di Aden, il 25 Maggio 1973. In seguito al cambio di bandiera prese il nome di Cabras e navigò per i nuovi armatori fino al Luglio 1975 quando venne venduta per demolizione, eseguita presso il cantiere navale Lotti di La Spezia.

Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatore

Periodo di Proprietà

Elios

Elios Soc. di Navigazione per Azioni  - Palermo

1958 - 1973

Cabras

Cala Sinzias SpA - Cagliari

1973 - 1975

Nella pagina seguente: La petroliera Elios mette in mostra l'eleganza della sua costruzione (fonte:www.naviearmatori.net)

Il Felce, galleggiante immediatamente dopo il varo, Livorno, 15 Giugno 1958. (tratto da: “La Flotta che visse due volte” op. cit. bibl.)

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

1958

Ansaldo - Livorno

1534

Nereide Società di Navigazione per Azioni - Palermo

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

 

20.519

12.141

31.488

ICJF

Impostata il 25 Giugno 1957 sullo scalo Morosini dell’ex cantiere Orlando di Livorno, ora Ansaldo, venne varata nella mattinata del 15 Giugno 1958. Alla già suggestiva cerimonia, quale è un varo “tradizionale”, fecero da contorno tre aerei da turismo che sorvolarono ripetutamente il cantiere mentre gli altoparlanti dello stesso diffondevano le note di “O Sole Mio”, nella più tradizionale atmosfera musicale partenopea. Poco prima delle 10 venne officiata la benedizione della nuova unità alla presenza di numerose autorità sia civili che militari tra le quali vanno citate, per la Società Armatrice il Sen. Achille Lauro, l’On. Raffaele Cafiero , il Dott. Gioacchino Lauro e l’A.D. della “Nereide” Avv. Paolo Diamante ed in rappresentanza del cantiere tra gli altri erano presenti il presidente Avv. De Barbieri e i direttori, dei tre stabilimenti Ansaldo, Casaccia, Cristofori e Rougier.

Madrina della nave fu la Sig.ra Maria Castellano Cafiero, moglie dell’On. Raffaele Cafiero, braccio destro del Comandante Lauro; il varo ebbe esito pienamente favorevole e la nuova unità venne rimorchiata alla banchina d’allestimento, ove restò fino a fine Ottobre 1958 quando lasciò Livorno per Genova, dovendo essere immessa in bacino per carenare in previsione delle prove in mare che furono eseguite il 22 Ottobre con cattive condizioni meteo; ben 280 persone erano a bordo del Felce, che prese il nome di un piroscafo della Flotta Lauro affondato nel 1941 per attacco aereo nemico.

Le prove diedero un esito molto soddisfacente evidenziando un notevole progresso nell’apparato motore rispetto alla nave prototipo della serie che fu la Mina D’Amico, costruita sempre a Livorno, registrando un consumo di nafta che si ridusse da 280 a 220 g/cv ora, inoltre il riuscito progetto dell’apparato motore di queste turbocisterne attirò notevoli attenzioni da parte di cantieri ed armatori Inglesi e Svedesi.

La nuova unità, completate tutte le prove in mare, venne consegnata alla società “Nereide” il 24 Ottobre 1958, in anticipo di ben 37 giorni rispetto alla data termine concordata nel contratto di costruzione.

La società “Nereide”, cui competeva la gestione del Felce, aveva in gestione anche la gemella Polinice e dal 1961 anche la t/c Ercole (da 60.000 tpl), di seguito ne viene riportato qualche riferimento amministrativo per completezza d’informazione, che anche in questo caso risultano identici a quelli delle società “Aretusa” ed “Elios” tranne che per la denominazione societaria, evidenziando ancor di più una differenza di tipo esclusivamente amministrativo tra le diverse società del Gruppo Lauro.

“Nereide” -  Soc. di Navigazione per Azioni

Palermo, Via Roma 386, Tel. 40.541

La nave cominciò, come le sue gemelle, i noleggi “a tempo” per la BP e negli anni successivi anche per l’AGIP ed altre grandi compagnie petrolifere, resto in armamento con la Flotta Lauro fino al 21 Aprile 1972, quando venne venduta alla “Kirno Hill Corp.” di Panama per la somma di 2.133.333,333 dollari e rinominata Acquarius. Fu nuovamente rivenduta l’anno successivo alla “North Tankers Sg Corp.” di Monrovia (Liberia) e cambiò nome in White Ranger, navigò con questo nome fino al Maggio 1975 quando venne disarmata e demolita presso il cantiere “Industrial y Comercial de Levante” di Valencia.

 

Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatore

Periodo di Proprietà

Felce

Nereide Soc. di Navigazione per Azioni  - Palermo

1958 - 1972

Acquarius

Kirno Hill Corp. - Panama

1972 - 1973

Polinice

Il "Polinice" in navigazione (fonte:www.marina-mercantile-italiana.net)

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

1958

Ansaldo - Muggiano

1533

Nereide Società di Navigazione per Azioni - Palermo

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

 

20.690

12.183

31.193

ICBP

Palermo

 

Varata il 23 Febbraio 1958 e consegnata nel Luglio successivo, il Polinice, gestito dalla già citata “Nereide”, venne subito inserita nei viaggi a noleggio per conto della BP ed altre Majors, ricalcando quasi integralmente la carriera delle sue gemelle, venendo anche sporadicamente impiegata su contratti di trasporto di vario tipo.

Restò in armamento con la Flotta Lauro fino al 17 Marzo 1972, quando venne venduta alla “Kirno Hill Corp.” di Panama (che il mese successivo acquistò anche il Felce) per la cifra di 2.133.333,33$ (la stessa identica cifra che sarà pagata per il Felce), fu consegnata ai nuovi armatori nel porto di Anversa in Belgio e rinominata Mabruk.

L’anno successivo venne rivenduta alla “North Tanker Sg Co” di Panama e rinominata Blue Ranger (probabilmente una società affiliata all’omonima panamense presso cui fu registrato il White Ranger ex Felce), nel 1976 viene nuovamente rivenduta alla “Navalcarena SpA” di La Spezia e cambia nome in Ecol Spezia ed infine l’ultimo trasferimento la vide passare, nel 1981, alla “Soc. Navale Spezzina SpA” che ne mantenne il nome.

Nel 1982 venne rimosso l’apparato motore e la nave venne adibita a pontone.

Nella pagina seguente: Ansaldo Muggiano, il Polinice sullo scalo in una suggestiva immagine a colori

(tratto da "Ansaldo Navi" op. cit. bibl.)


TRE TURBOCISTERNE PER I D'AMICO

La Fratelli d’Amico Armatori nasce agli inizi degli anni ‘30 ad opera di Massimino Ciro d’Amico e del figlio Giuseppe con funzione marginale rispetto alla principale attività di famiglia: importazione e commercio di legname. Successivamente si fa strada la consapevolezza che disporre di una propria flotta avrebbe significato l’affrancamento nel trasporto di legname proveniente dalla Yugoslavia e dal Mar Nero e quando arrivano le prime navi all’azienda gradualmente si uniscono i sei fratelli maschi di Giuseppe (altre due sorelle non saranno mai attive nell’impresa di famiglia).

La seconda guerra mondiale ne decima la flotta che rimane con sole due unità, nel 1947 grazie alle agevolazioni garantite dal Piano Marshall, la compagnia riesce a dotarsi di due Liberty (Ariella ed Eretteo) con cui rilancia l’attività armatoriale, continuando il commercio del legname. L’ordine ai Cantieri Breda di Marghera di 2 motonavi da 5.000 tpl segna l’inizio di una linea merci dall’Italia al Mediterraneo orientale, mentre la flotta cresce acquistando navi liberty, fino a possederne 20 mentre per quanto riguarda la flotta cisterniera, a metà anni 50’, era composta da quattro unità per 59.000 tsl, più una motocisterna da 17.000 tsl in costruzione.


Il Liberty Eretteo della società “Fratelli d’Amico Armatori”, riconoscibile dalla croce maltese blu su fumaiolo giallo (la d’Amico soc. nav come simbolo sociale aveva una rosa dei venti blu su fumaiolo giallo), in manovra nel Bacino di San Marco, inconfondibile, sullo sfondo, il simbolo della Serenissima. (fonte:www.naviearmatori.net)

A questo punto è necessario fare una regressione, infatti ad inizio anni ‘50 i sette fratelli d’Amico decidono consensualmente di dar vita a due distinte società facenti parte del Gruppo Armatoriale: La “Fratelli d’Amico Armatori” di Roma, che è stata descritta brevemente nel precedente paragrafo e la “d’Amico Società di Navigazione, sempre registrata nella città capitolina, che armò una delle tre “31.500” che portarono sui loro fumaioli, per i mari del mondo, la rosa dei venti blu su sfondo giallo, simbolo sociale della gloriosa società romana.

Tra il 1954 ed il 1960, il gruppo armò tre turbocisterne della serie delle “31.500”, tra cui le prime due della serie, il Mina d’Amico ed il Mirella d’Amico, veri e propri prototipi di questa prolifica serie di primordiali supertankers.

La ripartizione delle navi tra le unità era la seguente:

· “d’Amico” Soc. di Nav. – Palermo: “Mirella d’Amico”

· “Lilibeo” Soc. Armatoriale p. A. – Palermo: “Mina d’Amico”

· “Ortigia” Soc. di Nav S.p.A. – Palermo: “Cristina d’Amico”

A queste 3 unità se ne aggiunse un’altra, il Maria Adelaide che poi divenne il Dzhuzeppe Garibaldi, che viene citata in un capitolo a parte in quanto la sua vita operativa risulta più attinente alla marina mercantile sovietica, sotto la cui bandiera passò circa 24 anni.

E degno di nota il fatto che in pochi anni, la “d’Amico Soc. Nav.” riuscì con notevole acume ed intraprendenza ad arricchire il tonnellaggio della nostra marina mercantile di circa 95.663 tpl. Con l’ordine del Mirella d’Amico, prima nave della serie, la “d’Amico” Società di Navigazione, validamente diretta dal Dott. Ciro d’Amico, si pose all’avanguardia nella politica economica del trasporto petrolifero nazionale.

Il Mirella d'Amico alle prove di macchina (www.marina-mercantile-italiana.net)

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

Bandiera

1953

C.R.D.A. – Monfalcone

1775

d’Amico Società di Navigazione - Palermo

Italiana

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

Porto di Registro

20.417

12.504

31.717

IBGN

Palermo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Insieme al Mina d’Amico, impostato poco dopo presso il cantiere Ansaldo di Livorno, il Mirella d’Amico può considerarsi come la capostipite di questa prolifica classe di navi petroliere, all’epoca della sua costruzione risultava essere una tra le più grandi turbocisterne del mondo.

Impostata l’1 Ottobre 1952, venne varata il 14 Giugno 1953, alla presenza del Ministro della Marina Mercantile On. Cappa, e consegnata all’armatore il 29 Dicembre successivo.

I dati societari della società armatrice, come già detto facente parte del Gruppo d’Amico, erano i seguenti:

“d’Amico” - Società di Navigazione

Palermo, Via Gen. Magliocco 19, Tel. 16.426, Telegr. Damiconavi

Nel 1972 la nave venne venduta alla compagnia “Galissa Cia Maritima SA”, fu ribattezzata Galissa ed immatricolata sotto bandiera greca, presso il compartimento marittimo di Syros.

L’anno seguente viene nuovamente venduta alla società greca “Camelford Sg Co Ltd”, cambiando il nome in Georgios K., mantenendo il medesimo porto di registro. Il 1976 vide la nave, con stesso nome e porto di registro, cambiare nuovamente armatore, venendo acquistata dalla “Hill Samuel & Co Ltd”. Ad inizio Dicembre dello stesso anno venne venduta per demolizione al cantiere “Keun Hwa Metal Industries Ltd” che inizio lo smantellamento della nave ad inizio Gennaio 1977.


Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatore

Periodo di Proprietà

Mirella d’Amico

D’Amico Soc. Nav. - Palermo

1953 - 1972

Galissa

Galissa Cia Maritima SA - Syros

1972 - 1973

Georgios K.

Camelford Sg Co Ltd - Syros

1973 - 1976

Georgios K.

Hill Samuel & Co Ltd - Syros

1976

Nella pagina seguente: Lo scafo del Mirella d'Amico, costr. 1557, fotografato sullo scalo del cantiere CRDA di Monfalcone (fonte:www.naviearmatori.net)


Il Mina d'Amico, la prima delle tre "31.500" costruite a Livorno (fonte:ww.marina-mercantile-italiana.net)

Prima grande unità mercantile costruita dall’Ansaldo di Livorno, sullo scalo Morosini, dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Ordinata dalla società Lilibeo di Palermo, facente parte del gruppo d’Amico, venne impostata il 4 Gennaio 1953; la nuova nave scese in mare il 28 Marzo 1954, alla presenza del Presidente della Camera dei Deputati On. Giovanni Gronchi (l’anno successivo diventerà il III° Presidente della Repubblica Italiana) e del Ministro della Marina Mercantile On. Fernando Tambroni, dopo la benedizione impartita dal Vescovo di Livorno, lo scafo di 9.600 t, ora nominato Mina d’Amico, era pronto a scivolare in mare dallo scalo Morosini ma a causa del peso eccesivo gravante su di una taccata non fu possibile effettuare il varo e si rese necessaria la demolizione della taccata stessa. La nave venne poi varata nel pomeriggio dopo un’alacre lavoro del personale del cantiere, con un forte ritardo sul programma ma comunque con piena soddisfazione delle moltissime persone presenti a questo evento che dimostrava la ritrovata efficienza del cantiere Livornese, capace di costruire una nave di cosi rilevanti dimensioni, all’epoca era considerata tra le dieci più grosse navi petroliere in servizio, a così breve distanza dalla fine di un conflitto che aveva quasi annientato la più grande e prestigiosa industria della città labronica. La nave, dopo un rapido allestimento durato circa 52 giorni, venne consegnata alla società armatrice il 19 Maggio 1954.

La “Lilibeo” che aveva in gestione la nave, oltre alla motocisterna Marinella d’Amico, nel 1963 risultava avere i seguenti dati societari:

“Lilibeo” – Società Armatoriale p. A.

Palermo, Via Gen. Magliocco 30, Tel. 16.426, Telegr. Damiconavi

La nave restò in armamento con la “Lilibeo” fino al 1971, quando venne venduta alla società liberiana “Eastern World Sg Ltd” che la rinominò Permina Samudra VIII, registrandola a Monrovia sotto bandiera liberiana.

Navigò con il nuovo armatore per altri quattro anni, fino al Settembre 1975, quando venne venduta per demolizione al cantiere Yung Tai Steel & Iron Works Co Ltd che ne cominciò in Dicembre.

Riepilogo dei cambi di Nome / Armatore

Nome della Nave

Armatore

Periodo di Proprietà

Mina d’Amico

Lilibeo Soc. Arm. p. A. - Palermo

1954

Perm ina Samudra VIII

Eastern World Sg Ltd - Monrovia

Nella pagina seguente: Il Mina d'Amico in manovra (fonte:www.naviearmatori.net)

Il Cristina d'Amico in navigazione (www.marina-mercantile-italiana.net)

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

Bandiera

1960

Ansaldo - Muggiano

1540

Ortigia Soc. di Nav. S.p.A.

Italiana

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

Porto di Registro

20.693

12.210

31.800

ICNT

Palermo

 

 

 

 

 

Il Cristina d'Amico ripreso al traverso di dritta

Argea Prima e Miraflores: le 31.500 della Flotta Cameli

Prima di dare una sommaria visone d’insieme della storia della società armatrice di queste due navi è opportuno fare qualche doverosa precisazione.

La prima vuole essere un ringraziamento al D.M. Vittorio Massone di Recco, purtroppo recentemente scomparso, le cui memorie (Una Vita sul mare, op. cit. bibl.) sono state davvero utilissime per ricreare, purtroppo mai troppo approfonditamente quanto sarebbe giusto e meritevole, la vita e soprattutto alcuni episodi particolari di queste due navi sulle quali navigò, alternativamente, dal 1955 al 1963.

La seconda precisazione è relativa alla storia della società armatrice, di quella grande realtà marittima che fu il Gruppo Cameli, infatti se per la turbocisterna Argea (poi Argea Prima), armata dalla società omonima, si è riusciti a reperire fonti ed informazioni abbastanza complete, per il Miraflores, armata dalla società “Miraflores – Cia Naviera Panamena SA” e gestita dalla società elvetica “Navimar” di Lugano per conto dei Cameli, la ricerca si è presentata maggiormente nebulosa e di questo l’Autore si scusa.

La società “Carlo Cameli & C.” viene fondata nel Luglio 1927 a Genova, si presentava all’inizio del secondo conflitto mondiale forte di una flotta di cinque motocisterne per oltre 13.000 tsl.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, la flotta versava in una situazione catastrofica avendo perduto praticamente la totalità del suo tonnellaggio d’anteguerra ma a seguito di un programma di ricostruzione del naviglio sociale efficiente ed ambizioso, già nel 1953, la società poteva contare su un tonnellaggio leggermente superiore a quello dal 1940, circa 13.665 tsl. L’aliquota maggiore del nuovo tonnellaggio societario era rappresentato dalla T2 Montallegro (ex Crater Lake), la quale ebbe una vita molto avventurosa nel secondo dopoguerra, esplosa in due tronconi mentre era sotto discarica nel porto di Napoli nel 1951, venne riparata e continuò a navigare fino al 1965.

Il Montallegro alla fonda

Tra le altre società satellite che il Gruppo controllava è opportuno citare la “Navigazione Toscana S.p.A.” che esercitava le linee da e per l’Arcipelago Toscano (Linea 81, 82, 82 bis, 83, 84)[1], anch’essa duramente colpita dagli eventi bellici che la videro per perdere il suo intero tonnellaggio ammontante a circa 4000 tsl, nel primo dopoguerra si dotò di due ex corvette della U.s. Navy riadattate al servizio passeggeri (Porto Azzurro e Portoferraio) e della motonave Pola, acquistata nel 1953.

 


[1] Secondo l’ordinamento per i servizi marittimi del 1953 le suddette linee a carattere locale erano così ripartite Linea 81: Livorno – Gorgona – Capraia – Marciana M. – Portoferraio – Piombino – Rio Marina – Porto Azzurro – Campo Elba – Pianosa (Settimanale); Linea 82: Portoferraio – Cavo – Portovecchio (giornaliera feriale); Linea 82 bis: Portoferraio – Cavo - Piombino – Portovecchio (domenicale); Linea 83: Porto Azzurro – Rio Marina – Portovecchio (giornaliera / domenicale); Linea 84: Isola del Golfo – Porto S. Stefano (giornaliera / domenicale).

La T/c Argea Prima, in navigazione a forte andatura

Anno di Costruzione

Cantiere di Costruzione

N° di Costruzione

Armatore

Bandiera

1955

Ansaldo – Genova Sestri

1494

Argea - Compagnia di Navigazione S.p.A. - Palermo

Italiana

Stazza Lorda (t)

Stazza Netta

(t)

Portata Lorda (t)

Nominativo Internazionale

Porto di Registro

20.771

12.173

31.619

ICAP

Palermo

 

 

 

La turbocisterna Argea, ordinata al cantiere Ansaldo di Genova Sestri dall’omonima compagnia, venne varata nell’Ottobre 1954 e consegnata alla società armatrice nel Febbraio successivo, quando iniziò i primi viaggi con caricazione in Golfo Persico e discarica in Nord Europa. Poco dopo il varo, il nome della nave venne modificato in Argea Prima.

I dati societari della società armatrice, al 1963, risultavano essere i seguenti:

“Argea” – Compagnia di Navigazione S.p.A.

Palermo, Via G. Magliocco 1, Tel. 15.428 / 40.357, Telegr. Marinese

Un curioso aneddoto relativo ai primi viaggi di questa bella petroliera è narrato dalla penna del D.M. Massone e faceva riferimento ad un curioso inconveniente causato dalla tromba del fischio, infatti il leggero mare incontrato dalla nave faceva muovere leggermente la parte alta del fumaiolo avanti ed indietro, mandando di conseguenza in tensione il cavetto d’acciaio (vi era anche l’azionamento elettrico mediante pulsante) che dalla plancia era collegato con la tromba stessa, causando una curiosa quanto fastidiosa sequela di fischi sincronizzati con il moto ondoso incontrato durante la navigazione. L’inconveniente venne risolto puntellando la base del fumaiolo, che corrispondeva al cielo del locali caldaie, con dei travi.

L'Argea Prima in rada con le ancore appennellate (fonte:www.shipsnostalgia.com)

Poco tempo dopo l’Argea Prima fu protagonista, suo malgrado, di un grave accadimento che vale la pena di riportare di seguito.

Il 19 Maggio 1955, intorno alle 04:30, all’inizio del terzo viaggio in uscita dal Golfo Persico, poco prima di arrivare al traverso delle isolette di Jazireh Ye Forur e Jazireh Ye Sirri (si trovano a circa 125 miglia, per SSO  dall’imbocco dello Stretto di Hormuz), l’Argea Prima navigava in una fittissima coltre di nebbia quando venne investita, sul lato sinistro, dalla motonave olandese Tabian che navigava con rotta opposta alla petroliera italiana; la collisione avvenne approssimativamente alle coordinate di 26°09’36’’ N / 54°18’00’’ E.

Il Tabian investì la nave italiana sul lato di sinistra ,a centro nave tra il cassero centrale e quello poppiero, innescando un violento incendio del greggio contenuto nelle cisterne poste a centronave, venne subito disposto l’abbandono nave che avvenne in due distinte fasi:

- Il personale presente a prora e sul cassero centrale si imbarcarono sulla lancia a remi posta sul lato dritto del medesimo cassero e giunsero per primi a bordo della nave investitrice che si era fermata nelle vicinanze sia per la nebbia che per verificare i danni subiti.

- Il personale del cassero poppiero abbandonò la nave mediante la lancia a motore di dritta e giunsero per ultimi sul Tabian a causa del tempo impiegato per prendere coscienza della situazione, giù in macchina, e di abbandonare i locali relativi.

Viene riportato di seguito uno stralcio tratto dalle memorie del D.M. Massone, al tempo imbarcato come Primo Macchinista, in modo da riportare una testimonianza di prima mano riguardo l’abbandono della nave e gli eventi successivi.

“Alle quattro ero sceso in macchina per iniziare il mio turno di guardia e dopo aver dato un’occhiata agli strumenti del quadro di manovra e prese le consegne dal terzo macchinista che smontava, feci il mio consueto giro di controllo dei macchinari in funzione. Poco dopo le quattro e mezza, si udì un fischio che, a differenza del solito potente fischio della sirena, assomigliò più ad un sordo brontolio a cui, dopo pochi secondi, ne seguì un altro. Non ebbi tempo di pensare al motivo di quei brontoli che avvenne la botta, come una specie di tuono cui si accompagnò un forte scrollone.

In macchina era tutto fermo, ferma la pompa spinta nafta, fermi i ventilatori del tiraggio forzato e quelli del locale, inoltre anche i forni delle caldaie si erano spenti. I travi che formavano il puntello del fumaiolo erano finiti sulle griselle del locale provocando più di uno spavento. Fallito il tentativo di riavviare le caldaie, andai a fermare la motrice, permettendo così al vapore residuo di fornire alimentazione alle turbodinamo per garantire ancora un po’ di luce a bordo, intanto dall’osteriggio di macchina si cominciava ad intravedere il buio della notte ammantato di un alone rosso, evidente segno di un incendio.

Di comune accordo con l’allievo ed il fuochista decidemmo di abbandonare il locale, anche perché non potevamo farci un’idea della situazione in coperta dato che non vi era comunicazione con il ponte di comando, salimmo le tre rampe di scale per tentare di uscire dalla parte più alta del locale apparato motore, sul lato sinistro del cassero poppiero ma appena aperta la porta stagna ci trovammo di fronte un muro di fiamme, era infatti quello il lato interessato dalla collisione; richiusa subito quella porta, provammo con quella sul lato dritto trovandola libera dalle fiamme e percorso il caruggetto interno e, salita una scaletta, ci trovammo sul ponte lance appena in tempo per saltare sulla lancia di dritta che stava per essere ammainata, gremita all’inverosimile da quasi tutto l’equipaggio.

Quando fummo in acqua, dopo alcuni comprensibili momenti di agitazione e sconforto, fermammo il motore per meglio sentire i suoni delle sirene intorno a noi, ciò fu provvidenziale perché riuscimmo ad individuare la nave investitrice, l’olandese Tabian, a bordo di essa erano già presenti gli occupanti del cassero centrale tra i quali vi era il Comandante che, mente salivamo a bordo, faceva la conta; eravamo tutti salvi”.

L’arrivo del giorno e il diradarsi della nebbia vide l’Argea Prima in fiamme e il Tabian fortemente appruato ed in precarie condizioni di galleggiabilità, nel frattempo erano giunte sul posto due unità militari pronte a fornire assistenza, identificate come la fregata britannica Hms Loch Killisport (K 628), al comando del Comandante[1] E. N. Forbes (DSC, RN) e la corvetta statunitense Uss Valcour (AVP-55)

 


[1] In inglese “Commander”

 

La motonave olandese Tabian costruita nel 1930, appartenente alla società "NV Stoomvaart Mij - Nederland", che investi l’Argea Prima (fonte:www.shipspotting.com)

Qualche ora dopo arrivò in zona la petroliera Esmeralda, di proprietà dello stesso armatore dell’Argea Prima, che fornì alloggio e ristoro al provato equipaggio.

 

L'Esmeralda dell'armatore Cameli

(fonte:www.marina-mercantile-italiana.com)

Il Tabian con la prora mutilata dalla collisione (fonte:www.shipsnostalgia.com)

La corvetta Uss Valcour della marina statunitense in una bella foto a colori (fonte:www.shipsandharbours.com)

L'Hms Loch Killisport, fregata della classe Loch, all'epoca della collisione dell'Argea Prima era di stanza a Muscat in Oman    (fonte: www. Candoo.com)

Con l’arrivo delle due unità militare fu possibile attuare una serie di operazione atte a mettere in sicurezza la nave italiana, per prima cosa il Loch Killisport mise a mare il suo motoscafo, dotato di una potente motopompa, che cominciò a gettare acqua sul cassero poppiero che ancora bruciava, dopo qualche ora l’incendio a poppa poté considerarsi estinto mentre quello in coperta a centro nave destava ancora gran preoccupazione per della sua eccezionale intensità rendendo inefficace l’azione della motopompa.

A quel punto intervenne il comandante del Valcour che propose un ardito tentativo che viene meglio descritto, nuovamente dalle parole del D.M. Massone.

“Si trattava di salire in coperta tra i boccaporti in fiamme, trovare qualche portellino o flangia per ogni cisterna, aprirlo e mandare all’interno un getto di CO2[1]; pur con non poche preoccupazioni ritenemmo questa l’unica scelta da perseguire. Ci trasferimmo, una dozzina di volontari, sulla corvetta americana e dopo aver discusso gli ultimi dettagli partimmo alla volta della nostra nave, imbarcando su una grossa motolancia che aveva a bordo due grosse bombole di CO2 con manichette e relativi accessori.

Saliti in coperta, scoprimmo che la cosa più sicura era di introdurre il CO2 attraverso la tubolatura antincendio presente in coperta, normalmente funzionante a vapore; scelta la cisterna meno pericolosa, allentammo due flange della suddetta tubolatura, introducendo subito dopo la manichetta che col suo violento getto di anidride carbonica spense in brve tempo il fuoco che usciva dal boccaportello con un sonoro “puff”.

Con lo stesso metodo procedemmo allo spegnimento di tutte le cisterne interessate dalle fiamme ed in poche ore non vi erano più fiamme in coperta. Poco dopo scesi giù nei locali dell’apparato motore per verificarne le condizioni che giudicai buone ad un’ispezione superficiale, dettata dalle difficili circostanze”.

Spenti tutti i focolai a bordo fu quindi possibile fare una prima stima dei danni, il cassero poppiero, dal ponte di coperta in su, era completamente bruciato e ridotto ad un ammasso di lamiere contorte.

 


[1] Anidride Carbonica

Il cassero poppiero dell'Argea Prima mostra chiaramente le distruzioni dell'incendio (tratto da Una vita sul Mare, op. cit. bibl scafo, a proravia del cassero poppiero, in corrispondenza del punto d’impatto, presentava uno squarcio lungo una quindicina di metri ma non valutabile in altezza in quanto interessava anche la parte immersa dello scafo. Le lamiere di cinta e controcinta, pur essendo molto deformate avevano retto all’urto mentre il cassero centrale e la zona prodiera non avevano subito danni.

Il centronave dell'Argea Prima, evidenziato dalla lettera "A" si può vedere lo squarcio generato dalla collisione e dalla lettera "B" è evidenziata la posizione della cabina del primo macchinista Massone (tratto da Una vita sul mare op. cit. bibl.)

Stabilizzata la situazione della nave, il comandante dispose per il rientro a bordo dell’equipaggio, nel tentativo di rimorchiare la nave nel vicino porto di Bahrein, prima passando il cavo di rimorchio alla petroliera Esmeralda ma in seguito a numerose rotture del cavo, venne poi passato il rimorchio alla corvetta Valcour, più manovriera, l’Argea Prima procedeva, durante il rimorchio, a zig zag, tentando di seguire le manovre della corvetta mediante accostate col timone asservito alla pompa d’emergenza manuale, con notevoli ritardi nell’esecuzione della manovra.

Nel frattempo nei locali macchine si provvedeva a tutta una serie di verifiche volte al tentativo di ripristinare la forza motrice, come racconta Massone.

“Avevo avviato il diesel d’emergenza, dato luce ai locali e controllato i macchinari che risultarono in ordine, le due caldaie potevano essere accese e le turbine, innescate sul viratore[1], erano libere di girare come anche l’elica e il relativo asse, si poteva quindi tentare di “accendere”. Andai quindi a prora, dove il comandante, con gli ufficiali e da buona parte dell’equipaggio, stava cercando di rimediare ad un ennesimo strappo  del cavo di rimorchio.

La notizia che la nave sarebbe stata in grado di muovere con i propri mezzi, generò davvero sollievo ed entusiasmo. Aspettando che il vapore in caldaia raggiungesse la pressione necessaria per essere immesso nelle turbine, riparammo un tratto di tubo del telemotore del timone che dalla plancia correva in coperta, sotto la passerella, fino a poppa, ripristinando quindi la manovra dal ponte di comando. Prima di muovere la nave venne opportunamente livellata spostando del carico nelle cisterne centrali e di dritta, essendo quelle di sinistra sfondate e lesionate dalla collisione.

Mollato il rimorchio procedemmo con l’elica a 50 giri/min, arrivando nel porto di Bahrein dopo un giorno e mezzo di navigazione”.

La nave giunse nel porto di Bahrein, sotto scorta delle fregate Hms Loch Killisport e Loch Insh, quest’ultima giunta successivamente, e vi rimase in riparazione per circa un mese, in modo da poter effettuare in sicurezza il viaggio di rientro in Mediterraneo; salpata usando vari accorgimenti in navigazione, per preservare l’apparato motore ed in particolare asse portaelica e cuscinetti, passò senza problemi il canale di Suez, dove salì a bordo una commissione d’inchiesta per chiarire la dinamica della collisione che venne così definita: a seguito di un residuo di condensa nella tubolatura del fischio a vapore dell’Argea Prima, al momento di inviare un singolo fischio, per segnalare al Tabian di far accostare a dritta entrambe le navi, ne usci un brontolio seguito da un’altro pochi secondi dopo (i sordi brontolii sentiti da Massone) identificato dal Tabian come due fischi, segnalanti un’accostata a sinistra che venne eseguita dalla nave olandese andando a collidere con la petroliera italiana; la colpa venne divisa equamente su entrambe le navi.

Arrivata in Mediterraneo, la nave procedemmo ad una regolare discarica del greggio presente nelle cisterne centrali e di dritta, nel porto petrolifero di Martigues, vicino Marsiglia; per poi andare ai lavori a Genova, presso il Cantiere OARN (Officine Allestimenti Riparazioni Navali), per i successivi otto mesi. Terminati i lavori e ripreso servizio, la nave cominciò un periodo di viaggi fissi con caricazione a  Mina Al-Ahmadi e discarica a Napoli.

L’Armatore Cameli in ringraziamento dell’aiuto prestato dalla corvetta Uss Valcour all’Argea Prima, donò al comandante una placca ricordo dell’avvenimento; mentre per quanto riguarda la fregata Hms Loch Killisport, secondo quanto riportato dal quotidiano “Portsmouth Navy News” del 18 Novembre 1955, vennero decorati con la “Queen’s Commendation for bravery” il Senior commissioned mechanician Harold Ward (RN) ed il Chief engineering Mechanic Aneurin R. James, entrambi provenienti da Portsmouth. Di seguito vengono riportate due pagine di un quotidiano olandese relative alla collisione tra le due navi.


[1] Motore elettrico che mediante un pignone agiva sulla ruota lenta, facendo muovere tutto il gruppo turbo riduttore a lento moto, garantendo quindi un riscaldamento ottimale della motrice a nave ferma.

WordSection1; }

Novembre 1955, vennero decorati con la “Queen’s Commendation for bravery” il Senior commissioned mechanician Harold Ward (RN) ed il Chief engineering Mechanic Aneurin R. James, entrambi provenienti da Portsmouth. Di seguito vengono riportate due pagine di un quotidiano olandese relative alla collisione tra le due navi.

 

FINE PRIMA PARTE

Autore: FRANCESCO ULIVI

Rapallo, 10 Gennaio 2018

Webmaster: Carlo GATTI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Ö DRIA de Pegi: l’Andrea di Pegli

Ö DRIA de Pegi: l’Andrea di Pegli

 

‘Na nuvia un pö ciù larga,

na giornâ de maccaja

 

e o cheu ti l’ae in ti pê.

Libera traduzione: Una nuvola un po’ più larga, una giornata di tempo umido e afoso, e il cuore ce l’hai nei piedi.

 

 

Questi versi, di Vito Elio Petrucci, ci fanno capire quanto la gente di mare sia sensibile al mutare del tempo.

 

I vecchi marinai sono sempre riusciti a prevederlo, confortati dalla saggezza dei proverbi che, come tutti gli adagi, sono il filtrato d’antiche esperienze riferite a fatti che, in pari condizioni, si ripetono eguali nel tempo.

 

 

 

Anni fa, a questo riguardo, ho conosciuto un vero fenomeno di nome Andrea; Dria, in dialetto.

 

Pegli, località che abbiamo visto essere stata sino al 1932 Comune a sé, poi inglobato ad altri per dare vita alla “Grande Genova”, possedeva, fino a pochi decenni fa, le più ampie ma anche le più attrezzate spiagge della Città, rese accoglienti anche da un invidiabile clima tanto che il Graviers, nella sua <Guide de Gênes > del 1837, la definisce <lieu charmant >.

 

 

Da prima le frequentarono alcuni regnanti europei con le loro corti, arricchite dagli immancabili cortigiani e, a decrescere anno dopo anno, da prima la nobiltà quindi i grandi industriali, i cui rampolli rappresentavano possibili e ambiti “partiti” per nobili dal nome orecchiabile ma dal patrimonio dilapidato ed, in fine, la solida, oculata e ricca borghesia.

 

Il parco di Pegli

Al Lido di Pegli c’erano le più ambite spiagge perfettamente attrezzate, protette dalla vista della retrostante ferrovia da un’ininterrotta fila di cabine balneari, l’una a seguire l’altra. Solo il diverso colore dava a capire a quale stabilimento appartenessero; il vasto antistante arenile permetteva di essere arredato con tutte le indispensabili attrezzature.

 

Ciascun stabilimento aveva la sua classica veranda che facilitava gli incontri, protetta da finestrate decorate con formelle di vetri dalle variopinte trasparenze, disposti a scacchiera secondo la moda dèco dell’epoca; il sole vi filtrava creando atmosfere esotiche.

 

Sempre lì si potevano gustare piatti locali, preparati alla casalinga, in cucine  improvvisate sul retro e, sovente, la giornata finiva con “intrattenimenti danzanti”.

 

In mare galleggiavano, ancorate al fondale, boe rettangolari di legno colorato come le cabine, raggiungibili a nuoto e, una volta arrivati, con la scusa di riposarsi, possibilmente, cercare di “rimorchiare”; i più bravi si esibivano tuffandosi dai giganteschi trampolini protesi a superare la battigia. Sorretti da grosse ruote che li slanciavano verso l’alto, erano talmente lunghi che la loro punta arrivava sul mare sino a dove è abbastanza profondo da consentire, ai più spericolati, di tuffarsi in armoniosi voli come fossero angeli, fra gli<hoo> d’ammirazione delle signore. In fine le immancabili seggiole a sdraio allineate, quasi pennellate di colore sulla chiara arena che, con il variare del loro cromatismo, segnalavano anch’esse il cambio di stabilimento. Una staccionata colorata, divideva l’uno dall’altro.

 

In quella zona l’abbondanza di profonde e lunghe spiagge ne decretò il nome; il Lido.

 

Il mare vi espletava il suo equilibrato apporto di sabbia secondo una millenaria paritetica ripartizione, grazie all’eterno lavoro di ripascimento. Da sempre le burrasche di scirocco prelevavano il materiale inerte, eroso e trascinato a valle dai vari corsi d’acqua che sfociavano alla destra della zona interessata per depositarlo sulle spiagge limitrofe mentre, la successiva mareggiata, quella di libeccio invece ne distribuiva altro lungo la costa situata alla sinistra delle foci stesse.

 

Quest’indispensabile alternativo lavorío di trasporto e deposito degli inerti, residui dei fiumiciattoli e dei rivi, una volta a manca e la successiva a destra, s'interruppe quando l’uomo ha ridisegnato, alterandolo, il naturale profilo del territorio, costruendovi dighe, tombando tratti di mare, realizzando dissennate barriere protettive per non farsi portar via ciò che ormai aveva mal costruito. L’insieme di queste sconsiderate opere artificiali, ha sconvolto le correnti marine del paraggio con il risultato che le varie mareggiate, non potendo più apportare nuovi inerti prelevandoli da dove si depositavano, li sottrasse alle ultime spiagge rimastre, fagocitandosele.

 

Il Dria, che io ho sempre conosciuto anziano, asseriva d’aver, fin da ragazzetto (ma lo sarà mai stato?) navigato questo mare, dapprima come mozzo e poi in qualità di marinaio, imbarcato sui “leudi” o le “bilancelle” che esercitavano il piccolo cabotaggio, lungo la costa che proprio lì vicino aveva un pontile per lo scarico. Poi il fratello, più anziano, lo convinse a sbarcarsi e a dargli una mano nella conduzione dei Bagli Lido, quelli un tempo situati ai piedi del Castelluccio di Pegli, il fortilizio anti-pirati.

 

Accettò e in quello stabilimento balneare visse tutto il resto della sua vita, nel senso più letterale del termine perché lì vi abitò stabilmente. Aveva, come un tempo si diceva, le “mani d’oro” e a tutto provvedeva lui; si vedeva sempre attivo fra quelle dritte sfilate di cabine colorate, allineate come Guardie della Regina in estiva immobile parata. Raramente parlava e, quando lo faceva si esprimeva in dialetto; impossibile quindi per lui comunicare con i clienti “furesti”, prevalentemente lombardi o piacentini, all’epoca frequentatori assidui delle spiagge del Lido di Pegli. Schivo com’era la cosa non lo rattristava; lui non li capiva, né loro, lui. Ciò non di meno era da tutti ben voluto perché, anche senza parlare, come capita a chi intuisce d’istinto, preveniva i loro desideri.

 

Era un taciturno dal breve corpo tozzo e asciutto, forte e nodoso come un ulivo di Liguria; come un capo branco, fiutava in anticipo ogni mutare del tempo, pronto ad intervenire. Avrebbe potuto fare suoi, se avesse saputo leggere, i versi del più noto e sensibile fra i poeti genovesi, Edoardo Firpo, là dove scrive:

 

 

 

No so s’à cante o s’à cianze:

 

l’anima mae a l’è unna spunda

 

dove quest’onda a se franze.

 

 

Libera traduzione: Non so se canta o pianga: l’anima mia è una sponda dove quest’onda si frange.

 

 

A lui, effettivamente, bastava vedere come si dissolvessero, rincorrendosi, le nuvole o come volavano i nevrotici gabbiani emettendo rauchi richiami o, addirittura, che tipo di pesce in quel momento abboccava all’immancabile pescatore, accosciato su uno dei massi di pietra buttati per difendere dall’erosione la retrostante ferrovia, per prevedere il tempo dell’indomani.

 

 

La sensibilità acquisita negli anni, gli permetteva di averne conferma anche osservando l’angolo che la schiuma dell’onda forma quando, omai smorzata, pigramente raggiunge, scivolando sulla rena, la riva e s’interseca con quella di ritorno, giusto un attimo prima che quest’ultima venga risucchiata dalla sabbia della battigia. Quei segnali gli erano sufficienti per cominciare a porre in salvo tutti gli arredi che la imminente mareggiata poteva ghermire o distruggere; e anche i colleghi, concorrenti, erano attenti al suo andarivieni con, sotto le braccia, fasci di sdraio ripiegate e ombrelloni richiusi. Quello era la conferma che il tempo si metteva al brutto; lui non aveva mai sbagliato e loro lo sapevano. Altro che gli attuali satelliti.

 

 

Quel suo volto asciutto, brunito dal sole, con l’eterna barba del giorno prima, non l’ho mai visto rasato, ma neppure con la barba lunga, quel naso adunco, testimonianza d’antiche scorribande saracene con le donne della costa, non lasciava mai trapelare emozione alcuna.

 

Una brutta notte però, il mare, esasperato dai folli lavori dell’uomo che gli contrastavano il suo inestinguibile ripetitivo moto, senza preavviso, si portò via tutti gli stabilimenti balneari della zona, Bagni Lido compresi, portandosi via pure, irrimediabilmente, la spiaggia che da sempre ripasceva.

 

Purtroppo “ö Dria” aveva imparato a leggere perfettamente la natura ma, ahinoi, non i giornali, che proprio in quei giorni sbandieravano, con trionfalistica enfasi, la notizia che l’uomo ancora una volta aveva vinto il mare, strappandogli le onde e colmando quella ferita con la terra. L’uomo, presuntuoso e maldestro imitatore del Creatore, non si accorgeva che stava squassando irreparabilmente un equilibrio, messo a punto dopo millenni di prove.

 

E’ l’eterno apparentemente indecifrabile rapporto fra l’uomo e il mare; prendiamo in prestito i versi di Gabriele Dannunzio, poeta che visse il mare, e leggiamo:

 

là dove le coste

 

sono più scoscese

 

e il flutto più rimbomba

 

nelle caverne più nascoste

 

con le eterne risposte

 

alle eterne domande

 

Renzo BAGNASCO

Rapallo, 3 Dicembre 2014

 

 


La MAREA NERA del Golfo del Messico

La Marea nera del Golfo del Messico

Una Catastrofe annunciata

Il disastro ambientale della Piattaforma petrolifera Deepwater Horizon é stato uno sversamento massivo di petrolio nelle acque del Golfo del Messico in seguito a un incidente riguardante il Pozzo Macondo, posto a oltre 1.500 mt. di profondità. Lo sversamento é iniziato il 20 aprile 2010 ed é terminato 106 giorni più tardi, il 4 agosto 2010, con milioni di barili di petrolio che ancora galleggiano sulle acque di fronte alla Louisiana, Mississipi, Alabama e Florida. E’ il disastro ambientale più grave della storia americana, avendo superato di oltre dieci volte pèer entità quello della petroliera EXXON VALDEZ nel 1989.

E’ difficile per chi è estraneo all’ambiente delle Piattaforme e del mondo delle estrazioni petrolifere, farsi un’idea dell’accaduto nel Golfo del Messico. Ma noi di Mare Nostrum, nel caso specifico, abbiamo la chance di poter scambiare quattro chiacchiere con il nostro socio, Pino Sorio, Direttore di macchina, (perito e supervisore di una importante Società genovese di costruzioni navali) che ha nel suo curriculum ben 25 anni d’esperienza nel settore delle Piattaforme Petrolifere.

Partiamo dalle possibili cause dell’immane incidente. Pino, a te la parola.

Per quanto riguarda le possibili cause, sicuramente l'incendio è stato causato da una perdita della valvola sulla testa del pozzo, chiamata "christmas tree". Durante i miei 25 anni passati nella costruzione di piattaforme petrolifere abbiamo avuto due casi di incendi causati dalla perdita della valvola di testa del pozzo, una nel Golfo Persico (1973) ed una seconda in Brasile (1988). I sistemi usati per lo spegnimento sono un po’ lunghi da descrivere, semmai ci ritorneremo in seguito.

Che tipo di piattaforma è la Deepwater Horizon 11?

In questa bella immagine é visibile la piattaforma Deepwater Horizon nei dettagli costruttivi  mentre é trasportata da un mezzo speciale.


Guardando le foto di questa ptf prima dell'incidente, ti posso confermare che appartiene alla classe <Scarabeo 5> della Saipem, ossia di tipo galleggiante, con due scafi e 4 o 6 colonne. A conferma delle inesattezze che si leggono, questa mattina il Corriere della Sera riporta che la piattaforma, al momento dell'incidente, conteneva 2,6 milioni di litri di petrolio. Questi 2600 mc sono il combustibile per far funzionare le macchine della ptf e non sono quelli che stanno bruciando, la piccola quantità descritta si sarebbe esaurita in brevissimo tempo . Quello che brucia è il petrolio greggio che fuoriesce dal pozzo. Anche qui i giornalisti non usano mai i metri cubi ma i milioni di litri perchè fanno più effetto sulle persone non del mestiere. All'interno dei due galleggianti ci sono i locali pompe, le casse di zavorra, i locali macchina, ecc. e non certo i depositi del petrolio che sta bruciando. Un'altra fesseria che ho sentito è che la piattaforma posa su un fondale di 5000 metri. Ma dove vanno a trovare delle strutture di piattaforme di tale altezza? Queste ptf, che lavorano in alti fondali (non per niente si chiamano "deep water"), lavorano in DP (dinamic position) a meno che non vadano a perforare in bassi fondali dove posizionano le ancore (8 o 12 o in alcuni casi anche 16)

Hai accenato alla piattaforma SCARABEO 5. E’ stata costruita a Genova a partire dal 1990 e proprio io, insieme al collega A. Maccario la mettemmo in uscita dai Cantieri di Sestri Ponente con sei rimorchiatori. (vedi foto precedente) La ricordo ancora come una manovra “difficile”. Pur essendo auto-propulsa, la ptf scarrocciava in canale per effetto di un leggero  vento di scirocco che faceva leva sull’alta struttura e sullo scarso pescaggio. Abbiamo letto e ascoltato da autorevoli fonti altre inesattezze. Quale di queste ti ha dato più fastidio?

La Deepwater Horizon in fiamme

Continuando nella lettura degli articoli sulla ptf del Golfo del Messico, che ormai vengono fuori come i funghi perchè tutti si sentono esperti in questo campo. Una in particolare mi ha fatto sorridere, quella del Sig. Alessandro Gianni, direttore delle “campagne” di Greenpeace: “L'unica soluzione è smetterla con le esplorazioni offshore ed avviare una decisa rivoluzione energetica così da poterci liberare dalla schiavitù del petrolio e dal pericolo del trasporto degli idrocarburi”.

A questo signore vorrei chiedere cosa intende per “rivoluzione energetica”, visto che di energia nucleare non ne vogliono sentire parlare in Italia. Pensa forse che con il sistema solare si possa eliminare il petrolio? Lo sa quel signore che ricoprendo tutta l'Italia di pannelli fotovoltaici, isole comprese, l'energia prodotta non basterebbe per alimentare la sola città di Milano? Per poter eliminare l'uso del petrolio, non dico al 100% ma almeno al 70%, il sistema più sicuro e pulito è il nucleare, però i signori Ambientalisti, Verdi e di Greenpeace dovrebbero capire e convincersi che nucleare non significa Chernobyl. Le centrali nucleari vanno costruite con tutte le sicurezze del caso senza risparmiare sui materiali per ridurre i costi.

Ci fu un referendum che bloccò il nucleare in Italia, sull’onda emozionale di Chernobyl.

Esatto! e fece chiudere l’Ansaldo Nucleare che era all'avanguardia in queste progettazioni. Oggi stiamo comprando dalla Francia e dalla Svizzera l'energia prodotta dalle loro centrali nucleari pagandola almeno il doppio. Proprio questa mattina ho sentito dal GR Rai che le nostre future centrali nucleari saranno molto sicure e sfrutteranno la tecnologia della francese AREVA, quindi ci costeranno di più in quanto la nostra ANSALDO è rimasta indietro in questi anni di bocciatura del nucleare in Italia

Conclusione.

3.858 è il numero delle piattaforme petrolifere presenti (2006) nel Golfo del Messico secondo la National Oceanic Atmospheric Administration. Non c’è granché da meravigliarsi se qualche valvola o tubo, prima o dopo, faccia avaria e mandi all’aria l’intero sistema produttivo, ma soprattutto l’ecosistema di una vastissima area geografica. Nel caso specifico, il petrolio fuoriuscito pare destinato a penetrare negli aquitrini e nelle paludi della Louisiana-Missisipi-Alabama. Se il fiume nero non sarà bloccato o deviato in tempo, le conseguenze saranno davvero catastrofiche. Ma per favore, che non ci si venga a dire, che questo è il prezzo che si deve pagare al progresso…

Ringraziamo il nostro socio Pino Sorio per questa “speciale” intervista.

Carlo GATTI

Rapallo, 21.02.12


CHE FELICITA' (Poesia)

 

 

CHE FELICITA’

27 dicembre 2007

 

Questo giorno è un regalo

inaspettato

un giorno da cartolina.

Invece è tutto vero

e magico

come a teatro.

Gli attori sono

i colori delle case

i versanti ondulati

verdi rossicci dei monti

Caravaggio, bianco

lassù tra le querce

Montallegro giallo rosa

con la mia Regina

l'azzurro liquido del mare

che parlotta sui fianchi

dei panfili ancorati

e la zampata quieta

dei monti lontani

che riposa sul mare.

E io

io dentro allo spettacolo

non spettatrice

attrice penso, parlo

scrivo la mia felicità

per esserci.

 

ADA BOTTINI


Rapallo, 31 Gennaio 2019



L'EPOPEA DEI "MACCHI"...

L’EPOPEA DEI "MACCHI"

GENOVA


Le moderne dighe foranee dei porti principali sono costruite con moduli in calcestruzzo che in gergo marinaro vengono chiamati MACCHI oppure CASSONI. In questa foto se ne vedono DUE che sono pronti per essere rimorchiati verso la loro destinazione. Questi manufatti sono di varie misure: peso, lunghezza, larghezza e pescaggio a seconda del fondale su cui dovranno poggiare. Chi scrive ne rimorchiò 21 a Monaco per la costruzione della diga del porto di Fontvieille. Il dislocamento dei macchi varia da 2.000 tonn. a 4.000, pescano da 9 a 12,5 mt. La velocità di navigazione varia da 1 a 3 nodi, con tempo buono assicurato. La ridotta velocità non dipende dalla scarsa potenza del rimorchiatore, ma dalla assenza di linee idrodinamiche del manufatto che, in pratica, é senza prua e poppa.

Nel macco più basso della foto, si può osservare la suddivisione interna in celle che hanno una precisa funzione: per essere posizionato, allineato e affondato secondo il progetto ingegneristico, le celle del manufatto vengono riempite d'acqua, per cui il macco può essere appesantito o alleggerito fino a raggiungere la perfetta posizione. Appoggiato definitivamente sul fondale, la fase finale consiste nel sostituire l'acqua di zavorra con colate di cemento, sabbia o altro materiale edilizio.

27.15.4.16.4000…i macchi

I numeri qui riportati non sono quelli del lotto ma sono le caratteristiche che contraddistinguono alcuni tipi di cassoni della Fincosit (da noi confidenzialmente chiamati macchi) e che dai Cantieri venivano rimorchiati ai luoghi di affondamento per la costruzione delle infrastrutture portuali: Porto Torres, Marsha el Brega, Monaco furono le nostre destinazioni.

27 metri la lunghezza, 15 metri la larghezza, 5 metri la parte emersa, 11 metri la parte immersa, per un peso di 4000 tonnellate di cemento.

Fiuto, naso, sensibilità tutte doti indispensabili che facevano e fanno la dotazione del Barcacciante nel prevedere il tempo (vedi i Siparietti dedicati al “naso” nel libro "Con le Barcacce nel cuore" di C.Gatti-S.Masini) e prendere le decisioni del caso, ma c’è una condizione di rimorchio dove solo una dose di fortuna gioca un ruolo predominante: quando si rimorchia il “macco”, questa specie di iceberg in cemento.


I “macchi” in attesa di essere rimorchiati sul luogo di affondamento.

Qui non si scappa, anche con tanta potenza la velocità è di 3-3½ nodi (4 un record con corrente a favore...) e con un pescaggio di 11 mt. che non dava scampo per eventuali ridossi. Partenza da Genova con tempo dichiarato ma la lunghezza del viaggio non assicurava niente, anche l’avviso di perturbazione non dava possibilità di cercare ridosso.

Un pugile alle corde che poteva solo difendersi come poteva.

La velocità alla partenza era ancora inferiore dovuta alla vegetazione che aveva fiorito nella parte immersa durante la sosta in Cantiere e che lentamente in parte si rilasciava nelle prime 48 ore di navigazione.

Tanto eravamo lenti che ancora il giorno successivo alla partenza si metteva il gommone a mare per andare a comprare pane fresco e giornali.

Che dire ancora su questo tipo di rimorchio.

Intanto che anche con potenze di molto maggiori la velocità non incrementava significativamente. Ci provammo anche col Vortice (6.500 CV) ma con risultati modesti, c’era comunque da considerare lo sforzo maggiore delle attrezzature e la sollecitazione alla struttura del cassone che suggeriva una certa cautela.

Per i meno iniziati ricordiamo come le resistenze al moto in mare incrementano col cubo della potenza raggiungendo rapidamente valori astronomici.

Movimento in porto di un "macco".

 

 

Il Rimorchiatore della Fincosit  movimenta il cassone e lo consegna  al Rimorchiatore di altura.


Rimorchio di un cassone di cemento di medio tonnellaggio. Rapportino del viaggio del cassone da Genova a Monaco: Miglia 75 in 22h – Velocità 3.41 nodi.


Alcune fasi nella costruzione dei Cassoni (Fincosit)

L’epopea di un cassone Fincosit.

Nelle rievocazione dell’Ing. Pasquale Buongiorno:

A  tutti  i  marittimi che  hanno  contribuito  a   far   grande

la  Fincosit ......

"Sono le tre del mattino del primo febbraio 2007.  Marco esce di casa cercando di non svegliare la famiglia. E parte, direzione Marghera. Lì in banchina lo aspettano Fabrizio, Paolo, Giovanni e Pietro per andare fuori dalla Bocca di Lido incontro al cassone.

I cognomi non sono importanti, di solito ci si dà del tu, del vaffa... se occorre.

Se il tempo lo permetterà, oggi il cassone NS42, il 2271-esimo cassone della FINCOSIT (e questo vuol dire più di 50 km di dighe e banchine costruite...), il primo del progetto Mo.S.E. entrerà a Venezia.

Mi hanno chiesto di scrivere qualcosa sul rimorchio dei cassoni.

Ma io mi intendo più di numeri che di lettere e poi il rimorchio è meccanica, movimento  e noi ingegneri civili preferiamo la statica. Allora mi sono detto “Perché non parlare dei nostri marittimi e del loro lavoro....?”

Ho appena abbozzato la dedica e la premessa e so già che prenderò una bella strigliata dal mio Presidente. Lo so, ora il nome della società è GLF ma per me che sono in ditta da più di 20 anni ma anche per tutti i colleghi, le Autorità Portuali e i giornali, la branca marittima della società è e rimarrà sempre “la FINCOSIT”.

Se dici a un genovese “rimorchio di un cassone”, ti parlerà della partenza del superbacino, bianco lui, nero il rimorchiatore, salutati dal fischio delle sirene e dalle colonne d'acqua degli idranti, come una coppia di sposi in partenza per la luna di miele.

Ricorderà solo il viaggio.

Ma il rimorchio è come la grappa, c'è una testa e una coda.

C'è la testa, i preparativi per il viaggio, la posa in opera delle bitte di manovra, dei cavi di rimorchio e di emergenza, della biscaggina, delle luci per la navigazione notturna fino a presentare il cassone al rimorchiatore. E' un lavoro di routine, tutto si svolge in banchina, con la gru, i pontoni di servizio, i giusti tempi.

C'è la coda, il cassone che arriva a destinazione e viene preso e affondato. E' il duro lavoro dei marittimi, la fatica in mare, con tutte le difficoltà ed i problemi che si possono presentare. Ed è di questo che voglio parlare.

Solitamente i cassoni terminano il loro viaggio all'interno dei porti o in corrispondenza delle dighe foranee e in attesa di una giornata con mare piatto, adatta per la posa, vengono ormeggiati in banchina.

Qui è diverso, all'interno delle bocche c'è la corrente che va e che viene, che spinge il cassone prima verso il mare e poi verso la laguna, senza interruzioni, più di due metri al secondo e i cassoni devono essere tenuti fermi in qualche modo.

Nei giorni precedenti i marittimi hanno quindi posto in opera i corpi morti a cui   ormeggiare i cassoni, per poi tonneggiare con gli argani e posizionarli con la dovuta precisione.

I cassoni sono stati arredati con bitte da 30 tonnellate, bitte da piccola banchina portuale e i corpi morti sono da 100 tonnellate.

Hanno messo le boe, le catene, gli spezzoni di cavo in polipropilene ad alta resistenza.

Tutto è pronto per ricevere il cassone. E il cassone è arrivato in rada il giorno prima.

Il S. Cataldo lo ha rimorchiato dal centro di prefabbricazione di Taranto (credo che Leonardo avrà salutato il suo “primo nato” con trepidazione) e con un viaggio di 11 giorni lo ha trasportato fino a Venezia, burdesandu-burdesandu, girando intorno al Gargano, su su fino al delta del Po e poi alla Bocca di Lido

E i ragazzi gli sono andati incontro. I marinai ma anche Davide, il direttore di cantiere, che è cresciuto a pane e Fincosit, con il padre a fargli da maestro.

Un piccolo viaggio, da Marghera fino fuori alle bocche di porto, 12 miglia a bassa velocità per non danneggiare, con le onde generate dalle eliche, con lo sciabordio, le fondamenta degli storici palazzi veneziani.

E hanno raggiunto il cassone.

Ricordo ancora la prima volta che, studente del biennio, vidi un cassone a rimorchio uscire dal porto, alla Foce.  Spuntò d'improvviso e nel silenzio da dietro il padiglione B. Una visione onirica, il passaggio del Rex nel film Amarcord. Qualcosa che solo Archimede era in grado di spiegare.

E ora lo spettacolo è simile.

E' là, alto, maestoso contro l'orizzonte, quasi cinque metri di franco bordo".


Macco in navigazione

Un bestione di 21,88 x 12,24 x 13,80 m che immerge 9 metri e spiccioli (ecco che ricompare l'ingegnere.....) che però ha seguito il rimorchiatore ad una distanza di circa 400 m docile come un cagnolino, incurante delle onde, del vento di maestrale, del mare che è montato fino a forza 5, 6....

Il comandante del S. Cataldo è soddisfatto: un rimorchio di tutta tranquillità.

Per l'occasione è venuto a Venezia anche Dino,  un nostro “vecchio” capo cantiere.

Ha quasi 70 anni ma con un "mascone" ti farebbe ancora fare tre giri su te stesso. E' lì nella foto con il suo cappellaccio calato sulla testa che osserva e commenta a mezza voce.

Lui conosce bene tutti i ragazzi, pregi e difetti, li ha visti crescere, li ha fatti crescere....

Era un po' di tempo che non si vedevano: si sono avvicinati, guardati, annusati quasi, per vedere se qualcosa era cambiato.

Un colpo sulla spalla, un ciao con voce sommessa, un tocco sul braccio, un abbraccio,  una grossa risata e una bella presa in giro: tutto come prima...

Non è retorica: la vita di cantiere è diversa dalla vita di ufficio, si crea un altro spirito, i rapporti sono diversi. Anche con Enrico, il project manager, solitamente così riservato, anche con me che sono un progettista.....

I ragazzi sono saliti sulla cima del cassone per passare la patta d'oca al rimorchiatore del porto che dovrà fungere da batticulo durante il viaggio fino all'interno della bocca.

Mi piacerebbe dire che sono andati all'arrembaggio, su per la biscaggina. Sarà che la nostra bandiera è per metà nera...."



Uno guarda le foto e dice: “Una bella giornata di sole” e feroce come una mannaia cala la nebbia. La natura è imprevedibile e per questo deve essere rispettata, sembra che si diverta a canzonare l'incauto che cerca di piegarla ai propri voleri.

E i nostri sono rimasti lì, vicini al S. Cataldo, sul loro mezzo, giastemandu perché erano quasi alla fine....

Bastava che il rimorchiatore fosse arrivato qualche ora prima, che non fosse stato rallentato dalle correnti, che ...., che ..... ma non conta: ora si sta fermi.

Il porto è chiuso e i ragazzi dopo essersi azzuppati nell'umidità tornano alla banchina,  nervosi per la giornata in parte persa, per il tempo che dovranno perdere domani e poi dopodomani e.... lo sa il Signore.

Il lavoro in mare è così, imprevedibile; si rimane magari in attesa del bel tempo per tutta la settimana e non si può uscire per la burrasca .. e poi il bel tempo arriva la domenica e devi lasciare tutto e andare a lavorare .. ma tant'è....

E siamo al mattino dopo, alle cinque, a Marghera; si parte, presagendo già che sarà una giornata persa. In Canal Grande la nebbia va e viene; alle bocche è un velo lattigginoso che tutto nasconde.

Intanto il S. Cataldo è lì che gira, fa la ruota davanti alle bocche, come i gabbiani intorno alla fontana illuminata di De Ferrari, in certe fredde sere d'inverno.

E Dino, da buon genovese, lui che è della Versilia, non ha dimenticato il mestiere, fa i conti. E misura le controstallie, le ore di straordinario, ma si preoccupa anche dei “suoi”: “Domani dovranno di nuovo uscire: speriamo bene; con queste distanze e questi tempi (....quasi una quinta dimensione a Venezia....ndr) bisogna sempre partire all'alba per essere pronti quando serve”. La giornata passa così in attesa. E si torna indietro aspettando il bel tempo.

E finalmente il giorno dopo non c'è nebbia e il porto viene riaperto.

Il convoglio parte e raggiunge la spalla sud.

Qui il cassone viene posto in corrispondenza dell'imbasamento provvisorio dove potrà riposare in attesa della sua sistemazione finale.

Viene affiancato dal pontone, i nostri salgono a bordo, agganciano le cime alle bitte, iniziano a smontare la cinta di rimorchio, danno il liberi tutti ai rimorchiatori.

Gli argani sono al loro posto, i tappi delle coperture aperti, le pompe installate. Ora il cassone è domato.

Il macco entra in porto. Un rimorchiatore lo traina ed un altro lo frena

Personale FINCOSIT in azione


Navigazione portuale

E lentamente scende, controllato, per evitare che vada fuori posizione, si posa, viene immobilizzato con la zavorra.

Un altro giorno è andato direbbe Guccini.....

Ora il rimorchio si è concluso.

Fra 15 giorni si replica, speriamo senza nebbia; il S. Cataldo ha già ripreso la sua corsa verso Taranto".

TESTIMONIANZA del Comandante Luciano Ravettino


Era il 1974, forse aprile, ed io ero appena entrato negli RR di Genova (venivo dalla SIDERMAR). Partiamo da Genova con il M/r Torregrande per rimorchiare un macco a Palermo; comandante Nicola Marongiu. Il macco, per quanti non addetti ai lavori, è un manufatto in cemento armato galleggiante che quando viene allagato si deposita sul fondo, fungendo da basamento per la costruzione di dighe foranee. Il nostro misurava 12x16x32 metri...praticamente una palazzina. Per la sua forma a parallelepipedo, raggiungeva, trainato, una velocità massima di due nodi e mezzo, grosso modo otto giorni di traversata, tempo e mare permettendo. Siamo abbastanza fortunati e viaggiamo abbastanza spediti fin quasi alle Bocche di Bonifacio: sono le 5 del mattino e sento Nicola salire sul ponte. Precisazione e premessa indispensabili: chiunque abbia fatto un rimorchio d'alto mare sa con quanta assoluta scrupolosità si ascoltino i bollettini meteo e il Com.te Marongiu non era da meno, anzi, non solo non se ne perdeva uno, ma per ognuno aveva una sua personale classifica di attendibilità.

Dicevo, sono le 5, i bollettini sono tutti favorevoli, mare calmo, solo una leggera brezza, le condizioni ideali per navigare. Sono le 5 e Nicola passeggia sul ponte, respira profondo, guarda il cielo quasi a scorgere le prime luci dell'alba. Di punto in bianco mi ordina "Rallenta, avvisa in macchina, accorcia il cavo, andiamo a ridosso a Porto Vecchio (una sorta di fiordo nella costa sud della Corsica). Per i non addetti: un rimorchio del genere implica l'utilizzo di 800-1000 metri di cavo di acciaio del diametro di 70 m/m, entrare a Porto Vecchio significava 3...4 ore di avvicinamento e manovra per portare la lunghezza del cavo a 200 mt.

Rimasi sbalordito da simile decisione ma, chi va per mare sa che deve obbedire e non indugiai un attimo, anche se in cuor mio pensai a qualche losco intrallazzo...ero nuovo dell'ambiente, non conoscevo l'Uomo.

Verso le 8 i bollettini cominciano a cambiare, il vento rinforza, il mare si increspa. Via via che ci avviciniamo al ridosso i bollettini sono sempre più allarmati e, quel che più conta, le condimeteo sempre peggiori. Alle 11 fuori è buriana, ma noi siamo al riparo!

Per 5 giorni facciamo avanti e indietro a lento moto nel golfo di Porto Vecchio, continuando a sentire bollettini, che tutti unanimemente sono di burrasca.

Il sesto giorno, all'alba, siamo in prossimità dell'uscita del fiordo e io mi preparo all'accostata per tornare dentro. E' l'alba, c'è vento, in lontananza vedo il mare agitato, i bollettini continuano ad essere estremamente brutti: sento Nicola sul ponte, incredulo lo sento dire: "Fila cavo...usciamo...andiamo". Incredulo obbedisco.

Alle 11 siamo fuori...alla via...Non dico fosse bonaccia, ma le condizioni andavano velocemente migliorando e pure i bollettini davano il miglioramento.

A quel punto non ho resistito, mi sono rivolto al Comandante e gli ho chiesto: "Come ha fatto?" E Lui, con quella parlata che hanno solo la gente di Carloforte, mi dice:

"Ghea l'aia strassaa" (L'aria era strappata). Parliamo di mare, di Uomo di mare.

Testi e foto di:

Carlo Gatti e Silvano Masini

Rapallo, 28 dicembre 2017


 


NAUFRAGI DIMENTICATI

Naufragi dimenticati

Quando si scappava dalla fame…

La storia “marinara” ufficiale la conosciamo, o dovremmo... ma alcuni capitoli, quelli brevi e sconosciuti, sono stati scritti, raccontati o indagati solo da alcuni decenni a questa parte.

Sul sito di Mare Nostrum Rapallo, abbiamo dedicato molti articoli sui “Naufragi che non passarono alla Storia”, citiamo solo alcuni esempi: P.fo Donizzetti, P.fo Ardena, M/n Mario Roselli, M/n Sinfra, P.fo Petrella, P.fo Oria. Soltanto queste navi sono state affondate durante la Seconda guerra mondiale ed il numero delle vittime ammontò ad oltre 12.356. Di questi naufragi avvenuti improvvisamente e spesso di notte, non si nulla o quasi.

Oggi se ne sa di più grazie all’opera meritoria di chi, figli, nipoti, eredi e storici onesti, sono tornati su quei fondali dell’Egeo a scavare e cercare reperti, indizi che potessero in qualche modo portare all’identificazione dei loro cari per ricordare ciò che è già dimenticato.

Trovate questi articoli nella sezione “Articoli di Storia-pag.4.

Se andiamo ancora più indietro nel tempo e, precisamente al capitolo dell’emigrazione dei nostri avi verso le Americhe, c’inabissiamo anche noi nelle sofferenze spesso inenarrabili, di soprusi, ingiustizie, calvari, malattie e morti. Le piccole storie di questa gente spesso finivano in fondo al mare, senza neppure riuscire a mettere piede sull’agognata terra redentrice, altro che cercar lavoro o delinquere.

Oggi vi raccontiamo alcuni di questi lontani naufragi che sono purtroppo ritornati d’attualità sulle nostre coste e ci fanno capire quanto la POLITICA internazionale sia incapace di risolvere il grande problema delle emigrazioni ricorrenti nella Storia dell’umanità.

Tutto ciò accade nonostante siano stati compiuti progressi ENORMI nella sicurezza delle costruzioni navali, nella navigazione strumentale e, soprattutto, nell’alimentazione, nell’igiene e vivibilità di bordo, dopo che la scienza ha sconfitto tutte le malattie esantematiche.

Eppure si continua a morire!

ALCUNI CELEBRI NAUFRAGI DI EMIGRANTI…

L’Ortigia, piroscafo carico di emigranti, viene speronato dal mercantile Oncle Ioseph e affonda al largo della costa argentina: 149 morti.

La nave italiana ORTIGIA

Una nave “maledetta”

Apparteneva alla Compagnia siciliana Florio, fu varata a Livorno nel 1873, e da subito era apparsa una nave piuttosto pericolosa. Spesso capitava che nelle manovre in porto travolgesse piccole imbarcazioni o finisse per urtare contro la banchina.

Il 24 novembre 1880 - alle tre di notte si scontrò con la nave passeggeri francese Oncle Joseph affondandola in otto minuti e provocando più di 200 morti.

Nel 1885 si scontrò con un’altra nave francese, la Martignan, ci furono 12 morti. Dopo ogni incidente veniva cambiato l’intero equipaggio, compreso il Comandante, ma gli incidenti continuavano a verificarsi.

Nel 1890 un'altra collisione, questa volta con una nave norvegese e i morti furono cinque.

Il 21 luglio 1895, la Maria P., piccola nave passeggeri, all’entrata del golfo della Spezia, a largo dell’Isola del Tino, si scontrò con l’Ortigia. La Maria P. affondò in tre minuti provocando la morte di 144 persone. Lo scontro si verificò all’1h e 30m in una notte particolarmente buia e lOrtigia dovette aspettare l’arrivo della luce del giorno per riuscire a portare in salvo 14 membri dell’equipaggio e 28 passeggeri naufraghi. Da quest’ultimo incidente nessuno volle mai più salire a bordo dellOrtigia, creduta, forse non a torto, un nave davvero maledetta.

Il 24 agosto del 1880 il piroscafo Ortigia piroscafo carico di emigranti viene speronato dal mercantile Oncle Ioseph al largo della costa argentina: 149 morti.

«Accovacciati sulla coperta, presso le scale, con i piatti tra le gambe e il pezzo di pane tra i piedi, i nostri emigranti mangiavano il loro pasto come poveretti alle porte dei conventi.

E’ un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare, sul quale si rovesciano tutte le immondizie volontarie ed involontarie di quella popolazione viaggiante. L’insudiciamento dei dormitori è tale che bisogna ogni mattina far uscire sul ponte scoperto gli emigranti per nettare i pavimenti. Secondo il regolamento, i dormitori sono spazzati con segatura, occorrendo si mescolano disinfettanti, sono lavati diligentemente e asciugati. Ma tutte le deiezioni e le immondizie che si accumulano sui pavimenti, corrompono l’aria con forti emanazioni e la pulizia sarà difficile».

E’ un passo della relazione stilata da Teodorico Rosati, ispettore sanitario sulle navi degli emigranti, che getta un fascio di luce sulla penosa situazione in cui erano costretti i nostri emigranti, imbarcati su navi di infimo ordine. Le stive delle «navi di Lazzaro», ove si assiepavano, in carenza di luce e di adeguata aerazione, uomini, donne e bambini in condizione di deplorevole promiscuità, si trasformavano, con l’affollamento, in ricettacoli ad alto rischio patogeno, dai quali si sviluppavano frequenti infezioni malariche e broncopolmonari, epidemie di febbri tropicali, che mietevano vi ime, sopra u o tra i bambini.

Il 4 luglio del 1898 il piroscafo francese Bourgogne affonda al largo della Nuova Scozia: 549 morti.

28 maggio 1914: il piroscafo inglese Imperatrice d’Irlanda, nel Golfo di San Lorenzo, causa la fitta nebbia, entra in collisione con la nave norvegese Storstad. Nell’affondamento muoiono 1012 passeggeri, tra cui molti emigranti italiani. Tra i pochi scampati al naufragio figurano Egildo Braga, emigrato nel Minnesota come minatore, e la moglie Carolina, ambedue di Turbigo.

Nel 1888 naufraga il Sud America, della compagnia genovese “La Veloce”, nei pressi delle Canarie: vi muoiono una novantina di liguri. Piccola storia dimenticata e ora riemersa dal fondo dell’oceano grazie allo storico ligure Sandro Pellegrini e al suo impegno in questo senso. Perché tutti questi morti? Molte le cause, ma una in particolare colpisce per la sua “modernità” (ci si passi l’espressione): in molti casi, le navi che trasportano gli emigranti sono vere e proprie “carrette del mare”, navi mercantili riadattate alla bene e meglio per trasporto passeggeri, navi vecchie, sgangherate, fatiscenti, costose da rimettere a posto.

IL NAUFRAGIO DEL SIRIO (4agosto 1906)

Lo chiamarono il Titanic dei poveri.



Il piroscafo “Sirio” come appariva in navigazione nella sua snella silhoutte.



ll Sirio è un po’ l’emblema delle piccole storie che finiscono in fondo all’oceano.

4 agosto 1906: Il Sirio, un vecchio bastimento di proprietà della Navigazione generale italiana N.G.I., affonda speronando gli scogli che si trovano al largo di Capo de Palos (Spagna): 500 morti circa.

Non è che un breve elenco, parte di una ben più lunga lista di naufragi, in cui persero la vita moltissimi nostri connazionali, partiti in cerca di fortuna. Non c’era però solo fatalità o imperizia dei comandanti in quelle sciagure, bensì anche colpevole incuria. Il trasporto degli emigranti era infatti diventato un grande affare e su questo specularono le compagnie di navigazione, me finendo in mare vecchie carrette, sommariamente riattate, ma prive di quei requisiti previsti dalla legge.

Per non parlare delle malattie, anzi delle epidemie che scoppiano a bordo di questi inferni galleggianti, tanto da giustificare un’espressione coniata all’uopo, i “vascelli della morte”. E anche in questo caso, c’è un emblema della tragedia, ed è la Carlo Raggio”. Partita nel 1896 dal porto di Napoli, mentre in città infuria il colera, la nave si dirige a Genova, poi a Barcellona per imbarcare altri emigranti, infine in Brasile, la meta finale. A bordo, durante la traversata, si sviluppa l’epidemia. Messa in quarantena a Rio de Janeiro, la nave viene respinta indietro e attraversa di nuovo l’oceano, seminandolo dei cadaveri che quotidianamente butta fuori bordo, e così avanti per tre mesi, finché il colera non si spegne. Ma che dire, allora, dell’analogo caso della “Matteo Bruzzo”, contro cui le autorità uruguayane sparano cannonate per non farla attraccare, e poi ancora nel 1893 la difterite sulla “Remo”, nel 1889 l’avvelenamento dei cibi sulla “Giava”, sempre nel 1889 l’asfissia sulla “Frisia”. Piccole storie tragiche ora riscoperte con agghiacciante pietà da autori come Gian Antonio Stella (Odissee, Rizzoli), Augusta Molinari (Le navi di Lazzaro, Franco Angeli), Emilio Franzina (Merica Merica, Feltrinelli), e tanti altri.
Certo, la Storia di quell’Italia che si sposta alla scoperta del Grande Mondo, la storia della “grande proletaria” che si è mossa, è diversa dalla storia della Germania, della Gran Bretagna, della Francia, dell’Irlanda di fine secolo. Allo stesso modo, è diversa dall’Italia di questi anni, così come è diversa dalla storia dei paesi emergenti alle soglie del terzo millennio. Come si usa dire: “cambia il contesto di riferimento”, e dunque ogni attualizzazione, ogni revisionismo in un senso o nell’altro, ogni analisi che tenda a rimarcare inquietanti analogie tra passato e presente sono tutte operazione estremamente rischiose e soggette all’accusa di “ideologia” e di “strumentalizzazione”. Eppure il dubbio rimane, e riguarda le piccole storie. Storie di miserie, di disperazione, di rifugiati politici, di carrette del mare e di miti collettivi, che aiutano a sperare, almeno per un po’, in una delle tante “Meriche delle cento lire” disseminate per il mondo.

Partire per emigrare non era certamente una scelta che si poteva prendere a cuor leggero. Il ruolo della famiglia era determinante. Si poteva, infatti, scegliere di andar via da soli o con alcuni dei parenti più stretti, ma si poteva anche emigrare perché richiamati da un familiare,  il padre o il marito, che già risiedevano da tempo all’estero.
Molto spesso il far partire un componente della famiglia e mandarlo a cercare fortuna in America  era visto, da parte di chi rimaneva, come una sorta di investimento per il futuro, reso possibile grazie ai dollari che l’emigrante avrebbe poi mandato a casa.
Una volta che la decisione era stata presa, occorreva trovare i soldi per acquistare il biglietto del bastimento ed avere poi a disposizione una piccola somma per le prime necessità (negli Stati Uniti era obbligatoria). Anche a questa incombenza, normalmente, provvedevano amici e parenti con un prestito: il più delle volte si firmavano alcune cambiali con l’impegno che   il denaro sarebbe stato restituito, con i dovuti interessi. In mancanza di tali finanziatori per così dire, “familiari” si era costretti a ricorrere a persone esterne alla propria cerchia di parenti. In questo caso si correva il rischio di incappare in soggetti poco raccomandabili che potevano anche costringere il futuro emigrante ad impegnare o vendere la propria casa o il piccolo pezzo di terra. In ogni caso, comunque, era sempre in agguato il rischio, tutt’altro che remoto, di vedere le masserizie sottovalutate o, nella peggiore delle ipotesi, di venire truffati da mediatori senza scrupoli.
Durante i primi anni della grande emigrazione, quando ancora le leggi non prevedevano un’adeguata tutela dell’emigrante, questi doveva vedersela anche con gli emissari di alcuni governi stranieri (ad esempio quello brasiliano) che per convincerli a partire per quel Paese promettevano viaggi gratuiti e retribuzioni favolose.
Da ultimo, ma non meno insidiosi per i nostri emigranti, erano gli agenti e i rappresentanti delle compagnie di navigazione che, non di rado, assicuravano comodi viaggi in nave e un lavoro sicuro e qualificato,  pur di vendere un biglietto.

QUANDO L’EMIGRANTE ERA UN POLLO DA SPENNARE…

E’ triste dover raccontare certe cose… ma sentite questa:

Spesso erano le Banche a farsi carico dei soldi necessari per il solo biglietto di andata dell’emigrante, al quale veniva chiesto in garanzia del prestito la casa e l’appezzamento di terreno, un rudere di pietra che, al momento, aveva ben poco valore. Quando poi l’emigrante arrivava sul posto si rivolgeva al fiduciario della Banca collegata con l’Italia che, naturalmente era ignaro delle trattative intercorse e di contratti stipulati in merito… In questo modo l’emigrante ligure capiva immediatamente di essere stato raggirato!

Una volta sistemato negli States, l’avo rivierasco non pensava più di ritornare in patria dove non aveva più nulla, e poi c’erano le guerre e ancora tanta fame. Le sue proprietà nel frattempo erano passate definitivamente a certe Banche locali che, al momento opportuno, pensarono bene di “rapallizzare” e sappiamo quanto...(???). Molte storie tutte identiche ci sono state raccontate persino a Portofino, Santa Margherita e Rapallo che testimoniano quanto all’epoca dell’emigrazione nostrana la povertà dei nostri avi andasse di pari passo con il basso valore delle loro proprietà.

 

Ringrazio ENTELLA TV e l’impagabile Trasmissione FRA AMICI che ci ha raccontato questi sconcertanti retroscena anche attraverso interviste e testimonianze di discendenti di quei “poveri cristi” la cui maggioranza non tornò più in Italia per non “sporcarsi le mani”…

Forse un giorno, qualcuno sopra le parti, oppure sotto… non ha importanza, ci racconterà con dovizia di particolari i meccanismi che regolarono l’emigrazione del passato ma che, a quanto sembra, persistono ancora oggi con altri sistemi, magari paralleli.

Certo, oggi il FENOMENO lo vediamo da “estranei” ogni giorno in TV, ma siamo proprio sicuri di “colpire i veri responsabili” con le nostre critiche, ansie, paure e voglie di cambiamenti?

 

Carlo GATTI

Rapallo, 19 Ottobre 2017

 

 


GENOVA PRA' E GLI EX VOTO

GENOVA PRA’ e gli ex voto

 

 

 

Da ragazzino, per andare a scuola, attraversavo l’unica piazza a Prà degna di questa definizione; era eternamente battuta dalla tramontana che, da lì, si dipartiva per spazzare tutti i “carruggi” del mio paese. D’estate, svoltando l’angolo, poteva rappresentare un refrigerio ristoratore, specie se, come spesso capitava, ci si arrivava sudati dopo una lunga corsa per determinare chi fosse il primo; ma d’inverno, proprio no.

 

Si faticava, pur inclinati in avanti, ad attraversarla per la forza di quel vento gelido che ti respingeva, facendoci arrivare a scuola intirizziti, specie quando, ancora piccoli, frequentavamo le prime classi elementari; indossavamo i pantaloncini ricuperati dal fratello maggiore e non era certo lo smunto cappottino a ripararci le gambe rosse dai geloni, afflizione che oggi, con il benessere, è scomparsa.

 

Per fortuna, grazie alla pesante cartella, nessuno di noi è mai volato via col vento.

 


 

Sul fondo, proprio da dove arrivava la tramontana, quasi a chiudere la piazza, c’era una piccola chiesa dipinta a strisce orizzontali bianche e nere, la cui minuta sagoma non riusciva a deviarne le raffiche.

 

 

Era dedicata a San Rocco, il santo francese pellegrino, protettore dalla peste e sempre raffigurato mentre, sollevando un lembo della tonaca, mostra la gamba affetta da un bubbone; al suo fianco, accosciato, l’immancabile “bastardino” che tiene un pane in bocca.

 

Era, se pur minuta, l’unica chiesa della zona, ma tanto piccola e dimessa da non essere mai arrivata a divenire Parrocchia, anche se le anime che raccoglieva, ampiamente lo avrebbe giustificato,

 

La vera parrocchiale, Santa Maria Assunta dal nome altisonante rispetto all’altra, era un’antica pieve in Palmaro, situata al confine con il paese successivo e ancor più vicina ai canaloni lungo i quali scende a buttarsi in mare la tramontana, ma molto decentrata rispetto al paese di cui era Parrocchia.

 

S. Rocco, l’avevano costruita proprio dove un tempo c’era la spiaggia; così la vollero i pescatori che, anticamente, contribuirono ad erigerla. Pensarla lì, vicino alla spiaggia  mi fa venire in mente i versi del poeta Vincenzo Cardarelli, là dove nella sua <sera di Liguria > scrive:

 

Sepolto nella bruma il mare odora

le chiese sulla riva paion navi

che stanno per salpare

La edificarono lì sulla battigia perché, in caso di improvviso, impenetrabile “caligo”, agli uomini sul mare dava la certezza di poter tornare: bastava, in quella improvvisa impenetrabile nebbia, orientare le prue al suono delle sue campane, appositamente suonate a martello, per rientrare dalle loro donne, sempre in ansiosa attesa.

 

Lungo il lato di levante della vecchia chiesetta, scorreva un rigagnolo nel quale le donne lavavano i panni per poi asciugarli stesi tutt’attorno, sulla tiepida rena.

 

All’inizio del secolo scorso, quando costruirono la ferrovia, sottrassero al paese una fetta di spiaggia proprio davanti a San Rocco; sul tratto rimasto verso monte, vi pavimentarono quella piazza che io dovevo attraversare contro vento. La Domenica era, da quando la fecero, luogo d’incontro fra i contadini del circondario e i pescatori del borgo. L’estate poi, una serie di panchine di ghisa, ombreggiate dalle piante che ne contornavano il quadrato confine, permettevano agli anziani di ritemprarsi  alla brezza della sera.

 

In tempi recenti hanno demolito la chiesetta e realizzato una diversa e più moderna piazza. La nuova soluzione, quando la decisero a tavolino in un qualche Ufficio dell’Urbanistica Comunale della Grande Genova, avrebbe dovuto essere un luogo di “aggregazione sociale”; divenne invece una disordinata zona di parcheggi. Ancora una volta, ciò che i semplici popolani non vollero fare, lo attuarono i moderni, pretenziosi urbanisti.

 


 

All’interno di quella chiesetta, proprio appeso al centro del soffitto dell’unica piccola navata, c’era un grande modello di veliero navigante…nell’aria sopra le nostre teste, armato con mille sottili sartie che non ho mai capito se erano veri fili o ragnatele ricoperte da antica polvere; ogni volta che andavo la sotto a sognare, con lui navigavo nel mare della mia fantasia. M'avevano detto che era un “voto”; ma allora perché, mi chiedevo, al parroco hanno dato, come voto, un così bel regalo e invece a me, sulla pagella, pur chiamandoli con lo stesso nome mi rifilano sfilze di bassi e temutissimi “numeri”?

 

Solo quando non fui più capace di sognare, ne compresi la differenza sostanziale.

 

Quello è il primo “ex voto” che ricordo; in tutte le chiese legate alla vita di mare, ce ne sono o, meglio, ce n’erano, sino a che i fanatici interventi censori di Calvino e Lutero e successivamente quelli persecutori dei seguaci della rivoluzione francese a ciò sospinti dal vento che la seguì, ne fecero piazza pulita. In fine, ciò che era scampato da queste ottuse bufere, non sopravisse alla mal digerita voglia di modernità che sconvolse molti parroci subito dopo la fine dell’ultima guerra; li dispersero, vendendoli a privati o ad antiquari spregiudicati, favoriti in ciò anche dall’abituale incuria con la quale custodiamo le “cose di tutti”. Si è persa così, per sempre, una tangibile testimonianza della pochezza umana davanti al  temutissimo strapotere della natura o del destino.

 

Certo, anche inconsciamente, ad alimentare l’insicurezza di chi andava per mare c’era la fredda statistica che, al riguardo, parlava chiaro; dai registri navali si deduce che, nel 1800, su cento navi varate, solo trenta arrivavano alla “pensione” operando; tutte le altre finivano distrutte prima.

 

Questa vera e propria ecatombe, ben nota agli interessati, é alla base delle promesse fatte dal marinaio al suo Dio non solo per scaramanzia, anche se quest’ultima, si dava come imbarcata assieme all’equipaggio; era tangibilmente evocata, sotto forma di scritte o simboli, ben visibili sugli scafi, ad evidente scopo “preventivo”.

 

 

L’occhio di cubìa, il foro attraverso il quale oggi passa la catena dell’ancora, è un retaggio dell’antico occhio magico fenicio, un tempo dipinto a protezione sulle prue delle imbarcazioni, ma che ancor oggi lo si trova in molte barche del Sud e lungo la riviera Adriatica.

 

Queste testimonianze di patti, rispettati e  sciolti tutte le volte che  veniva superato il rischio, erano, per più della metà, dedicati a ricordare uno scampato naufragio, il pericolo più temuto, ma anche il più frequente documentando, nel frattempo, che l’aiuto soprannaturale, specie quello della Vergine, non è mai stato disgiunto all’innegabile perizia dei vecchi lupi di mare, nocchieri di quelle imbarcazioni.

 

L’esigua quantità d’ex voto arrivati sino a noi, riproducenti l’attimo in cui il singolo, ormai impotente, si sia salvato dal fortunale grazie al determinante aiuto divino o per essere stato sottratto ai marosi dal coraggioso intervento dei compagni di sventura, attesta che la sopravvivenza in mare era cosa rara e quasi mai riservata al singolo, assolutamente “disarmato” contro le forze scatenate della natura.

 

Ricorda Omero che lo stesso Agamennone, non appena la sua flotta raggiunse i lidi di Troia, offrì voti a Nettuno; come si vede, da sempre la marineria e gli ex voto hanno “navigato” di concerto.

 

Queste tangibili testimonianze, siano esse bassorilievi, quadri, sculture, sbalzi, incisioni o tele ricamate, documentavano l’episodio accaduto, visualizzando il sentimento di gratitudine dell’interessato per lo scampato pericolo; raramente furono eseguiti di pugno dell’offerente e, quei pochi realizzati, sono oggi facilmente riconoscibili perché ricchi di minuti dettagli, noti all’interessato ma non certo ad un pittore “routinier”, specializzato in ex voto a cui, all’epoca, spesso ci si rivolgeva.

 


 

Sono sempre eseguiti con tecnica ingenua e, sovente, dipinti su frammenti di rozze tele, le stesse utilizzate per riparare le vele o, se oleate, recuperate fra quelle pronte per rattoppare teloni impermeabili. Altri sono dipinti su fogli di rame, certamente scovati in cambusa fra i ricambi per rimpiazzare le tessere dello stesso metallo che rivestiva l’opera morta e che, molto spesso, venivano strappati dai più imprevedibili urti o strisciate. In tutti questi casi i colori utilizzati erano inequivocabilmente pitture grasse, sempre presenti a bordo per i ritocchi di manutenzione. L’autore, ormai in simbiosi con la nave sulla quale, spesso, vi aveva trascorso anni di navigazione senza più aver visto i propri congiunti, ne descriveva minutamente i particolari che ben conosceva, a scapito del “respiro artistico” che oggi ricerchiamo ma che lui, normalmente, non possedeva. Lo stesso ragionamento vale per le barche racchiuse in bottiglia e per le tipiche “mezze navi” incorniciate e sotto vetro e con i fiocchi di cotone impolverati a sopperire il mare.

 

La maggior parte degli ex voto, o come un tempo si diceva “tabelle votive”, giunti sino a noi, sono stati invece sovente realizzati da artigiani anonimi, che avevano bottega o presso i Santuari più frequentati dai marinai o lungo i moli dei porti. Nell’attesa dei clienti, si preparavano già un abbozzo di quadro per meglio valorizzarlo al momento di esibirlo al committente che n’avesse fatto richiesta; poi, a pagamento, apportavano quelle poche, indispensabili varianti o semplici specifiche per far sì che aderisse il più possibile all’episodio descritto loro dal cliente. In molti casi quindi, le navi o i panorami raffigurati non ci danno testimonianza di verità. Possono addirittura ritrarre imbarcazioni immaginarie che, però, divengono credibili grazie ai nomi e alle didascalie poste a chiarimento; quelle sì sempre veritiere.

 

Brigantino "N.S. del Monte Allegro" - 25 maggio 1858: Il Capitano Bartolomeo Rossi ed il suo equipaggio sono tratti in salvo dopo aver naufragato. (Autore: Domenico Gavarone)

 

Naturalmente le “tabelle votive” possono anche avere lampi artistici, secondo il sentire dell’artigiano che le ha realizzate, senza dimenticare che molto spesso giocava un ruolo importante il prezzo pagato dal committente, che poteva lievitare, non perché ne riconoscesse il maggior pregio, ma semplicemente perché desiderava far apportare quelle poche, ma indispensabili modifiche ad opere pressoché finite, così da rendere il più possibile aderente alla realtà la raffigurazione del fatto realmente accaduto. E’ intuibile che non tutto filasse liscio; il compromesso, anche qui, era indispensabile per far quadrare i magri risparmi di cui il marinaio poteva disporre, con l’ineludibile pressione morale che gli imponeva di sciogliere il voto, così come pattuito, <costi quello che costi >.

Nei casi in cui si fosse impegnato a scioglierlo al <primo porto che toccherò >, è naturale che dovesse orientare la propria scelta su qualcosa di quasi pronto, a scapito della veridicità dell’accaduto perché, se non poteva ritirarlo alla successiva franchigia, una volta aggiornato lo portava, seduta stante al Santuario e, di nascosto dai compagni. Quella promessa era una delle poche cose intime che poteva e doveva restare tale, fra chi era invece costretto a condividere diuturnamente tutto con tutti. O al Santuario prescelto o, se diversamente pattuito, lo donava poi a quello più prossimo al primo porto che avesse toccato.

 

Però non erano rari i casi in cui l’intero equipaggio si tassasse per donare un ex voto, degno del loro vascello.

 

A volte capitava che, versato il primo acconto, il committente sparisse per lungo tempo, per quello strano destino che accompagna la gente di mare e che faceva scrivere a Vittorio G. Rossi <sul mare l’uomo non lascia traccia di sé >.

 

Passato un ragionevole lasso di mesi, chi subentrava come acquirente allo “scomparso” che l’aveva commissionato, poteva ottenere forti sconti dal pittore, perché parte del prezzo lo aveva già pagato il primo; bastava, al solito, non richiedere molte varianti, per fare un affare con buona pace dei posteri, convinti di poterci sempre leggere una veritiera pagina di cronaca.

 

Molti furono anche gli “ex voto” realizzati su carta, rivelatasi poi facilmente deperibile per l’umidità sempre presente nelle vecchie Chiese, specie quelle vicino alle spiagge costruite, all’epoca, utilizzando la stessa sabbia di mare circostante, carica di sale mentre, altri, raramente arrivati sino a noi perché troppo fragili, erano dipinti su vetro anche se sarebbe più corretto dire “dietro il vetro”, con la stessa tecnica utilizzata dai cinesi per decorare, dipingendole dall’interno, le “sniff-bottles”; si tratta di raffigurare per primo, ciò che deve apparire in “primo piano” per chi guarda il vetro e poi sovrapponendovi i successivi “retro-piani” sino al fondale con le nuvole e, per ultimo, il cielo così che guardandolo appaia come il più lontano. Quelli che sono giunti sino a noi, si sono salvati perché il vetro li ha protetti dalla corrosione della polvere, dalle rare e grossolane ripuliture e dai fumi delle candele o dell’incenso che, proprio in quelle cappelle e per le stesse motivazioni devozionali, ardevano, sostentate da chi, a casa, aspettava pregando, il ritorno incolume del congiunto.

 

Non si hanno tracce di lavori eseguiti da artisti già affermati all’epoca mentre si conoscono alcuni nomi degli artigiani che andavano per la maggiore presso i committenti; firmavano le opere e, in molti casi, indicavano pure l’indirizzo della bottega. Si sa, da sempre, la pubblicità è l’anima del commercio.

 

Molto ricercati sono gli ex voto, oggi rarissimi perché oggetto d'interessata speculazione, scolpiti o incisi su avorio, ricavato da denti di capidoglio o similari; ormai veri e propri pezzi da museo, quelli istoriati nell’attorcigliato corno del narvalo, cetaceo dei mari artici.

 

Santuario di N.S. di Montallegro – Rapallo. L’ex-voto su lamina d’argento raffigura la “caracca ragusea”, simbolo di destrezza e perfezione tecnica. C’è capitato di scoprire proprio a Dubrovnik (ex-Ragusa) altri esempi di Ex-Voto marinari, molto simili ai nostri e quasi sempre rappresentati con la “caracca di epoca colombiana”.

 

Nel caso in cui l’ex voto fosse stato “solenne”, in altre parole, voluto dall’intero equipaggio, era fatto sbalzare su lastra d’argento (da non confondersi però con quelli a forma di cuore o arti che sono altra cosa) e raffigurava sempre il vascello “miracolato”; in questo caso, poiché tutti contribuivano alla spesa, ci si poteva permettere di far realizzare dal <fravego > (l’argentiere), un’opera di maggior impegno e costo.

 

Il Comandante, coinvolto in prima persona quale “coadiuvante della Divinità”, mai avrebbe voluto dare l’impressione ai devoti del luogo, specie se in zona era conosciuto, di aver lesinato sull’ex voto. Ne sarebbe andata della sua onorabilità, giacché nel cartiglio sempre appariva, oltre al nome del vascello, anche il suo che, è certo, in quel terribile frangente l’aveva abilmente pilotato a salvamento, naturalmente con l’indispensabile e decisivo aiuto dalla Vergine che, normalmente, era effigiata, quale apparizione, sopra l’albero di maestra.

 

I rischiosi viaggi in Terra Santa, i pericoli per raggiungere nuovi mercati e gli abbordaggi dei pirati, hanno per anni alimentato questa pratica, contribuendo non poco a quel florido mercato fra gli artigiani del settore.

 

Santuario di N.S. Montallegro - Rapallo – Nave a palo

FRANCISCA 1874. Lamina d’argento sbalzata.

 

 

In aggiunta a queste paure c’erano poi le intrinseche limitate sicurezze offerte sia dai velieri che dai precari ridossi utilizzati a mo’ di porti, spesso non protetti da ogni tipo di fortunale. In quelle cale generalmente i battelli sostavano direttamente davanti alla spiaggia prevista, insabbiandovi la prua per facilitare lo sbarco e la consegna delle merci; venivano assicurati piantando nella spiaggia due ancore divaricate fra loro e, di poppa, stessa misura ma con due ancore calate in mare. Questi accorgimenti evitavano che l’onda di poppa li potesse spiaggiare irreparabilmente né, in contrapposizione, che il risucchio li riportasse al largo.

 

Così ormeggiati, i marinai e gli uomini di fatica scaricavano la merce, utilizzando per sbarcare, precarie lunghe passerelle formate da tavole di legno sorrette da taccate, sulle quali camminare caricati della merce da recapitare; per farlo senza spezzare quelle sottili passerelle congiungenti i vari sostegni, era indispensabile adottare un armonioso passo ritmico, quasi di danza che, grazie al sincrono appoggiare dei piedi nel mentre l’asse “ritornava” dalla flessione precedente, permetteva a chi vi transitasse di caricarla nel punto, altrimenti debole, proprio  nell’attimo in cui, inarcata verso l’alto, garantiva il massimo della resistenza.

 

Gli "ex voto" non furono però un fenomeno solo Mediterraneo ma, come si riscontra sovente nella marineria mondiale, tutti gli addetti hanno, da sempre, adottati comportamenti equivalenti. Certo da noi, poiché il nostro mare fu il primo ad essere navigato, i marinai, come tutti coloro che appartengono alle fasce più indifese e maggiormente esposte ai pericoli, hanno da sempre affidato le loro vite al Soprannaturale, unica assicurazione gratuita, vecchia quanto l’uomo.

 

Non sempre i voti erano necessariamente sciolti nei nostri porti; per il marinaio, vero cittadino del mondo, ogni approdo era buono per “onorare” il debito di riconoscenza contratto in momenti terribili.

 

 

Il brigantino a palo ITALIA, costruito nei Cantieri di Varazze per l’Armatore Dall’Orso di Chiavari nel 1882, naufragò sull’isola di Tristan da Cunha nell’ottobre 1892.

 

Questa è la ragione per la quale si trovano testimonianze un po’ ovunque; si ha notizia di nostri ex voto, a Tristan de Cuna nelle omonime isole sperdute nell’oceano, dove esiste ancor oggi una comunità di liguri, sino ad arrivare alle lontane Falkland. Ad offrirli non erano però solo marinai nostrani; era pratica comune ai greci, ai francesi, agli spagnoli, ai tedeschi, agli austriaci, ai portoghesi ed agli Inglesi e poi, scoperte le Americhe, anche i marinai di laggiù continuarono la tradizione, retaggio dei loro padri europei. Persino i freddi nordici, ad iniziare dai Vichinghi, offrivano ex voto ai loro protettori che spesso, com’è facile immaginare, non coincidevano con i nostri: ma pur sempre d’ex voto offerti con lo stesso spirito si tratta!

 

Possiamo concludere con quanto ha scritto il Rettore del Santuario di Nostra Signora di Montallegro che domina il Golfo del Tigullio e, nel quale, forse più che altrove, si custodiscono il maggior numero di ex voto marinareschi, nella prefazione del bel volume “Ex voto a Montallegro”, edito dal Comune di Rapallo e redatto con perizia e amore da Maria Angela Bacigalupo, Pier Luigi Bennati ed Emilio Carta, appassionati e puntuali ricercatori, là dove conclude < Visti nel loro valore religioso, risultano un segno rivelatore dell’apertura trascendentale dello spirito umano e, riferiti all’evento mariano, costituiscono una chiara testimonianza di come esso viva e s’incarni specialmente nella cultura popolare. Per questo è legittimo l’appello: salviamo gli ex voto, custodiamoli con intelletto d’amore, sappiamo coglierne il messaggio.>

 

Renzo BAGNASCO

 

Rapallo, 11 Ottobre 2014

 

Tratto dal libro: “Liguria amore mio” – Mursia Editore

 

 

 

 

 


Naufragio del SIRIO

Cento anni fa - il 4 agosto 1906

IL PIROSCAFO SIRIO

naufragò sugli scogli di Capo Palos-Spagna.

Lo chiamarono il Titanic dei poveri.

Il piroscafo italiano Sirio scese in mare dal Cantiere Napier di Glasgow il 24 marzo 1883. Lo scafo era in ferro, stazzava 3.635 tonn. ed aveva una macchina alternativa da 3.900 cav. capace d’imprimergli una velocità di 15 nodi. La sua linea snella e affilata rappresentava uno stile innovativo nell’architettura navale del tempo, quando sugli oceani andava in scena lo scontro duro tra due epopee: quella della tradizione velica giunta al suo apice, e quella nascente del vapore.

I due fumaioli sottili e ravvicinati esprimevano la nuova potenza meccanica, i tre alberi a goletta ricordavano le attrezzature dei velieri e in qualche modo rassicuravano i passeggeri dalle eventuali avarie della macchina alternativa. Il Sirio disponeva a poppa di 48 posti di prima classe, un ampio salone da pranzo, un auditorio e sala per signore con fumatoio. La seconda classe era situata a proravia del ponte di comando e disponeva di 80 posti. Gli altri, la suburra della terza classe, i poveri che avevano venduto tutto per pagarsi il viaggio, erano invece sistemati in grandi cameroni ricavati nei corridoi delle stive per un totale di 1290 posti.

Il piroscafo “Sirio” come appariva in navigazione nella sua snella silhoutte.

Il Sirio lasciò Glasgow il 19 giugno 1883, comandato dal cap. Sebastiano Rosasco, arrivò a Genova il 27 giugno e ripartì il 15 luglio 1883 per il suo viaggio inaugurale al Plata. Quel maiden voyage fu il primo di una lunghissima serie di viaggi legati per lo più alla storia della nostra emigrazione, che terminarono, purtroppo, su quella famigerata scogliera di Capo Palos.

Quanto segue, è la deposizione rilasciata all’Autorità competente dall’unico testimone della sciagura, il Cap. Vranich, comandante del piroscafo austro-ungarico Buda che si trovava a poca distanza dal Sirio.

“Alle 16.00 del 4 agosto 1906, al traverso delle Grandi Hormigas, (presso Capo Palos-Spagna Mediterranea) avvistai il Sirio e giudicai subito che passasse troppo vicino alla costa. Poco dopo, incrociatesi le rotte, vidi sollevarsi la prora del Sirio fortemente sull’acqua, sbandarsi a sinistra ed abbassarsi di poppa…Lo giudicai incagliato e feci rotta verso di lui ordinando le lance in mare. Il Sirio camminava a tutta forza e l’urto fu così violento che le lance di sottovento, smosse, furono poste fuori servizio. La parte poppiera era tutta allagata e sommersa. Di conseguenza molti passeggeri non ebbero il tempo di risalire in coperta. Il locale macchine fu allagato e parte del personale vi perì. Calammo due lance che effettuarono molti salvataggi….”

Rara foto del piroscafo “Sirio” incagliato e semisommerso. La nave rimase in questa posizione sedici giorni, poi si spaccò in due tronconi ed affondò.

Il naufragio ebbe dell’incredibile e le critiche furono a dir poco aspre, perché la giornata era bella, il mare in bonaccia e buona la visibilità. La nave, proveniente da Genova e diretta verso lo Stretto di Gibilterra, correva a tutta velocità quando andò a schiantarsi su una delle secche più note del Mediterraneo.

Il Sirio era rimasto come un cavallo mentre salta l’ostacolo, con la prua che guarda il cielo e la poppa poggiata sugli scogli a tre metri di profondità. Aveva a bordo 120 passeggeri di prima e seconda classe e oltre 1200 emigranti che durante il giorno prendevano il sole a proravia. Gran parte di loro, a causa dell’urto improvviso, fu scagliata in mare e morì annegata.

All’epoca si disse: “Avrebbero potuto salvarsi quasi tutti, perchè il Sirio non andò subito a fondo, ma rimase in agonia ben sedici giorni, prima di spaccarsi in due ed affondare. Purtroppo le operazioni di salvataggio furono così caotiche e disperate che ci furono 293 morti, (riconosciuti ufficialmente secondo i Registri del Lloyd’s di Londra) ma secondo la stampa, e non fu mai smentita, le vittime superarono le 500 unità, gran parte delle quali fu pietosamente composta lungo il molo del porto di Cartagena e poi tumulata nei cimiteri della zona. Le lapidi sono ancora leggibili e portano nomi e cognomi italiani “.

Nel piccolo museo di Capo Palos dedicato al Sirio, sono tuttora conservati i volantini che pubblicizzavano anche le soste “fuori programma” per caricare i clandestini. La questione non fu mai chiarita, ma si vociferò che senza quelle tappe sottocosta, la nave sarebbe passata al largo della micidiale scogliera denominata Bajo de Fuera.

Fu chiaramente un errore di rotta e siccome furono tante le vittime, tra cui il Vescovo di San Paolo del Brasile, la marineria italiana si fece in quella disavventura una cattiva propaganda che fu subito sfruttata dall’accesa concorrenza straniera.

Si aprirono le inchieste di rito, ma emerse, contrariamente alle tante accuse rivolte contro lo stato maggiore della nave, che il comandante del Sirio Giuseppe Piccone, insieme ai suoi ufficiali, diresse con calma le operazioni d’abbandono nave e fu l’ultimo a porsi in salvo. Fu stabilito, tuttavia, che l’erronea valutazione della posizione della nave e della distanza dalle secche fu causa del grave incidente e delle tragiche conseguenze che ne derivarono.

Il capitano Giuseppe Piccone che aveva 62 anni ed era al comando del Sirio da 27 anni, fu rinviato a giudizio, ma chiuso nel suo dolore, morì a Genova due mesi dopo l’evento descritto.

Un tragico precedente.

La nave passeggeri Nord America della Soc. genovese “Veloce” era naufragata su quelle secche ventitrè anni prima. Purtroppo quella pagina nera, scritta col sangue di tanta gente, fu troppo presto dimenticata!

A cavallo del ‘900, con la corsa alla “Merica”, ebbe inizio il secondo esodo di massa e con esso nacquero le prime vere canzoni della nostalgia del paese natio: Ma se ghe pensu, Santa Lucia luntana, Partono ‘e bastimenti, Quando saremo in Merica, Mamma mia dammi cento lire.

Edmondo De amicis, a seguito dell’esperienza “sofferta” durante una traversata a bordo del Sirio, affrontò il tema dell’emigrazione con la sua opera letteraria Sull’oceano.

Il tragico naufragio della nave Sirio colpì molto la fantasia popolare che ispirò questa stupenda e drammatica canzone, tratta dal repertorio dei cantastorie, che diceva:

E da Genova il Sirio partiva

Per l’America al suo destin

Ed a bordo cantar si sentivano

Ma tutti allegri a varcare il confin

Il quattro agosto, alle cinque di sera

Nessun sapeva del triste destin

Urtò il Sirio un terribile scoglio

Di tanta gente la misera fin

Si sentivano le grida strazianti

Padri e madri con le onde lottar

Abbracciavano i cari lor figli ma,

ma poi sparivano tra le onde del mar

Fra i passeggeri un vescovo c’era

Con nel cuore l’angoscia ed il duol

Porgeva a tutti aiuto amoroso

E dava a tutti la benedizion!

Nel 2001 il cantautore Francesco De Gregori inserì nel suo album “Il fischio del vapore” questa ballata che era conosciuta soltanto nel nord Italia, tra quelle vallate da cui partirono gli sfortunati emigranti del Sirio in cerca di fortuna.

Alla domanda di un giornalista: “Concorda che ci sia una similitudine drammatica con la situazione attuale dove le bagnarole affondano”?

Il cantautore rispose: “Questo è proprio il motivo per cui noi la cantiamo, perché la nave Sirio, questa Titanic della povera gente, era una bagnarola di 23 anni, piena di disperati alla ricerca di una nuova vita.

Per la verità, il Sirio non era una pericolosa carretta dei mari. La sua fama di vecchio transatlantico, adattato al trasporto degli emigranti e destinato ad operare su una rotta piuttosto agevole come quella del Sud America, non ha nulla a che vedere con il tragico incaglio sulle Hormigas.

Il Sirio apparteneva ad una grande Società: la Navigazione Generale Italiana (N.G.I), nata nel 1881 all’atto della fusione delle Società Riunite Florio-Rubattino. La gloriosa N.G.I. risultò composta di 81 vapori e detenne il monopolio (quasi incontrastato) del trasporto passeggeri e merci della nostra Marina sino al 1936 quando nacque, per volontà di Mussolini, il gruppo FINMARE.

Storie che si ripetono oggi in direzione opposta…

A cento anni di distanza, purtroppo, la tragedia del Sirio è terribilmente attuale, se pensiamo al traghetto Al Salam-Boccaccio (ex Tirrenia) che affondò il 3 febbraio scorso nel Mar Rosso, trascinando con sé un migliaio di pellegrini islamici diretti alla Mecca.

A questo punto, possiamo chiudere la rievocazione del Sirio con un’amara riflessione: ogni epoca è una pagina di storia dove l’uomo riesce a risolvere tanti problemi tecnologici, ma spesso ripete gli stessi errori del passato perché, nel frattempo, il concetto di sicurezza è stato violato. Tanti enfatizzano la sicurezza, ma nessuno vuole pagarla; tutti parlano dei nuovi “allarmi” del secolo: terrorismo, inquinamento, ecosistema, che tuttavia, per chi conta, non sono ancora motivi d’insonnia.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 16.02.12


AMO GENNAIO (Poesia)

 

AMO  GENNAIO


Amo gennaio, frizzante e sereno

dona ai meriggi speranze di luce,

ma ancora sonnecchia al mattino.

Incipria di giallo la verde mimosa

riveste il mare di un abito d’oro.

A sera

pennella il ponente con tocchi di rosa

nel fiume

ai germani rinnova l’ardore.

 

 

Ada BOTTINI

 

Rapallo, 23 Gennaio 2019