MSC ISTANBUL - LA PRIMA NAVE DA 400 MT. A GENOVA
MSC ISTANBUL
LA PRIMA NAVE DA 400 metri a Genova
Tra qualche istante la MSC ISTANBUL imbarcherà il Pilota
“Questi vapurassi sono sempre più grandi!” diceva vent’anni fa un pilota genovese riferendosi alla “Empress Dragon“, una portacontenitori lunga 270 metri.
Oggi ne abbiamo portata all’ormeggio una di 399.
Si sente spesso parlare della necessità di intervenire sulle infrastrutture ormai inadeguate e, a chi non è del mestiere, può sembrare un azzardo manovrare scafi così grandi in spazi così ristretti.
Ma è proprio così, oppure qualcosa è cambiato da allora?
Direi che anche se il porto è lo stesso, tutto quello che si muove al suo interno appartiene a un’altra epoca.
A quei tempi il traffico era più intenso, le navi mediamente molto più piccole, le eliche di manovra trasversali rarissime, così come i passi variabili dei propulsori principali. I rimorchiatori offrivano metà della potenza rispetto a quella su cui si può contare oggi, e convincere i Comandanti/Armatori a utilizzarli era spesso frutto di guerre psicologiche snervanti. Si manovrava spesso sull’ancora, gli avviamenti erano sempre contati e l’affidabilità delle navi un punto di domanda.
La variabile principale era il vento: le navi si portavano sempre dentro e, a seconda dell’intensità della Tramontana, si utilizzavano i rimorchiatori o meno. Il problema nasceva quando il vento aumentava durante la manovra, trovandoci impreparati. Evenienza, date le caratteristiche orografiche di Genova, tutt’altro che rara.
Oggi il numero di rimorchiatori da utilizzare su ogni singola nave è quasi standard, perché il limite su cui impostare i parametri di sicurezza è passato dal vento allo spazio disponibile che, ovviamente, rimane costante. Va da sé che continua a esistere una certa discrezionalità legata alle condizioni meteorologiche, ma non è più quella principale. Oggigiorno, oltre una certa intensità di vento la nave rimane fuori, anche perché a volte è più difficile tenerla in banchina che portarcela.
Una manovra a lieto fine
Torniamo alla domanda principale: che cosa è cambiato?
- I rimorchiatori sono più potenti. Senza entrare nei tecnicismi, penso sia facile intuire come, operando in poco spazio, concentrare la potenza su un solo rimorchiatore sia più efficace che dividerla su due.
- Le navi sono più manovriere. Quasi tutte, infatti, sono dotate di eliche di manovra e motori mediamente più potenti e affidabili rispetto al passato.
- La tecnologia è diventata un ausilio importante. Gli angoli ciechi, presenti intorno a questi giganti del mare, impediscono di vedere direttamente gli ostacoli rendendo più delicate le necessarie valutazioni. Oggi possiamo contare sui PPU, su apparecchi laser per la misura delle distanze (telemetri), sulle telecamere per gli angoli ciechi, ecc.
- I cavi di rimorchio e di ormeggio hanno beneficiato di un’evoluzione incredibile e oggi sono presenti sul mercato prodotti più resistenti, leggeri e maneggevoli rispetto al passato.
Ma, oltre a tutti questi importanti fattori, sono cambiate la mentalità e le procedure.
È un argomento che ho già affrontato in più di un articolo, proprio perché lo ritengo di rilevante importanza (link 1 link 2 e link 3). È cresciuta la sinergia e la collaborazione tra professionalità diverse. Rappresentanti di settori con specificità così particolari da risultare spesso ermetiche anche a chi ci lavora a fianco, contribuiscono, per la parte che li riguarda strettamente, ad aggiungere il tassello che manca al completamento del quadro generale.
Procedure
Percorsi che nascono dalla conoscenza individuale, cui segue la stima e il rispetto, che portano ad ascoltare il contributo altrui, a sviscerare problemi e soluzioni, a condividere esperienze positive ed errori.
Non basta un giorno, e neppure un mese. Ci vogliono anni di confronti e di studio, di valutazioni e prese di posizione.
Ognuno parla di quello che sa.
È così che diventa possibile superare le sfide proposte di volta in volta.
Veduta aerea del Bacino di VOLTRI-PRA
La valutazione della possibilità di portare navi di 400 metri al VTE è iniziata con uno studio sull’adeguamento degli arredi portuali necessari ad accoglierle. La seconda fase ha visto un esame congiunto delle difficoltà di gestione legata alle dimensioni, al tonnellaggio, alla superficie velica e alle caratteristiche proprie di quel tipo di navi. Terminata la parte prettamente teorica si è proseguito utilizzando dei simulatori di manovra per capire i limiti e provare le procedure d’emergenza.
Una volta raccolti tutti i dati, e sviscerate le possibili manovre, siamo rimasti in attesa della prima nave per procedere con le sperimentazioni pratiche.
Oggi quel giorno è arrivato!
La manovra era stata studiata e pianificata a tavolino durante la consueta riunione del Tavolo Tecnico dove, con la sezione Tecnica della Capitaneria e i Servizi Tecnico Nautici, abbiamo valutato tutte le possibilità e concordato la manovra da effettuare.
Le condizioni meteomarine erano quasi ottimali: mare calmo e 15 nodi di vento da levante.
La “MSC ISTANBUL” è una nave che presenta caratteristiche manovriere di tutto rispetto: un’ottima marcia avanti e una pronta risposta indietro, bow-thruster adeguato e un timone ben dimensionato.
La scelta di girarla fuori dal porto e di procedere in retromarcia è nata dalla valutazione delle condizioni generali. Con venti e mare da levante, scirocco, libeccio e ponente, ritengo sia questa la manovra più idonea. L’evoluzione, effettuata alla via dell’elica, viene fatta senza l’ausilio dei rimorchiatori che intervengono in un secondo tempo disponendosi sottovento, a ridosso dell’imponente struttura, una volta che la nave si trova parallela alla diga foranea: in questo modo possono spingere, per contrastare il vento, operando riparati dall’imponente scafo. Il rimorchiatore di poppa viene voltato quando la poppa raggiunge le acque protette dalla diga.
L’evoluzione viene fatta alla via dell’elica (significa che se l’elica è destrorsa si evoluisce a dritta). Questo perché, nonostante la rotazione sia tre volte più lunga rispetto a quella antioraria, risulta molto più veloce e sicura (se ritenuto interessante posso spiegare meglio le motivazioni di questa scelta).
La MSC ISTANBUL entra in porto con la poppa
Un altro importante motivo che mi fa prediligere la manovra fuori porto con entrata di poppa, è dato dall’avere, in questa condizione, la possibilità di reagire agli imprevisti utilizzando la marcia avanti per uscire nuovamente in mare aperto.
L’evoluzione si può impostare con una discreta velocità (5/6 nodi), che permette di affrontare l’accostata sfruttando appieno l’efficienza del timone. Quando l’abbrivo comincia a diminuire interviene l’efficacia del thruster. Al momento opportuno l’effetto dell’elica a marcia indietro completa l’opera.
A questo punto, utilizzando opportunamente eliche e timone, si governa la nave attraverso l’imboccatura.
Durante tutto il tragitto occorre monitorare costantemente l’effetto del vento sull’importante superficie velica. Lo scarroccio di navi così grandi non è, infatti, istantaneamente intuibile, e talvolta si rende palese quando la situazione è diventata ormai critica.
Sfruttare le qualità manovriere della nave e l’esposizione al vento delle parti più esposte (ponte di comando, ciminiera, file di contenitori, ecc.) aiuta a rendere fluida la manovra, evitando di dover ricorrere ad azioni di forza per correggere eventuali effetti indesiderati.
L’avvicinamento all’ormeggio, specialmente in presenza di gru sul ciglio banchina, è sempre un momento molto delicato: in questa fase i rimorchiatori, sia alla spinta che pronti ad allargare sul cavo, rappresentano un’assicurazione irrinunciabile.
Immagine molto suggestiva del tagliamare e del bulbo che fanno da cornice alle strutture del VTE
In caso di vento da nord, valuterei la possibilità di entrare in porto con la prua per poi girare all’interno. Lo spazio a disposizione è senz’altro misurato, ma entrare di poppa, a velocità ridotta e con il vento al traverso, credo che sia un’opzione da valutare con attenzione.
Concludendo, posso dire che questa prima manovra sperimentale ha avuto un riscontro positivo. Adesso occorre testare altre possibilità da mettere in pratica valutando di volta in volta l’influenza delle variabili.
Quando finalmente si avrà un quadro completo si potranno stabilire i limiti operativi che garantiranno il giusto livello di sicurezza.
…probabilmente qualche anziano pilota ribadirebbe che questi vapurassi sono sempre più grandi…
La MSC ISTANBUL é ormeggiata in banchina - Due rimorchiatori la stanno spingendo.
John GATTI
20 dicembre 2017
IL PUNTO NAVE - DAL SESTANTE AL GPS ESCLUSO...
IL PUNTO NAVE
DAL SESTANTE AL GPS … escluso
Ricordi e Testimonianze
Introduzione
di Ernani Andreatta
NEMESI – Lancia senza Madonnina…
Fanno parte delle collezioni del Museo Marinaro oltre 15.000 fotografie in cartaceo di tutte le navi militari del mondo con particolare attenzione a quelle della nostra Marina Militare Italiana sin dall'unità d’Italia del 1861. La collezione apparteneva a Giuliano Gotuzzo di Santa Margherita Ligure, storico e appassionato collezionista navale di ottimo livello.
La documentazione storica del Museo attraverso pubblicazioni, fascicoli e giornali di guerra, data sin dai primi dell’ottocento ed è straordinaria così come le oltre 250.000 fotografie quasi tutte a tema marinaro che fanno parte degli archivi informatici del Museo.
Molti grandi armatori dell’epoca eroica della vela come gli Accame, i Raffo, Bacigalupo ed altri hanno affidato al Museo Marinaro tutti i loro archivi storici dell’800 che sono stati messi in ordine di data e rilegati. Il traffico commerciale, le avarie, le polizze di carico e altre curiose documentazioni come “il codice dei telegrammi cifrati degli armatori ai tempi della vela” sono, nel loro genere, un patrimonio unico e importante per rarità e complessità di reperti.
Ma la produzione letteraria potrebbe non fermarsi dato che è in via di realizzazione un libro dal titolo “I 500 bastimenti di Chiavari”. “…Perché è un assurdo, che il "Campanino", ideatore di seggiole, sia diventato più famoso dei Gotuzzo e dei Tappani costruttori di navi”.
Così scrisse il Comandante Pro Schiaffino Presidente onorario del Museo Marinaro di Camogli e storico di grande fama con profonda conoscenza delle cose di mare. Certamente ritorneremo su questo argomento anche per “onorare” la verità storica.
Il buon Dio e la natura hanno dato, fin dagli albori, la possibilità al navigante di stabilire la latitudine misurando la latitudine misurando di notte l’altezza della stella Polare, oppure misurando di giorno l’altezza massima che il sole raggiunge sopra la sua testa.
IL ROMANZO DELLA LONGITUDINE
UNA SOLUZIONE ATTESA MILLENNI
Intervista del Comandante-webmaster Carlo GATTI al Comandante Ernani ANDREATTA
Inserita il 23.05.11 sul sito di Mare Nostrum Rapallo, quell’intervista oggi conta 11.500 visitatori! Ciò significa che l’interesse per l'argomento esiste in tutto il mondo, eccetto che nelle Scuole dedicate...
Come sarebbe a dire? Ve lo spiego subito!
Nel frattempo, sono passati solo sei anni e si é saputo, con molto rammarico, che all’Istituto Tecnico Nautico di Camogli, il quale oggi non si chiama più così, del PUNTO NAVE fatto con le rette d’altezza misurate con il SESTANTE, non se ne parla proprio più.
Pare che gli studenti nautici non abbiano mai preso il SESTANTE IN MANO, neppure una volta nei cinque anni previsti dal corso.
A nostro modesto avviso si tratta di una sacrosanta vergogna, in genovese: di una belinata colossale!
Il “nostro" sistema stellare é sicuramente antiquato, ma dovrebbe essere tuttora “TRASFERITO”, almeno sul piano culturale, ai nuovi allievi come "sapere marinaro" del “passato prossimo". Tutti infatti siamo consapevoli, in particolare i naviganti che, in caso di necessità, (spegnimento dei satelliti per motivi bellici) i metodi cosiddetti antiquati come le RETTE D’ALTEZZA dei nostri tempi…, potrebbero ritornare “necessariamente” di moda perché erano e si basano tuttora su metodi scientifici, quindi esatti! Ed é quindi molto “imprudente” considerare “superati” certi calcoli astronomici basati sulla matematica più avanzata.
Ben vengano i nuovi sistemi tecnologici, ma io farei molta attenzione ad eliminare la VERA ARTE DEL NAVIGARE e dei suoi strumenti basilari:
- la conoscenza del cielo stellare,
- uso di un buon sestante,
- uso del cronometro,
- uso delle Effemeridi Nautiche dell’anno in corso.
Quando i Velieri si arenavano sugli scogli perché non conoscevano la Longitudine.
Per la soluzione della longitudine c’è stato invece il buio totale fino alla metà del 1700.
E’ impossibile sapere quante navi siano naufragate nei millenni per l’errata valutazione della longitudine.
Questo fantastico capitolo della storia della navigazione ha inizio, pensate, con la soluzione trovata da un orologiaio, l’inglese John Harrison che affermò:
“E’ sufficiente che ogni nave sia equipaggiata con un cronometro in grado di misurare l’ora esatta, quella di Londra per esempio, ed un semplice confronto con l’ora locale del punto dove si trova la nave, fornirebbe istantaneamente il “FUSO ORARIO”, cioè quanti gradi e primi, e dunque la longitudine della nave e quindi anche la sua distanza dal meridiano 0° convenzionale-politico di riferimento”. Ma quell’uomo ci mise tutta una vita per fare accettare questo semplice concetto ai grandi astronomi del 1700.
Il Comandante Ernani Andreatta mostra il cronometro navale della “Texaco Arizona” varata nel 1949 presso il celebre Cantiere Navale Bethlehem Steel Corporation di Quincy, Massachusetts (USA)
Ci troviamo in compagnia del Comandante Ernani Andreatta, fondatore e conservatore del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari.
Comandante, nel 1999 siamo stati entrambi folgorati dal piccolo libro “Longitudine” di Dava Sobel, non tanto per l’aspetto scientifico che avevamo già analizzato al Nautico, ma per la storia “sofferta” di Harrison che ignoravamo totalmente.
E’ vero! Del piccolo libro di Dava Sobel, “Longitudine”, mi affascinò soprattutto l’argomento trattato che mi stimolò per avviare ulteriori ricerche sull’argomento che culminarono con una conferenza, della quale fui relatore nello stesso anno alla Scuola Telecomunicazioni di Chiavari.
Sicuramente abbiamo in comune un ricordo: il primo ordine che veniva impartito all’Allievo ufficiale di coperta del dopoguerra, fino all’avvento del GPS, era quello di dare la carica, ogni mattina, al cronometro di bordo.
Questo fa parte della nostra storia di naviganti. Per anni abbiamo navigato usando il sestante per trovare la posizione della nave, misurando cioè l’altezza degli astri e soprattutto usando quel famoso cronometro, da lei accennato, a cui occorreva dar la carica tutte le mattine. Lo ritenevo un normale strumento che, come la bussola, faceva parte della strumentazione di bordo. A quel tempo non sapevo che il cronometro di bordo era stato, dopo infiniti anni di naufragi e disastri, la soluzione ai fondamentali problemi del calcolo della posizione della nave.
A pensare che Harrison era nato falegname…
John Harrison, nato falegname e non orologiaio, ebbe ragione addirittura su certi Astronomi Reali che non credevano anzi, guardavano con sospetto alla sua “piccola scatola magica”. Quel piccolo oggetto meccanico rappresentava la scoperta scientifica più importante della storia marittima e mai più avrei immaginato che dietro a quel cronometro che maneggiavo quasi con fastidio, si era consumata una durissima vicenda esistenziale per un uomo straordinario e testardo come il nostro eroe.
Spieghiamo ai nostri lettori la principale necessità di dover calcolare la longitudine.
Agli inizi del 1700, il problema di tutte le navi era calcolo della longitudine, in pratica la distanza lungo un parallelo, da un meridiano di riferimento, e di conseguenza la posizione esatta della nave. Questo era il vero problema che assillava tutti i naviganti. Agli occhi degli uomini del settecento, il mondo aveva un aspetto molto lontano da quello che gli atlanti, i mappamondi e le fotografie scattate dai satelliti ci hanno reso familiare. Non si contavano i capitani ed i loro equipaggi che avevano perso la vita schiantandosi sugli scogli di una costa che secondo i calcoli sbagliati non doveva essere lì.
Per fortuna dei marinai, all’orizzonte apparve John Harrison il quale fornì la soluzione e la sostenne fin da subito: ogni nave doveva essere equipaggiata con un cronometro in grado di segnare sempre l’ora “esatta” di Londra che, messa a confronto con l’ora locale-solare, avrebbe istantaneamente fornito il “Fuso Orario” e dunque la Longitudine della nave.
Purtroppo, trovata la soluzione teorica, si presentava un altro problema di ordine pratico: un cronometro così preciso non esisteva nemmeno sulla terraferma.
Quanto tempo impiegò J. Harrison a vincere la sua personale scommessa?
E’ la storia avvincente di quarant'anni di sforzi che furono necessari a John Harrison non solo per costruire e perfezionare quel cronometro, ma soprattutto per persuadere la comunità scientifica dell’efficacia del suo metodo semplice e definitivo.
Occorre sottolineare che a quel tempo la mentalità prevalente era per le soluzioni avanzate dagli astronomi illustri, tra cui G.Galilei.
I grandi astronomi dell’antichità insegnarono a calcolare la latitudine, ma poi indirizzarono le loro ricerche nei meandri dell’universo. Forse la longitudine non era così importante nei limiti geografici della navigazione costiera conosciuta prima delle grandi scoperte geografiche.
Già nel 150 D.C. il cartografo e astronomo Tolomeo aveva tracciato le latitudini e le longitudini nelle ventisette carte geografiche che rappresentano una pietra miliare e un punto di riferimento importantissimo.
Per far capire meglio ai nostri lettori, ci può definire la differenza cruciale tra la Latitudine, misurata a partire dall’equatore, verso nord e verso sud e la Longitudine, misurata invece da un meridiano 0° convenzionale?
Il parallelo di Latitudine di grado ZERO vale a dire l’equatore è fissato da leggi della natura; infatti, osservando i moti apparenti dei corpi celesti, il sole, la luna e i pianeti passano quasi esattamente sopra l’equatore. L’identificazione del meridiano fondamentale Zero, invece, è una decisione squisitamente politica. Nel tempo, da Tolomeo in avanti si stabilirono come meridiano Zero, di volta in volta: le Canarie, l’arcipelago di Madera, Le Azzorre, Le Isole di Capo Verde, Roma, Copenaghen, Gerusalemme, San Pietroburgo, Pisa, Parigi, Filadelfia, prima di fissarlo, in modo universale, a Londra e precisamente a Greenwich.
L’esempio più eclatante d’errore di Longitudine ce lo diede C. Colombo che Salpò il Parallelo e credette di essere arrivato a Cipango. Ci può chiarire il rapporto tra tempo orario, longitudine e distanza geografica?
Cristoforo Colombo nel 1492 “Salpò il Parallelo” ed è fuor di dubbio che, sulla sua rotta, se non ci si fosse messa di mezzo l’America, avrebbe sicuramente trovato le Indie. Pertanto, la misura della longitudine è fortemente influenzata dall’ora e per calcolare la longitudine in alto mare bisogna sapere non soltanto che ora è a bordo della nave in un dato momento, ma anche che ora è, in quello stesso istante, nel porto di partenza o in un altro luogo di cui si conosca la longitudine. Le ore segnate dai due orologi rendono possibile al navigante la trasformazione di differenza oraria in distanza geografica. Poiché la terra impiega 24 ore per completare un’intera rotazione di 360 gradi, un’ora equivale a un 24esimo di giro, ovvero a 15° (gradi). Quindi, la differenza di un’ora tra la posizione della nave e il punto di partenza indica un avanzamento di quindici gradi di longitudine verso oriente o verso occidente. Quando in mare, il navigante, regola l’orologio della sua nave sul mezzogiorno - il momento in cui il sole raggiunge il punto più alto nel cielo, cioè lo Zenit - e quindi consulta l’orologio del punto di partenza, sa che la discrepanza di un’ora si traduce in 15 gradi di longitudine. Quegli stessi 15° (gradi) corrispondono anche ad una certa distanza percorsa. All’equatore, dove la circonferenza della terra è massima, equivalgono a mille miglia nautiche. A nord e a sud di tale linea, il valore di ciascun grado misurato in miglia diminuisce. Un grado di longitudine equivale a quattro minuti in tutto il mondo, ma in termini di distanza si contrae dalle 68 miglia all’equatore ad uno zero virtuale ai poli.
Un orologio preciso e trasportabile è stato quindi il “segreto” che ha rappresentato la vera svolta nella sicurezza della navigazione?
La conoscenza simultanea dell’ora esatta di due luoghi diversi – un pre-requisito del calcolo della longitudine - che oggi, riusciamo ad ottenere con economici orologi da polso, era una meta irraggiungibile sino a che non furono inventati gli orologi a pendolo. Ma sul ponte di una nave, che stava rollando, tali orologi diventavano pressoché inservibili perché acceleravano o rallentavano enormemente e non parliamo poi dell’influenza della temperatura tra le zone fredde e i tropici.
Possiamo affermare che la sola conoscenza della latitudine non solo fu un grande limite per i grandi navigatori, ma possiamo aggiungere che essi arrivarono dove arrivarono per “benevolenza della fortuna”?
Quasi tutti i grandi navigatori, da Vasco de Gama a Vasco Munez de Balboa, da Ferdinando Magellano a Sir Francis Drake, arrivarono dove arrivarono, volenti o nolenti, per grazia di Dio e benevolenza della fortuna. Anche il Re Giorgio III d’Inghilterra e lo stesso Luigi XIV cercarono di risolvere questo problema ed il grande James Cook fu uno dei primi esploratori a dar fiducia a Harrison con ben tre lunghi viaggi sperimentali, prima d’incontrare una morte violenta alla Hawai.
Che parte ebbero nella vicenda “Longitudine” i famosi astronomi dell’epoca?
Astronomi famosissimi s'ingegnarono in ogni modo e maniera per risolvere il problema del calcolo della longitudine. Ne cito alcuni come G. Galilei, Jan Dominique Cassini, Cristian Huygens, Sir Isaac Newton, Edmond Halley (lo scopritore della cometa…) ma tutti sbagliarono, perché rivolsero i loro studi alla luna e alle stelle, forse travisati dal calcolo squisitamente astronomico della latitudine. In realtà, Galileo studiò un metodo per calcolare la longitudine, ma era complicatissimo e del tutto inapplicabile a bordo alle navi.
Non c’è dubbio che questa ricerca portò anche ad altre straordinarie scoperte come il peso della terra, la distanza delle stelle e la velocità della luce.
Comandante, ci racconti alcune tragedie marinare che furono causate dalla pessima conoscenza della longitudine.
Il problema era sempre lo stesso! Soltanto attraverso il calcolo della longitudine si sarebbe arrivati alla conoscenza della “vera” posizione della nave. Nel 1707, l’ammiraglio di Sua Maestà Sir Clowdisley perse quattro navi (su cinque), e oltre duemila uomini d’equipaggio in prossimità delle Isole Shilly a sud dell’Inghilterra (Lands End). Quando l’Alto Ufficiale scoprì con sgomento d’aver calcolato male la longitudine, era già tragedia… E pensare che un membro dell’equipaggio li aveva insistentemente avvertiti che stavano sbagliando e fu impiccato per insubordinazione.
C’è da notare che la non conoscenza della longitudine allungava i viaggi a dismisura, dipanandosi in mille episodi orripilanti di uomini uccisi dallo scorbuto e dalla sete, di spettri fra il sartiame, di approdi di navi ridotte a relitti con le chiglie frantumate sulle rocce e cumuli di cadaveri di annegati a imputridire sulle spiagge. In moltissimi casi l’ignoranza della longitudine portava un vascello ad una rapida fine. Infine possiamo aggiungere che l’incapacità di calcolare la longitudine influiva negativamente sull’economia: le navi erano costrette a seguire solo determinate rotte conosciute e così, sulle stesse rotte, si affollavano baleniere, mercantili, navi da guerra e corsari naturalmente, cadendo preda uno dell’altro.
Personalmente fui colpito dalla tragedia del Madre de Deus. Ci può raccontare brevemente quel tragico episodio?
Nel 1592, il gigantesco galeone portoghese Madre de Deus, armato con ben 32 moderni cannoni di ottone, mentre si trovava al largo delle Azzorre, di ritorno dall’India, s’imbatté al largo delle Azzorre nella flotta inglese che lo colò rapidamente a picco. Da notare che la flotta Inglese stava aspettando quella spagnola e non il Madre de Deus.
Il galeone trasportava sotto coperta ogni ben di Dio: oro, argento, perle, brillanti, ambra, arazzi, ebano, tela di cotone stampata e le preziose spezie, quantificate in quattrocento tonnellate di pepe, quarantatré di chiodi di garofano, trentacinque di cannella e tre di noce moscata e macis. Il carico del Madre de Deus valeva circa mezzo milione di sterline che era la metà del gettito fiscale di tutta l’Inghilterra a quell’epoca.
Nel 1641 il Commodoro Anson, al comando del Centurion, perdette ben tre navi delle cinque che erano al suo comando, oltre agli equipaggi di circa 600 uomini. La sua disavventura nel passare dall’Atlantico al Pacifico, attraverso Capo Horn, fu causata dal non conoscere la longitudine quindi la posizione della sua nave, ma fu anche straordinariamente aggravata da 58 giorni di terribili burrasche.
Gli uomini migliori, insomma, perdevano l’orientamento una volta che la terra non era più visibile ed il mare non offriva nessun indizio utile a calcolare la Longitudine. A causa dei numerosi naufragi e delle perdite di uomini e navi si diffuse persino il timore, o la superstizione che alla soluzione di quel problema si opponesse qualche divieto divino.
Il Parlamento Inglese, con il celebre “Longitude Act” del 1714, stanziò l’astronomica somma di 20.000 sterline, circa 20 miliardi di vecchie lire, a chi avrebbe inventato un sistema pratico e utile per il calcolo della longitudine. Qui cominciò l’avventura di J. Harrison?
L’orologiaio inglese John Harrison, un genio della meccanica, fu il pioniere della scienza della misurazione del tempo, mediante strumenti precisi e portatili. Il tecnico dedicò la sua vita a questa ricerca realizzando ciò che Newton riteneva impossibile: inventò un orologio che, come una fiamma eterna, avrebbe trasportato l’ora esatta dal porto di partenza ad ogni remoto angolo della terra. Senza preparazione teorica né apprendistato pratico presso un orologiaio, Harrison costruì una serie di orologi quasi del tutto privi di attrito, che non abbisognavano di lubrificazione o pulizia, fatti di materiali inattaccabili dalla ruggine, in grado di mantenere le parti mobili in perfetto equilibrio reciproco, a prescindere da come, intorno a loro il mondo si impennava o rollava. Abolì naturalmente il pendolo e accostò differenti metalli all’interno del suo congegno in modo che quando un componente dell’orologio si espandeva o contraeva per variazioni di temperatura, l’altro componente ne neutralizzava gli effetti mantenendo costante il ritmo dell’orologio.
Harrison ebbe molti nemici che fecero carte false contro di lui, a tutti i livelli!
Infatti, i risultati conseguiti dal nostro eroe furono vanificati dai membri della comunità scientifica, che diffidavano della “scatola magica” di Harrison. I commissari, incaricati di assegnare il premio stanziato, Nevil Maskelyne tra loro, cambiavano le regole della gara tutte le volte che lo ritenevano opportuno, così da favorire sempre gli astronomi rispetto a Harrison e ad altri meccanici. Alla fine, la precisione e l’efficienza dei cronometri di Harrison trionfarono. I suoi seguaci migliorarono la splendida e complessa invenzione con qualche modifica che consentì in seguito di produrla in serie e di diffonderne l’uso.
Il Re d’Inghilterra, un monarca illuminato, intervenne in soccorso di Harrison!
E’ vero! Nel 1773 un Harrison vecchio e sfinito reclamò, al riparo dell’ala protettiva di Re Giorgio III, il premio che gli spettava di diritto. Erano trascorsi quarant’anni tumultuosi, segnati da intrighi politici, guerre internazionali, ripicche accademiche, rivoluzioni scientifiche e crisi economiche.
La vita di Harrison fu costellata di delusioni e colpi bassi di ogni specie. Gli ammiragli e gli astronomi della Commissione per la Longitudine appoggiarono sempre apertamente il metodo delle distanze lunari di Maskelyne perché lo vedevano come lo sviluppo logico delle esperienze in mare e negli osservatori. Dopo il 1750, grazie agli sforzi congiunti dei molti che contribuirono a questa grande impresa internazionale, sembrava finalmente che il sistema fosse applicabile a bordo.
Ci parli ora della produzione dei cinque prototipi di Harrison.
Harrison costruì cinque prototipi di orologi che identificò con la sigla H-1, H-2, H-3, H-4 e negli ultimi anni della sua vita l’H-5. Per l’H-3 soltanto impiegò ben 19 anni. Ne uscì una macchina perfetta che sgarrava di appena un secondo, dopo numerosi giorni. Durante tutti questi anni di durissimo lavoro non accettò mai altre commissioni più redditizie, ma costruì soltanto qualche “volgare” orologio per sbarcare il lunario. Soltanto il 30 novembre del 1749, Harrison lasciò il suo banco da lavoro per ricevere un’alta onorificenza che era la Copley Gold Medal, una medaglia d’oro che fu in seguito assegnata a personaggi come Benjamin Franklin, James Cook e Albert Eistein, tanto per citarne alcuni. Il penultimo di una stirpe di questi gioielli in ottone, l’H-4 ha un diametro di soli dodici centimetri e pesa soltanto un chilo e trecento grammi; sembra più un grosso orologio da taschino che non un cronometro di bordo. All’interno delle sue due custodie d’argento finemente decorate c’è la meraviglia delle sue minuscole parti con rotelle dentate che girano sorrette da rubini e diamanti per evitare l’attrito. Come Harrison sia riuscito ad inserire i gioielli nell’Orologio, rimane a tutt’oggi un mistero del quale non fornisce spiegazioni della tecnica usata, per dare alle gemme la loro caratteristica e cruciale configurazione.
L’H-4 è tuttora esposto al National Maritime Museum di Londra e attira ogni anno, assieme all’H-1-2-3 circa otto milioni di visitatori.
I Cronometri di Harrison
Eccoci arrivati al primo esperimento del cronometro di Harrison. John delegò il figlio William?
Finalmente, nel 1762 ci fu la prova del nove per l’H-4. Fu imbarcato sulla nave di sua Maestà il Deptford. Sulla nave s’imbarcò il figlio minore di Harrison, William. La traversata Atlantica durò quasi tre mesi, il 19 Gennaio del 1762 il Deptford arrivò a Port Royal in Jamaica. Salì a bordo il rappresentante della commissione che doveva giudicare l’orologio di Harrison. Robinson e William Harrison confrontarono i due orologi per stabilire la Longitudine. Dopo 81 giorni di mare, l’H-4 aveva perduto soltanto 4 secondi! Ma Nevil Maskeline, l’alto prelato amico degli astronomi e nemico dichiarato del “nostro” orologiaio, per ironia della sorte, era lì ad aspettare il cronometro per giudicarne l’efficienza nel calcolo della longitudine! Le discussioni con William furono interminabili. Pensate! Il calcolo della longitudine si era ridotto ad una discussione tra un astronomo e un orologiaio su una desolata spiaggia delle Barbados.
Come si concluse il viaggio?
L’orologio ritornò a Londra, sempre ben custodito da William Harrison sul Merlin. Il viaggio di ritorno fu altrettanto disastroso per il mare in burrasca e spesso William, che soffriva il mare, doveva avvolgere l’orologio in un plaid e tenerlo al caldo col proprio corpo. Il 26 Marzo, giorno dell’arrivo a Londra l’H-4 ticchettava ancora.
Che fine fece il tanto agognato Premio?
Invece delle 20.000 sterline Harrison ne ricevette soltanto 1.500 con la scusa che, disse la commissione, “gli esperimenti finora condotti sull’Orologio non erano stati sufficienti per determinare la Longitudine”. Avrebbe ricevuto altre 1000 sterline quando l’H-4 fosse tornato dalla sua seconda missione in mare. Un certo Bliss, astronomo, che faceva parte della commissione giudicante, affermò che la cosiddetta precisione dell’orologio, era stata una “fortunata coincidenza”. Cosi, l’orologio di Harrison dovette subire ancora numerose prove e controprove sotto la diffidenza dei grandi astronomi del tempo. Poi Harrison, finalmente, sempre per intercessione di re Giorgio III riuscì ad ottenere tutto il premio messo in palio dal Longitude Act.
Ha inizio una nuova era. L’Inghilterra diventa la “Signora dei Mari”, grazie all’orologio di Harrison.
Quando John Harrison, il 24 Marzo del 1776 morì, esattamente a 83 anni dopo la sua nascita avvenuta nel 1693, egli assurse allo stato di “martire degli orologiai”. Per interi decenni era rimasto in disparte, praticamente solo, come l’unica persona al mondo seriamente impegnata a risolvere il problema della Longitudine facendo ricorso alla misurazione del tempo. Poi all’improvviso, sulla scia del successo dell’H-4, legioni di orologiai cominciarono a dedicarsi alla costruzione di orologi marini. Dopo tre secoli di “sicura navigazione” per i sette mari, la totalità degli studiosi sostiene che Harrison ha favorito la conquista dei mari da parte dell’Inghilterra, e quindi contribuito alla creazione dell’impero britannico, perché fu grazie al cronometro che le navi inglesi divennero le signore degli oceani.
Si sciolse la commissione per la Longitudine. Il cronometro, nonostante l’antipatia degli astronomi, venne assegnato a tutte le navi e, nel giro di pochi decenni, entrò negli inventari di bordo e vi rimase fino ai giorni nostri. Comandante ci avviamo alla conclusione di questo revival storico, ma prima di ringraziarla, lasciamo ancora a lei la parola per trarre alcune conclusioni.
Nel 1828 la Commissione per la Longitudine si sciolse e l’assegnazione dei cronometri a bordo passò all’Istituto Idrografico della Marina, vale a dire ai cartografi. Era un compito non da poco, dato che oltre all’assegnazione, l’Istituto era anche incaricato di ritirare e riparare i vecchi cronometri. Spesso a bordo alle navi idrografiche incaricate dei rilievi se ne potevano imbarcare anche una quarantina in modo da avere dei calcoli di longitudine più precisi. Evidentemente l’idea del cronometro aveva finito per fare breccia. L’estrema praticità dell’approccio del nostro John Harrison era stata dimostrata in modo tanto esauriente che tutta la concorrenza di astronomi e scienziati era svanita come per incanto. Una volta installatosi stabilmente a bordo, il cronometro finì ben presto nell’inventario, come ogni altra cosa essenziale compresa la bussola. La sua storia controversa insieme con il nome del suo inventore venne molto presto dimenticata dagli uomini di mare, che ne facevano uso ogni giorno.
Oggi, il calcolo della Longitudine è finalmente venuto agli onori della storia e reso finalmente giustizia a quel fuoriclasse che fu John Harrison!
Carlo Gatti
Dal Corriere Mercantile del 21 Maggio 2011 apprendiamo che al Comandante Ernani Andreatta é stato assegnato il Premio Nazionale "Nonno dell'Anno". Il famosissimo riconoscimento arriva dall'Associazione "O Leudo" di Sestri Levante e la motivazione sulla targa "Un salvataggio per i posteri" si riferisce alla grande opera di salvataggio, restauro e catalogazione di migliaia di reperti marinari del Tigullio che ora sono conservati nel Museo Marinaro Tommasino-Andreatta che ha trovato finalmente ospitalità e grandi spazi presso la Scuola Telecomunicazioni delle Forze Armate, Caserma Leone di Chiavari.
Si consiglia a tutti la visione del filmato YOUTUBE creato, studiato e composto dal Comandante Ernani Andreatta a scopo divulgativo.
Si tratta di un sistema molto semplice che viene spiegato al Museo Marinaro per capire che cosa sono le rette d’altezza che, quando non si vedeva più la costa, era l’unico sistema affidabile per ottenere il punto nave, prima della diffusione del sistema GPS.
Vi segnalo il LINK di un ottimo articolo del nostro sito, MARE NOSTRUM RAPALLO, autore Comandante Nunzio CATENA titolo:
ANNI '60 - RICORDI DI BORDO E DINTORNI...
che si attaglia perfettamente all’argomento in oggetto. Nunzio ci parlerà di questo trasporto, del quale segnaliamo anche un video e altri simpatici aneddoti. Riteniamo pertanto che molti anziani “lupi di mare”, leggendo questi ricordi, rivivranno una parte della loro gioventù, ma siamo inoltre convinti che anche le nuove generazioni di studenti nautici e giovani ufficiali in servizio troveranno in queste “testimonianze” notevoli spunti di riflessione su come si navigava al tempo dei loro nonni, senza strumenti elettronici, con il radar che andava in avaria nel momento in cui serviva, con il radiogoniometro inattendibile... molto spesso affidandosi soltanto al sestante e al buon senso marinaresco.
Riporto anche la “succosa” testimonianza dell’Amico Direttore di Macchina dott. Vittorio CIVITELLA, compagno di nuoto e di bordo. GRAZIE Vittorio!
Carlo
Mio impagabile Comandante,
ti ringrazio molto della istruttiva lezioncina sulle alchimie del punto nave, delle rette d’altezza e quant’altro: un dvd accattivante, esaustivo e diligente come pochi. Peccato che, in buona misura, i potenziali interlocutori da te raggiunti valendoti maliziosamente d’una mia mailing-list a cui era indirizzato un mio personale invito d’altra natura, avendo interessi presumibilmente diversi da certe esclusive specificità marinaresche, non avranno modo di apprezzare come si conviene lo spessore della tua profferta. Cosa che, invece, non ho mancato di fare io che della materia sono sempre stato un attento modesto estimatore. Mi sovviene, non senza tradire un certo spleen, d’un tempo in cui, durante le lunghe navigazioni oceaniche (ho fatto quasi 10 anni di petroliera prima di entrare in Adriatica), giovane Terzo Macchinista, chiudevo la seconda guardia della notte (come ti sarà noto in marina libera il Terzo copriva la seconda guardia e il Secondo copriva la terza) e dopo un breve spuntino andava in plancia e mi intrattenevo col collega di Coperta il quale, dietro mia insistente preghiera, mi metteva al corrente dei rudimenti dell’arte della navigazione. Amavo allora capire tutto ciò che era possibile capire anche se i miei studi erano stati di ben altra natura: rette d’altezza, l’orizzonte ponderale, la disposizione delle stelle, le effemeridi nautiche... Accarezzavo con timore referenziale il sestante Platt di cui egli era munito e che era per me uno strumento esoterico. Al momento fatidico del “punto nave” chiedevo curioso: “Cosa mi prendi stasera: Capella, Betelgeuse, Aldebaran...?” Il mio preferito era Arcturus da cui traevo benefici auspici. Di buon grado sostavo davanti al cronografo in sala carteggio o davanti alla chiesuola della Magnetica attendendo con trepidazione il suo “Lesta?” a cui io prontamente rispondevo “Lesta!” in attesa dello stentoreo “Stop!”. Dopodichè seguivano tutti i calcoli che io mi bevevo come un assetato. Il manuale delle Effemeridi era per me come un libro sacro al punto che ogniqualvolta veniva rinnovato (ogni anno, mi pare di ricordare) chiedevo la copia scaduta e me la mettevo in valigia come un oracolo, e qualche collega sorrideva con commiserazione: So much water has passed in the Giordan! dicono gli Ebrei. Ognuno forgia e segue il suo destino: il mio è stato molto diverso dal tuo ma gli studi universitari gli hanno dato almeno un senso. Compiuto o incompiuto che sia ormai è troppo tardi per dolersene o per compiacersene.
Se avrò tempo farò un salto al Museo: sarà un’occasione per salutarci da vecchi marinai. O da marinai vecchi...
Un abbraccio,
Vittorio
ALBUM FOTOGRAFICO DI
ERNANI ANDREATTA
Sulle rette d’altezza e varie…
Ottanti
OTTANTE molto raro
Cielo Stellato
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Le sei foto a seguire sono la rappresentazione didattica del concetto delle RETTE DI ALTEZZA SU CUI SI BASANO I CALCOLI STELLARI PER OTTENERE IL PUNTO NAVE (FIX). Opera di Giancarlo Boaretto
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Cronometro di bordo Hamilton Anni ‘60
Sestante di bordo
Ottica del Sestante
Lesta ... Stop!
I calcoli stellari di Nunzio Catena in navigazione da Marsiglia a Rosario, il 10 ottobre 1966. In alto: Retta d'altezza di sole alle 10.00 che a mezzogiorno viene "trascinata" ad incrociarsi con la retta di MERIDIANA fornendo il punto nave che, tuttavia, sarà più preciso al crepuscolo serotino, quando saranno osservati più astri ed il Punto Nave risulterà da un incrocio perfetto di Rette d'altezza (come da disegno).
NAVIGAZIONE SATELLITARE
GPS
The Global Positioning System
Comandante Ernani Andreatta
(Autore e Regista del DVD: Il Punto Nave dal Sestante al GPS)
Hanno collaborato:
Comandante:................ Carlo Gatti
Comandante:................ Nunzio Catena
Comandante:................ Giancarlo Boaretto
Direttore di Macchina:.... Vittorio Civitella
Rapallo, 24 Ottobre 2017
DALARNA, una regione svedese molto speciale.
DALARNA
una regione svedese molto speciale.
Partire per il Dalarna, regione centrale della Svezia, é per gli svedesi un‘immersione nella tradizione: qui vivono i troll, babbo-natale (Jultomten), la festa del “midsommar” (24 giugno). Qui cominciano le colline e gli sport invernali, le terre dei Sami, i pascoli di renne e qualche incontro sgradito con lupi, orsi e alci.
Costumi del Dalarna
I grandi fiumi scendono tutti per Sud-Est e sfociano nel Golfo di Botnia. Fino al 1997 c’era in uso il “flottning” di tronchi tagliati nelle sterminate foreste di pini, abeti e betulle che erano trascinati dall’impetuosa corrente verso i porti del distretto di Gävle, Söderhamn, Hudiskvall, Sundsvall, Härnosand, Umeå ecc...
Il Dalarna, per queste sue caratteristiche a tinte molto forti, é in prima fila nel regalare simboli, marchi e loghi al settore turistico della Svezia.
La Vasaloppet è una gara di sci di fondo su lunga distanza (maratona sciistica), che si svolge annualmente in questa regione, la prima domenica di marzo. È la più vecchia, più lunga e più grande gara di sci di fondo del mondo. Durante l'ottantesima edizione, disputata il 7 marzo 2004, circa 15.500 sciatori gareggiarono nella gara principale, che si svolge su una distanza di 90 chilometri tra il villaggio di Sälen e la città di Mora. Un totale di 40.000 persone hanno partecipato ad una delle sette gare tenutesi nella prima settimana di marzo. La gara nacque nel 1922, ispirandosi al percorso che il futuro Re Gustavo Vasa aveva compiuto nel 1520. Il vincitore della prima edizione fu Ernst Alm di Norsjö che ancora oggi è il più giovane vincitore della gara.
Il Dalarna é la regione della Svezia centrale dove si fondono il modernismo europeo con le lunghe distanze nevose e piene d’incognite. Da questa terra di artisti, citiamo soltanto i pittori Carl Larsson e Anders Zorn, provengono quasi tutti i simboli della Svezia: i cavallini colorati (Dalahästen) nella foto, i pupazzi di alci e caproni, le corna di renna e di altri cervidi, le pitture, i tessuti particolari, gli orologi e i coltelli di Mora.
Da queste parti sono abbastanza frequenti le collisioni stradali con gli alci.
Più a Nord ci s’imbatte facilmente in branchi di renne.
Sopravvivono gli accampamenti Lapponi che qui si chiamano Sami. Non mancano gli orsi bruni che ogni tanto si aggirano tra le case e le linci, secondo le statistiche, sono 1.500.
I laghi pullulano di lucci che superano il metro di lunghezza.
Ci siamo mossi sul parallelo che dal porto di Gävle (Botten Havet) giunge al lussureggiante lago Siljan, costellato da decine e decine di isolotti dove gli svedesi vanno a rifugiarsi d’estate presso quelle casette rosse di legno (sommarstuga) con i bordi bianchi che fanno capolino tra i boschi. Il colore rosso scuro delle abitazioni di campagna di tutta la Svezia, é fabbricato nella città di Falun, e si chiama “Rosso Falun”. La nostra meta é proprio questa città di provincia, 26° posto in classifica con i suoi 35.000 abitanti, a metà strada sul parallelo che unisce il Siljan a Gävle.
In questa parte della Svezia, che é molto lontana dai rumori delle grandi città, il bisbiglio umano non supera mai quello del vento, anche nei giorni di bonaccia. Persino le martellate degli operai sulla strada sembrano chiedere scusa ai passanti, e sono ovattate.
Ci prepariamo mentalmente ad un soggiorno rilassante, dedicato alla raccolta di funghi porcini (ignorati dalla cucina locale), mirtilli neri e rossi, di qualche pescata di lucci e alla caccia fotografica di alci, lepri, caprioli, falchi che all’imbrunire escono dai boschi e pare abitino solo da queste parti.
Entrando da Ovest nel centro abitato, ci accorgiamo di uno strano museo all’aperto tra dune di minerale e qualche monumento: si tratta di un complesso minerario di rame, tra i più importanti al mondo. Ormai dismesso e convertito all’archeologia industriale. Qui tutto si rinnova in continuazione e guai a non avere il tom-tom aggiornato.
A poco a poco scopriamo una decina di Chiese tra cui svetta l’imponente duomo “Kristine Kyrka” del 1600 (foto sopra). Tra un filare di case e l’altro del centro città, si penetra in macchie di verde che coprono tutto: monumenti e ville importanti, fontane e supermercati. Pare che da queste parti abbia importanza soltanto l’aria che si respira. I Verdi impazzirebbero di gioia!
Questa strana costruzione a lamelle é una delle sedi universitarie di Falun
Rimaniamo basiti quando scopriamo che 18.000 studenti universitari arrivano ogni anno a Falun da tutto il mondo per i corsi ERASMUS e per le eccellenti facoltà umanistiche, linguistiche e per quelle scientifiche di Borlänge, situata a 12 km di autostrada.
Ci spostiamo verso il centro universitario, ubicato alla periferia Est della città. Qui iniziano le pinete e i filari di candide betulle che, a loro volta, fanno da schermo ad un Centro Sportivo tra i più grandi al mondo. In primo piano si notano le piscine scoperte. A destra inizia il Centro sportivo di cui riportiamo il grafico qui sotto. Cominciamo a non capirci più niente!
Rappresentazione grafica degli impianti sportivi invernali di Falun. Non appaiono gli impianti estivi: campi da calcio, bandy, basket, galoppatoio, golf che circondano l’intero struttura rettangolare.
Entriamo all’Università. Pare che la luce i colori e la funzionalità siano state le principali linee guida degli architetti.
Questa é la biblioteca dell’Università: 2.600 m2 d’estensione, 400 posti per gli studenti. 3.600 metri disponibili per i libri. Disegnata dagli architetti danesi Anders Lonka, Martin Laursen e Martin Krogh, l’opera ha ricevuto quest’anno il 1° premio dalla World Architecture Festival. Ogni tavolino espone la bandierina della lingua parlata dagli studenti in quel momento.
A poco a poco scopriamo che pur parlando svedese, non ci si può permettere alcuna distrazione perché l’interlocutore locale ti si rivolge subito in inglese. Qui tutti parlano la lingua inglese senza il minimo intoppo. La stessa università usa l’inglese anche per i corsi di svedese. Gli stessi esami in lingua locale prevedono l’inglese come lingua base per la comunicazione. La futura classe dirigente che viene formata da queste parti, come si può facilmente intuire, si serve di parametri ben lontani da quelli nostrani.
Questo é lo Ski Jumping di Falun che nel 2014 ha ospitato il Campionato del mondo della specialità. Nel 2015 qui si terrà il FIS Nordic Ski World Championships: Sci di fondo, otto specialità - dal 18 febbraio al 1 marzo 2015. Gare di salto dal 19 febbraio al 28 febbraio 2015. Combinata Nordica dal 20 al 28 febbraio 2015.
Usciamo dall’università con un vago senso di vergogna... ma siamo rincuorati dalla visione di questo gigantesco trampolino per il salto con gli sci che ci proietta nel mondo dei sogni... Scattiamo qualche foto e ci troviamo davanti ad un centro Sportivo di dimensioni esagerate. Entriamo, andiamo al Bar e chiediamo informazioni. Veniamo a sapere che per tutto il mese di febbraio 2015 si svolgeranno i Campionati del mondo di discipline nordiche e che gli alberghi, pensioni, abitazioni private ecc... sono prenotati da cinque anni.
Ecco come si presenta il “generale” inverno da queste parti...
Da ogni lato di questo lunghissimo corridoio, di cui non si riesce ad vederne la fine, si notano, attraverso ampie vetrate, palestre di ogni tipo, campi di basket, curling, hockey, piscine, campi da tennis, piste di atletica ecc...In questa struttura esiste anche uno dei più attrezzati laboratori del Paese per la fisiologia dello sport.
Confrontando i prezzi esposti per la pratica di ciascuna disciplina sportiva, ci accorgiamo che vivere lo sport in Svezia costa meno che in Italia, e ci spieghiamo come il pagare le tasse a “governi onesti” sia la chiave di lettura per capire le ragioni di quelle posizioni occupate dai Paesi Scandinavi ai vertici delle classifiche mondiali
Ogni volta che veniamo da queste parti, notiamo quanto la gente sia calma e nello stesso tempo attiva nel compiere opere pubbliche e private di notevole modernità. I migliori cervelli, da queste parti, sono al loro posto, cioé in alto. Qui si raggiungono le vette per meriti acquisiti, non per i voti raccolti nelle sedi dei partiti. Qui non esiste il politico di professione, ma é premiato il politico che porta le novità che necessitano al Paese e le sappia realizzare.
Che dire ancora? Forse é meglio soprassedere ... chiedendoci: se questa é la “provincia svedese”, chissà cosa ci toccherà vedere nelle grandi città sulla stessa latitudine di Stoccolma?
Conclusione: Il modello nordico é off limits per gli italiani e ci viene in mente una citazione che é sempre attuale nel nostro Paese: gli Inglesi il commercio, i Francesi lo spirito, gli Italiani l’odio di parte.
Carlo GATTI
Rapallo, 10 Ottobre 2014
Affondamento DERNA
14 dicembre 1912
AFFONDAMENTO
Del piroscafo genovese
“DERNA”
Nave Ship |
Armatore Owner |
Stazza Lorda Gross Tonnage |
Equipaggio Crew |
Com.te Captain |
DERNA |
L.Mezzano |
3.400 |
23 |
Schiaffino |
E’ passato quasi un secolo dall’affondamento del P/fo DERNA, e ormai, quasi sicuramente, soltanto i figli ed i nipoti di quel povero equipaggio ricorderanno il tragico avvenimento. Ma noi, come Società Capitani e Macchinisti Navali di Camogli abbiamo il dovere di continuare a ricordare quei nomi insieme al loro sacrificio.
Il piroscafo DERNA era iscritto al Compartimento Marittimo di Genova e solo di recente era stato acquistato in Germania dall’Armatore Luigi Mezzano di Sori.
I FATTI
Alla fine di novembre la nave era partita da un porto del Baltico per l’Inghilterra, da dove avrebbe dovuto proseguire per Genova con un carico di carbone.
Purtroppo la spedizione vide la sua tragica conclusione dopo alcuni giorni di navigazione, quando il DERNA si trovava in mezzo al Canale della Manica, completamente ovattata di nebbia e fu speronata dalla corazzata inglese Centurion, che era stata varata da meno di un anno e costituiva insieme ad altre quattro gemelle la squadra delle possenti Dreadnaughts.
La corazzata inglese Centurion.
AFFONDAMENTO
Il DERNA affondò in pochi minuti e trascinò con sé 23 uomini d’equipaggio. Vani furono gli sforzi compiuti dagli uomini dell’unità inglese che prontamente avevano calato in mare le scialuppe di salvataggio. Tutto fu inutile, quel canale maledetto aveva inghiottito ogni cosa con la voracità di un mostro.
LE VITTIME
L’equipaggio era composto di marinai liguri-rivieraschi:
Il comandante Schiaffino ed il 1° ufficiale di coperta Maggiolo erano di Camogli. Il direttore di macchina Mezzano era di Sori.
Cinque marinai erano di Quinto al Mare, altri di Camogli di Bogliasco e di Sori.
Il Derna in navigazione. Sotto la cartina mostra a destra la posizione della collisione.
THE SINKING OF S/V “DERNA”
The S/v Derna was registered with the Genoese Maritime Registry and only recently has been bought in Germany by Ship Owner Luigi Mezzano of Sori.
FACTS
At the end of Novembre had sailed from a port in the Baltic sea for England, from where she loaded coal for Genoa. Ufortunately, the trip came to a tragic conclusion a few days later, when the Derna was sailing in the English Channel which was completely engulfed by fog and was RAMMED by the battle ship Centurion.
THE SINKING
The Derna sunk within a few minutes and brought down with her 23 crew. All efforts on the part of the battleships’ crew were in vain, who had lowered launches straights away trying to save them.
Every effort was useless in that cursed channel which suched everything as would a monster.
THE VICTIMS
The whole crew was composed of Ligurian seamen.
Captain Schiaffino and the Chief Officer Maggiolo came from Camogli, the Chief Engineer Mezzano came from Sori.
Five seamen from Quinto al Mare, others from Camogli, Sori and Bogliasco.
Carlo GATTI
Rapallo, 16.02.12
INVERNO IN RIVIERA (Poesia)
SCRITTORI IN RIVA AL MARE
INVERNO IN RIVIERA
Nell’ardesia
di cielo e mare
opaca bruma
chiude
l’orizzonte della mente
–lapide di granito
la memoria
soffoca l’anima -
Poi
una mattina
un presagio di sereno :
l’azzurro
si apre vivido,
nei colori,
nella seta cangiante
dell’onda
e
dal muro,
improvviso,
il miracolo della mimosa.
Maria Grazia BERTORA
(febbraio 2014)
Inserita nella plaquette dell’Associazione “Il gatto certosino”:
Tra gli ulivi e le mimose … il mare
Rapallo, 17 Gennaio 2019
LA DIGA DEL PORTO DI GENOVA
LA DIGA DEL PORTO DI GENOVA
LA LANTERNA - L'indiscusso SIMBOLO di Genova
Un po' di Storia...
I primi veri complessi portuali, nel mondo classico, risalgono al sec. VI a. C., allorché si svilupparono sia i porti con bacino aperto (Siracusa) sia quelli a bacino chiuso, protetti da mura, come il più tardo Pireo. In età ellenistica furono creati grandi porti unitari, circondati da portici, come quello di Alessandria di Egitto con due bacini divisi da una diga, due bacini interni e il celebre faro. I porti romani si distinguono da quelli greci per la loro autonomia rispetto ai centri urbani, per la frequenza di bacini artificiali scavati nell'entroterra, per la robustezza delle opere portuali e per la ricchezza e varietà di edifici circostanti (magazzini, santuari). Notevoli, tra gli altri, il porto militare di Miseno e quello commerciale di Pozzuoli, i porti ostiensi di Claudio e di Traiano (vedi articoli dedicati su questo sito), il porto di Ravenna, quello di Leptis Magna. Vitruvio diede una sistemazione teorica ai problemi connessi con la progettazione di porti. Intorno al Mille, dopo un periodo di grande decadenza, si verificò una notevole ripresa di traffici marittimi, con la conseguente costruzione di porti i quali, dato il prosperare della pirateria, assunsero spesso il carattere di roccaforti. Enormi furono lo sviluppo portuale e il perfezionamento delle tecniche costruttive a partire dal sec. XVI, in conseguenza delle scoperte geografiche e del formarsi di grandi potenze marittime (Spagna, Olanda, Inghilterra). Nel mondo moderno il porto marittimo è diventato uno strumento di promozione e di competitività internazionale del sistema produttivo di una nazione, in quanto l'efficienza dei servizi che è in grado di fornire ha un'incidenza decisiva sull'economicità e la sicurezza dell'approvvigionamento e della distribuzione delle merci. E poiché il porto è suscettibile di promuovere flussi di traffici e nuovi insediamenti produttivi, esso può incidere sull'equilibrio di aree territoriali sempre più vaste, determinando profonde modificazioni al loro sviluppo. Ma proprio questa accresciuta importanza assunta dal porto marittimo moderno ha avuto e ha gravi riflessi sul tessuto economico e sociale della comunità in cui è inserito, creando problemi tra porto e città, tra le necessità di espansione dell'attività portuale e quelle della comunità senza interferire sui livelli della vita urbana e senza creare motivi di conflittualità sulle strutture metropolitane.
La profonda modificazione delle correnti di scambio internazionale intervenuta nell'ultimo XX secolo ha privilegiato l'attività e la funzione dei porti dell'Europa settentrionale e del Mediterraneo (dopo la riapertura del Canale di Suez), ripristinando l'importanza che questi ebbero nel Medioevo e nel Rinascimento, conferendo ai maggiori di essi la fisionomia di metropoli in cui le attività commerciali, industriali, finanziarie e culturali si addensano attorno agli impianti portuali che assicurano il rapido ed economico smaltimento del traffico proveniente e destinato ai rispettivi hinterland. Nell'ambito delle mutate relazioni tra il porto marittimo e la città va ricordata la cosiddetta politica del waterfront (fronte d'acqua): larghi spazi portuali sono riconquistati da parte delle città e vengono loro assegnate funzioni non mercantili con elevato valore aggiunto. Tra queste le più diffuse sono: porticcioli di pesca, porticcioli turistici, parchi di divertimento a base acquatica, acquari e musei del mare, centri congressuali, eliporti, ecc. A Baltimora, a Vancouver, a Tōkyō, a Yokohama, a Londra e a Rotterdam e in molti altri porti, di grandi e piccole dimensioni, sono stati realizzati questi progetti di riassesto, che hanno inciso sul waterfront storico in modo profondo ma con la minima compromissione ambientale.
Tecnica delle costruzioni: le opere foranee
Costituenti la cintura esterna del porto, le opere foranee comprendono antemurali, dighe, frangiflutti, moli, disposti in genere secondo gli schemi seguenti: cinta a pianta poligonale o curva, con una o più bocche rivolte alla traversia, ridotta in particolare a due moli convergenti in un'unica bocca, pure rivolta alla traversia; moli convergenti, con bocca protetta dal molo principale o soprafflutto; il bacino compreso fra i due moli forma il porto interno, cioè la zona più a ridosso, mentre la zona esterna adiacente al molo secondario, protetta anch'essa dal molo principale, costituisce l'avamporto; moli convergenti, con bocca protetta da antemurale; molo unico, radicato alla riva. Soprattutto nei porti-canale, le opere esterne sono di regola formate da due moli paralleli, opportunamente orientati, detti moli guardiani. Soluzioni diverse debbono essere adottate per quei porti situati in luoghi dove le variazioni di marea superino i 4 m: tali porti sono, in genere, del tipo “a marea” oppure “a livello quasi costante”. Nel primo caso occorre tener conto delle forti correnti di marea per cui, secondo la linea di costa, si adottano moli convergenti con bocca ridotta al minimo e rivolta alla traversia, oppure (nel caso di baie) un solo molo radicato a riva la cui parte iniziale è conformata a viadotto onde favorire l'azione della corrente di riflusso contro l'interramento; in ogni caso l'altezza delle opere deve essere commisurata a quella delle maree. I porti a livello quasi costante, invece, vengono separati dal mare aperto da chiuse semplici, che consentono il passaggio delle navi solo con l'alta marea, o da conche, che rendono il traffico indipendente da questa, anche se il movimento portuale risulta relativamente lento; questi porti, anche se più costosi, presentano, rispetto a quelli a marea, altezza delle opere minore, maggiore stabilità delle strutture, indice trascurabile d'interramento; inoltre, le operazioni di imbarco e sbarco risultano più agevoli.
LA DIGA FORANEA DEL PORTO DI GENOVA
E' lunga oltre 20 Km. Nasce con l'Imboccatura di Levante (zona Fiera); s'interrompe con la seconda imboccatura (Italsider-Aeroporto); prosegue e s'interrompe con la terza imboccatura del Porto Petroli di Multedo; prosegue infine verso la quarta imboccatura del Porto di Voltri-Prà.
Calata Sanità con larga visuale sulla diga
Il Porto Vecchio
Panoramica del Porto di genova
Diga foranea
Il grande ampliamento di ponente del porto aveva inizio nel 1913 con la costruzione, completata entro il 1926, del primo tratto, di m.1550, della Diga Foranea.
La diga venne studiata dal Genio Civile del tipo a muro verticale formato con piloni composti di tre massi cellulari, per contenerne il peso singolo (=220 t) nella possibilità di sollevamento del pontone posa massi ITALICO, il primo pontone di portata superiore alle 100 t. impiegato nei lavori marittimi ed appositamente studiato ed approntato nel 1914 dalla Grandi Lavori Fincosit, con la possibilità di portare a bordo tre elementi del peso massimo.
Le celle dei massi vennero poi riempite con versamento di calcestruzzo di calce e pozzolana.
Nel secondo tratto della Diga Foranea (1926 - 1929), lungo m.1850, costruito a protezione del bacino di Sampierdarena, venne perfezionata la sezione della diga prevedendone i massi, (della larghezza di m. 4.50 nel senso longitudinale diga) del tipo pieno, o ciclopico, del peso singolo sino alle 450 t.
Per il trasporto e la posa dei massi la Grandi Lavori Fincosit provvide a costruire il pontone posa massi IMPERATOR, che, con la potenza di sollevamento di 450 t. e la possibilità di trasportare quattro massi di tale peso, rappresenta tutt'ora uno dei maggiori mezzi galleggianti del genere.
La sezione della Diga Foranea, indipendentemente dalla bontà d'esecuzione delle opere, è risultata col tempo insufficiente sotto il profilo idraulico per la limitatezza dei fondali antistanti e forte elevazione della sovrastruttura; dopo gli eventi della tempesta del febbraio 1955, è stata trasformata con una gettata esterna in massi artificiali e scogliera.
Prolungamento orientale del molo Galliera
Con tipo analogo di struttura fu portato a compimento il prolungamento del Molo Galliera, per una lunghezza di m.400, a completamento della difesa della bocca di levante del porto.
Moli di sottoflutto
Con piloni di massi ciclopici sovrapposti sono stati costruiti i moli di sottoflutto, che delimitano il grande complesso portuale, a levante, o Molo Cagni, (che ha richiesto l'asportazione degli strati superficiali del fondale e la loro rigenerazione con letto di sabbia versata) - sviluppo m.630 - ed a ponente, o Molo Polcevera, - sviluppo di circa m.800.
Si tratta di una diga a parete verticale, a protezione del porto di Genova, composta da due tratti principali per una lunghezza complessiva di oltre 3.800 metri. Il primo tratto, di 1.550 metri, fu costruito tra il 1916 ed il 1926. Il secondo tratto, di 1.850 metri, fu concluso nel 1929. Successivamente venne realizzato un prolungamento di altri 400 metri a difesa dell'entrata del porto a levante. I lavori della diga furono ultimati nel 1933. Nel corso degli anni soffrì vari problemi. Durante la guerra (1945) i tedeschi aprirono una breccia di oltre 80 metri. Varie mareggiate (soprattutto nel 1949) causarono alcuni danni e piccole brecce. Ma fu la tempesta ciclonica del febbraio del 1955 che causò il principale crollo della diga, che interessò complessivamente un'estensione di circa 450 metri. Esiste oggi un progetto per spostare la diga circa 500 metri più al largo, con nuova struttura e funzionalità.
Bacino portuale della Lanterna
Creato con il primo tratto di Diga Foranea il necessario ridosso, la Grandi Lavori Fincosit provvide a costruire l'intero bacino portuale comprendente le Calate Canzio e Bettolo ed i Ponti Rubattino e San Giorgio, con uno sviluppo di 2,7 chilometri di muri di banchina a piloni di massi, su fondali di m.12.
Lo specchio d'acqua a disposizione delle navi misura 74 ettari ed i piazzali ricavati dal mare 26 ettari.
Bacino portuale di Sampierdarena
Negli Anni '20 sono stati costruiti cinque chilometri di banchine distribuite sugli sporgenti, o Ponti: Etiopia, Eritrea, Somalia, Libia e Canepa - lunghi ciascuno 400 m. - circa 80 ettari di specchi acquei, 75 ettari di piazzali totalmente ricavati dal mare.
I muri delle banchine sono del tipo a piloni di massi pieni sovrapposti, fondati a quota -12 ÷ -12,70 m., la banchina alla radice del Ponte Canepa ha fondale superiore ai 13 m.
Diga di recinzione SIAC a Cornigliano
La difesa dei piazzali che dovevano essere ricavati dal mare per la formazione dello stabilimento siderurgico della SIAC, ora ITALSIDER S.p.A., venne realizzata con una soluzione sotto vari aspetti originale, tenendo conto della notevole esposizione e dei bassi fondali.
L'opera comprendeva una diga, lunga mt.925, a parete verticale su limitato fondale di 8 m. circa, formata con piloni di massi pieni sovrapposti (del peso singolo da 300 t. a 360 t., e con le superfici a contatto sagomate "a dente e contro dente"), un canale di calma ed una banchina di contenimento del terrapieno artificiale.
Per evitare lo scalzamento, dovuto ai forti moti riflessi e vorticosi, la diga venne protetta al piede con grandi lastre tra loro collegate onde seguire gli abbassamenti del fondale antistante.
La grande tempesta da libeccio del febbraio 1955, come già si é visto, aprì varchi nella diga per oltre 450 mt. e nel 1963 terminarono i lavori di rinforzo in più punti della diga stessa, quelli che si dimostrarono più deboli.
La foto mostra l'impianto Portuale del VTE di Genova Prà con l'ovale rosso intorno alla diga. A destra della foto é visibile l'entrata del Porto Petroli ed il terminale della pista dell'Aeroporto.
La diga del VTE (Voltri Terminal Europa). Nell'angolo la CONCORDIA in attesa di essere portata a Genova per la demolizione.
La LONDON VALOUR é naufragata sulla diga del porto di Genova il 9 aprile 1970. 22 furono le vittime.
(vedi articoli dedicati su questo Sito)
Le due immagini sopra, testimoniano la violenza della LIBECCIATA che distrusse 400 metri di diga affondando numerose navi ormeggiate nel Porto Nuovo (Sampierdarena).
Questi disegni tecnici d'archivio sopra riportati, illustrano chiaramente le varie SEZIONI della diga di Genova.
Carlo GATTI
Rapallo, 20 Dicembre 2017
NAVI LAPIDARIE
NAVI LAPIDARIE
E "NAVIGAR" ...
M'E' DOLCE IN QUESTO MAR
Fra i grossi “pesi” trasportati dalle navi mercantile ONERARIE che arrivavano e partivano da Ostia, dal Porto di Claudio e poi da quello di Traiano, vi erano i sarcofagi: in alcuni di essi vi erano scolpiti i volti delle persone defunte infatti, furono i romani ad inventare il ritratto. Ma i carichi più pericolosi da trasportare via mare erano le colonne destinate ai Templi sacri delle grandi e ricche città del Mediterraneo romano.
Le navi lapidarie, mediamente lunghe dai 25 ai 40 metri e capaci di un carico utile fra le cento e le trecento tonnellate, erano imbarcazioni appositamente rinforzate per reggere ai pesi immani a cui erano sottoposte.
Ricordiamo che per trasportare l’obelisco egiziano del Vaticano, Come racconta Plinio, Caligola fece costruire nel 37 d.C. una nave gigantesca per l’epoca.
Ivi infatti fu affondata dall’imperatore Claudio e sopra vi fu edificata una triplice torre (il celebre Faro di Ostia Antica) costruita con pietra di Pozzuoli...”.
Era lunga 128 mt. e per tenere bloccato il monolito ci vollero 4 macigni di granito a bordo e una zavorra di 2.800.000 libbre di lenticchia egiziana, che comunque andò a ruba una volta che la nave giunse ad Ostia. Con la sua lunghezza si ricoprì quasi tutto lo spazio del molo sinistro del porto Ostiense. Quella nave lapidaria fu usata solo per quel viaggio e poi fu affondata come base per il celebre Faro di Ostia, la cui posizione topografica é stata finalmente individuata in questi ultimi anni con sistemi di fotogrammetria satellitare.
I numerosi relitti identificati di navi lapidariae hanno permesso di ricostruire anche i criteri di carico, orientati per ragioni di sicurezza ad assicurare il massimo riempimento delle stive. Questa esigenza, dovuta al pericolo di spostamenti del carico in mare, comportava la scelta di effettuare carichi non omogenei (ad esempio solo fusti di colonne), ma diversificati, con blocchi di varia forma che consentissero di occupare per intero il volume delle imbarcazioni.
VENEZIA. Questa stupenda immagine subacquea racconta la ricostruzione delle navi romane grazie alle fotografie in 3D di carichi di marmi naufragati sui fondali del Mediterraneo.
“Le rotte del marmo”
I ricercatori di Ca’ Foscari e IUAV hanno esplorato l’enorme carico lapideo, uno dei più grandi in assoluto del Mediterraneo antico, lasciato in fondo al mare da una nave nei pressi dell’Isola delle Correnti-(Sicilia).
Sotto indagine archeologica, 290 tonnellate di marmo (stando alle stime), proveniente dall'isola di Marmara, antica Proconneso, in Turchia. Le informazioni tratte da questa spedizione si aggiungeranno a quelle già raccolte a Punta Scifo, Calabria, e nel 2014 a Marzamemi e Capo Granitola, in Sicilia. In tutti questi casi si tratta di relitti di navi romane datati preliminarmente al 3° secolo d.C., con carichi di marmi orientali.
Il legno delle navi è andato quasi completamente perduto. Il loro carico, invece, è rimasto sui fondali a ricordare i naufragi. I ricercatori, guidati da Carlo Beltrame, docente di archeologia marittima del dipartimento di Studi Umanistici dell'Università Ca' Foscari Venezia, stanno applicando dei metodi innovativi per ricomporre la disposizione del carico e da questa ricostruire la nave. La prima ricostruzione preliminare in 3D è stata realizzata per il relitto di Marzamemi, mentre per gli altri siti lo studio è in corso.
In aiuto ai ricercatori arriva la fotogrammetria, tecnologia già usata in architettura e nel rilevamento topografico. Il progetto “Le rotte del marmo”, invece, porta la fotogrammetria sperimentale in fondo al Mediterraneo, avvalendosi della consulenza di Francesco Guerra, responsabile del laboratorio di fotogrammetria dell'Università IUAV di Venezia.
I blocchi di pietra diventano immagini tridimensionali mentre i campioni di marmo vengono studiati dal gruppo di Lorenzo Lazzarini, direttore del Laboratorio per l'Analisi dei Materiali Antichi dello IUAV. L'originalità di questa applicazione è stata di recente premiata come miglior paper al ISPRS/CIPA workshop "Underwater 3D recording & modeling" di Sorrento.
Rilievo del carico della navis lapidaria e ipotesi su forma dello scafo e posizione di arenamento (adattamento da immagine Archeogate).Il carico è composto da cinquantanove blocchi disposti su otto file, per un volume totale di cinquantacinque metri cubi: tra i monoliti appena intagliati di forma parallelepipeda o trapezioidale vi sono anche tre podii destinati a sorreggere statue onorarie, forse evergeti;
Evergetismo è un termine coniato dallo storico francese André Boulanger (1923) e deriva dall'espressione greca εὐεργετέω ("io compio buone azioni"); indica la pratica, diffusa nel mondo classico, di elargire benevolmente doni alla collettività apparentemente in modo disinteressato.
probabilmente vi sono anche dei capitelli, quelli tempo addietro recuperati dai sommozzatori dei Vigili del Fuoco di Mazara ed ora esposti nell'acropoli di Selinunte forse in ragione di una semplicistica sovrapposizione dell'ipotesi sulla destinazione al dato della vicinanza geografica con l'antica colonia magno-greca.
Panoramica sui blocchi della navis lapidaria (foto Archeogate).
L'equipaggio è composto da una decina di uomini. "Li possiamo immaginare in affanno mentre manovrano le vele e i remi-timone per riguadagnare il largo: un vortice, in zona Puzziteddu, deve aver fatto perdere al comandante il governo della nave, che adesso i flutti di libeccio spingono verso la spiaggia del faro. E' alla deriva: prosegue la sua corsa mentre il fondale si fa sempre più basso. D'un tratto si fa troppo basso per il pescaggio dello scafo: l'attrito di una secca sabbiosa ne arresta il convulso tragitto. Gli uomini, scaraventati in mare, riescono a trarsi in salvo perchè l'acqua è alta poco meno di un metro. Il comandante impreca. Gli altri, ammutoliti, osservano dalla spiaggia i frangenti, lo schiaffo del mare. La nave e il suo carico sono oramai perduti...”
Monolite in marmo proconnesio (foto Archeogate).
Il marmo proconnesio (marmor proconnesium in latino) è una varietà di marmo bianco tra le più utilizzate nell’Impero romano.
La varietà presenta un colore bianco, con sfumatura cerulee, uniforme o con venature grigio-bluastre ed ha cristalli grandi.
Le cave si trovavano nell'isola del Proconneso (nome antico in greco Prokonnesos, nel mar di Marmara, dal greco marmaros, "marmo") e dipendevano amministrativamente dalla città antica di Cizico, sulla vicina costa anatolica.
Le prime esportazioni del marmo dalle cave dell'isola, utilizzate localmente già in epoca greca, risalgono alla seconda metà del I Secolo d.C.: tra i più antichi esempi di esportazione sono gli elementi architettonici del restauro del tempio di Venere a Pompei, dopo il terremoto del 62.
Le cave erano di proprietà imperiale e le più importanti si trovavano presso le località di Monastyr, Kavala, e Saraylar. Producevano in serie elementi architettonici, vasche e sculture decorative, e sarcofagi. Nelle cave stesse i manufatti venivano sbozzati secondo le indicazioni dei committenti, per essere poi completati al loro arrivo. Dal IV secolo si svolsero sul posto tutte le fasi della lavorazione e i manufatti erano esportati ad uno stadio di lavorazione quasi completo.
Podio in marmo proconnesio (foto Archeogate).
Il carico di marmo è noto all'accademia degli archeologi dal 1977 ma è difficile pensare che sia sempre stato ignorato dal giorno del naufragio. 1500-1600 anni fa, il sito di arenamento si trovava, verosimilmente, in corrispondenza dell'allora linea di costa. Certo, lo scafo ligneo non deve aver resistito a lungo all'instancabile azione dei flutti, ma il suo pesante carico, di compattissimo marmo, è probabilmente rimasto lì, in quel limbo terri-marino in cui gli oggetti vengono di continuo coperti e scoperti dalle maree. E forse, con quel "Granitolis", l'umanista G. G. Adria, senza andare troppo per il sottile sulle tipologie di marmo, si riferiva al carico (che oggi, grazie ad analisi petrografiche, sappiamo non essere di granito) della navis lapidaria. Oppure - cosa che ci si può attendere da un umanista - il toponimo Capo Granitola ("Caput Granitolis", con "Granitolis" nella sua accezione mineraria in senso lato, ad indicare più che altro le rocce tufacee dell'era quaternaria) è la traduzione di quella locuzione araba "Ras-el-Belat" (capo roccioso) il cui cruento ricordo doveva suonare ancora fastidioso.
Il relitto di Kartibubbo (Sicilia Sud Occidentale) è una specie di mausoleo sottomarino in cui ogni monolite commemora un naufragio, uno scafo ingoiato, “digerito dal grande intestino acquatico e mai restituito”. Un tratto di mare navifago, capace di usare le sue indomabili correnti e i suoi bassi fondali come trappole mortali per i legni in transito. Già in epoca greca, intorno al V secolo a. C., una nave carica di zolfo sarebbe naufragata tra Kartibubbo ed il Puzziteddu; alcune parti della sua chiglia con chiodi di rame ed il carico di anfore frantumate sarebbero state individuate dal professor Gianfranco Purpura. In epoca romana, oltre alla navis lapidaria, qui conclusero il loro tragitto almeno due navi: una probabilmente durante la battaglia delle Egadi (249 a.C.), e l’altra, in età imperiale, nel II-III secolo d.C.- Storie tragiche raccontano i cocci d’anfora ed i pezzi di piombo (coi quali si equilibravano gli scafi ovvero le ancore) che di tanto in tanto il cestello di qualche raccoglitore di ricci riporta in superficie.
Anche in Liguria, nel Golfo di La Spezia, abbiamo la nostra nave lapidaria
Un riferimento importante alla romanità del Promontorio del Caprione ci è stato fornito dal ritrovamento della nave romana affondata alla Caletta, il seno di mare posto fra le punte di Maralunga e Maramozza, (al centro della mappa) detta nel Medioevo Cala Solitana. La nave trasportava tre grandi pezzi di colonne di marmo lunense (rocchi), di cui uno già recuperato ed abbandonato presso il Museo di Luni (vedi foto). Il naufragio sembra occasionale, ma analizzando bene la scogliera esterna del promontorio di Maralunga si scopre uno strano intaglio, assai grande, di decine di metri, molto antico perché dello stesso colore della scogliera, perfettamente piano, che induce a pensare ad un piano di appoggio di grandi pesi. Diviene quindi logico pensare che si sia tentato, in epoca romana, di costruire qualche tempio, dedicato forse alla Venere Ericina, nella splendida natura del promontorio di Maralunga. La nave, lì ormeggiata per il trasbordo dei grandi pesi, sarebbe stata colta da un fortunale e sarebbe finita contro la scogliera.
Ciò che in ogni modo è strano, è che la colonna, offerta dalla Sovrintendenza al Comune di Lerici, sia stata rifiutata dal Sindaco pro-tempore che tenne nascosto il fatto. Forse perché era troppo oneroso fare il relativo basamento, che ovviamente avrebbe dovuto sopportare il peso di tutti e tre i rocchi? Secondo altri si sarebbe dovuto creare un parco archeologico sottomarino, ma nulla è stato fatto di tutto ciò. Secondo altri le colonne non verrebbero mai tirate su, per non far emergere il fatto increscioso dei cercatori di datteri che le avrebbero in parte rovinate. In ogni modo si tratta di una devalorizzazione ignobile, rispetto alla ipotesi di vedere svettare al tramonto del Sole una alta colonna romana, testimone della nostra storia!
La Caletta. Scavo e recupero di relitto di Navis Lapidaria
Documentazione fotografica del recupero
Breve ricostruzione storica
In seguito a segnalazione vennero effettuati nella zona di Lerici - Baia della Caletta, diversi sopralluoghi che hanno permesso di individuare tre corpi lapidei approssimativamente cilindrici, parzialmente ricoperti dal fondale sabbioso ad una profondità di circa 8-9 m.
Tali ricerche, realizzate nel luglio 1990 con l’ausilio del Nucleo Carabinieri Subacquei di Genova e del circolo “Duilio Marcante”, permisero di riconoscere e documentare i tre massicci elementi, misure in centimetri:
n. 1: 210/198 x 380;
n. 2: 195/190 x 495;
n. 3: 185/178 x 260),
ricoperti dalla sabbia per circa un terzo del loro diametro. La loro sovrapposizione grafica permise poi di capire che si trattava di tre rocchi relativi ad un’unica colonna, dal fusto alto oltre 11 m. Le analisi nel contempo effettuate su alcune porzioni prelevate dal manufatto
lapideo, consentirono di stabilire che si trattava di marmo proveniente dalle Alpi Apuane, cioè dalle cave dell’antica Luni.
Negli anni successivi 1990, '91, '92, '93 e '97 sono state effettuate numerose campagne di scavo che hanno permesso anche il recupero di uno dei tre rocchi di colonna, l’elemento n. 2.
Un saggio effettuato nello spazio compreso fra i rocchi n. 2 e n. 1 restituì, ad una profondità corrispondente al piano d’appoggio di questi ultimi, numerosi resti metallici, fra cui chiodi, lunghi fino a 20-23 cm, abbondanti frammenti di lamina plumbea e piccoli chiodini di rame, destinati al fissaggio della lamina. I frammenti ceramici erano tutti relativi ad anforacei, tra i quali prevalevano quelli relativi ad anfore del tipo Dressel 2-4.
Il rocchio di colonna della nave romana affondata si trova ora nel
MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE E ZONA ARCHEOLOGICA DI LUNI
Il territorio comunale è posto ai piedi della Alpi Apuane, nell'estrema propaggine della Riviera di Levante, in prossimità del confine con la regione Toscana.
LUNI – Ricostruzione grafica di come era nell’Epoca Imperiale.
Notare la zona portuale
Questo museo apre le porte di una città: Luni, fondata dai Romani nel II secolo a. C.
Il Museo Archeologico Nazionale di Luni, inaugurato nel 1964, è stato costruito all’interno dell’area dell’antica città di Luna, fondata nel II secolo a.C. come colonia romana e divenuta in seguito il principale porto d’imbarco per il marmo bianco proveniente dalle vicine cave apuane e destinato a Roma. I materiali archeologici in esposizione consentono di seguirne l’evoluzione, dall’impianto della colonia nel 177 a.C. alla fase di massimo splendore raggiunto durante la prima metà del I secolo d.C, passando attraverso la trasformazione in sede episcopale nel V secolo d.C., fino al definitivo abbandono nel 1204.
Anche i Romani guardavano l’orologio! Solo che non era a molla o a pile come i nostri, ma funzionava grazie alla luce del sole. Questa meridiana è stata rinvenuta in una ricca domus della città: nel foro superiore si inseriva l’asta di metallo che, proiettando la propria ombra sulla parte concava, divisa in spicchi da sottili incisioni, indicava l’ora.
Particolare del mosaico di Oceano, la decorazione musiva che ha dato il nome all’intera domus in cui è stato trovato. Nella parte centrale è raffigurato il dio del mare, attorniato da una grande varietà di pesci resi in modo molto realistico. Tra le onde ci sono anche due amorini a cavallo di un delfino: qui ne puoi vedere uno, il solo che si è conservato per intero, mentre regge un tridente nella mano destra.
Incredibile ma vero...
L’anfiteatro, costruito in epoca imperiale, è uno dei monumenti meglio conservati della città: ne resta solo il primo piano, ma probabilmente ce n’erano altri due, per un totale di 7.000 spettatori! Qui si svolgevano i giochi gladiatori, combattimenti tra lottatori dotati di gladius, una spada corta e larga, e tra animali feroci. Si trattava di spettacoli assai violenti, ma che i Romani amavano molto!
Ringraziamo:
La Soprintendenza Archeologica della Liguria ed il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo per averci concesso la pubblicazione di materiale a scopo divulgativo.
Carlo GATTI
Rapallo, 28 settembre 2017
A CACCIA DI AURORE BOREALI
A CACCIA DI AURORE BOREALI
Galileo tentò di dare una spiegazione scientifica al fenomeno dandogli il nome che tutti conosciamo, ma si dovette arrivare all’800 per avere la prima “autentica” spiegazione dell’aurora boreale dal fisico norvegese Kristian Birkeland. L’evento è dovuto al flusso di radiazioni che provengono dal Sole ed entrano in contatto con il campo magnetico della Terra, formando particelle elettriche che a contatto con l’atmosfera emettono una luce spettrale.
Le teorie di Birkeland non furono mai del tutto accettate dalla comunità scientifica e la conferma delle sue intuizioni si ebbe soltanto dopo il lancio in orbita del primo satellite nel 1960.
Diciamo subito che per uno scandinavo del Centro Sud della Scandinavia é abbastanza raro assistere ad una Aurora Boreale, ma non é facile neppure vederla danzare oltre il circolo polare artico. Il fenomeno si delinea raramente e senza appuntamento, con fasci di luce a spirale verde e fluorescente, gialla, azzurra e violetta. Un tempo la spettacolare visione intimoriva le popolazioni della taiga Nordica che le attribuivano origini divine da cui scaturirono leggende fantastiche. Per gli Inuit é la danza dei bambini morti; la volpe “Revontulet” disegna per i Lapponi scintille variopinte che proietta con la lunga coda sulla terra dove si formerebbero sentieri di neve luminosi che aiutano gli spiriti a ritornare alle loro case.
La studentessa Gun Marie Gatti (che ha messo la prua a NORD per ragioni di studio), ha avuto la fortuna di fotografare l’Aurora Boreale sopra il cielo di Falun (Dalarna-Svezia). Era il 13 settembre 2014. L’affascinante spettacolo é durato dalle 00.30 alle 01.15.
Secondo gli scienziati il picco solare, chiamato Solar Maximum, che ha una ciclicità di 11 anni, si avrà proprio nell'inverno 2014/2015. Eccezionali tempeste magnetiche solari solleveranno nel cosmo folate di particelle energetiche tingendo di verde, rosso e viola le notti dei Sami.
Non manca l’industria turistica legata al fenomeno Aurora Boreale.
Si può soggiornare nelle cittadine dei diversi paesi lapponi. Nella parte svedese, i più audaci possono optare per il piccolo villaggio di Jukkasjärvi, non lontano da Kiruna, dove si trova il famoso Albergo di ghiaccio. A Kiruna c’é la possibilità d’imbarcare su un Jetstream32 (circa 850 euro), si superano le nuvole con maggiore possibilità di vedere l'aurora boreale. La durata del volo è di circa 45 minuti per un'escursione che dura in totale tre ore. Le stesse possibilità d’osservazione sono offerte nella Norvegia artica, a Tromsø o alle isole Lofoten, oppure a Rovaniemi in Finlandia, situata a breve distanza dal Napapiiri (Circolo Polare Artico). Ad Alta, nel nord della Norvegia, vengono organizzati safari notturni in motoslitta lungo le vaste pianure innevate tra boschi di betulle che salgono verso gli altopiani. Si dice che sia ancora più entusiasmante poter ammirare l'Aurora Boreale dall'aereo in un volo notturno organizzato dallo Spaceport Sweden . Si può anche scegliere un itinerario di più giorni con pernottamento in rifugi o nelle tradizionali tende Sami tra le montagne. Per i meno avventurosi, é consigliabile una comoda crociera a bordo dei postali Hurtigruten che da Bergen risalgono la costa norvegese, superano Capo Nord e giungono al capolinea Kirkenes. Per noi latini-rivieraschi, questo é il modo più comodo per godersi le notti artiche.
Carlo GATTI
Rapallo, 10 Ottobre 2014
Disincaglio della carretta PASQUALE VOLPE a Alistro
Incaglio
PASQUALE VOLPE
Ricordando Paolo Fontana: Da una cronaca di 40 anni fa…..
Il Pasquale Volpe di 1.537 tonnellate di stazza lorda, costruita nel 1930 e appartenente all’armatore A. Volpe di Napoli era partita da Genova il 29 aprile 1968 diretta a Cagliari al comando del capitano Giacomo De Martino di Procida, con sedici uomini d’equipaggio. A Cagliari imbarcò 2.300 tonnellate di sale e il quattro maggio fece rotta nuovamente per Genova. Il mare era burrascoso e il vento da Sud-Est, soffiava teso. Nelle ore serali, sul mare, si distese la foschia, tanto che la visibilità impedì all’equipaggio di vedere il fanale del porto vecchio di Cagliari.
Il giorno successivo, con mare da scirocco sempre burrascoso, la foschia si fece più greve.
Il Pasquale Volpe, che navigava a circa nove miglia da Capo Alistro, in Corsica, beccheggiando e rollando, procedeva cautamente; ma, poco dopo la mezzanotte, finì su un banco sabbioso e irto di scogli alla foce del fiume Tavignano.
Il mercantile dopo l’urto piuttosto violento, rimase immobilizzato. Il capitano De Martino ordinò: “Macchine Indietro”. Tuttavia, il piroscafo non si mosse. Il capitano si mise in contatto radio con Civitavecchia, che inviò sul posto i pescherecci “Perla del Tirreno” e “Marma”.
Quando la foschia si diradò (erano le sei del mattino) tentarono di disincagliare il piroscafo; i cavi, però si ruppero.
La situazione del “Pasquale Volpe” divenne precaria: Il mare lo aveva traversato sul basso fondo.
A quel punto l’armatore si è rivolto alla Società Rimorchiatori Riuniti di Genova per il recupero della nave.
In cronaca diretta…….
“Rimorchiatore Brasile all’ormeggio per ordini!”
Riflessioni di Charly durante il trasferimento dalla Torretta di guardia del Molo Giano all’ormeggio di Ponte Parodi.
“Quel c…. di ordine urlato, quasi con gioia dall’altoparlante della Torretta-RR, è un pugno nello stomaco! E’ sicuramente il segnale di partenza! Tra poco dovrò telefonare a casa per dire che stasera non tornerò, perchè andrò a rompermi le corna in qualche strana parte del Mediterraneo.
Già! Succede spesso! Quando stai per smontare di guardia e già pensi ai ravioli della Rina a Carpenissone, s’apre il clic del microfono e subito sfili le antenne dell’intuizione, ti specchi negli occhi dell’equipaggio e leggi la tua stessa inquietudine, allora ti metti in guardia pugilistica, a testuggine, e mentre aspetti la voce di Manna, guardi la diga e vedi il mare montare da libeccio. Qui scatta l’inquietante presagio: si parte!
“Brasile all’ormeggio”! Gli ingredienti ci sono tutti! E’ il nostro turno. Tra poco dovrò pensare alle provviste, alle carte nautiche, al rinforzo dell’equipaggio, a togliere il paglietto di prua, alle spedizioni, agli attacchi di rimorchio, al controllo dell’attrezzatura .
La nuova missione, caro Charly, è lì! Pronta per te. Fatti coraggio! Tra qualche ora sarai in mare aperto a pestare!
Che strano! Radiocucina questa volta non ha funzionato. Allora si tratta di un’emergenza!”
L’ormeggio di Ponte Parodi brulica dei soliti personaggi che s’avvicendano intorno al Casteldoria come fosse un paziente del Galliera. Il più potente rimorchiatore portuale sembra pronto per la partenza, è ormeggiato con la prora fuori ed hanno già tolto il paglietto. La coperta è invasa di provviste. Paolo, il comandante, sta controllando il gancio, la stivetta è aperta e fuoriesce un cavo di nylon bianco.
Charly sbarca dal Brasile e va a curiosare. Sente un urlo:
- “Charly! E’ tutto il giorno che ti sto cercando!”
- “Ciao Paolo! Ho già fatto cinque rimorchi! Non mi sono mica mi nascosto!”
- “Ho capito! Fino all’ultimo ti hanno tenuto sull’imboccatura. Hanno gli equipaggi in franchigia e non riescono a coprire il servizio. Senti Charly! Mi manca il primo ufficiale ed ho pensato a te! Sai, questa volta si tratta di un disincaglio ed ho pensato che magari ti manca…nel bagaglio!”
- “Ti ringrazio per il pensiero….il disincaglio m’interessa parecchio, ma lasciami almeno fare un salto a casa a prendermi il baule del marinaio….!”
- “Ti do solo il tempo di telefonare a Guny e poi partiamo. Il Pasquale Volpe è incagliato su Punta Alistro in Corsica e si è messo di traverso al mare. L’equipaggio è ancora a bordo e se il mare gira a scirocco sarà un casino…. Dobbiamo toglierli al più presto di là. Speriamo di non trovare il Pasquale messo a 90°!”
-“Paolo! Peggio sarebbe trovarlo alla pecorina….!”
Il padre di Paolo è stato per molti anni il Comandante della Capitaneria di Camogli e con Charly si conoscono dai tempi del Nautico. Paolo ha tre anni più di Charly e, come spesso succede tra naviganti, si sono ritrovati dopo alcuni anni, nella Soc. Rimorchiatori Riuniti, all’inizio di quest’anno. Charly è stato assunto con la patente di cap. l.c. dopo aver navigato, con i vari gradi, su n. passeggeri, petroliere e l’ultimo anno anche con Martini, facendosi una buona esperienza in Mediterraneo.
Paolo invece è entrato con la RR molto presto, ed ha già accumulato molti anni di comando e d’ esperienza sia di lavoro portuale che in altura. Paolo è l’unico capitano diplomato della Società che si è adattato perfettamente non solo a questo specialissimo lavoro, ma anche all’ambiente peculiare della “barcacce”.
Detto tra noi, i “barcaccianti” non sono favorevoli ai diplomati di coperta, ne temono la leadership….
Non mancano tuttavia le “eccezioni” alla regola. Paolo è tra queste e Charly lo sarà tra breve.
LA PARTENZA
“Molla tutto a prua e poppa.”
– Urla Paolo –
“Ragazzi! Non usciamo dal porto se non avete prima rizzato tutto. Fuori c’è mare forza sette e l’avremo sul muso fino a Capo Corso. Ci aspettano 90 miglia di dura battaglia. Ad Alistro, quaranta miglia sotto Bastia, c’è un equipaggio in pericolo che ci aspetta. Quindi dovremo tenere un’andatura adeguata all’emergenza.”
Paolo ha ragione. Appena messo il muso fuori della diga, comincia una cavalcata selvaggia. La libecciata è di quelle che entrano di diritto nelle statistiche… e i 28 mt. di lunghezza del Casteldoria denunciano tutta la sua inadeguatezza a quella urgente missione. Il rimorchiatore sale di dieci metri e poi precipita sparendo tra le onde, emerge a pallone per poi rituffarsi a precipizio. L’equipaggio è tutto stretto sul ponte ed aggrappato a qualcosa di rigido e solido per non sbattere, negli sbandamenti fuori controllo, contro le gelide paratie.
Charly è appena all’inizio di quel duro mestiere ed è ben lontano dal possedere il cosiddetto “piede marino” e, suo malgrado, è costretto a sparire quasi subito dalla scena, senza tuttavia aversi fatto l’idea che Paolo ed il suo equipaggio sono marinai di un calibro raffinatissimo, come mai prima gli è capitato di vedere sui “bordi” nazionali. In quella tremenda tempesta sono capaci di ridere, scherzare, mangiare e chiamare festosi gli amici dei pescherecci:
“Papetto! Papetto! Preparaci le triglie per domani! Andiamo a dare una strappata…. e poi c’incontriamo!”
Raccontano barzellette e tutti, compreso il d.m. Schiano, si alternano al timone e tengono la rotta con forza e precisione. La tuga è chiusa, senz’aria e quella scarsa che si respira, sale dalla macchina, mista a vapori di diesel e fumi di scarico. Sono uomini eccezionali che fanno blocco tra loro e con il rimorchiatore.
Quella notte in cuccetta Charly si sente sconfitto ed umiliato al punto che pensa di non essere adatto a quel mestiere…di duri!
Poi…appena doppiato Capo Corso, il Casteldoria passa dall’inferno del mare aperto, al paradiso del ridosso della Corsica. Charly, ripresosi improvvisamente dal KO, salta dalla cuccetta come un leone e sale sul ponte. Incassa e ignora qualche battuta salace, poi manda tutti a dormire. Soltanto Paolo rimane qualche minuto sul ponte:
“Non ti preoccupare Charly! Alla prima uscita con la burrasca, siamo tutti crollati come birilli al bowling. Ma c’è sempre una ragione: bisogna uscire in mare a stomaco vuoto e riposati! Stai tranquillo che se prendi queste due semplici precauzioni, non ti succederà più! A me, invece, il mare picchia in testa. Ora vado in cuccetta, mi sistemo il “cranio”, poi giro la chiavetta e faccio una dormita… Al chiaro daremo una scrollatina a Pasquale e poi tutti a casa! Paolo è di statura media, ha un viso squadrato e baffuto alla Paolo Conte, ma è biondo, un po’ riccioluto, ha due grandi occhi azzurri e le spalle molto larghe! Un giorno Charly gli chiese:
“Paolo, a nessuno è mai venuto in mente di chiamarti Platone?”
“Dai Charly non prendermi per il c…!”
“Davvero Paolo, in greco (Platis) Platone significa: spalle larghe!”
Paolo è nato “comandante” e sebbene fosse portato per il dialogo, è un tipo deciso che ha nella calma ragionata la sua arma migliore. Nel complesso Paolo sembra un nordico ed è molto stimato nell’ambiente del porto, del quale conosce ormai tutti i segreti antropologici, tecnici ed anche politico-sindacali. Già! Avete capito bene! Paolo Fontana, già da anni è impegnato a difendere la sua categoria, e lo fa come pochi altri, da vero interprete e conoscitore di tutti i problemi che si trovano sul piatto delle trattative a livello nazionale. Il suo impegno sindacale gli ha impedito, fino ad oggi di dare l’ultimo esame: la necessaria Patente di capitano di lungo corso, che gli consentirebbe di prendere il comando di qualsiasi nave anche fuori degli Stretti di Gibilterra e Suez.
Il suo regno è il porto, ma nell’attività d’altura a corto raggio, dà il massimo di sé stesso, con grande abilità di manovratore e competenza tecnica.
Charly, punto nel più profondo del suo orgoglio, ha tutto il tempo di ripensare ai propri errori e da quel momento dà inizio alla sua personale riscossa.
Quando apre la porta di sottovento, sul ponte di comando ritorna il respiro, la vita ed anche il profumo di cafè.
Il rimorchiatore riprende il suo moto rettilineo, aprendosi varchi spumeggianti sotto la spinta di 1500 cavalli che ora lo spingono al massimo della velocità.
Charly rassetta come può la tavola del carteggio, fa il punto nave e traccia una rotta che si ferma ad un miglio fuori Punta Alistro, sulla costa orientale della Corsica.
IL DISINCAGLIO
Paolo, nella lunga cavalcata nell’Alto Tirreno in tempesta, non è stato affatto disarcionato dal suo destriero, tuttavia quando sale sul ponte, dopo una breve guardia di riposo, porta ancora sul viso i segni della lotta e dell’insufficiente recupero….
“Paolo, ti ho preparato mezzo litro di cafè…non fartelo fregare! Ora tocca a te dirigere l’orchestra!”
Il trentenne comandante si siede barcollante vicino al telegrafo e pare che voglia girare di nuovo la chiavetta….del sonno.
Ma alla prima sorsata di quel magico cafè gli torna in mente, per incanto, lo scopo della missione.
Fa un balzo felino verso i binocoli, li afferra e comincia a ruotare le spalle a dritta e sinistra.
“Eccolo!”
– Dice Paolo con un filo di voce rauca e poi riflette a voce alta:
“L’onda lunga della vecchia sciroccata lo ha messo di traverso alla costa! Mi sembra che non sia tanto sbandato.”
“Paolo, ho controllato i fondali qui in giro. Sarà un casino avvicinarsi! Noi peschiamo quasi sei metri, quasi come la nave che si è incagliata.
Bofonchia Charly tenendo in mano il piano della zona.
Paolo è pensieroso, indugia sul colore del mare e poi si gira verso levante. Sembra rapito dal rosso sanguigno del cielo, che si alza lento ed esplosivo dalla costa italiana e copre le nere nuvolaglie di una burrasca che sta sfogando le sue ire sulla Toscana. S’avvicina al barometro, gli dà una ditata e l’indice scatta lievemente verso l’alto, indicando con una leggera vibrazione una timida alta pressione!
Il mare in quel punto è verde smeraldo e Paolo fa calare il gommone in mare e lo posiziona di prora al Casteldoria, che ora si muove al minimo verso la nave. Pasquino guida lo zodiaco, Mirto misura l’altezza, poi si gira e urla i fondali.
Ogni metro guadagnato in direzione della nave, apre zone bianche di sabbia che sono appena velate dalla purezza e trasparenza dell’acqua che non è più mare, ma acqua di casa.
Quando Paolo individua la “sua zona operativa”, dà fondo l’ancora e gira la poppa al Pasquale Volpe. La distanza che li separa è di circa 150-200 metri.
Troppa! Per un lancio di heaving line.
Troppa! Per dare istruzioni all’equipaggio della nave sprovvista di VHF.
Troppa! Per ottenere dal comandante le informazioni circa eventuali infiltrazioni e avarie.
Paolo prende il megafono e lascia il ponte, fa un balzo sul gommone e con molta prudenza s’avvicina al ponte di comando della nave. Parla con il comandante, e dai gesti s’intuisce che sta tranquillizzando l’equipaggio. Dopo circa 15 minuti ritorna a bordo. Le forti braccia di Cisco lo aiutano a scavalcare il bordo e Paolo non tradisce emozioni particolari:
“La nave si è arenata su un banco di sabbia. Non dovrebbe avere squarci nella carena. L’equipaggio è incolume, credo che non sarà un lavoro lungo.”
Duga è il più esperto sommozzatore della Società. Il suo duro e glorioso passato bellico non l’ha ancora scalfito nel fisico, e dal suo poderoso portamento emana un grande senso di sicurezza ed efficienza. Duga, il guerriero in muta, è pronto in coperta, ha un gigantesco pugnale sulla coscia destra e maneggia il grande flash come una clava; non sembra avvertire il peso delle bombole sulla schiena ed è palese a tutti la sua impazienza d’entrare in azione.
“Duga, tocca a te! Fatti un bagno in questa conca d’acqua pulita…. e fammi un bel rapporto!”
- Si raccomanda sorridendo Paolo. -
Duga si lascia scivolare in acqua e pinneggiando veloce come un ragazzino, si porta sotto la poppa della nave e infine sparisce. Compie almeno tre giri lungo lo scafo, poi riemerge e rivolto verso il Casteldoria, fa un segno inequivocabile con il pollice della mano destra. E’ un ottimistico O.K.!
Il nostromo Cisco Emmaus ha preparato in coperta il materiale per turare le falle: legname, iuta, sevo, cemento a pronta-presa ecc…e sorride all’idea che il suo ciarpame - forse - non servirà.
“Meggiu nasce fortunee che ricchi!”
- Urla sorridendo Duga dal gommone che l’ha recuperato –
“Fai attenzione Paolo! Ci sono scogli solitari lungo i fianchi della nave. Uno è molto grosso e appuntito, deve essere proprio quello che gli ha tranciato il dritto di poppa e gli ha spezzato il timone. La carena è intatta e pulita come se fosse appena uscita dal bacino. Ora salgo sul ponte e ti faccio il disegno della situazione. Credo che possiamo disincagliarlo senza danni, soltanto se lo sfiliamo di poppa, lungo il letto che si è fatto durante l’arenamento, fortunosamente, senza squarciarsi.”
Con il levar del sole si alza un po’ di vento, che purtroppo rinvigorisce l’onda lunga e fastidiosa da scirocco. La zona è aperta al vento di SE e pullula di pescherecci e altri gozzi variopinti che iniziano una strana danza di sali e scendi intorno al rimorchiatore genovese. Non si capisce bene! Forse studiano le mosse di Paolo, oppure vogliono rendersi utili per guadagnarsi la giornata, in ogni caso, se rimangono in zona rischiano di venirci addosso….e farsi male.
Paolo se n’accorge, prende il megafono e urla:
“Fate attenzione! Ora stenderemo dei cavi! Abbiamo bisogno di spazio per lavorare! Se abbiamo bisogno vi chiameremo! A lavoro finito, se avete del pesce ve lo compriamo! Grazie.”
L’equipaggio del Casteldoria ha preparato due cavi lunghi di nylon-perlon, di quelli che affondano e sono pesanti da tirare per il piccolo gommone (Zodiaco) di bordo. Il problema si pone subito, e viene affrontato sul ponte del rimorchiatore, dove circa metà dell’equipaggio è chiuso in conclave.
I marinai delle imbarcazioni locali non sono degli sprovveduti e sanno che prima o dopo, qualcuno dovrà portare i cavi del rimorchiatore sottobordo al Pasquale Volpe.
Paolo sa di avere una giornata scarsa per disincagliare la nave, ma teme il peggioramento del tempo. Prende anche in considerazione l’idea di farsi aiutare dai locali e parlotta di proporgli una cifra…ma improvvisamente gli viene un’idea e rivolto a Charly gli chiede:
“Abbiamo un barile metallico vuoto da qualche parte?”
“Te lo procuro subito, ma che vuoi farne?
– Chiese incredulo Charly –
“Lo scirocchetto che si sta levando ci romperà i c….., ma sembra l’ideale per spingere verso la nave un barile vuoto, al quale possiamo annodare l’ heaving- line; a questo aggiungiamo una ghia più grossa e più lunga, alla quale colleghiamo il primo cavo da rimorchio. Se l’operazione va bene, la ripeteremo per il secondo cavo.”
L’idea di Paolo sembra estemporanea, poco usata e fantasiosa, ma forse è più pratica e semplice del previsto. Per verificarne la fattibilità si deve solo provare ….
“Pensiero e Azione” è il motto mazziniano dell’equipaggio e, in “men che non si dica”, il goffo congegno, appena varato in mare, scivola via come una grossa papera, proprio verso il centro della nave con il suo fardello di cavi. Il piano di Paolo ha funzionato perfettamente.
Dalla vecchia biscaglina che pende storta e penzola dalla murata del Pasquale Volpe, si cala un acrobatico mozzo, al quale viene passato un’asta provvista di gancio. Il giovane incoccia qualcosa, e da bordo cominciano a virare. Il contatto è avvenuto. Il resto è routine!
“Salpiamo l’ancora! Tutti pronti a manovrare!”
Paolo dà il via alle operazioni di disincaglio.
I due cavi di rimorchio, su istruzione di Paolo, sono stati voltati alle bitte, ai due lati della poppa del Pasquale Volpe, per avere più angolo di tiro.
“Ogni disincaglio ha la sua storia!”
– Spiega Paolo, mentre distende progressivamente l’attrezzatura in tutta la loro lunghezza –
“Ora pareggiamo i cavi e assaggiamo il peso di Pasquale…”
Il Casteldoria si è posto quasi in fil di poppa alla nave, in una posizione che definire pericolosa non rende bene l’idea. Paolo non batte ciglio ed aumenta lentamente il tiro sino a tre quarti della sua potenza. La nave sembra non avvertire alcuna sollecitazione. Ciò significa che si è infilata con tutto il suo peso nella sabbia e molto in profondità. Paolo diminuisce i giri e quando i cavi accennano all’imbando, aumenta e porta il motore a pieno regime per provocare uno “strappo”. Per oltre un’ora prova e riprova questa tattica senza il minimo risultato.
Poi, il giovane comandante annuncia la tattica successiva:
“Ora useremo le maniere forti, ma con prudenza e senza fretta! Ci sposteremo da una parte all’altra fin dove ci è consentito dagli scogli e lavoreremo su un cavo per volta. In questo modo agiremo particolarmente sulla poppa. La obbligheremo a farsi un letto laterale sul quale sculettare... Avvertiamo il comandante di spostare tutti i “pesi possibili” verso prora. Se riusciremo ad alleggerire la parte più pesante, cioè la poppa, il resto gli verrà dietro.”
Paolo è molto sicuro di sé, e racconta d’altri disincagli realizzati, che si sono dimostrati ben più difficili del Pasquale Volpe, quando, per esempio, la presenza di squarci nella carena avevano imposto tattiche e soluzioni ben più sofisticate e lunghe di quella attuale.
“Charly! Mi dovresti calcolare l’ora esatta del crepuscolo. Devo provare altre soluzioni, ma devo farlo nel tempo che ho a disposizione, prima che venga scuro. In caso contrario, tra qualche ora, nel buio e in mezzo agli scogli chiuderemo baracca e riprenderemo domattina, tempo permettendo.”
“Conoscendolo a fondo,”
– Riflette Charly –
“Paolo, prima di rinviare il lavoro al giorno dopo e lasciare gli uomini di quello ‘scavafango’ ancora una notte sulle spine, farà i salti mortali…”
“Ragazzi sgombrate la coperta! Ora il gioco si fa duro!”
- Gridò Paolo uscendo per un attimo dalla tuga –
Scattata la quinta ora di tiro. Paolo prende il timone del Casteldoria, leva qualche giro al motore ed accosta velocemente di venti gradi a dritta verso la costa, aumenta la macchina a tutta forza e va a sfiorare il bassofondo. Rientra poi a sinistra con un’altra curva secca, rapida e micidiale. In mezzo, tra le due accostate, lo scafo del Casteldoria aggiunge il suo peso “traversato” agli strappi dei cavi che ora vibrano e s’assottigliano fino a rischiare la rottura.
Al termine dello spericolato doppio slalom, il Pasquale Volpe accusa il colpo! Si piega prima da un lato e poi dall’altro. La poppa si sposta di almeno un metro sulle scivolate a corpo morto del rimorchiatore.
“Bravo Paolo!”
- Urla l’equipaggio -
“Dai che viene!”
Tutto l’equipaggio si alterna nella manovra disegnata dal suo comandante ed infine, alla settima ora di tiro continuato, quando la luce sta per trasformare gli umani e le cose in ombre senza volto e senza nome, avviene la liberazione. Il Casteldoria, dopo aver staccato centimetro per centimetro di nave, agli scogli e alla sabbia cui sembra incollata, appare stremato e frustrato nei nervi e nel materiale, ma riesce nella sua missione:
ha disincagliato il Pasquale Volpe!
Duga è pronto, da tempo, per l’immersione, ma per non tradire la scaramanzia marinara… si nasconde nella saletta, e quando Paolo porta la nave all’ancora su fondali decenti, s’immerge e inizia la sua ultima ispezione alla carena, per verificarne sia la galleggiabilità che la navigabilità.
Mentre Charly tiene puntato il proiettore da 1000 watt sulla posizione del sommozzatore, segnata da un galleggiante colorato, Paolo si avvicina con il Casteldoria a 20 metri dalla nave e prende accordi con il comandante.
Quando Duga finisce l’ispezione e dichiara che la nave può essere rimorchiata, i comandanti, sentiti i bollettini, che non promettono niente di buono, rinviano gli attacchi di rimorchio al giorno dopo.
UN RIMORCHIO DIFFICILE
Il bollettino Meteo ha ragione! Il convoglio, risalendo all’indomani la costa orientale della Corsica, è tormentato e schiaffeggiato dal forte libeccio che scivola giù dalle alte colline, sprofonda lungo le gole e quando arriva sulle spiagge solleva e polverizza nuvole di sabbia, crea mulinelli e vortici d’aria che danzano senza sosta, come leggeri fantasmi senza meta.
“Chissà cosa c’è dall’altra parte!!”
– Si chiede l’equipaggio! Ed è ancora Paolo a dire l’ultima parola. –
“Ragazzi, a Capo Corso faremo le vele secondo il vento. Noi abbiamo la pazienza di pendolare anche una settimana nell’attesa di uno stacco del tempo. A procurarci il pane fresco ci penserà il cuoco del Pasquale V. e per le triglie ci penserà Papetto, il peschereccio di Porto S. Stefano. Se invece ci troviamo alle strette con i viveri, mangeremo caponata e gallette. A proposito Charly, chiama Papetto sulla 1182 del radiotelefono!”
“Papetto, Papetto dove sei! Rispondi!”….
Nell’attesa che il libeccio sfoghi la sua rabbia, Paolo accorcia il cavo di rimorchio e si tiene sottocosta, programmando una velocità che ci consentirà d’arrivare all’alba a Capo Corso, per sbirciare la situazione e decidere se proseguire o pendolare.
Forse è bene ricordarlo; dalla partenza da Alistro, Paolo è il comandante responsabile del convoglio; a lui spetta decidere la rotta, la velocità, le eventuali soste ecc…Sempre, naturalmente, informando il comandante della nave rimorchiata.
Ma c’è un problema: il comandante del Pasquale Volpe, su preciso invito di Paolo, non è riuscito o non ha voluto appoppare la nave, che ora risulta, al contrario, appruata di tre o quattro piedi. Il fatto puramente tecnico, è sottovalutato dal comandante che ignaro di rimorchi, non immagina le difficoltà che incontrerà il convoglio in navigazione.
Il traino procede fino alla Giraglia, praticamente in bonaccia, alla corta e quindi a briglia stretta. Ciò significa che la nave rimorchiata sente la forza del rimorchiatore direttamente sul collo, cioè a prua, e quindi lo segue docilmente senza imbizzarrirsi.
Quando poi si apre – finalmente - alla vista l’alto Tirreno, pare a tutti che sia possibile lanciarsi verso Nord, anche in quelle condizioni non proprio ideali.
Paolo decide allora di allungare il cavo, fissando la misura più idonea a contrastare l’onda montagnosa di libeccio, forza 4/5. Il bollettino meteo lo dà in calo. La speranza è di perderla sulla rotta per Genova.
Il difficile governo del convoglio appare – purtroppo - quasi subito evidente, ma non dipende dal fatto che la nave è senza timone, perché è bene ricordare che, una qualsiasi nave rimorchiata mette il timone in centro, lo blocca e se lo dimentica.
Il vero problema è il mare, che picchia ora al giardino (poppiero) di sinistra della nave, che è la parte più leggera del rimorchio e cede sottovento, questa forza viva fa ruotare la prua a sinistra, verso il vento e il mare.
In questa situazione dinamica, alla velocità di 6/7 nodi, il Pasquale Volpe assume la “sua” rotta orziera e la difende con la stessa forza impressa dal Casteldoria.
Situazione pericolosa. Il rimorchiatore sbanda sotto il tiro della nave al traverso.
E’ difficile crederlo, ma ad un certo punto il rimorchiatore viene raggiunto, al traverso sinistro, dal rimorchio che prosegue la sua corsa divergente e tenta di superarlo, cioè prenderlo per il culo** , e se Paolo viene sorpreso all’improvviso, nella migliore delle ipotesi può essere trascinato, oppure, qualora si strappassero le bozze, che trattengono il cavo da rimorchio assuccato (trattenuto) sulla zona poppiera, (vedi disegno) lo scafo del Casteldoria si traverserebbe al cavo, sbanderebbe, imbarcherebbe acqua e affonderebbe nel giro di pochi minuti. (vedi foto sopra)
**(mi sia consentito l’uso di questa volgarità, ma si tratta dell’unica espressione aderente al caso specifico che io conosca)
Notare a sinistra il cavo d’acciaio del rimorchiatore che è trattenuto da un maniglione e da una cima (bozza) data volta al tamburo del verricello.
L’assetto appruato della nave costringe il Casteldoria ed il suo equipaggio ad una navigazione manovrata, sia sul ponte di comando che in coperta, dove i marinai, sbattuti a paratia dai marosi, devono essere sempre pronti ad “allascare le bozze” per consentire al timoniere del rimorchiatore di poter inseguire il rimorchio, richiamarlo in rotta, portarselo dritto di poppa e prevenire le pazze fughe che abbiamo visto.
C’è solo da aggiungere che le famose “inverinate” del Pasquale Volpe avvengono alternativamente sia a sinistra che a dritta e con la stessa meccanica. Possiamo cercare di analizzare un po’ meglio nel dettaglio:
quando il Casteldoria allasca le bozze, gli si apre (in coperta) un angolo di cavo sufficiente per accostare a sinistra e rimontare velocemente, con il cavo venuto nel frattempo in bando, la posizione ideale, di prora alla nave, per richiamarla sulla rotta di casa.
In questa fase il rimorchiatore deve diminuire e regolare la velocità per non strappare il cavo che sciabica sull’acqua e poi l’aumenta subito per non perdere il controllo sulla nave.
Quando finalmente la prora è richiamata, la nave non si ferma sulla rotta del rimorchiatore, ma continua l’accosta esageratamente a dritta, perché ormai prende il vento a poppavia a dritta e tende a poggiare, sino a portare la poppa al vento.
CONCLUSIONE
Questa navigazione pericolosa e massacrante durò per novanta miglia fino all’arrivo Genova. Charly, da quel giorno dimenticò letteralmente il mal di mare e fu grato a Paolo, per tutta la vita, d’averlo imbarcato sul Casteldoria all’ultimo momento. E’ stata un’esperienza ricchissima di “specialità marinare” che gli è stata molto utile nel corso della sua carriera, specialmente quando gli toccò di vedersela con altri numerosi “ossi duri da spolpare”.
Giunti così all’epilogo di quest’avventura, nella realtà, ci rimane soltanto da precisare un concetto: quando si parla di un pugile che ha terminato un match impegnativo, non si parla mai di “buona esperienza fatta”, ma di cazzotti presi e dati…..e che hanno lasciato il segno!
Ecco! Per gli equipaggi dei rimorchi d’altura, più o meno è la stessa cosa!
Paolo è mancato in questi giorni. Io non l’ho pianto! Ho preferito ricordarlo come un grande marinaio!
Carlo GATTI
Rapallo, 16.02.12
DA QUALCHE PARTE (poesia)
SCRITTORI IN RIVA AL MARE
DA QUALCHE PARTE
C’è da qualche parte
la casa che mi aspetta
Si erge rossa
di mattoni vecchi
abbracciata
a una pergola di vite
Respira il salso
Non si è mai stancata
di scrutare il mare
di condividerne
le metamorfosi
impetuose
rilassanti…
Con un occhio
cura la baia
che resti libero il posto
dove dondolerà pigro
il mio guscio di vela
Mi chiama
tra i suoi limoni
e le sue erbe profumate
Devo solo
chiudere gli occhi
seguire il vento
e raggiungerla
Marinella GAGLIARDI
Rapallo, 17 Gennaio 2019