PORTO DI GENOVA: Cosa succede quando si decide di unire le forze?

PORTO DI GENOVA

Cosa succede quando si decide di unire le forze?

Foto Fabio Parisi

La complessità di un porto di grandi dimensioni è accentuata dalla compartimentazione delle realtà che ci lavorano. È possibile creare sinergia?

Il mondo portuale è molto complesso e articolato. Una miriade di interessi economici coinvolge soggetti differenti che, a loro volta, intrecciano la parte operativa e quella amministrativa con altre organizzazioni, le quali interagiscono con enti pubblici e militari. Realtà dove la sicurezza, l’efficienza, i posti di lavoro e l’economicità, s’incontrano e si scontrano in continuazione, cercando vantaggi e scappatoie lungo sentieri border line, dove spesso galleggia la possibilità di tenere aperta un’azienda o dichiararne il fallimento.
Alla domanda:
“Cos’è che non va nei porti italiani?”
mi verrebbe da rispondere:
Confusione organizzata. Sembra di guardare una mischia durante una partita di rugby…”.
In realtà non è così semplice trovare una risposta. Prima di tutto occorre prendere coscienza del fatto che ogni porto ha caratteristiche che lo differenziano dagli altri. Seguendo la politica e la parte operativa di alcuni di questi, ci si rende conto di come singole forze in gioco – armatori, terminalisti, autorità, politici, ecc. – influenzano in modo differente le regole del gioco, mentre la fluidità del sistema viene fortemente compromessa dalla “responsabilità latente”. Quella cosa fuggevole, non sempre ben identificata, con limiti e interpretazioni volatili e variabili, che salta fuori prepotente – giustamente – quando viene reclamata a gran voce dalla parte lesa.

Non è facile, ripeto, porre delle regole e stabilire procedure che mettano in ordine le competenze, le priorità, la sicurezza, l’efficienza e l’economicità, definendo con chiarezza i limiti e i contorni delle responsabilità.

I porti sono motori dell’economia, dove ogni singolo pezzo ha una professionalità vincolata al lavoro che svolge in sinergia con gli altri.
I tasselli, come in un puzzle, non sono interscambiabili e l’incastro forzato di uno sull’altro genera confusione e pericolo, arrivando a compromettere gli obiettivi che si vogliono raggiungere.
I “tuttologi” sono pericolosi.
Nell’era del web, in pochi secondi, è possibile trovare risposta a quasi tutte le domande: un’arma potente, se usata con criterio. Il problema nasce quando non teniamo conto del fatto che, i risultati così ottenuti, non sono supportati da un’esperienza diretta: se non abbiamo il trascorso necessario a interpretarli correttamente e se tendiamo a non dare la giusta importanza all’autorevolezza dell’informazione, otteniamo un inutile conflitto, pretendendo di porci sullo stesso piano di chi ha costruito il sapere su fondamenta concrete e non sull’inconsistenza del “sentito dire da altri”.
La conoscenza di un determinato settore nasce da un primo anello, a cui se ne collega un secondo e poi un terzo, un quarto, e così via. Raccogliere informazioni frammentarie porta, il più delle volte, a trarre conclusioni apparentemente coerenti, ma sbagliate perché incomplete, o perché non è stato dato il giusto peso ai singoli elementi informativi.

La cultura e la curiosità sono importanti, ma l’umiltà e l’apertura mentale sono decisivi!

L’umiltà permette, non solo di accettare l’esistenza di persone più preparate di noi in un determinato settore, ma di andarle a cercare perché ritenute un valore aggiunto necessario; l’apertura mentale porta ad accettare “l’unione di più cervelli” (concetto che ho già espresso) come un upgrade del nostro potenziale.
È finita l’era in cui dalla figura verticistica si pretendeva l’onnipotenza culturale; quando il sapere universale giustificava la presenza del “padre padrone”; quando avere bisogno degli altri era un punto a sfavore.
Oggi la base è la stessa: cultura generale, decisionismo e autorevolezza, ma affiancati dalla comunicazione, dalla preparazione specifica, dalla capacità di circondarsi di persone positive, propositive, preparate e, soprattutto, dall’umiltà e dall’apertura mentale necessarie ad ascoltare, per fare proprie, le idee degli altri.

Qual’è il perché di questo lungo preambolo?
Entro nello specifico con l’intenzione di valorizzare un percorso che, a mio parere, esemplifica quanto detto finora.

Foto Fabio Parisi

Soggetti in gioco:
Terminalisti: concessionari di spazi portuali che lottano quotidianamente per aggiudicarsi nuove linee di traffico. Per raggiungere lo scopo devono essere concorrenziali e fornire vantaggi ai possibili clienti. A seconda della loro specificità agiscono in diverse direzioni: economicità dello scalo, efficienza nella movimentazione delle merci, limiti degli ormeggi, limiti operativi per cattivo tempo, ecc.
Armatori/Noleggiatori: sicurezza dello scalo, efficienza del terminal, tempi di attesa, costi, ecc.
Autorità di Sistema Portuale (AdSP): è un ente pubblico che gestisce e organizza il proprio ambito portuale. Individua strategie per essere concorrenziale con altri porti, si cura dell’efficienza dello scalo, della manutenzione delle opere portuali, dei dragaggi, del continuo aggiornamento strutturale e tecnologico per restare allineato alle richieste del mercato, ecc.
Autorità Marittima: soggetto estraneo al coinvolgimento economico diretto, svolge una pluralità di funzioni nei diversi ambiti d’impiego. In questo contesto interessa sottolineare il suo ruolo nella gestione del traffico portuale, nel controllo del rispetto delle norme di sicurezza, nelle valutazioni di fattibilità, ecc.
Servizi Tecnico Nautici: i servizi di pilotaggio, rimorchio, ormeggio e battellaggio sono servizi di interesse generale, il cui compito è quello di garantire la sicurezza della navigazione e l’ormeggio nei porti. La disciplina e l’organizzazione dei Servizi Tecnico Nautici sono competenza dell’Autorità Marittima.

Il Tavolo Tecnico, che si riunisce per esaminare le previsioni degli accosti e si esplicita nell’incontro quotidiano tra i Servizi Tecnico Nautici e la Sezione Tecnica della Capitaneria di porto, è il risultato di un percorso sfociato nella formalizzazione di procedure applicate da sempre. La necessità di un confronto, per decidere il modo più efficace di operare – osservando la questione da diversi punti di vista determinati dalle diverse professionalità – è sempre stata avvertita.
Prima dell’istituzione del Tavolo Tecnico, il confronto avveniva quando evidentemente necessario: riunioni saltuarie, telefonate, convocazioni, meeting allargati, ecc., erano i mezzi usati per affrontare le questioni operative.

A questo punto devo rimarcare il fatto che ogni porto ha le sue specificità e, quindi, le sue esigenze.

Il Tavolo Tecnico non può essere generalizzato, pena lo scontro ideologico di chi trova, per la propria realtà, esagerato o poco aderente alle necessità, un impegno quotidiano.
Non si tratta di una procedura standard valida per tutti i porti.

Qual’è lo scopo e quali sono i vantaggi legati al “Tavolo”?
A questo punto entra in gioco l’aspetto umano.
Abbiamo detto, infatti, che la pratica era già soddisfatta da una procedura non scritta creata dall’esigenza. Quello che mancava era un ingrediente essenziale alla qualità dei rapporti: la conoscenza diretta e profonda tra i soggetti; la mitigazione, pur nel rispetto dei ruoli, delle barriere professionali che, al di là delle competenze, restringevano il campo visivo dei singoli.
In pratica, è nella natura umana porsi al centro del proprio universo, considerandone il nucleo la parte che più la riguarda; ed è pure nella natura umana esordire con atteggiamenti di sospetto quando gli argomenti trattati si prestano ad essere viziati da possibili interessi personali.
Diffidenza, dubbi, incompetenza, limiti, ecc., sono solo alcuni degli ostacoli risolti approfondendo semplicemente la conoscenza tra le persone.
L’incontro quotidiano, inoltre, ha permesso di affrontare i problemi nella loro fase embrionale, limitando i malintesi e l’aggravarsi delle situazioni.

Nella prima parte ho scritto che i porti sono vittime di una confusione organizzata.
Forse non è la definizione più appropriata. Sarebbe più giusto dire che “i soggetti operanti all’interno dei porti sono scollegati”.
Infatti, osservandoli, è evidente che ognuno lavora con passione perseguendo i propri interessi con forza. Il problema è che, pur stando tutti sulla stessa barca, si rema in direzioni diverse.
Scollegati.

Il rispetto dei ruoli.
Ho parlato del “rispetto dei ruoli”, dell’importanza della “professionalità”, del pericolo dei “tuttologi”, del problema che deriva dallo “scollegamento”. Lasciatemi ora dire che il Tavolo Tecnico è un ulteriore passo nel percorso verso un'”efficienza comune”.
Manca infatti ancora un tassello importante, affinché la barca cominci a prendere una rotta precisa: l’Autorità di Sistema Portuale(AdSP).
All’interno di questo ente esistono individui di grande valore, il cui contributo, purtroppo, viene spesso rallentato dalla melma burocratica e dallo spettro giudiziario che, ormai da troppi anni, volteggia insidioso su chiunque cerchi di sbloccare i problemi.
Beh, il primo passo da compiere è quello individuare un soggetto dell’AdSP che partecipi quotidianamente al Tavolo Tecnico. Un rappresentante dell’ente che si inserisca nel gruppo, assorba e digerisca i pensieri altrui, per poi condividere il suo.
In questo momento, infatti, il punto più scollegato è proprio quello tra la parte operativa gestita dall’Autorità Marittima e quella burocratico-politica controllata dall’Autorità di Sistema Portuale.

Affrontare, e soprattutto condividere, obiettivi, strategie e decisioni, sommando le competenze dei singoli, spiana la strada a procedure efficaci, responsabilità partecipate e soluzioni coerenti agli interessi generali.

Il rispetto dei ruoli è fondamentale, ma tutti i soggetti devono trovare un punto comune per la risoluzione dei problemi, riconoscere l’autorevolezza delle singole professionalità, mettere a disposizione le proprie competenze e trarre profitto da quelle degli altri.

Al Tavolo Tecnico sono presenti l’AM e i Servizi Tecnico Nautici, dovrebbe aggiungersi l’AdSP e, come già avviene quando ritenuto necessario, allargare le riunioni ai rappresentanti dei terminal, delle agenzie e degli armatori.

Elevare l’interesse individuale a un piano comune, dove la componente umana sovrasti la compartimentazione cronica che limita lo sviluppo.

Nelle complicate economie generali di aziende (da piccole realtà ad immense multinazionali) che hanno interessi all’interno di un porto, l’approdo di una nave alla banchina può essere considerato un “dettaglio”. Questo succede perché, trattandosi di un aspetto particolarmente tecnico, resta estraneo alla mentalità manageriale di chi gestisce un’impresa che si affaccia sul mare ma si sviluppa a terra.
I pescaggi, gli spazi ristretti, il vento, la corrente, le bitte, diventano numeri in un contratto di noleggio, che possono o meno corrispondere alle esigenze di chi compra, vende, si appresta a scambiare merci, navi o persone.
Per quanti siedono attorno al Tavolo Tecnico, sono argomenti che hanno una loro tridimensionalità e vengono valutati sotto i riflettori della sicurezza, dell’efficienza, dell’economicità e della fattibilità. E’ un contesto in cui viene affrontato proprio quel “dettaglio”, spesso trascurato dalle grandi aziende, che può bloccare anche la più complessa macchina economica.

In definitiva, il lavoro svolto dal Tavolo Tecnico nella sua specificità, è un’importante risorsa a disposizione della portualità.

John GATTI

Capo Pilota del Porto di Genova

Rapallo, 29 Novembre 2017



M/V ANTONIO LANDI, UNA TRISTE STORIA!

Motoveliero

“ANTONIO LANDI”

Una Triste Storia!


Motoveliero-goletta Antonio Landi

Sul sito di MARE NOSTRUM RAPALLO abbiamo dedicato molte pagine alla storia del porto di Genova, ma il suo percorso è così lungo e articolato che molti sono ancora gli autori e i testimoni di questa lunga catena che dovranno documentare tanti fatti che emergono ogni giorno ed interessano non solo gli studiosi, ma anche coloro che nel porto vivono, lavorano e respirano la sua cultura.

Il palcoscenico del porto più importante del Mediterraneo cambia infatti ogni giorno: nuovi arrivi, nuove partenze, navi che si spostano al suo interno per ragioni diverse ma sempre necessarie per alimentare quella fama di operosità che lo ha reso famoso nel mondo.

Ci sono poi le libecciate, i danni alla lunga diga e alle banchine fino ad allora ritenute sicure, navi che naufragano sulla diga, petroliere che s’incendiano, altre che scoppiano, trombe d’aria che abbattono gru gigantesche. Insomma, i giorni felici si alternano a giorni infausti, periodi di pace lunghi e produttivi che sono seguiti da tremendi anni di guerra.

Sfogliando questo “antico manoscritto” che ogni giorno volta pagina per raccontare episodi nuovi e sempre diversi, oggi ci soffermiamo sul triste epilogo di una piccola nave: la ANTONIO LANDI e del suo equipaggio. 12 ragazzi italiani che morirono in un lontano giorno di 73 anni fa nell’anfiteatro portuale di Genova. Una storia poco nota perché le vittime erano marinai, appartenenti a quella categoria definita in tanti modi. Per noi, la più realistica è questa:

I VIVI, I MORTI E I NAVIGANTI

In terra, quando succedono delle calamità naturali, incidenti, bombardamenti e crolli c’è sempre qualcuno pronto ad immortalare la tragedia, a diffondere le immagini e ad intervistare superstiti e testimoni.

In mare si muore in modo diverso: si viene colpiti dai marosi o dalle bombe e si affonda senza lasciare tracce; si toglie semplicemente il disturbo senza rilasciare dichiarazioni, giustificazioni, senza avere il tempo di chiedere perdono dei propri peccati.

In quei tristi giorni del 1944 i genovesi di terra, di porto e di mare vivevano sotto i bombardamenti aero-navali degli Alleati, mentre gli invasori tedeschi minavano oltre 10 chilometri di diga ed anche le sue banchine principali, affondavano le navi militari e mercantili più importanti sulle due imboccature di quel tempo per impedire agli alleati, ormai alle porte, d’impossessarsi dell’intero porto e respingere l’esercito di Hitler oltre i confini italiani.

Il capitolo che oggi vi raccontiamo non fa parte della grande storia. Non si tratta infatti di un argomento al centro di risonanti convegni, ma riporta e ricorda un fatto bellico che provocò pochi morti. Un numero “quasi” insignificante rispetto al mezzo milione di vittime italiane della Seconda guerra mondiale.

Perché scriverne allora? Semplicemente perché erano ragazzi imbarcati su un vecchio veliero disarmato che pendolava in mezzo al golfo con il compito di avvistare i sottomarini inglesi.

Dodici marinai che si sono inabissati nell’oscuro silenzio delle acque di Genova, avvolti nelle vele del pacifico veliero ANTONIO LANDI.

La goletta, 415 tonnellate di stazza lorda, fu varata nel 1919 per l’armatore Carlo Landi di Savona e per un ventennio veleggiò tra i porti del Mediterraneo come nave da carico. La sua insignificante carriera fu interrotta dall’entrata in guerra dell’Italia il 10.6.1940. Requisita dalla Marina Militare fu adibita ad un servizio umile e di poco prestigio; un tempo il suo ruolo era noto come “nave civetta” che aveva il compito di avvistare il nemico nel raggio di poche miglia dal porto di Genova e di allertare le postazioni costiere. Ma ora entriamo in cronaca diretta.

Alla goletta militarizzata viene assegnata la sigla V-106. Pare sia stato riconfermato lo stesso equipaggio mercantile che ha una buona pratica di vele e di manovre “silenziose”. Qualcuno, posto nelle alte sfere della M.M. decide che V-106 meriti un “aggiornamento militare” per far fronte alle nuove tecnologie adottate dai sottomarini inglesi. L’operazione di restyling avviene presso l’Arsenale di Spezia con l’imbarco di innovative apparecchiature tedesche. L’arrivo del fatidico 8 settembre 1943 stravolge la situazione politica nazionale. La flotta italiana si consegna a Malta e la piccola V-106 rimane intrappolata nella base spezzina. La marina di Salò, d’accordo con i tedeschi, può armare solo naviglio minore che non dia nell’occhio. La “nave civetta” cambia padrone ed imbarca giovani marinai della Marina del Nord. Sono genovesi, amici tra loro ed abitano nei caruggi di Genova.

Si provvede all’installazione della artiglieria leggera ed inizia il suo lavoro di “sentinella costiera”. Improvvisamente le si dà un nuovo ruolo operativo tra Spezia e Genova e tra Genova e Savona, trasporta munizioni, scorta motozattere e le KT tedesche, sfila nel buio tra le mine, sempre di notte per non essere avvistata dagli aerei inglesi. Per queste missioni ha cambiato sigla e prende una nuova identità: C.S.13.

Colpo di scena. La goletta ha anche il suo giorno di gloria abbattendo un aereo nemico. Passa di grado e diventa un “Caccia Sommergibili”, piccolo, ma insidioso!

Formazioni di Bombardieri USA Consolidated B-24 Liberator

L’Epilogo. Il 4 settembre 1944, quel maledetto giorno, 144 aerei americani arrivano da NE, si abbassano ad una quota di precisione e sganciano, dalle 12.50 alle 14.10, uno sproporzionato numero di bombe che fu definito “il più distruttivo bombardamento che la città dovette subire nella sua storia distruggendo case, monumenti, industrie, affondando navi e uccidendo oltre 300 persone”.


Molo Giano-Ormeggio della Antonio Landi. Sullo sfondo la Torre Piloti ricostruita con lo stesso disegno, per due volte, dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale.

La ANTONIO LANDI, poi V-106 ed infine C.S.13 é ormeggiata a Molo Giano vicino alla TORRE DEI PILOTI che quel giorno crolla sotto i bombardamenti, per la seconda volta, in quella famigerata Seconda guerra mondiale. (Nota dell’autore: Come il lettore sa, in quella zona … dimenticata da Dio, anche la terza Torre di controllo dei piloti fu abbattuta dal cargo Jolly Nero il 7 maggio 2013).

Già nella prima mattinata, il suono stridulo delle sirene lacera l’aria più volte segnalando con largo anticipo l’avvicinarsi di una incursione aerea che poi si rivela

falsa.


Bombardieri (Consolidated B-24 Liberator)provenienti dal primo quadrante (NE) perlustrano il porto prima di sganciare le bombe


Sirena

Nel dubbio che prima o poi si realizzi l’incursione aerea nemica, l’equipaggio del veliero viene evacuato e convogliato nelle gallerie scavate nella roccia alla radice del Molo Giano. Ma i giovani, si sa, sono impazienti e quando indossano la divisa militare diventano veri soldati che non accettano di scappare verso il rifugio. Temerari e ardimentosi ritornano a bordo. Tradire quella “Bandiera vecchia, Onor di Capitano” non rientra nei loro sogni di gloria!


Bombardamento navale di Genova (aree più scure: zone ove registrò una maggior concentrazione dei punti di caduta dei colpi britannici)

1 – Molo Principe Umberto (attuale “diga foranea”)

2 – Ponti Eritrea e Somalia

3- Ponte Parodi

4- Zona Bacini

5- Zona dell’Ospedale Galliera

6- Stazione Brignole

7- Stazione Principe

8- Zona industriale della Valpolcevera

9- Cantieri Navali Ansaldo

10- Batteria “Mameli”

L’appuntamento con la morte è ormai vicino. Passano pochi minuti quando le prime bombe, urlando e fischiando devastano il porto. Colonne d’acqua si alzano in cielo sollevando corpi e pezzi di nave a centinaia di metri.

La goletta A. LANDI ed il suo esiguo equipaggio di valorosi vengono inesorabilmente colpiti. Affondano insieme, abbracciati come amanti e vittime dello stesso destino. Veliero e marinai hanno la stessa età, quella età in cui nei giorni di guerra si muore senza sapere il perché!


“Dodici ragazzi che non torneranno più”. Rinaldo abitava in vico della Croce Bianca, viene trasportato cadavere da mani pietose, fino all’ospedale di Sampierdarena. Di Ugo, Alvaro, Pietro, Vittorio, e Giuseppe che abitava in Vico Monte di Pietà, non si ha più traccia. Alla ferocia dei bombardamenti si aggiunge anche l’egoismo del mare che non vuole restituire quei poveri corpi ai loro cari e alla città, ma trattiene questa piccola storia per sé, forse per raccontarla a modo suo… in eterno!

Carlo GATTI

Rapallo, 14 Aprile 2017

 


CHIAVARI - RIONE SCOGLI: Piazza GAGLIARDO oggi

PIAZZA GAGLIARDO OGGI

 

 

 

Ci troviamo in piazza Gagliardo, vulgo Piazzetta dei Pescatori. Nel 1944 i tedeschi erano fortemente intenzionati a demolire questa storica casa per sostituirla con un “bunker antisbarco”. La famiglia Gotuzzo si oppose con tutte le forze alla realizzazione di questo insensato progetto e, per fortuna, alla fine riuscì ad evitare il disastro. Il bunker, contenente un nido di mitragliatrici pesanti, fu costruito nella posizione da cui fu scattata la foto.

 

 

 

Piazza Gagliardo - La casa, oggi elegante abitazione della famiglia Ernani Andreatta, fu sede e sala a tracciare del Cantiere Navale Gotuzzo sino ai primi del '900.

 

 

 

La foto si riferisce alla bella meridiana sovrastata dallo stemma della famiglia Gotuzzo. Declinante a ponente, è completa di lemniscata e delle iperboli che indicano la posizione del sole nei diversi mesi dell'anno, unite ai corrispondenti segni zodiacali in base ai calcoli del prof. R.Morchio (1944). In basso, la Nave Goletta FIDENTE (1922), "l'ultimo dei grandi velieri varati nel Rione Scogli dai Cantieri Gotuzzo ". Sotto, un nastro con il motto: "Chi g'à da fâ camin o deve ammiâ ö tenpo e ö bastimentö" (Chi ha da fare del cammino, deve guardare il tempo e il bastimento).

Prima di levare i ponteggi per la ridecorazione dell'Antica Gasa Gotuzzo, tutto lo staff dell'Associazione culturale "IL SESTANTE"  ha riposizionato "lo Stilo o Gnomone" cioè la "lancetta" dell'orologio solare nella giusta posizione dato che era stata rimossa durante i lavori di rifacimento della facciata. Nella foto da sinistra i vice presidenti, Sotto Ten. di Vascello Enzo Gaggero, l'Ing. Gianpiero Barbieri detto "Pighin" e il Presidente "deep diver" Giancarlo Boaretto nonchè curatore del Museo Marinaro ed "ex Alpino". Stanno "armeggiando con un marchingegno" da loro ideato affinchè la meridiana segni la giusta ora del meridiano del luogo.

 

Seguono alcune fotografie delle decorazioni di casa Gotuzzo che ricordano le attività del Cantiere Navale, ma anche quelle del Rione Scogli.

 

 

 

La MERIDIANA di Casa Gotuzzo-Andreatta

 

Nel dipinto  viene rappresentata la rete dei pescatori, la lampara (per fare chiaro nella notte e catturare i branchi di acciughe o altro) una fiocina (per infiocinare o infilzare i pesci grossi o i polipi) e un "Cheusso", cioè una zucca che si coltivava negli orti degli Scogli. Questo tipo di zucca  si faceva seccare (non era commestibile) e aveva tre funzioni principali. Come boa per "i palamiti" o le reti del "tremaglio". Tagliata come quella del dipinto serviva per "aggottare" l'acqua o la "chintana" (concime liquido organico prodotto dalla fognatura di casa diluita opportunamente con acqua); quindi come maschera di carnevale il cui gambo funzionava da naso dove si facevano gli opportuni buchi per gli occhi e la bocca.  Questa tradizione è ancora in voga, per lo meno a Chiavari ma è tornata in uso anche in altre cittadine limitrofe o addirittura a Genova,  quando sotto Natale si celebra il "CONFEUGU" e si fanno gli auguri di buone festività  alle amministrazioni comunali (a quel tempo al "Doge") e si prendono in giro gli amministratori. Due maschere di Chiavari "U REBELLO" e a "REBELLUNN-A", (interpretati da due attori genovesi) come maschera per il viso hanno ancora questi antichi "Cheussi" di lontana memoria.

 

Nel dipinto vengono ricordati gli utensili dei maestri d'ascia e calafati e cioè da sinistra il "maglio" o "maggiu" in genovese (speciale martello di legno che serviva per spingere la stoppa imbevuta di pece nelle fessure dei "comenti" cioè delle tavole del fasciame). Poi si vede "l'ascia" vera e propria che era una specie di zappa affilata più grande o più piccola a seconda del bisogno, che serviva appunto al "maestro d'ascia" per modellare le tavole a seconda della forma ("cartabun")  che si voleva dare. Poi la "MARMOTTA" che era la cassetta del calafato dove riponeva i suoi attrezzi oppure gli serviva da "banchetto" per sedersi quando lavorava in basso o per elevarsi quando lavorava più in alto. Poi si vedono alcuni scalpelli (senza taglio affilato) che servivano a spingere  la stoppa imbevuta di pece tra i "comenti", come accennato in precedenza. Quello con una specie di uncino era il "cavastoppa" cioè serviva a tirar via e pulire le fessure dalla  vecchia stoppa ormai secca per "incastrarci", "a forza di  morbide martellate col maglio",  quella nuova.

 

 

Ernani ANDREATTA - al comando della petroliera TEXACO OHIO nel 1968

 

 

A cura del webmaster: Carlo GATTI

 

 

 


CAMALLI E CARAVANA

 

CAMALLI E CARAVANA


Statua simbolo dei CARAVANA


Caravana al lavoro

I porti si guardano da una parte all’altra degli oceani, si scambiano le navi che raccontano storie sempre nuove ma anche quelle antiche affinché non siano dimenticate.

Già! Forse tocca proprio a noi, anziani cantastorie dei porti, rinverdire qualche ricordo dei CARAVANA che a metà degli Anni ’60, (noi c’eravamo…) erano ancora in auge e calcavano, magari da pensionati, le calate del porto con il loro incedere pesante, robusto ma benevolo.


Un caravana…

Forse non tutti sanno, che i camalli, ovvero gli scaricatori del porto di Genova, della Compagnia dei Caravana, (progenitrice dell’attuale Compagnia Unica del porto), scioltasi nell’immediato dopoguerra provenivano, fin dal XIV secolo, in gran parte dalla Bergamasca, in particolare dalle valli Brembana, Brembilla ed Imagna, dove pare vivessero uomini fortissimi e giganteschi.

In un antico statuto della Repubblica di Genova, l’origine lombarda viene menzionata come conditio sine qua non per far parte della Compagnia:

“Niuno presumi di venir ammesso nella Caravana, se non sia di Bergamo. Mani grandi et anco gambi forti, per niuna ragione sentir la fatica ammesso”.

Ci eravamo già dedicati ai CARAVANA sul sito di Mare Nostrum Rapallo, avevamo trattato alcuni interessanti aspetti storici e legislativi; col presente articolo vorremmo approfondirne invece alcuni aspetti che oggi destano ancora stupore e qualche “curiosità” che vi elenchiamo.

1-CURIOSITA’

CAMALLO - SABIR

Prima di pronunciare la parola CAMALLO occorre sapere qualcosa sulla sua origine e provenienza. Il camallo, termine genovese camallu, derivato dall'arabo ammāl 'portatore', è lo scaricatore o facchino che operava sulle navi nel porto di Genova.

Per il trasporto su carrello il termine è rebellâ, appunto da rebellö, carretto con ruote.

I termini camallo e rebellö hanno assunto nel tempo anche una valenza metaforica per intendere persone dai modi non propriamente fini, o trasandate nel vestire o nel parlare.

Genova, scalo di prima grandezza, è stata la porta d’ingresso degli arabismi nella nostra lingua e soprattutto nel dialetto zeneize SABIR che girava il Mediterraneo in lungo e in largo e fu parlata come lingua franca per secoli fino all’imporsi della lingua inglese; parlato a bordo delle navi, in banchina e nei mercati, in tutti i contatti tra le categorie imprenditoriali e naturalmente tra gli equipaggi  in mare. Parole dialettali genovesi e veneziane che diventarono la lingua fu un idioma pidgin “di servizio” parlato in tutti i porti del Mediterraneo tra l'epoca delle Crociate e tutto il XIX secolo. La più diffusa e persistente era costituita principalmente da un lessico al 65-70% italiano (con forti influenze venete e liguri) e per un 10% spagnolo, con parole di altre lingue mediterranee, come arabo, catalano, greco, occitano, siciliano, e turco.

Sebbene il lavoro di scaricatore di porto abbia assunto con l'industrializzazione connotati differenti, il termine CAMALLO mantiene una sua forte valenza nella città degli affari, che rimane tuttora un cardine, ovvero la memoria storica di una categoria radicata nel porto e dotata anche di una sua connotazione politica nella vita della città portuale e non solo.

PICCOLO GLOSSARIO ITALIANO – GENOVESE


Uncino


 

Scaricare: scaregâ
Schiena:
schenn-a
Bicibiti:
bacchette
Uomo  con molta forza:
forsa da  beu
Sbucciatura:
sgarbeleuia
Bernoccolo:
borlo
Trasportare a spalla:
camallâ
Forza:
forsa
Conoscere:
conosce
Antico:
antigo

2-CURIOSITA’

Come abbiamo già visto, dal medioevo (XIV Secolo) fino intorno al 1870, i “camalli” non erano genovesi bensì BERGAMASCHI, in quanto gli scaricatori genovesi precedenti, si erano consorziati in organizzazioni molto potenti che influenzavano non solo la vita del porto ma anche quella politica della città con conseguenti danni all'attività commerciale del porto stesso. Fu deciso e scelto di rivolgersi a dei "foresti" e la scelta cadde sui bergamaschi.

 


Lo scösalin da camallo

Il termine scösâ significa in genovese grembiule. Con l'espressione scösalin da camallo si intendeva identificare il gonnello blu indossato dai camalli sin dal medioevo, di tela di jeans, tessuto tipicamente genovese.

O scöselin era portato dai caravana e non dai camalli. I caravana erano i facchini ammessi dalla dogana ad operare negli appositi siti "franchi" ove la merce sostava in franchigia daziaria e poteva essere sottoposta a modifiche di imballaggio ecc., vedi merci preziose o soggette a particolari imposte come il caffè. Difficilmente nei depositi franchi si camallava come normalmente in altre zone del porto e per altre merci in transito normale.

3-CURIOSITA’

Religiosità


I camalli del porto di Genova furono tra i primi a realizzare dei crocifissi artistici di notevoli dimensioni formando delle CASACCE. Ancora oggi il termine camallo viene usato nell'ambiente delle CONFRATERNITE liguri per indicare la persona che trasporta il crocifisso. Il primo Cristo di notevoli dimensioni, circa 160 kg, venne realizzato proprio in uno degli oratori del porto di Genova. Famoso e antico è il cosiddetto Cristo delle Fucine del XVII secolo del ancora conservato nell'oratorio della marina di Genova.

4-CURIOSITA’…biblica… Riportiamo alcune opinioni di studiosi della materia.

Caso celeberrimo di ipotetica polisemia è quello del cammello che passa per la cruna dell'ago (Mc 10,25; Mt 19,24; Lc 18,25). L'immagine è ovviamente bizzarra. Qualche studioso ha ipotizzato che 'cruna dell'ago' fosse una piccola porta nelle mura di Gerusalemme: in tal caso la parabola sarebbe sicuramente più azzeccata.
Cercando la soluzione a livello linguistico, la parola aramaica
gamal può indicare, polisemicamente, sia il 'cammello' che una 'corda'. L'ipotetico traduttore greco avrebbe in tal caso optato per il senso sbagliato: l'immagine di una corda che passa (o meglio, non passa) per la cruna di un ago è sicuramente più simmetrica della lettura tradizionale proposta.

La citazione biblica del cammello, del ricco e della cruna dell'ago soffre di un divertente errore di traduzione dei Vangeli. In pratica, per colpa di una lettura sbagliata nella prima versione in ebraico di Matteo, la parola gomena (gamta) si è trasformata in un improbabile cammello (gamal). Oltre ad essere più "logica" (una gomena è pur sempre un cavo, ma di spessore molto più grande di quello del filo che passa usualmente nella cruna dell'ago), la parabola era anche ben contestualizzata, dato che si rivolgeva ai pescatori del lago di Tiberiade, avvezzi come tutti i marinai all'uso anche delle gomene. L'equivoco permane anche nella versione greca dei Vangeli, con la "grossa fune", "kamilos" (da cui forse il genovese camallo, colui che muove appunto le funi e le gomene portuali), che suona alquanto simile a cammello, cioè "kamelos".

5-CURIOSITA’

Quando i camalli diventarono attori del cinema…

Il mito di Maciste che rifondò l’Italia unita

Quando Bartolomeo Pagano passava nei caruggi, la gente si appiattiva spalle al muro per lasciarlo passare. Alto 1 e 90 per 120 chili di muscoli, il gigante sorrideva a tutti. Era scaricatore per la Compagnia della Carovana al porto di Genova. Sollevava sacchi di grano argentino, casse di coloniali, e caffè; al tocco si sfamava nell’osteria della Nina con tre piatti di minestrone accomodato con il pesto e un chilo e mezzo di pane, con cui faceva la scarpetta. Per digerire pugnava con l’altro gigante del porto, tale Franchino, così per gioco”.


Bartolomeo PAGANO, il famoso “MACISTE” reso celebre dalle sue apparizioni cinematografiche nei film muti di inizio Novecento.


…. Uno dei tanti maciste dell’epoca …

Vorrei…essere…Maciste...

 

Maciste non è un vero personaggio mitologico: non nasce né sui libri, né sui fumetti. È una creatura dello schermo. Per risalire alle sue origini, però, non bisogna fermarsi alle avventure in technicolor che lo vedono muscoloso protagonista nel fortunato filone dedicato agli "uomini forti" degli anni Sessanta. Il primo, vero Maciste fu, cme abbiamo visto, Bartolomeo Pagano, camallo del porto di Genova chiamato dal regista Pastrone a interpretare un simpatico e fortissimo schiavo numida in Cabiria (1914), kolossal storico che conquistò le platee di tutto il mondo. Il successo personale di Pagano fu tale che si decise di dedicare al suo personaggio un intero ciclo di film: Maciste avrebbe regnato per più di dieci anni come campione di incassi e di consensi del cinema italiano.

6-CURIOSITA’

La Compagnia dei Caravana, come abbiamo visto, è stata un'antica corporazione di lavoratori del porto di Genova che fu sostituita, nell'immediato secondo dopoguerra, dalla COMPAGNAIA UNICA DEL PORTO DI GENOVA.

Per i bestemmiatori multe salate:

All'interno della Compagnia vigeva un regolamento molto rigido che veniva applicato partendo dal presupposto che le virtù morali e sociali della Compagnia dovessero essere un caposaldo alla base dell'attività comune. Pesanti multe venivano ad esempio inflitte a coloro che si lasciavano andare a bestemmie contro la Madonna o che non partecipavano alle Messe sociali celebrate nella cappella votiva della corporazione, all'interno della chiesa di Nostra Signora del Carmine.

Gli statuti della Compagnia dei Caravana che, almeno inizialmente, comprendeva solo una parte dei lavoratori impegnati nei diversi pontili, ovvero quelli di Banchi, Pedaggio e Calcina - vennero firmati l'11 giugno 1340. Con essi il Comune concedeva ai soci della corporazione il diritto esclusivo allo scarico e al carico delle merci transitanti per la Dogana di Genova.

Alla Compagnia, in base a uno statuto entrato in vigore quasi centocinquant'anni dopo, nel 1487, e abolito solo a metà Ottocento, potevano appartenere solo soci provenienti dalle vallate situate intorno a Bergamo.

L'appartenenza al sodalizio avveniva per successione, a condizione che i figli nascessero nelle zone di origine dei padri e l'usanza di garantire ai figli il diritto di subentrare ai padri è in vigore nell'ambito della moderna Compagnia Unica dei Lavoratori delle Merci Varie del Porto.

Nella sostanza, lo scopo di questa regola era quello di assicurare che i cosiddetti portuali - tutti giovani di aspetto robusto e disposti ad un lavoro estremamente duro - fossero estranei, in quanto foresti, ad ogni tipo di lotta di parte tesa al predominio su quella che era un'attività centrale per la vita economica cittadina.

Per spiegare cosa fu la compagnia dei “CARAVANA” e chi erano i “giganti” che vi lavoravano, vi proponiamo questo bellissimo articolo del Corriere della Sera del novembre 1932. Un quadro d’epoca ripreso dal vivo con i suoi personaggi ancora in piena attività. Leggerlo sarà davvero un bellissimo viaggio nel tempo.

Ringrazio a nome di Mare Nostrum Rapallo e dei suoi lettori, il cultore e divulgatore che ha messo a disposizione questo “capolavoro” di altri tempi…

Di Cesare Meano - 1932

Genova, Novembre.

In questo mondo marino, che ha per confini muraglie, cancelli, tettoie, casermoni, torri» e, per foreste, le alberature delle navi, per fiumi le strisce di mare luccicanti fra carena e carena, per nuvole il fumo nero che il vento strappa alla bocca dei camini, i giorni nascono, passano e muoiono al grido delle sirene. Anche da terra si odono, dalla città, che contrappone a esse le sue campane. E ai primi segni dell’alba non si capisce se siano le sirene a risvegliare le campane, 0 queste a risvegliare quelle. E’ un coro improvviso, enorme, che sembra sorgere d’ogni intorno, vicino e lontano, mentre sulle montagne, alle spalle della città, appaiono le prime incerte dorature del sole, e il mare si stria d’argento e trema. La Lanterna si spegne. Si spengono le luci rosse dei semafori, i lumi delle banchine e delle strade, delle navi e delle case. La luce del sole scende dalla montagna, come una lentissima fiumana color di miele, che trabocchi dalle valli di là: scende e raggiunge il mare, lo illumina. Tra il mare e la montagna, — tutta la bellezza e la forza del mondo, — ricomincia la vita di Genova e del suo porto, dopo la sosta notturna.

I lavoratori del porto

I cancelli si sono aperti. Le gru hanno ripreso il loro moto sonnolento, ai qua e di là, come palmizi in un vento rallentato. Sugli specchi dell’acqua riappaiono i rimorchiatori, i battelli, le barche tentennanti sulle zampe di grillo dei remi Lungo i binari interminabili le locomotive avanzano speronando le nuvole del loro stesso vapore: cortei di carri-piatti, di carrozzoni, di carri-botte. E un esercito si incammina in ordine sparso, sfociando dai cancelli e dai porticati: dilaga, si disperde, scompare, riappare più lontano, popola i magazzini e le calate, le boe.

Migliaia di uomini: la popolazione di questo mondo che allinea, dinanzi al mare aperto, i suoi quattro bacini, i suoi cinque moli, i suoi tredici ponti e le sue venti calate. L’esercito dei lavoratori del porto: facchini, cassai, barilai, imballatori, pesatori, calafati, puntellatori, demolitori, carpentieri, carenanti, ormeggiatori, manovratori, barcaiuoli: decine e decine di categorie. E chi osservi la loro vita e il loro lavoro, o consulti i quadri e gli statuti delle loro organizzazioni, li vede veramente inquadrati in un esercito esemplare, cui non mancano neppure l’antica gloria, la nobiltà conquistata in secoli di disciplina, di fatica, d’eroismo, la ricchezza che deriva ai popoli privilegiati dal patrimonio delle loro tradizioni. La nuova odierna potenza, per i lavoratori di questo porto, è fiorita su un saldo tronco secolare; i gagliardetti dell’Italia rinata si sono issati sulle aste che ressero i gonfaloni di ieri.

Le compagnie

In numerose Compagnie, al comando di consoli e di vice-consoli, questi lavoratori sono costituiti, e il Sindacato Interprovinciale dei Lavoratori del Porto li tutela e li domina. Ogni Compagnia, però, ha i suoi statuti e le sue consuetudini, difesi e rispettati con incrollabile fede. In alcune di esse si riscontrano quasi i caratteri di confraternite religiose; in tutte un soldatesco senso di disciplina e di dovere, insieme con quell’orgoglio che negli eserciti si chiama «spirito di corpo » e che è custode incorruttibile delle tradizioni più alte. Ecco la congrega dei facchini del Deposito Franco, i caravana: unica Compagnia che, per antico diritto, goda larghi privilegi ed eccezionale autonomia; ecco la Corporazione dei Calafati, i cui « capitoli » datano dal 1370; ecco la Corporazione dei Barcaiuoli, menzionati nella storia fin dal secolo XV; e le altre Compagnie meno antiche, e le altre ancora che si vanno formando sul modello di quelle. La milizia del lavoro ha qui la sua aristocrazia, i seggi dei suoi anziani, i custodi del suo tempio.

La compagnia dei « caravana »

La Compagnia più antica e gloriosa è quella dei caravana. Nel recinto del Deposito Franco s’incontrano i suoi duecentosettanta affiliati. Dai magazzini ai carri della ferrovia, con passo lungo e immutabile, vanno sotto il peso di sacchi e cassoni, senza curvarsi e senza tentennare. Deposto il peso alzano il capo e lo scuotono, come per cacciare un pensiero, poi ritornano indietro, sollevano un nuovo peso, alti, diritti, impassibili. Intorno alla cintura, fino quasi ai ginocchi, portano un gonnellino azzurro, e d’estate un mantelletto bianco, la capota, che copre spalle e nuca. Cosi da più di sei secoli. Il gonnellino è l’uniforme del caravana, che non ne conosce l’origine né la ragione, ma con orgoglio lo veste, non appena gli sia concesso l’onore, non facilmente conquistabile, di appartenere alla Compagnia. Anche i loro capi portano il gonnellino; nessuno pensa ad esimersene. Il console e 1 capisquadra vestono panni borghesi e, tra la giacca e i calzoni, ecco il bizzarro indumento (il console, Angelo Caprile, detto Cirillo, porta anche gli occhiali cerchiati di tartaruga: e il gonnellino). Ma chi sono questi caravana, il cui nome, per tutto il porto e la città, suscita simpatia e ammirazione? Udendoli chiamarsi l’un l’altro, non si chiarirebbe certo il mistero. Minosse, Cerbero, Caronte, Gerion: i caravana si chiamano cosi; e anche peggio. Una tradizione fra le tante: quella dei soprannomi. La «Caravana» vive ancora oggi, esattamente, come viveva nei suoi primi tempi. Immutabile ha varcato i sei secoli della sua storia, ha superato difficoltà e avversità, ha resistito a controversie e a crisi; riconosciuta e protetta da re, pontefici, ministri, dogi, è arrivata a essere quale è oggi, la più genuinamente antica delle Compagnie, e, nello stesso tempo, la più giovanilmente viva.

Chi erano i « caravana »

Nella sua sede si custodiscono i tre codici di pergamena che recano il testo delle sue leggi. « A nome di Dio e de la Madona Sancta Maria e de tuli li Sancii e le Sancte e de tuta la Corte Celestia, amen » : in data 1340, cosi si preludiava a < li statuti e le ordination facto per tuli li lavoratori… et ordenà per lo prior, in lo dì de la lesta de messer Sancto Barnaba, in la aesua di Messer Sancto Lorenzo di Genua… ». Fui da allora s’imponevano ai cara – vana le leggi che permisero a essi di guadagnarsi fama di lavoratori incomparabili e di virtuosissimi cittadini. Vietati il turpiloquio e la bestemmia, severamente inibiti l’uso delle armi e la consuetudine delle spese superflue, limitato ai giorni di Natale e di Pasqua il gioco dei dadi e alla domenica quello delle carte, disciplinati tutti i rapporti fra di essi, tanto da eleggere a giudici d’ogni questione, anche privata o amichevole, i capi della congrega, la Compagnia si elevava senz’altro a prototipo di tutte le altre organizzazioni congeneri. Le leggi del 1340 ne partano come d’una confraternita preesistente. Non si sa quindi e quali tempi risalga la sua origine, ma si può senza errore reputarla uno dei più antichi esempi storici di organismo sindacale dotato di leggi intese a instaurare i principi della previdenza e del mutuo soccorso. Oggi, come sei secoli or sono, i caravana affidano ai loro capi il denaro guadagnato, poi lo spartiscono. Nulla chiedono e nulla possono accettare oltre al compenso stabilito. A una parete della sede sociale è affissa una lapide vecchia di tre secoli: « Si avertisca non prendere premio o recognitione di sorte alcuna… », che sarebbe come dire: « Sono proibite le mance ». Nel recinto del Deposito Franco, dove essi prestano servizio con diritto di assoluta esclusività, i distributori di vino e di vivande sono gestiti in forma sociale. Dopo trent’anni di servizio i caravana diventano pensionati della Compagnia stessa, e così le loro vedove. Fino all’ultimo respiro i compagni vegliano e proteggono il caravana vinto dalla vecchiaia o dai mali; poi lo accompagnano alla tomba in forma solenne. Ma c’è pure chi lascia la « Caravana » senza gloria e senza premio, quando la sua umana debolezza l’abbia fatto incorrere nei peccati che la congrega condanna. E c’è chi bussa alla sua porta e non riesce a entrarvi, o per deficienza fisica, e il caso è raro, o per deficienza fisica e, il caso è raro, o per deficienza morale, e il caso, data la severità delle inflessibili leggi, è più frequente. Oggi, come sei secoli or sono, bisogna che il caravana porti il suo gonnellino come si porta un blasone, e, quando, lontano dal lavoro, abbia dimesso la visibile insegna, possa vincere ogni diffidenza e conquistare ogni amicizia, solo col dire: « Sonn-u carav-vana». Lungo il tempo le glorie si allineano. I caravana appaiono al pensiero contro un fondo di bandiere, di armi, di templi e di luci trionfali, come in un’allegoria. Nella chiesa di Santa Maria del Carmine essi si adunano, dai secoli più lontani, per rendere a Dio il dovuto. Le processioni di Genova conoscono il loro incesso imperatorio, nelle pieghe di tuniche variopinte, sotto il peso dei simulacri e degli stendardi, (li eventi della Patria li trovarono sempre all’erta. Nel 1746, contro gli Austriaci invasori, furono i caravana a trascinare i cannoni genovesi su per l’erta di Pietra Minuta. Nel 1812 e nel 1815, per due volte portarono attraverso la città il Pontefice Pio VII, che li rimeritò con larghe indulgenze. Nel 1848 ebbero affidata la custodia del tesoro della Banca Nazionale. Nell’ultima guerra furono mobilitati in centocinquanta, e rimasero sul campo in tredici.

Quelli di Bergamo

Un lungo periodo della storia di questa Compagnia (che diligentemente è stata rievocata di sui codici dal capitano Giorgio Ricci, dal dottor Annibale Ghibellini e da altri ancora) è occupato dal nome di Bergamo. Per oltre un secolo e mezzo la « Caravana » fu tutta composta di bergamaschi, e altri che non fosse di Bergamo o del circondario non aveva diritto d’appartenervi, tanto che i componenti mandavano a Bergamo le mogli incinte, affinchè generassero autentici bergamaschi. Discordi sono i pareri sulla ragione di questo fatto. La Compagnia, in base alle più recenti ricerche del Ghibellini, risulterebbe in origine prettamente genovese. Verso il 1450 cominciò l’infiltrazione bergamasca forse da parte di qualche brigata di mercanti.

Nel 1576, quasi tutti i caravana erano oriundi di Bergamo, o figli di bergamaschi; nel 1695 fu emanato il decreto che prescriveva per tutti i soci della Compagnia, senza eccezione, l’origine bergamasca. Secondo alcuni, questa legge sarebbe stata pretesa dagli stessi caravana di Bergamo, a compenso della pietosa opera da essi prestata durante una pestilenza, nel soccorrere i malati e nel seppellire i morti. Secondo altri sarebbe stata originata dal desiderio di evitare che tale organizzazione di uomini eccezionalmente forti e audaci potesse parteggiare per l’una o per l’altra delle fazioni nelle quali la cittadinanza era divisa, come facilmente sarebbe accaduto se non si fosse trattato di foresti, per nulla interessati nelle faccende della patria d’elezione. Comunque, dal 1695 al 1848, negli annali della «Caravana» si susseguono nomi di bergamaschi e di paesi del Bergamasco: da Brembilla e da Dossena, da Almenno e da Zogno, da San Pietro d’Orzio e da Rigosa, i caravana arrivavano a Genova. L’onore della Compagnia era affidato alle salde braccia e ai nobili cuori lombardi.

La fine di un curioso ostracismo

Ma i genovesi brontolavano, anzi mugugnavano. Tornasse a loro e ai loro figli la confraternita ch’era orgoglio del loro porto: non erano stati essi, forse, a crearne la prima compagine? non erano braccia genovesi quelle che avevano portato la terra sulla montagna arida, per farvi allignare le sementi, e avevano trasportato la tribuna del coro di San Matteo» con tutti i suoi mosaici e i suoi altorilievi, per più di venti metri? Nel 1848 il mugugno fu ascoltato, e la legge venne abrogata. Le porte della «Caravana» si riaprirono anche ai genovesi. L’ultimo caravana bergamasco morì nel 1914, e si chiamava Andrea Ghisalberti, detto Diego. Ora, nei ranghi, non vi sono più che alcuni figli di bergamaschi. E più nessuno mugugna, né a Genova né a Bergamo: tutti amici e camerati. Non dimentichiamo, però, le altre glorie della Compagnia, più modeste di quelle elencate, eppure giustamente care al cuore dei caravana. Nella loro sede, alle cui muraglie pendono lucide stadere, come panoplie d’armi in un (museo guerresco, c’è un quadro che il caravana non manca di presentarvi. Una ghirlanda di ritratti contornati e legati da fregi floreali. Un vescovo e alcuni signori con barba e occhiali, dal nobile aspetto.

Chi sono? La guida vi addita le parole che accompagnano ogni ritratto: l’avvocato commendator tal dei tali, « figlio di caravana » ; il professor tal altro, « figlio di caravana; monsignor vescovo così e così, « figlio di caravana ». Non senza stupore si guarda il volto compiaciuto di chi ci sta accanto. Ecco una specie di gloria che non ci aspettavamo. E che diremo, dunque, del console di «Caravana» Gian Giacomo Casareto, detto Gerion, che professava filosofia e lettere? e del carbonaio Gian Battista Vigo, lavoratore del porto anche lui ch’ebbe dal Comune una tomba gratuita e onorifica, in riconoscimento dei suoi meriti poetici. I caravana, i carnali e tutti gli altri, affratellati dal lavoro e dalla fede, si direbbe che giochino con la gloria come giocano coi quintali. Ha avuto i suoi predecessori in fatto di strane fortune, quel carnaio dei Magazzini Generali, che una ventina d’anni addietro lasciò il porto e si fece africano, con l’aiuto del sole e dell’olio di cocco, per proteggere l’innocente Cabiria nel corso delle sue dannunziane avventure; e ora torna à ritrovare i suoi compagni, a rivedere le calate e i moli, salutato a gran voce : « Ohè, Maciste!>>.

La gloria quotidiana

Ma il caravana pensa assai poco alle glorie che furono e a quelle che, forse, verranno. Altre ne trova e ne gode, più immediate e più quotidiane, mentre lavora a denti stretti, misurando il tempo sul ritmo del suo passo» che va e viene. Se no sorprendete qualcuno, durante il riposo, disposto a darvi udienza, e gli domandate quale sia stata la più grande impresa sua e dei suoi compagni, egli non ricorderà i cannoni di due secoli or sono, né il Pontefice portato dai suoi vecchi, né il vescovo generato da un suo predecessore. Sorriderà coi suoi denti bianchi nel viso di bronzo e, dopo avere lui poco pensato, vi racconterà di quella notte, quando cento caravana dovettero in dieci ore caricare sui treni quattromila tonnellate di grano. Le macchine insaccatrici lavoravano. I carri merci aspettavano. Avanti, caravana: quarantamila sacchi d’un quintale! quattrocento sacchi per ogni uomo; dieci ore di tempo; quattrocento passeggiate di venticinque o trenta passi, con cento chili sulle spalle, nello spazio di dieci ore; per ogni ora quaranta quintali; sempre avanti, caravana; per ogni passeggiata ottanta secondi, poi un bicchiere di vino mentre i treni partivano e il sole, salutato dalle sirene, sorgeva. C’è un altro faro, ai piedi della Lanterna, di fronte al mare burrascoso del mondo.

Carlo GATTI

Rapallo, 22 Gennaio 2019

 


LA FATA DELLE BARCHE. FAVOLA DI CAPODANNO

LA FATA DELLE BARCHE

Favola di Capodanno

di Carlo Lucardi


-Anche quest’anno Camilla non è venuta a casa per Natale, Laura - sussurrò il maresciallo Della Rosa - è rimasta in Indonesia a studiare i rinoceronti in estinzione,

-Non te la prendere, Ciro!-

-Ah! Io non me la prendo!- sospirò lui

Della Rosa Ciro e la dolce Laura erano a casa loro, in Riviera. Natale era passato e mancava qualche manciata di ore alla fine dell’anno.

-Tu lo sapevi, Ciro, che ogni barca viene assistita dalla fata delle barche? –

-Cosa c’entra questo con Camilla, Laura mia?-

-Così. Lo dicevo per distrarti un pochino, perché vedo che patisci…-

-Io non patisco, Laura- sospirò lui- ci rimango semplicemente male!-

-E dai…-

-Cos’è questa storia delle barche?-

-E’ una leggenda che sto leggendo, un’antica leggenda Vichinga, attribuita a Olaf il Rosso, raccolta in questa antologia!-

Mostrò il libro. Era di  uno di quegli autori nordici  molto bravi che hanno i nomi con le O tagliate da una  / e i circoletti sulle A.

-E’ una bella storia, è quasi commovente-

La dolce Laura era facile alle commozioni.

-E’ una delicata leggenda dei Vichinghi, grandi costruttori di barche e grandi navigatori dell’oceano. Dice che ogni barca ricorda gli alberi con cui è stata fatta, e che gli alberi della foresta ricordano lei. Così Rhaphalaf, la fata degli alberi, accorre a consolare la barca quando fa naufragio e il mare la inghiotte. L’accompagna sul fondo gelido e rimane con lei per consolarla! Non è una storia commovente?-

-La fata Rhaphapa… cosa ci trase con noi, scusami tanto! Laura mia, la fata Camilla mi ci vorrebbe a me, altro che Raphalà e Raphaquà, insomma, ecco!-

Il cuore partenopeo del maresciallo si squagliava sempre nel periodo di Natale, quando la sua bambina non veniva a casa.

-Scusa., Ciro, era per distrarti un po’. Non lo dico più, promesso…-

-Per carità, scusami tu, Laura. E già che ci sei, per favore, non parlarmi di barche!-

Laura ridacchiò.

-Non ti pare- proseguì il maresciallo- che ne abbiamo avuto abbastanza, di barche rotte? Io ne ho fin sopra ai capelli, Laura mia!-

Il mare pareva una tavola da biliardo, in quegli ultimi giorni dell’anno. Come un drago sornione, in agguato, non pareva neanche parente di quello che era stato in quel giorno spaventoso…

-Ne abbiamo avuto assai di guai! Un battaglione di fate ci vorrebbe, per consolarle tutte!-

Un mare spaventoso, sollevato da un vento che non si era mai visto a memoria d’uomo, aveva sfondato la diga del porto e in un pomeriggio di tregenda aveva seminato la distruzione.

La diga del porto era crollata sotto il peso di un’onda di dieci metri e la tempesta di mare ci s’era infilata dentro come un mostruoso clistere.

-Tutte le barche nel porto hanno rotto gli ormeggi, Laura, e da allora è cominciata questa disgrazia!-

La forza del mare aveva fatto schizzare via le barche come tappi di sughero e le aveva cacciate fuori dal porto a fracassarsi sugli scogli della passeggiata, spiaggiate, squartate, semi-sommerse. Barche che poi erano yacht e mega-yacht, del peso di decine di tonnellate!

-Una catastrofe, Laura mia, per i ricchi proprietari e soprattutto  per quelli che ci lavoravano sopra, che ricchi non sono!-

Così era cominciato anche il calvario delle forze dell’ordine, costrette a sorvegliare i relitti h-24, per scoprire ladri e sciacalli. Certo, l’integrazione dei comandi permetteva di avere un certo ricambio, ma anche nelle migliori famiglie ci sono dei fetentoni.

E in ogni anno ci sono delle nottate no, nelle quali nessuno vorrebbe lavorare

La notte di Capodanno sopra tutte le altre. Tutti volevano evitare di lavorare la notte di Capodanno, in primis  lavativi e fancazzisti.

Perciò quell’anno Della Rosa temeva fortemente che la temuta notte di Capodanno,che sarebbe toccata al Comando centrale, rimbalzasse invece nelle mutande a uno dei suoi.

Per distrarsi guardò il lungomare, con le barche contorte, accavallate come pesci morti.

Della Rosa era nato a Napoli e come tutti i nati sul mare nutriva sentimenti speciali  per i natanti.

Quelle barche ferite, squarciate e semi-affondate gli mettevano tristezza.

Gli parevano dei cadaveri col costato aperto, che mostravano  il cuore alla voracità del mare, il grande predatore.

Lo rattristavano ancor di più i turisti che facevano del catastro-turismo, anzi, del catastro-turismo-proletario, nel senso che partivano da centinaia di chilometri per farsi un selfie davanti alle barche semi sommerse, inneggiando alla giustizia proletaria.

Organizzavano veri e propri pellegrinaggi mordi-e-fuggi per inneggiare alla rovina dei barco-capitalisti.

Sorridevano, i vittoriosi  radical-chic, con radical-orgoglio, davanti alle barche ferite a morte,  soprattutto al “Falco di mare”, il ketch del notissimo plutocrate Trash Vermer, produttore di fictions, che giaceva lì, semiaffondata, al centro del Golfo.

La carena del “Falco di mare”, squarciata dalle onde, mostrava all’esterno  specchi e arredi, preziosi legni, modanature.

“Ci vorrebbe proprio la fata delle barche, quella Rhaphaciccia” pensò mentre ci passava davanti con l’auto  “che l’andasse a consolare il povero Falco di mare in queste notti fredde, quando il mare ci sciaguatta dentro e la dilania  sempre di più!”

Quando pensava al freddo del mare gli venivano in mente i calamari, le bianche creature delle profondità, che salivano di notte in superficie per cacciare i pesci coi loro vischiosi  tentacoli e risucchiarli vivi verso il dente crudele.

Bisogna dire che sotto la dura scorza Della Rosa aveva un cuore di poeta, partenopeo e un po’ piagnucolone.

Le barche a vela gli facevano più pena di quelle a motore, i cosiddetti “ferri da stiro “, perché secondo lui avevano più anima.

E il Falco di mare era stato una magnifica barca a vela.

-Sarà una scemenza, quella della fata- sogghignò passando davanti al macello della passeggiata- ma se la fata Rhaphaciccia ci fosse per  davvero, le chiederei di far sparire  ‘sta fetenzia di anarco-chic, che gode della disgrazia di quel meraviglioso veliero!-

-Che desolazione! Che triste Natale e Capodanno, senza Camilla e cò ‘sta canaglia in circolazione! Che poi di notte, magari va a  bordo, a prendersi qualche “ricordino!” del grande Trash Vermer!-

Entrò in caserma dove l’aspettava Cajazzo.

-Buon giorno, maresciallo!-

L’appuntato Cajazzo lo guardava con la faccia sconsolata.

Lui capì al volo.

-Non dirmi che è successo, Cajazzo!-

-Ebbene si, maresciallo. Il capitano Trombetti ha telefonato or ora per dare la notizia!-

Il nuovo capitano era un giovane  di quelli che ragionano per schemi e diagrammi e spaccano il capello in quattro, ma ancora una volta non era stato capace di imporsi ai suoi.

-Mannaggia  Cajazzo! mi vuoi forse dire che ci affibbiano Capodanno?-

Cajazzo abbassò gli occhi:

-Eh, si, purtroppo, maresciallo. Il carabiniere che doveva fare la guardia a Capodanno si è ammalato. D’influenza!-

-Ma che, ma quale?-

-Suina!-

-Suino?-

-No, suina, nel senso dell’influenza, maresciallo!-

Della Rosa s’incazzò per bene.

-Dobbiamo sempre cavargliele noi le castagne dal fuoco, a quelli? Noi siamo in sei, e loro sono uno più di mille!-

-Siamo troppo buoni, maresciallo!-

-Cajazzo, se non la finisci di dire stupidaggini  ti arresto!-

Privilegio del comando delegato, disgrazia italica! Della Rosa doveva scegliere fra i suoi cinque a chi far fare la guardia alle barche, la notte di Capodanno!

Il guaio era che aveva chiesto molto ai suoi, negli ultimi tempi, e non sapeva proprio a chi inviare quell’ignobile ordine di servizio.

Si chiuse nel suo ufficio, sbatté la porta e tirò una raffica di moccoli.

-Bel guadagno! Bella forza!- esclamò rivolto idealmente al capitano Trombetti- A comandare così sono capaci tutti!-

Tirò le somme della vicenda e realizzò che l’unico a poter fare la notte a Capodanno era il giovane Efisio Orrù, la cui fidanzata però era già partita col treno da Muro Lucano (PZ)  per trascorrere con il Capodanno col suo Efisio.

-Mannaggia a’ stratosfera. Glielo devo dire proprio io, a Orrù? E come faccio?-

Ammenoché… ammenoché… un pensiero diabolico gli si affacciò alla mente. Lo ricacciò subito indietro come un pensiero-carogna, ma si rese conto che poteva essere una soluzione geniale.

Anzi, LA soluzione geniale.

Due piccioni con una fava, la gratitudine eterna di Orrù e uno schiaffetto a quel capitano un po’ troppo paraculo.

Il tutto nasceva dal fatto che Capodanno per lui era sempre una festa imbarazzante.

Laura lo trascorreva invariabilmente con alcune colleghe dell’ospedale, accompagnate da tre dottori supponenti, Sfaccenda Clericetti e Cacamazzi, dei quali Silvio Cacamazzi, buro-dottore amministrativo, era tanto spocchioso che il suo amico Giulio Baldi l’aveva battezzato il dottor Spok.

Sarebbe stata una noia mortale, e una scarogna sicura, cominciare l’anno proprio col dottor Spok-

-Quindi…quindi…-

“Perché no?” pensò “Potrei mandare Laura a passare il Capodanno con le amiche e i dottori!”

Due piccioni con una fava.

Avrebbe evitato la trappola di Capodanno che cominciava appena le signore si appartavano a parlare di pettegolezzi, cucina e bambini.

Cioè quasi subito.

I dottori Sfaccenda, Clericetti e Spok allora iniziavano ad avvolgerlo  in discorsi vischiosi, come i calamari del fondale, cercando di risucchiarlo nell’abisso della noia!

E lui, Della Rosa, si sentiva preciso al “Falco di mare” circondato da bianchi  calamari.

Inoltre come partenopeo era superstizioso, e di conseguenza convinto che cominciare l’anno con quelli lì portasse una sfiga mortale. Infatti si cacciava sempre in tasca un corno rosso e non smetteva di stringerlo per tutta la notte!

Per cui prese il telefono:

-Ciro, cosa succede?

-Un’indagine improvvisa, Laura mia. Una ribalderia. Scusami con le tue amiche, con Spok, cioè Cacamazzi e gli altri… ma il dovere mi chiama fuori a Capodanno, quest’anno!-

Lei rise apertamente nel telefono, un riso con lo sbuffo che gli rintronò l’orecchio:

-Ma dai, furbacchione.  Dì che l’hai studiata per evitare la serata con Cacamazzi!-

Lui arrossì:

-Beh, in un certo senso hai ragione. Non è proprio questione di vita o di  morte, ma qualcosa d’ importante ci trase  per davvero! Hai presente Orrù, quel carabiniere coi baffi da sergente Garcia?-

Raccontò in toni lacrimevoli del viaggio della bella di Orrù da Muro Lucano alla Riviera.

-Ma che belle cosa che fai, Ciro- disse la generosa emiliana- Ti ammiro-

-Per carità…ma no, che dici?- si schermì Della Rosa

-Sono fiera del mio maresiallone. Dirò a tutti che l’eroico Della Rosa deve sorvegliare la fata Rhaphalaf che consola le barche.

Va bene,  Ciro caro?-

-E dai, Laura, non scherzare! Non ti secca, per davvero?-

-Che cosa? Avere un marito che è quasi un eroe? Certo che non mi secca!-

Clic..

***

La sera di Capodanno  Ciro s’intabarrò ben bene e si recò sul lungomare con la sua Panda personale, insospettabile per qualunque mariuolo, perché  era color verde diarrea, del tutto privo di marzialità.

-Etcì!-

L’unico problema era quel raffreddore coi fiocchi che stava dilagando verso le vie aeree. Si sentiva i brividi dappertutto, e aveva già  consumato i due fazzoletti puliti che si era portato dietro.

Quasi subito si era reso conto subito di aver avuto un’idea balorda… almeno in rapporto alla esecuzione pratica dell’appostamento.

Da anni non faceva più guardie notturne e si era dimenticato di quanto fossero nere e fredde le notti d’inverno passate in un abitacolo di macchina!

-Che stupido che sono stato a non pensarci!- si disse- Comincerò l’anno con la bronchite! Etcì!…Mannaggia a ‘sto moccolo che mi cola dal naso!-

Il sedile dell’auto era troppo stretto, il naso e le orecchie troppo freddi, ma soprattutto non si ricordava di aver mai avuto le palpebre così pesanti.

-E’ questo moccio, che mi sale dal naso agli occhi- gemette- mi lacrimano tanto che li chiudo, ma se li chiudo finisco per addormentarmi!-

Per star più sveglio inforcò il suo binocolo night vision, ricordo della guerra del Golfo.

La luce verdolina  faceva scoprire cose impensabili come coppie infrattate  dietro le cabine o gatti che cacciavano topi sugli scogli.

C’era perfino una vecchia donna seduta sullo scoglio, una barbona, probabilmente. Lui conosceva tutti gli homeless di riviera, comunitari e non, ma quando lei si girò, non la riconobbe.

Era una nuova.

Prima  di voltarsi di nuovo a guardare il mare gli parve pure che sorridesse, con la bocca sdentata.

-Cos’hai da ridere- mormorò lui- col freddo che fa?-

Lei parve vacillare e quasi cadde, ma restò impigliata con la casacca unta alla griglia di recinzione e annaspò un poco senza riuscire a districarsi dalle maglie della rete .

Della Rosa vide tutto e scese dall’auto.

-Aspetta un attimo, ti aiuto a liberarti!-

In due salti fu presso di lei e la aiutò a togliersi d’impiccio.

Mannaggia, quant’era brutta, e  magra, e  puzzava di vino e di capra!

-Come state? Vi sentite male?-

-No, no…- si schermì lei .

Era tutta gelata, e ossuta. Praticamente  era un sacchetto d’ossa che camminava.

-Siete sicura?-

Lei annuì senza parlare.

Il maresciallo pensò generosamente che sarebbe stato meglio portarla al ricovero dei vecchi, per farla dormire al caldo.

-Vuoi venire al ricovero, per stanotte?-

-No!-

Si liberò dal suo braccio e se n’andò confabulando per la sua strada.

-Vattene via allora, vecchia matta, etcì.  E mannaggia  ai fazzoletti zuppi-

Quando rientrò nell’auto si ricordò di avere un pacchetto di fazzolettini di carta nel cassettino. Si chinò a prenderli e proprio mentre si soffiava il moccio iniziarono le sarabande dei botti di Capodanno.

Era passata da un pezzo la mezzanotte quando la sarabanda di luci si smorzò, e lui potè di nuovo inforcare il night vision.

Guardò il mare e rimase di stucco.

A tutta prima non riuscì a distinguere bene, poi si accorse che vicino al Falco di mare c’era qualcuno!

Subito sembrava un sacco nero di vele rimasto in coperta, ma dopo un po’ comparve un braccio e poi una testa col cappuccio, pure lui nero.

Si mosse ancora e s’infilò  con una certa fatica nello squarcio della barca!

La procedura prevedeva che lui chiamasse la volante e restasse lì a tracciare il malvivente, ma lui sapeva che prima che arrivassero gli altri il malvivente si sarebbe dileguato nella confusione della festa.

Vide l’ombra nera sparire nella barca dilaniata e aspettò paziente che uscisse di nuovo,  ma proprio mentre la testa del ladro ricompariva, sfortuna volle che un fascio di fari allo iodio saettasse  sulla Panda .

La luce fortissima lo accecò e per lunghi minuti non vide più nulla.

-Maledizione ai tuoi fari!- sbottò rivolto all’automobilista.

Quando potè di nuovo distinguere le cose, vide che il tipo si allontanava dalla barca, dal lato opposto a lui, verso la riva est del golfo. Non faceva alcun rumore, pareva addirittura che volasse sull’acqua.

-Che strano! Che mezzo usa?  Va troppo veloce per remare, e non si sente nessun rumore di motore, nel sottofondo dei fuochi!-

Corrugò le sopracciglia.

-Sarà mica la Fata Rhaphaciccia?-

A dire il vero c’era ancora parecchio fracasso per le feste di piazza quindi un rumor di motore poteva essere coperto dallo schiamazzo,  ma Della Rosa pur aguzzando l’orecchio non sentì  nulla.

Si rese conto che quel tipo lì non faceva proprio NESSUN RUMORE.

Restò a guardare quella strana figura che pareva volare sul pelo dell’acqua. Vedeva solo la testa, perché il resto era nascosto dietro lo scafo del “Falco di mare”.

-Va verso levante-  esclamò- Bene, è l’ora che mi muova,  se lo voglio pizzicare!-

A levante c’era solo l’approdo del Castello, ghiaia e scogli, abbastanza in ombra da non dare nell’occhio.

-E se fosse davvero la fata Rhaphaciccia?-

Sogghignò per fugare le ombre della superstizione e avviò la Panda sulle strade della movida che costeggiavano il borgo, fino a piazzarsi sul lato orientale della magnifica semiluna di mare. Le feste di piazza erano dappertutto, birra e vino, musica, canti stonati, schiamazzi.

Sull’approdo del Castello, di quell’ombra che aveva visto volare sull’acqua  non c’era più traccia.

Non aveva previsto che il tipo potesse approfittare della gazzarra per non essere individuato e dileguarsi a terra, confuso tra la folla.

Non c’era più niente, sulla spiaggia dell’approdo, solo la risacca che bagnava i ciottoli e portava bolle di schiuma a terra. Ma sulla sabbietta della risacca, nitida, c’era un’orma che i binocoli del maresciallo individuarono subito!

-Ecco qua dove sei sceso, furfante!  Eccoti qui, calamaro!-

Sulla strada fremevano le attese di un concerto. Un gruppo di giovani con bottiglie e bicchieri in mano attendeva le nuove meraviglie musicali.

Della Rosa rifletté.

Il misterioso ladro non poteva essere andato via in macchina, perché le auto erano tutte bloccate dalla piazza piena di gente.

Doveva per forza aver lasciato lì almeno il canotto o il gommone che l’aveva portato.

Cercando sulla sabbia con gli infrarossi vide infine un segno di trascinamento di qualcosa di liscio e largo.

-Un gommone. E’ certamente un gommone. Non può averlo già portato via!-

Dietro lo scoglio infatti scoprì  un gommone nero con motore elettrico Intex ultimo modello.

-Ecco come faceva per spostarsi senza rumore! Ha approfittato del rumore della festa per coprire anche lo sciaguattare del gommone! Chissà cos’è andato a rubare, sulla barca!-

Dentro il gommone c’era una grossa sacca nera.

Della Rosa quando la vide si prese un grosso spavento.

Era una sacca di plastica di quelle che i militari americani usavano per chiuderci le salme. Le aveva viste bene durante la guerra del Golfo!

-Oh, no! Questa poi non me l’aspettavo…- bisbigliò- Mannaggia, speriamo che non ci sia dentro quello che penso!-

Si guardò bene in giro ed estrasse la Beretta dalla fondina. Controllò il caricatore e tolse la sicura.

Si acquattò alla meglio dietro gli scogli e con mano incerta agguantò la cerniera della sacca, poi la tirò di lato per aprire di colpo la zip.

Appena l’ebbe fatto si ritrasse inorridito perché dalla sacca erano usciti dei capelli biondi, bagnati; un’abbondante capigliatura  bionda!

Non ebbe il coraggio di fare altro e si ritirò dietro la roccia, in attesa.

“Devo chiamare rinforzi” pensò “devo chiamare la Volante”

Sapeva che quello era il suo dovere, ma qualcosa lo tratteneva. Erano quei capelli biondi che fuoriuscivano dalla sacca.

“Una prostituta, o una drogata. Morta a Capodanno per soddisfare le perversioni di qualcuno. Forse l’ha ammazzata sulla barca, a mezzanotte!”

La cosa  gli fece saltare la mosca al naso .

-Voglio prenderlo, quel dannato assassino. Lo aspetterò qui finché non torna-

“Non può essere andato via” rifletté “dovrà per forza tornare per far sparire il cadavere!”

La festa proseguiva. La  gente era sempre più eccitata ed ebbra.

D’improvviso il fiume di persone si spostò alla piazzetta più ad occidente, dove i musici attesi avevano  cominciato a scaldare gli strumenti per lo spettacolo clou.

Fu proprio allora che lo sentì tornare giù per la scaletta di cemento. Faceva  un sacco di rumore, come uno che non ha un pensiero al mondo.

Fischiettava!

Doveva essere stato sempre lì vicino, probabilmente si era messo in mostra per bene, aveva comprato birra e dolcetti per costruirsi un alibi! Aveva cantato canzoni…

“Sto fetente…” pensò Della Rosa.

L’assassino scese sulla spiaggia e si mise ad urinare contro lo scoglio dietro il quale stava acquattato Della Rosa. Continuava a fischiettare il motivetto della canzone di piazza.

-Ti faccio fischiettare io quando t’acchiappo- sussurrò Della Rosa -fetuso, assassino di donne!-

Il tipo raccattò con calma la muta che aveva lasciato sul  gommone e il cappuccio nero che l’aveva reso invisibile. Poi si avvicinò alla sacca e fece per mettersela in spalla.

Allora Della Rosa saltò fuori con la Beretta spianata:

-Fermo, carabinieri! Mani in alto! Sei in arresto!  Non fare scherzi, hai una la pistola puntata addosso!-

Lui lo guardò in faccia, stralunato, e nell’istante successivo accaddero due cose:

1) Della Rosa lo riconobbe :

-Ma voi…siete…-

2) L’altro semplicemente venne meno e cadde a terra come un sacco.

Il maresciallo gli sollevò le gambe per farlo rinvenire e lo prese anche a schiaffi. Quando infine si riebbe lo ammanettò alla ringhiera della scaletta di cemento.

-Dove sono, chi è lei?-

Della Rosa lo ignorò e prese in mano il cellulare per fare il numero dell’emergenza.

-No, aspetti, non telefoni. Aspetti . Mi può dire chi è?  Posso pagare!-

-Pure tentata corruzione di pubblico ufficiale, sei in grossi guai assassino!-

-Assassino? Ma no, ha capito male. Posso spiegarle tutto! Lei chi è, mi scusi?-

Della Rosa faceva fatica a credere che quello lì fosse davvero il  gran personaggio pubblico, brillante e sciupafemmine  che si vedeva in TV in mezzo a stuoli di belle donne.

Era una mezzasega, e tremava dalla fifa.

-Sono Della Rosa, maresciallo della stazione dei carabinieri, di Riviera, signor Trash Vermer!-

-Mi ha riconosciuto?-

Era compiaciuto di essere stato riconosciuto!

-E’ in arresto per assassino. Se ne stia buono lì. Ora chiamo la pattuglia, che venga a prenderla. Purtroppo ha il diritto di stare in silenzio, e io, mannaggia, ho il dovere di rispettarla!-

Trash Vermer  provò a ridacchiare :

-Ma no, aspetti, lei non immagina!-

-Ho visto che cosa c’è dentro quel borsone, Vermer!-

-Ah, ha visto Kate. Bene! Le piace?-

“Chist’è pazzo!” pensò il maresciallo.

Si disse che trattandosi di vip, e molto ricco, avrebbe fatto bene ad affidarlo al più presto al capitano. Era meglio evitare che la rabbia che quello gli faceva salire dalla pancia, aggravata dall’indifferenza con cui parlava della vittima, gli facesse commettere qualche abuso.

-Sta zitto, balordo!- disse

Poi si ricordò che gli dava del lei:

-Non aggravi la sua posizione, Vermer! Mi dia i documenti!-

-Non ho documenti, li ho lasciati  a Milano!-

“Sta fetenzìa!” pensò Della Rosa “Credono di poter fare tutto quel che vogliono grazie ai quattrini!”

Prese di nuovo il telefono.

-Aspetti maresciallo, no, non telefoni!-

Quasi lo implorava, ora.

-Ancora? Cosa devo aspettare? Lei è un assassino preso in fragrante!-

-Aspetti, le dico, prima di chiamare!-

Della Rosa gli sussurrò in napoletano:

-Statti cittu, strunzo:  aje voglia ‘e mettere rumma, non sarai mai babbà!-

-Come dice?-

-Niente di importante!-

-No, fermo, non telefoni. Non è come pensa, c’è un equivoco!-

-E Kate allora? E’ anche lei un equivoco?-

-Ecco, è proprio così, maresciallo. E’ Kate l’equivoco. Mi avvicini la sacca, prego!-

La sacca era molto leggera-

-Ci hai messo dentro solo la testa, fetente? Il corpo l’hai lasciato sulla barca, ai calamari?-

Trash Vermer incredibilmente rise, mentre con la mano libera dalle manette apriva la zip della sacca.

-Ecco Kate, maresciallo, la mia Kate!-

“Chist’è pazzo, completamente pazzo!”

-Ecco Kate- disse lui- la mia principessa, la mia Musa! Solo con lei… solo con lei io riesco… solo con lei, capisce?-

Fece il gesto dello stantuffo, e quasi piangeva di gioia.

Della Rosa per  poco cadde dallo scoglio.

Kate era una bambola gonfiabile ultimo modello, made in PRC, molto somigliante, con una gran capigliatura di lunghi capelli, probabilmente naturali.

S’infuriò:

-Ti venga un colpo, deficiente!…E…e …etcì! Mannaggia, a te, te ne vengano due, uno per te e uno per lei!…E …e… etcì!-

Dopo l’adrenalina gli era tornato il raffreddore, e si sentiva  di nuovo uno straccio umido da lavandaia, partecipe di un’umanità di calamari .

Quel pazzo sussurrava ancora al pupazzo:

-La mia Kate, come mi sei mancata, cara!-

Le lisciava i capelli con la mano libera, cercava di sbaciucchiarla

-L’avevo lasciata a bordo, maresciallo. Le barche erano sotto sequestro, non avevo più potuto riprenderla…capirà. In questi mesi mi pareva d’impazzire, senza di lei. Avevo paura che il mare se la portasse via-

-Non potevi mandare qualcuno a prenderla, co…quaglione?-

-Ma no, la mia Kate? Nessuno sa di lei. Solo io e lei, solo con lei, vede, posso, riesco a… Della Rosa, la prego, non telefoni…-

Il maresciallo era rimasto di stucco. Pensare che i giornali descrivevano Trash Vermer come un solidissimo “ tombeur de femme!”

Restò per un poco col dito sul telefono, poi decise di chiudere la comunicazione.

Controllò il contenuto della sacca. Non c’era altro, neanche una cosa che facesse sospettare un trucco.

Un buco nell’acqua, niente di fatto, niente che potesse uscire dai limiti di un articolo di gossip, e niente che lui potesse raccontare senza far la figura del pirla!

“E ora?”  pensò “Che faccio? Telefono a “Scandali al sole?

Ma no. Per quello stronzo?  Che si tenga pure la sua Kate e se ne vada all’inferno!”

Si accorse all’improvviso che le lacrime che gli salivano agli occhi non erano tutte causate dal raffreddore. Si sentiva umiliato, Della Rosa, e triste, preciso a quando passava Capodanno a subire il dottor Spok.

-Va bene, gua…quaglione, il resto me lo spiegherai in caserma dopodomani. Ti aspetto in caserma alle dieci. Bonanotte!-

Gli diede l’indirizzo e il telefono e cominciò a salire le scale…

ma quando era già a metà Vermer strillò:

-Aspetti!-

Si era già tutto ringalluzzito.

-Era proprio necessario farmi prendere tutto quello spavento? Per poco non  morivo! Ne parlerò coi miei avvocati!-

Ciro aveva già il piede sullo scalino superiore, ma dopo queste frasi si bloccò e ridiscese con calma sulla spiaggetta.

-Non ti muovere!- disse, e tornò a mettergli le manette.

Prese il cellulare e chiamò:

– Signor capitano-

-Dica, Della Rosa!-

Trombetti  gradiva sempre essere informato in tempo reale.

-Capitano, ho beccato un ladro che rubava sul Falco di mare, lo Yacht, sa… è senza documenti!-

-Ah…-

-L’ho preso in fragrante mentre saliva sulla barca, una di quelle sottoposte a sequestro. Ha della refurtiva. Volete occuparvene voi o volete che io…-

-No…me ne occupo io, li mando subito!-

-Bene. Allora aspetto la Volante. Rimango qui finché non è arrivata! Buon anno, capitano Trombetti-

-Anche a lei, Della Rosa! Tanti auguri!-

“Ora troverai chi t’interroga per bene e ti fa passare il Capodanno in Caserma, calamaro del mio…” pensò “e son quasi sicuro che Trombetti lo zelante tratterrà la refurtiva  nei corpi di reato per un bel pezzo!”

Quando arrivò la Volante, Della Rosa tornò a fare la guardia sul lungomare.

C’era poca gente sulla passeggiata, soprattutto ragazzotti ubriachi e pulzelle. E lì accanto era tornata la barbona di prima, accasciata sullo scoglio con delle coperte sbrindellate. Canticchiava e gesticolava rivolta al mare.

“Speriamo che non scenda sugli scogli, e non si rompa qualche osso” pensò  “Non vorrei proprio che la notte finisse con un’altra fetenzìa: per stanotte  ne ho avuto abbastanza, di matti!”

-Chista è peggio di quell’altro, mi sa- sussurrò-  Mi toccherà davvero arrestarla, perché se finisce in mare ci scappa un cadavere vero, questa volta! –

Era sorto il giorno, e la vecchietta non era caduta.

Finalmente però era arrivato il suo cambio.

La vecchia confabulò ancora un poco e ridacchiò rivolta verso di lui.

-Che hai da ridere, vecchia cornacchia?- sibilò Della Rosa

Aveva le traveggole? La vecchiaccia gli aveva fatto L’OCCHIOLINO!

No! Questa poi! Doveva pure subire  l’adescamento di una  barbona!

-Chissà che catastrofe sarà, quest’annata, se comincia così!-

Loro due se ne andarono più o meno assieme, una di qua,  lui agli antipodi.

-Vecchiaccia zozza!- disse

Ingranò la prima.

-Se almeno la fata delle barche fosse stata qui avrei potuto chiederle di far tornare Camilla… almeno per Capodanno!-

Mentre si immetteva nello scarsissimo traffico gli squillò il cellulare:

-Pronto!-

-Papà!-

-Camilla, Camillina! Dove sei?-

-Sono all’aeroporto. Sono venuta per passare assieme almeno Capodanno. Puoi mica venirmi a prendere?  Ho molti bagagli!-

-Se, posso, se posso?- urlò lui-  Certo che posso, mannaggia atomica!-

Mancò poco che uscisse di strada per la felicità.

Dietro di lui la vecchia rivolse un’ultima occhiata al Falco di mare, lo consolò ancora e infine si allontanò.

-A stasera, Falco!- disse.

Era ormai sorto il giorno.

Fine

Capodanno 2019, Carlo Giuseppe Lucardi.

Rapallo, 8 Gennaio 2019


COMANDANTE E.STAGNARO-LO SCHINDLER DEL MARE

Il Comandante

EMANUELE STAGNARO

Nacque a Lavagna

Finse di non sapere… e salvò 1500 ebrei con la nave ESPERIA

Fu definito LO SCHINDLER del mare


Quadro Storico:

Il 10 giugno di 77 anni fa Benito Mussolini annunciava l'avvenuta dichiarazione di guerra a Francia e Gran Bretagna, sancendo così l'ingresso dell'Italia nel Secondo conflitto mondiale. L’immediato contraccolpo fu il BLOCCO di ben 214 navi italiane superiori alle 1.000 tonnellate che si trovarono fuori dalle acque nazionali. Di queste, 38 si autoaffondarono, 20 riuscirono a violare il blocco, 16 furono catturate o autoaffondate nel tentativo di violarlo, 47 furono impiegate in guerra dagli alleati di cui cinque affondate nel corso dello sbarco in Normandia, e ben 8 affondate per cause imputabili ad eventi bellici, ancor prima dell’entrata in guerra dell’Italia. L’impresa dell’ESPERIA avvenne 21 mesi dopo l’entrata in vigore delle Leggi Razziali in Italia, quando ormai gli ebrei italiani erano ben consapevoli di ciò che sarebbe accaduto al loro popolo, di lì a poco, nel cuore dell’Europa. In tutti gli ambienti diplomatici e non solo, si mormorava dell’imminente entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania. Chi di loro aveva le giuste conoscenze e le disponibilità finanziarie, provvide a fuggire con qualsiasi mezzo.


1919 – Riva Trigoso - Varo del Piroscafo ESPERIA, costruito per la ADRIATICA S.A. di Navigazione.

Lunghezza: 151,20 mt. Larghezza: 18,80 mt. Stazza lorda: 11.398 tonn.


La nave ESPERIA in navigazione. Era definita la “ballerina del Mediterraneo”.

In questo tragico inizio delle ostilità, s’inserisce la storia del salvataggio compiuto dal Comandante Emanuele Stagnaro che, pur consapevole dell’ordine ricevuto di rientrare immediatamente in Italia, diede la priorità al salvataggio dei suoi passeggeri e poi rientrò in Italia.

A parlare per la prima volta dell’inedito salvataggio fu sul Corriere della Sera il 10 febbraio 2004. Il fantasma uscito dall’ombra della Grande Storia aveva un nome: James Hazan, che all’epoca del viaggio verso la salvezza era un bambino di sette anni che viaggiava sulla nave passeggeri italiana ESPERIA con il padre Itzhak Hazan, diplomatico egiziano di origine ebraica, collaboratore dei servizi segreti britannici. Per la verità, alcuni storici, dopo accurate ricerche negli ambienti marittimi, appurarono alcune incongruenze: date non coincidenti, numero dei passeggeri trasportati troppo elevato per quel tipo di nave, e si chiesero e si chiesero per quali motivi quel “naufrago”, dopo aver nuotato 64 anni nell’infinito mare dell’oblio, si era deciso a raccontare al mondo quello straordinario salvataggio. Probabilmente “L’AFFAIRE” è tuttora vincolato ad alcuni sigilli degli Archivi segreti di qualche nazione coinvolta, tuttavia si spera che il mistero possa quanto prima liberarsi dai nodi che lo tengono ancora parzialmente legato.

Diciamo subito che, a nostro modesto parere, quel viaggio rientrava probabilmente in un “charter fuori linea”, organizzato in segreto producendo carte false a tutti i livelli di controllo; il che spiegherebbe i vani tentativi compiuti per ricostruire date e dettagli del viaggio, il numero eccessivo dei passeggeri e, cosa di non poca importanza, la nave era anche fornita di cucina “KOSHIER” e delle tipiche stoviglie con la croce di David per ospitare gli ebrei fuggiaschi.

Ecco come si svolsero i fatti. Nel giugno del 1940, mentre la nave passeggeri Esperia della Adriatica A. di Navigazione, dopo il suo ennesimo viaggio (Genova, Napoli, Siracusa, Alessandria, Caifa, Beirut e ritorno) sta per approdare ad Alessandria d'Egitto. Come un fulmine a ciel sereno, il Comandante Emanuele Stagnaro riceve un telegramma dal Capitano d’Armamento della sua Compagnia di Navigazione: “l'Italia è entrata in guerra. Alessandria è sotto il controllo degli inglesi, ora nemici. Vi ordiniamo di rientrare in patria riportando indietro i passeggeri.” La questione è molto delicata, a bordo ci sono ben 1500 profughi ebrei provenienti dagli Stati europei sotto occupazione tedesca, che si sono imbarcati a Napoli in cerca della salvezza sulla rotta del Medio Oriente. A bordo le cabine potevano ospitare soltanto 375 passeggeri, ma la caccia agli ebrei era iniziata da tempo e l’idea di fuggire da quella terribile persecuzione li spinse ad adattarsi a qualsiasi soluzione trovata dal bordo. A questo scopo, furono ricavati altri spazi tra il pozzetto di prua e il corridoio della stiva n° 1. Non erano spazi comodi, ma erano pur sempre vivibili considerando la brevità del viaggio: 3 giorni di navigazione mediterranea.

Il comandante si consulta con Itzhak Hazan, suo grande amico, che viaggia con la famiglia. Insieme a un altro egiziano, Cesar Douek, e a pochi uomini fidati dell'equipaggio (il Radiotelegrafista e il Direttore di Macchina) decidono, su indicazione dell'intelligence inglese, di approdare a Mex, nell’angiporto di Alessandria che si trova ancora sotto controllo egiziano. Il Comandante E. Stagnaro sbarca tutti i passeggeri senza destare alcun sospetto e riparte immediatamente per Napoli superando il “blocco navale inglese”. Ritornato in Italia senza “il suo prezioso carico umano”, Stagnaro dichiara di aver ricevuto il telegramma quando aveva già ultimato lo sbarco dei passeggeri. Vista anche la stima di cui godeva, la sua dichiarazione venne accettata ed è in questo modo fu archiviata, nel massimo silenzio, l’inchiesta pendente a suo carico. Con questo coraggioso ATTO DI VALORE di enormi proporzioni, visti i tempi, Emanuele Stagnaro riuscì a salvare tutti i 1500 ebrei imbarcati a Napoli rischiando il sequestro della nave come preda bellica, la prigionia per tutto il resto della guerra appena iniziata, insieme al suo equipaggio, nonché l’internamento dei passeggeri in un campo di concentramento.

Questa incredibile storia di solidarietà umana entrò nell'oblio più totale, fino a che James Hazan, figlio di Itzak Hazan, in una intervista al TIMES del 2003, parlò dell'eroico salvataggio che lo vide felicemente coinvolto. Ad una festa anche la scrittrice Claudia Roden, incontrandosi per caso con James, ricordò di essere stata salvata nel viaggio dell'Esperia.

Times, Corriere della Sera, Mattino di Napoli, Gente e altri media raccontarono la storia del comandante Stagnaro.  I titoli erano pressoché identici: “Un altro eroico italiano che, come Perlasca, Palatucci e tanti altri ha anteposto i valori umani di solidarietà al vantaggio personale.”

Nel marzo del 2004, presenti i parenti, il figlio Cesare di 90 anni e gli amici di suo padre, venne onorata la memoria del Comandante Emanuele Stagnaro con la riconoscenza di Israele e delle Comunità ebraiche. Un ulivo di Gerusalemme fu piantato nei giardini di Sestri Levante a testimonianza del suo EROISMO per sempre.

Sono numerose le storie di salvataggio degli ebrei contro la furia nazista durante la Seconda guerra mondiale, ancora poco note o addirittura rimaste sconosciute. Per alcune vicende è stata chiesta l'assegnazione del titolo di "Giusto tra le Nazioni" alla Commissione dei Giusti di Gerusalemme, presso la quale viene incardinata l'istruttoria.

Emanuele Stagnaro lo vogliono tra i "giusti di Israele", come fu per Perlasca. Onore al capitano italiano che salvò 1500 ebrei a bordo della nave Esperia.

Da quel giorno la carriera di questo valoroso Comandante, costretto ad occultare la propria gloriosa identità nel silenzio più profondo… fu molto breve. Un anno dopo, il 25 giugno 1941, sempre al comando dell’Esperia, mentre era in navigazione da Napoli a Tripoli, fu attaccato da aerei nemici con bombe e siluri. Un secondo attacco lo subì il 30 giugno; la nave si salvò, ma si ebbero tre morti e numerosi feriti. Il terzo attacco avvenne il 20 agosto 1941 e le fu fatale. La nave si trovava al largo di Tripoli quando fu colpita da siluri lanciati da un sommergibile e affondò. Morirono 6 marinai civili; 13 militari tedeschi; 27 militari italiani. Si ebbero 11 feriti. Il Comandante Stagnaro si salvò e riprese il mare compiendo fino in fondo il proprio dovere, finché trovò la morte nell’affondamento del Galilea, avvenuto in poche ore, il 28 marzo 1942, colpito da un siluro sparato da un sottomarino inglese mentre rientrava in patria dalla Grecia con il battaglione Alpini GEMONA.

La nave GALILEA, costruita nel Cantiere San Rocco di Trieste nel 1918 con il nome Pilsa, fu venduta alla compagnia Triestina nel 1935 e ribattezzata Galilea. I documenti del Lloyd di Londra descrivono come una nave "passeggeri" con due eliche e motori a turbina, 8.040 tonnellate di stazza lorda, lunghezza 443 piedi e 8 pollici, larghezza di 53 piedi e 2 pollici ed un pescaggio di 25 piedi e 11 pollici. La velocità nominale era di 13.5 nodi con una portata di 47 passeggeri in prima classe e 148 in seconda.
Durante questo periodo, la Galilea era stata riclassificata come nave ospedale. In questa funzione fu adibita al trasporto di parte del Battaglione Gemona della famosa Divisione Julia (Alpini).

I figli del Comandante Emanuele stagnaro hanno scritto:

Emanuele Stagnaro nacque a Lavagna, da padre rivano, il 31 marzo 1887; giovanissimo rimase prima orfano del padre Cesare, armatore di velieri propri, che morì a seguito di naufragio della propria barca nel Golfo Leone nel 1893, poi della madre Luisa De Paoli.

Superato il corso di studi presso l'Istituto Nautico di Camogli, dove ottenne il diploma di Capitano di lungo corso, intraprese subito la carriera marinara imbarcandosi come "mozzo" sulle "barche" di famiglia in quanto a Riva Trigoso dove era nato il padre Cesare, sussisteva l'attività degli zii e di tanti piccoli armatori conosciuti ed apprezzati da tutte le marinerie, dediti ai traffici commerciali sul mare, in auge in quel tempo.

L'obbligo militare lo adempì, in marina, e successivamente richiamato, nel periodo del conflitto mondiale 15/18 ebbe modo di distinguersi in fatti bellici che lo videro protagonista in quanto, affondata la nave militare sulla quale prestava servizio, meritò, per il coraggioso comportamento, una prima onorificenza al valor militare.

Con innato senso del dovere e positive attitudini percorse la dura carriera del mare, tanto da meritarsi a soli 49 anni la Medaglia d'oro di lunga navigazione. Arrivò con riconosciuto merito al comando di navi prestigiose: in ultimo, prima la m/n Victoria poi l'Esperia, coronando la sua più intima aspirazione, in quanto questa bella nave, nata anche lei a Riva Trigoso, era il suo segreto amore. Furono anni di grandi soddisfazioni che lui, conservava per sé stesso in omaggio al suo carattere severo e insieme riservato, pronto ad eseguire e capace di comandare. La guerra recente, lo trovò al comando dell'ESPERIA, che fu subito requisita e inserita nel "convoglio celere", sulla direttrice Italia - Africa settentrionale.

Purtroppo alle 10.20 del 20 agosto 1941, superato l'imbocco della rotta di sicurezza per TRIPOLI, il convoglio fu attaccato da unità nemiche; una scia di siluro fu avvistata vicinissima all'ESPERIA, senza che fosse ormai possibile eseguire una qualsiasi manovra.

Il siluro colpì la nave a proravia e fu seguito da altri due che esplosero contro il locale caldaie a poppavia; l'ESPERIA, totalmente abbattuta sul fianco sinistro, affondò a 11 miglia dal faro di TRIPOLI.
Le condizioni meteo favorevoli hanno consentito il salvataggio dell'equipaggio e del personale militare trasportato. "Sorretto da alto senso del dovere restava sulla nave in procinto di affondare finché tutto il personale non fosse salvato."
Qualche ora dopo, con un aereo militare si trasferì a Roma per relazionare "Supermarina" sulla dolorosa perdita.

Non furono molti i giorni di riposo; dopo un periodo di servizio quale incaricato dell'armamento della nuova Esperia che era in cantiere, ma senza supplicare particolari agevolazioni, tra l'altro ben meritate, fu assegnato al comando di navi che curavano il rimpatrio di nostri militari dalla Grecia.

Dopo numerose missioni compiute senza gravi incidenti, imbarcò sul "GALILEA" per quello che doveva essere in senso reale, l'ultimo viaggio di rimpatrio dei militari che avevano operato sui fronti balcanici di cui il glorioso battaglione degli alpini "GEMONA" supportava il maggior numero di militari... Poi la tragedia del "GALILEA".

QUESTO RICORDO che vuole essere un tributo spirituale alla memoria di nostro Padre intende anche essere un perenne esempio di quanto si può rimanere indimenticati quando si è saputo coniugare l'esistenza con il dovere e il coraggio fino al sacrificio supremo.


Carlo GATTI

27 Febbraio 2017

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APPENDICE

SANDRO ANTONINI, nato a Sestri Levante nel 1952, è uno storico italiano. Laureato in Scienze politiche con indirizzo storico-politico, si occupa soprattutto di storia contemporanea con particolare riferimento al periodo fascista.

Il falso storico della turbonave Esperia e di millecinquecento ebreii

Per quanto la vicenda di seguito descritta abbia già avuto un’appropriata definizione in sede storica, sembra giunto il momento di ripresentarla in questo libro sul Novecento, perché non solo avrebbe coinvolto il comandante Emanuele Stagnaro, rivano, che negli anni precedenti ebbe l’Esperia al suo comando e perché la turbonave ebbe i natali nel cantiere di Riva Trigoso, quanto e soprattutto perché in molti se ne sono occupati ritenendola veritiera; invece, sono andati clamorosamente fuori bersaglio. Ormai i fatti risultano oltremodo chiari: eccoli, una volta per tutte, di seguito sviluppati e conclusi.

Si è sostenuto a suo tempo, a partire dal febbraio-marzo 2004 (diversi giornaliii, anche stranieri, hanno riportato la notizia), che nel giugno 1940, a ridosso della dichiarazione di guerra, la turbonave Esperiaiii, della società «Adriatica», comandata dal ligure Emanuele Stagnaro, salpò dal porto di Napoli con a bordo circa millecinquecento ebrei, «provenienti da ogni parte d’Europa» (?), con meta finale Alessandria e che il comandante, essendo nel frattempo iniziato il conflitto, avesse ricevuto l’ordine telegrafico di ritornare indietro. Invece preferì disobbedire, accordarsi con gli inglesi ad Alessandria e, l’11 o il 12 giugno, sbarcare in quel porto gli ebrei sottraendoli a una morte quasi certa. Riuscì pure a ritornare riportando la nave Napoli. Così, a grandi linee, il racconto – dovuto da un testimone del tempo – che ha circolato e continua a circolare. Da qui, però, sono sorti dubbi e interrogativi che riteniamo giusto collocare in una luce di verità.

Per esempio i 1.500 ebrei, una cifra enorme per una nave che poteva trasportare, come numero massimo in cabina, 375 passeggeri. Possiamo forse arrivare a 5-600, forzando i codici marittimi. Ma crediamo che se davvero a Stagnaro si fossero presentate 1.500 persone avrebbe, per motivi di sicurezza, rifiutato di farle salire a bordo. E chi, dell’Autorità marittima del porto di Napoli, avrebbe in precedenza accordato il permesso assumendosene la responsabilità? Nessuno, sembra evidente. E poi, con la legislazione razziale in vigore in Italia, che dichiarava espressamente che gli ebrei stranieri presenti sul suolo nazionale avrebbero dovuto essere espulsi, com’erano arrivati, nel paese? Quando? Attraverso quali complicità? E perché se ne volevano andare? Si è detto – e scritto – per fuggire dallo sterminio. Poco probabile, se lo sterminio stesso non era ancora cominciato. Se ne parlò nell’ottobre 1940, nel gennaio 1941 e fino al settembre dello stesso anno gli ebrei tedeschi, a determinate condizioni, poterono ancora lasciare la Germaniaiv. Se ne parlò poi a Wannsee il 20 gennaio 1942, per ratificare decisioni già in precedenza prese. Lo sterminio vero e proprio cominciò nell’ottobre 1941 a Belzec e poi via via negli altri campi e nel marzo 1942 ad Auschwitz-Birkenau, subito con prigionieri russi. Purtroppo, gli ebrei europei non erano a conoscenza del destino che attendeva moltissimi di loro, milioni, altrimenti avrebbero cercato di organizzarsi. Invece furono colti di sorpresa e su di essi fu consumato uno dei crimini più odiosi e nefasti della storia del Novecento. Nessuno, a essere precisi, tranne ovviamente i nazisti, aveva chiaro questo terribile disegno. Diciamo poi che a guerra iniziata, e almeno fino all’8 settembre, gli italiani rifiutarono sempre di consegnare ebrei ai tedeschi, sia quelli che si trovavano sul suolo nazionale che gli altri, quelli presenti sui territori occupati dai nostri militari. La letteratura sull’argomento è copiosa, soprattutto univoca e ormai acclarata: dopo l’8 settembre cambiò tutto, ma questa è una vicenda triste e violenta che non riguarda l’Esperia, del resto già affondata.

Stabiliti tali doverosi presupposti torniamo all’Esperiav, che svolgeva la rotta n. 47, quattordicinale (Genova, Napoli, Siracusa, Alessandria, Caifa, Beirut, Alessandria e ritorno)vi. Ripartiamo dal comandante Emanuele Stagnaro che comandò sì l’Esperia, ma non nel periodo imminente alla dichiarazione di guerra. Infatti (la nostra ricerca principia dal maggio 1940; prima, in base alla storia riportata, avrebbe poco senso) Stagnaro giunse a Genova con la motonave Calitea (normalmente rotta n. 50: Trieste, Venezia, Fiume, Brindisi, Pireo, Rodi, Alessandria via Capo Matapanvii, qui certo in sostituzione dell’Esperiaviii) il 2 maggio 1940 e ripartì il 4 maggio alle ore 16,45ix. Ritornò nuovamente a

Genova il 15 maggio con la stessa nave e ripartì il giorno 17 alle 16x. La motonave Calitea fu una terza volta a Genova il 29 maggio e lasciò gli ormeggi il 31; adesso, al comando non c’era più Stagnaro, bensì il comandante Zanettixi. A questo punto Stagnaro, dopo essere ripartito da Genova potrebbe aver compiuto una parte del viaggio ed essersi imbarcato sulla turbonave Esperia a Napoli (un normale avvicendamento di routine, ma ricordiamo che la rotta dell’Esperia iniziava da Genova), tra il 27 e il 28 maggio per far compiere alla nave l’ultimo viaggio prima della guerra. Oppure potrebbe essere partito prima; in questo caso cadrebbe il presupposto iniziale del viaggio compiuto con i 1.500 ebrei a cavallo della dichiarazione di guerra. Ma supponiamo che Stagnaro si fosse effettivamente imbarcato il 27 o 28 maggio, o il 30 o anche il 2 giugno; sarebbe sempre arrivato ad Alessandria prima della dichiarazione di guerra. Tuttavia, c’è un problema. Perché, da una ricerca condotta con la Biblioteca nazionale di Napoli, risulta che l’Esperia non partì né arrivò nel porto di Napoli tra il 27 maggio e il 9 giugno 1940 e dunque quel famoso viaggio non avrebbe potuto compiersixii. Così, almeno, sfogliando Il Mattino. Concediamo pure, ma è davvero poco probabile, che il giornale possa avere omesso il dato. Tuttavia, se riprendiamo la tabella degli orari (con l’Esperia che iniziava il viaggio da Genova, come doveva essere nella realtà e come non si verificò dal 1° maggio al 9 giugno 1940) e soprattutto il bollettino della Finmare relativo al periodo le cose cambiano alla radice. Infatti, testualmente si legge su quest’ultimo:

Piroscafo Esperia stazza lorda 11398 tonn., varato nel 1919:

Dal 10/6/40 al 16/6/40 in sosta a Veneziaxiii; dal 17/6/40 al 3/3/41 requisito dal Ministero della Marinaxiv; dal 7/3/41 al 22/3/41 in sosta a Genova; dal 23/3/41 al 20/8/41 requisito dal Ministero della Marina. Perduto per fatto di guerra il 20/8/1941. Atto di abbandono notificato al Ministero della Marina in data 6/11/41xv. A questo punto la domanda e dopo tutto quanto abbiamo scritto: se l’Esperia almeno dal 10 giugno 1940 (sicuramente da prima, forse a montare le artiglierie – era attrezzata per questo – all’Arsenale e i tempi necessari a tale operazione non sono certamente brevi) si trovava a Venezia – se fosse arrivata quel giorno da Alessandria avrebbe dovuto partire dal porto egiziano il giorno 6 senza scali intermedi – come faceva al tempo stesso, cioè il 10 giugno, a essere in navigazione verso Alessandria? A titolo informativo forniamo altresì la posizione della motonave Calitea per il giorno 10 giugno, citando la stessa fonte Finmare.

Motonave Calitea stazza lorda 4013,44 tonn., varata nel 1933:
dal 10/6/40 al 13/6/40 a Malta per controllo ed in navigazione per Siracusa.
Alcuni problemi pratici relativi alla presunta entrata nel porto di Alessandria del piroscafo Esperia

nei giorni della dichiarazione di guerra. Ammesso che il comandante Stagnaro abbia potuto soprassedere all'ordine di rientro, sia riuscito a raggiungere il «Mex» (angiporto di Alessandria), per sbarcare i passeggeri avrebbe dovuto interessare l’agenzia del posto. Quella di allora fu la De Castro, oggi inesistente ma il cui palazzo si può ancora vedere in rue El Oreya. Se tutto questo fosse riuscito sicuramente non sarebbe bastata la volontà del solo equipaggio, bensì la complicità di tutto il personale dell’agenzia di Alessandria e di tutte le spie abitanti il porto, oltre a coloro che poi diedero ricovero agli ebrei.

Conclusioni. La storia dei 1.500 ebrei potrebbe anche essere avvenuta? Difficile, quasi impossibile e comunque a precise condizioni. Intanto, occorre ridimensionarne fortemente il numero. Poi, occorre capire come abbiano potuto imbarcarsi, in Italia, tanti ebrei tutti assieme. Occorre poi ricollocare la storia, trovare cioè, con i necessari riscontri oggettivi, una data concreta, che non può per contrarietà dei fatti essere quella della dichiarazione di guerra. Verosimilmente, ammessane la veridicità, il 1939; forse, i primi mesi del 1940. Quindi, è necessario capire chi fosse stato, fra i funzionari dei vari uffici, non ultimo del ministero dell’Interno che gestiva l’intera questione, a fornire i visti di transito agli ebrei, dal momento che si rilasciavano solo a precise condizioni, non ultima il pagamento di forti sommexvi e come si siano comportati gli inglesi al loro arrivo ad Alessandria, perché, per motivi politici, gli stessi inglesi (che avevano mandato internazionale per il controllo della Palestina) respingevano gli ebrei che volessero raggiungere tale territorio. Infine, è necessario capire perché la Delasem, o il Comasebit, organismi specializzati nell’assistenza agli ebrei, che della sorte dei correligionari specie stranieri erano sempre informatissimi, operanti dal 1939 in Italia, non ne avessero mai saputo nulla. Eppure, entrambi,

salvarono molte persone, anche all’estero, per esempio a Rodi o in Jugoslavia e con la guerra già in corso. Sciogliendo, fra l’altro, anche simili e fondamentali interrogativi, sarà possibile far luce su un episodio non solo contraddittorio, ma sul quale, tranne una testimonianza, non esiste alcuna prova.

Nel frattempo, il testimone citato, che risponde al nome di James Hazan, nuovamente interpellato, ha ammesso di non ricordare né date né quanti correligionari fossero davvero imbarcati sull’Esperia e, di fatto, ha preferito non riconfermare la storia. Che del resto, nei termini da lui proposti, è assolutamente priva di senso. Denota, altresì, una scarsa conoscenza della questione ebraica europea così come venne profilandosi dal 1940. L’autore, ha inoltre interpellato, per approfondimenti, Liliana Picciotto, direttrice dell’archivio del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano, nonché Eugenio Capogreco, direttore della fondazione Ferramonti di Tarsia, località dove esisteva il maggiore campo di concentramento italiano per ebrei stranieri. Entrambi i soggetti convengono che la vicenda, nei termini proposti da Hazan, è da ritenersi un clamoroso falso.

i Queste pagine, opportunamente rielaborate, sono apparse su Il Secolo XIX del 16 marzo 2005, a cura del sottoscritto e del ricercatore dell’Adriatica Franco Prevato, nonché sul mio libro L’ultima diaspora, Genova, 2005, pp. 233-236 e su un altro mio libro, Novecento, alle pp. 97-101. Quanto proposto costituisce una nuova elaborazione, senza peraltro mutare il senso originario.

ii Per esempio il Corriere della Sera, marzo 2004 e, stessa data Il Secolo XIX, Il Mattino, il settimanale Gente nonché, da Londra, Times.

iii La ricostruzione della verità intorno al falso storico dell’Esperia è stata resa possibile dal contributo davvero determinante di Franco Prevato, ricercatore e storico della società «Adriatica», che desidero qui sentitamente ringraziare.

iv E. NOLTE, Controversie, Milano, 1999, p. 30.

v Le navi dell’Adriatica sono sempre state «attrezzate» per il trasporto di passeggeri ebrei i quali potevano usufruire di spazi appositamente per loro attrezzati con cucina kosher e stoviglie distinte dalla croce di David. Gli spazi situati tra il pizzo di prua e la prima casamatta potevano estendersi al corridoio della stiva n° 1; non erano comodi ma... erano pur sempre spazi. Durante il fascismo a bordo delle navi di tutta la flotta vi era un «ufficiale informatore» addetto alle segnalazioni visiva prima, divenute radio, poi. Gli ufficiali informatori erano di sicura e provata fede fascista proprio per i delicati compiti da svolgere divenuti sempre più importanti dopo il 1939. Inoltre sempre dalla fine del 1939 in poi tutte le navi (almeno quelle della flotta pubblica) furono dotate di pezzi d’artiglieria leggera e semipesante i quali erano al comando di un comandante militare e di una scorta di servizio militare spesso formata anche da osservatori tedeschi dopo l'entrata in guerra. L’equipaggio era formato da circa 170 persone tra ufficiali di stato maggiore addetti alla conduzione sottufficiali e «bassa forza».

vi MINISTERO DELLE COMUNICAZIONI, Itinerari e orari dei Servizi Marittimi, fasc. n. 163, Torino, luglio 1939. L’orario era lo stesso per il 1938, per il 1937 e così via; lo stesso per il 1940.

vii Ibidem.

viii Quando su una nave si manifestava un’avaria (e tutto lascia concorrere che un’avaria vi fosse sull’Esperia, varata nel 1919, e una linea anziché un’altra poteva essere «ricoperta» da una nave in sostituzione, rinunciando ad una linea secondaria per favorirne una di primaria importanza. Oltretutto, si spiega perché a comandare il Calitea si trovasse Stagnaro, che da lungo tempo praticava la linea n. 47.

ix Cfr. Il Lavoro, Il Giornale di Genova 3, 4 e 5 maggio 1940, alla pagina marittima: rubrica «Arrivi e partenze nel porto di Genova».

x Ibidem, 15, 16 e 17 maggio 1940.
xi Ibidem e anche Il Secolo XIX 29, 31 e 1° giugno 1940.
xii Cfr. Il Mattino in data dal 27 maggio al 9 giugno 1940, pagina marittima.
xiii Bollettino Finmare, a mani degli autori.
xiv Ciò è confermato dalla pubblicazione Navi mercantile perdute, edita dall’Ufficio Storico della Marina Militare, che riporta la

requisizione della nave dal giorno 17 giugno all’affondamento).
xv Ministero della Marina, attraverso Società Adriatica di Navigazione.
xvi Senza contare che sarebbe occorso un doppio visto, italiano e inglese.

Prof. Sandro ANTONINI

 


CHIAVARI - RIONE SCOGLI: Colonia Fara

LA COLONIA FARA

 

 

La Colonia Fara in pieno esercizio

 

 

La Colonia Fara nel 2014

 

 

 

La colonia Fara, intitolata alla memoria del generale Gustavo Fara é sita in via Preli a Chiavari e nacque come colonia estiva. La struttura fu commissionata dal Partito Nazionale Fascista nel 1935 come luogo e soggiorno di villeggiatura marinaro per bambini, da utilizzarsi prevalentemente nel periodo estivo. L'edificio è un esempio del Razionalismo Italiano. Una curiosità: l’impianto architettonico rappresenta un aereo con il muso verso il basso e la coda verso il cielo.

 

In questa foto si vede più nitidamente il profilo delle ali d’aereo

 

 

 

Proponiamo alcune foto inedite della costruzione della colonia fara e, nel 1938 quando, appena terminata, ospitò i figli dei coloni libici. La colonia Fara fu inaugurata dallo stesso Benito Mussolini assieme allo stabilimento Balneare Lido costruito durante il podestariato di Francesco Tappani.

 

Contrariamente a quanto credono tutti, questa Colonia sino ai primi anni di guerra non ospitò mai bambini del nord Italia. Quando fu costituito l'impero nel 1935 Mussolini, per dare un "futuro" a molti coloni Italiani ne mandò in Libia ben 20.000.

Ma nel 1940, quando già spiravano venti di guerra, in Libia fece terminare le scuole a Maggio e ai primi di Giugno  (la guerra fu dichiarata il 10 Giugno appunto), fece tornare in Italia quasi un migliaio di questi bambini e alcune centinaia furono ospitati  nella colonia Fara con l'ottica,  diciamo umanitaria,  di toglierli dai futuri pericoli dei campi di guerra della Libia. In realtà questi bambini passarono ben sei anni lontano dai propri genitori e soltanto nel 1945 poterono ricongiungersi con le le rispettive famiglie. Il museo Marinaro Tommasino-Andreatta è in possesso dei filmati dell'Istituto Luce che confermano quanto sopra.

Pertanto la Colonia Fara ospitò soltanto bambini figli dei coloni libici e negli anni seguenti, verso la fine della guerra diventò sede di ospedale per feriti di guerra e negli anni '50 ospitò per alcuni anni i profughi istriani fuggiti dalla persecuzioni di Tito.  Fu anche sede di una Scuola Elementare denominata FARA e da molti anni è in uno stato di degrado incredibile. Anche l'area dell'Ex Cantiere Navale completa il degrado tanto che da molti quell'area non viene più chamata rione Scogli, ma bensì Rione "Kabul".

Estate 2013. La foto denuncia il degrado in cui versa la Colonia Fara. Resti del muraglione antisbarco sono tuttora visibili dove termina il bagnasciuga.

 

 

Uno dei tanti articoli che parlano del degrado di questa zona di Chiavari

 

 

Ecco come si presentano oggi gli interni di una struttura che fu presa, a suo tempo, come esempio di arte e funzionalità, da parte dei massimi esperti del mondo.

Ernani ANDREATTA

Rapallo, 25 Agosto 2014

a cura del webmaster Carlo GATTI


 


Collisione tra la MIRAFLORES e la ABADESA

Collisione tra due petroliere

MIRAFLORES (Ita) - ABADESA (UK)

L’Avventura di un recchese scampato all’esplosione della nave italiana

FU SALVATO DA UN ANGELO: LA MOGLIE

25 febbraio 1963

Tra le tante storie che hanno visto protagonisti i nostri uomini di mare,  quella che oggi vi raccontiamo è alquanto atipica, per il semplice fatto che il protagonista non è un marittimo di professione, ma una giovane donna di Recco, Luigia, moglie di Vittorio Massone,  Direttore di Macchina della petroliera italiana Miraflores.

Il recchese Vittorio Massone, nella foto con la moglie, sarebbe morto nelle gelide acque del fiume Schelda, come altri nove membri dell’equipaggio se a soccorrerlo non fosse intervenuta Luigia a tenerlo a galla sino all’arrivo di un peschereccio.

Luigia e Vittorio erano sposati da pochi anni e non si vedevano ormai da molti mesi.

Ma l’occasione di rubare qualche giorno alla loro dura lontananza, si presentò quando la nave, rientrando da Bandar Mashur (Golfo Persico), captò l’ordine d’andare a scaricare il crude-oil ad Anversa (Belgio). Luigia non ebbe il minimo dubbio e decise di partire. Per sfruttare al massimo il poco tempo disponibile, chiese un passaggio al pilota di Flushing (situato alla foce del fiume Schelda) che era destinato sulla Miraflores.

A mezzogiorno arrivò un rimorchiatore che ci portò a bordo il pilota, il suo aiutante, la moglie del comandante e mia moglie”. – Racconta lo stesso V. Massone – “L’entrata e l’uscita da quel grande porto, è possibile soltanto con l’alta marea, quando cioè vengono aperte le “chiuse” ed allora lungo l’estuario avviene un intenso via-vai di navi di tutti i tipi.

Da quel momento doveva cominciare una seconda luna di miele per Luigia e Vittorio: risalire insieme il fiume per circa 70 miglia e rimanere ancora insieme durante la discarica programmata ad Anversa, per poi ridiscendere il fiume e sbarcare nello stesso porto dov’era imbarcata. Lasciato il marito, sarebbe  ritornata a Recco col treno.

“Per noi si trattava davvero di una seconda luna di miele, che ci avrebbe dato una riserva di felicità  per chissà quanti altri mesi ancora. In quei tempi ormai lontani, gli imbarchi duravano anni”. Ci racconta la signora Luigia con gli occhi velati di commozione.

La T/N Miraflores dell’Armatore Cameli, era una moderna unità di disegno italiano, orgoglio della cantieristica genovese che aveva già costruito, della stessa classe, le velocissime gemelle: Argea 1°, Polinice,  Fina Canada e  Fina Italia, sulla quale, proprio in quel periodo, l’autore era imbarcato.

 

Nave

ABADESA

Bandiera

Inglese

 

 

Stazza Lorda

20.000

Lungh.x Largh.

 

Varo

Vel.

MIRAFLORES

Panama

20.776

200 x 26    mt

1958

16,5

 

I Fatti

Era il 25 febbraio 1963. Le due petroliere, l’italiana Miraflores e l’inglese Abadesa, navigavano con rotte opposte sul fiume Schelda. La prima risaliva il fiume, la seconda scendeva con la corrente in poppa. Ma lasciamo al direttore di macchina della Miraflores, Vittorio Massone di Recco, sopravvissuto miracolosamente a quel tragico incidente, il racconto di questa eccezionale quanto “agghiacciante” testimonianza:

“Era una giornata fredda ma chiara. Il fiume era cosparso qua e là di ghiaccio e la sua temperatura era -2°.

Sicuramente anche la Abadesa, di stazza simile alla nostra, era assistita dal personale specializzato del fiume. La nostra navigazione procedeva con difficoltà tra le anse del fiume a causa di una forte corrente di marea.

Mia moglie era vicina all’oblò del mio studio e stava osservando il piatto panorama che scorreva sulla nostra destra, ad un tratto disse: “ Ma lì c’è una nave che ci viene addosso!”

Ovviamente diedi importanza a quelle parole, anche se pronunciate da una donna senza esperienza specifica e corsi subito all’oblò dove arrivai in tempo per vedere una grossa petroliera che, con discreta velocità, ci stava abbordando al traverso.

Sentii il tipico rumore dell’ancora e della catena “sparata”  in acqua d’emergenza.

Il Comandante ed il Pilota avevano tentato disperatamente d’accostare a dritta per vincere la corrente contraria. Niente da fare, la manovra d’emergenza fu inutile!

La fortissima corrente proveniente dalla curva a gomito del fiume ci teneva inesorabilmente traversati sulla rotta discendente della Abedesa. La nostra nave era carica e per meglio tenersi in  rotta doveva mantenere un certo abbrivo.

Peso e velocità  hanno probabilmente impedito alla Miraflores d’accostare a dritta facendo perno sull’ancora. L’impossibile manovra aveva lo scopo di presentarsi prora contro prora, onde evitare danni estremi, come il possibile affondamento”.

- Direttore cosa ha provato in quei momenti ?

“Non ci sono parole per descrivere il terrore che ti assale quando vedi la morte negli occhi e non hai nulla da fare e da dire. Ti senti paralizzato dalla tua stessa impotenza”.

- Dove vi colpì l’Abadesa?

“La Abadesa ci colpì all’altezza del ponte di comando e ci fu subito una grande esplosione. Vidi la lancia di salvataggio volare tra le fiamme a decine di metri”.

- Come reagì sua moglie?

Presi mia moglie per un braccio, e di corsa l’accompagnai a poppa, all’esterno fuori del cassero e le dissi: “rimani qui, io vado in macchina ed appena posso torno”. Lei mi rispose: “Vitto non mi abbandonare!” Nello scendere in macchina incontrai il terzo macchinista, un giovane ragazzo di Camogli, e lo mandai a poppa raccomandandogli di pensare anche a mia moglie.

- Il vero pericolo non fu l’affondamento, ma forse l’incendio e le esplosioni a ripetizione?

Sicuramente! Infatti tentammo con ogni mezzo di bloccare l’incendio a centro nave, ma tutto fu inutile, come pure fu vano il tentativo di ammainare la lancia di sinistra, anch’essa avvolta ormai dal fumo e dalle fiamme. Fu proprio allora che il Comandante, dopo aver fatto sistemare due biscagline fuori bordo, una per lato a poppa, disse che dovevamo gettarci in mare.

- L’incendio a bordo di una nave è il sinistro peggiore che possa capitare e quando capisci che l’aria che respiri è veleno che ti sta soffocando, allora scegli di buttarti mare come una liberazione!

Infatti, quando arrivò il mio turno dissi a mia moglie di scendere alcuni scalini e poi di saltare in mare. Ci buttammo allora in quelle acque gelide dove alcuni sparirono tra le fiamme, altri annegarono intossicati oppure rimasero incastrati e morirono assiderati tra le formazioni di ghiaccio che scendevano veloci e taglienti verso l’estuario del fiume.

- Riuscì a mantenere il contatto con sua moglie?

Luigia aveva indossato il giubbotto-salvagente; io invece indossavo un semplice maglione ed il gelo presto mi bloccò i movimenti. Con altri naufraghi eravamo vicini in quella zona, ma qualcuno, privo di salvagente era già scomparso …Stavo alla sinistra di mia moglie ed  il mio naso era appena  fuori dell’acqua, respiravo a fatica e mi sentivo paralizzato. Fu allora che mi accorsi che era mia moglie a tenermi a galla. Luigia, con una mano  aveva afferrato il girocollo del mio maglione, non so chi le dava tanta forza, ma riusciva a tenermi con grande calma al suo fianco.

- L’eccezionale coraggio di sua moglie non solo la salvò fisicamente, ma forse gli diede anche la forza di reagire con la giusta determinazione e lucidità fino all’arrivo dei soccorritori?

Quando mi resi conto che il suo salvagente ci faceva galleggiare tutti e due, le misi una mano sulla spalla e sentii ritornare la vita, la forza, il coraggio di reagire in mezzo alle lingue di fuoco che ci lambivano e le lastre di ghiaccio tagliente che minacciavano d’investirci. Infatti  il nostro recupero fu lungo e difficile perché il vento cambiava continuamente direzione ci allontanava e ci avvicinava continuamente alle fiamme.

Fummo salvati da un peschereccio che nel recupero rischiò d’incendiarsi……e di esplodere anche lui. Io devo la vita a mia moglie Luigia che, con grande freddezza e raziocinio, non mi perse mai di vista e nuotò per trovarsi sempre nel punto giusto al momento giusto e continuò ad incoraggiarmi parlandomi ed impedendomi di perdere i sensi.

- Ci racconti l’epilogo di questo drammatico salvataggio.

Fummo sbarcati sul litorale più vicino, quello di Rilland-Bath un piccolo paese sulla costa olandese, e quindi trasportati di peso nel loro centro sociale, dove la Croce Rossa e gli stessi abitanti avevano già portato mucchi d’indumenti. A me toccò una calda tenuta da pescatore, completa dei caratteristici zoccoli di legno. Potemmo anche fare la doccia e liberarci del petrolio dei capelli aveva fatto un unico e del viso una maschera nera. Lì cominciammo a contarci ed a scambiarci notizie ed informazioni e presto ci prese una grande angoscia: non erano più tra noi il comandante, il primo ufficiale, il terzo macchinista, il caporale di macchina, l’operaio meccanico, il cameriere del comandante, due fuochisti ed il garzone di cucina. Dell’equipaggio mancavano nove persone.

I liguri mancanti all’appello furono: il Comandante Giacomo Verardo, il 3° Macchinista G.B. Rovegno di Camogli, A. Passeri di La Spezia, A. Africano di Genova, E. Grandi di Lerici.

La nave non affondò, ma subì un disastroso incendio. In seguito fu rimorchiata presso un cantiere dove rimase per molti mesi per una necessaria ricostruzione.

Siamo giunti alla fine del racconto e un forte dubbio ci assale: siamo stati all’altezza di questo fantastico esempio di “virilità femminile”?

ALBUM FOTOGRAFICO

La T/n MIRAFLORES assistita dai rimorchiatori dopo la collisione con la cisterna ABEDESA.

T/n MIRAFLORES subito dopo la collisione sul fiume Schelda parzialmente ghiacciato

MIRAFLORES dopo la collisione

M/c ABADESA In bacino

M/c ABADESA In navigazione

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 11.02.12

 



LO YAWL DI MUSSOLINI SI AUTOAFFONDO’ A RAPALLO NEL 1943

 

LO YAWL DI MUSSOLINI

SI AUTOAFFONDO’ A RAPALLO NEL 1943

 

Yacht di 23,70 metri di lunghezza e 4,70 di larghezza, e 40,70 tonn. di stazza. Fu costruito nel 1912 in Germania con legno di teak stagionato e mogano, alberi e bompresso in pitch pine e scafo foderato in rame. La sua linea era e resta elegante e decisa, con un lungo slancio di poppa a cui se ne contrappone uno di prua corto e arrotondato, in onore dell’architettura nautica dell’epoca. Accogliente e raffinata dentro, agile e possente fuori.

Lo “YAWL” KONIGIN II fu costruito nel 1912 dai cantieri tedeschi Abeking & Rasmussen per i Barone Von Dazur.

Dopo aver passato la prima guerra mondiale nel porto della Maddalena, il gerarca fascista Alessandro Parisi Nobile, fedele amico del Duce, lo acquistò nel 1935 e lo ribattezzò FIAMMA NERA e lo donò a Mussolini. Il Duce, come si sa, era un aviatore e tante altre cose, ma non era un uomo di mare con progetti croceristici e lo utilizzò per i suoi incontri più o meno segreti con la sua amante storica Claretta Petacci senza mai allontanarsi troppo dalla costa.



Momenti di relax prima della tempesta...

Alla vigilia della caduta del regime, in quel demoniaco passaggio storico, Fiamma Nera fu affondata dal suo armatore davanti a Rapallo per impedire che finisse nelle mani dei tedeschi o degli americani, ma con l’intento e la speranza fondata di recuperarlo a “tempesta” passata.

Si tratta in fondo di usare le stesse parole: tempesta (bellica), Yacht affondato, relitto e recupero che oggi, a distanza di 75 anni, usiamo per decifrare la recente “apocalisse” che ha colpito la nostra città tra il 28 e il 29 ottobre 2018.

Nel 1943 fu un affondamento astutamente programmato e scientificamente realizzato. Questa fu l’unica e sostanziale differenza tra quel naufragio volutamente provocato e la tempesta naturale che ha colpito, come mai era successo prima, la nostra città.

La scaltra iniziativa del Conte Sereni funzionò e lo YAWL fu recuperato nell’immediato dopoguerra, quindi restaurato e rinominato SERENELLA. Nel 1956 fu comprato dal Principe Cremisi che lo ribattezzò ESTRELA DE GUARUJA’.

Per completare la sua storia possiamo solo aggiungere che l’imbarcazione rimase fino al ‘62 ormeggiata a Fiumicino ed impiegata come nave-scuola dal Circolo della Vela di Roma. Negli anni '70 fu acquistata dall'ingegner Fonsi che la portò a navigare in Adriatico. Nel 2002 ricomparve in precarie condizioni a Viareggio dove tornò agli antichi splendori e fu anche attrezzata della più moderna strumentazione grazie a un progetto di tre amici: Augusto Gori, Carlo Meccheri di Pietrasanta e Giorgio Mazzoni. Nello stesso anno prese parte alle Vele d’Epoca di Imperia e venne noleggiata dal Cts Ambiente per una campagna di monitoraggio delfini nel Mare Tirreno, sino all’ultimo restauro (2006-2010) a Fiumicino.

Qualcuno si chiederà: “chissà se il FIAMMA NERA fu testimone di successivi incontri amorosi di celebri coppie sulle orme nostalgiche del Duce e della Petacci”?

Si parla di un matrimonio mancato: George Clooney e Elisabetta Canalis avrebbero voluto sposarsi sulla barca del Duce, ma sono voci di corridoio che nessuno ha mai confermato.

Il KONIGIN II sta oggi vivendo il suo ennesimo restyling guardando ad una nuova vita con il supporto del prestigioso Duck Design e dell’antico Cantiere tedesco che lo costruì nel 1912.

ALCUNI RICORDI DEL COMANDANTE

NUNZIO CATENA

ORTONA

Zì Tumassin ripreso mentre cuce una vela a bordo dell’ESTRELA


l'Ingegnere ci teneva moltissimo a conservare sia il look che le tradizioni di quella barca famosa. Aveva alle dipendenze "Zì Tumassin" (di 'Pizzicarello', nomignolo), un anziano ma esperto marinaio in pensione che la curava come fosse, e di fatto lo era, una sua creatura.

Ricordo che a bordo della ESTRELA, una troupe della RAI aveva girato anche un filmato pubblicitario per il celebre Carosello con la cantante 'Giovanna' in auge a quel tempo.

 


Questa foto, con lo scafo bianco, é stata scattata nel porticciolo turistico di Ortona.

La ESTRELA, aveva uno scafo dalle linee meravigliose, ed anche gli interni erano molto raffinati: bellissima la coperta sgombra e con pochissima sovrastruttura. Se devo essere sincero, non mi piace armata con la vela MARCONI all'albero di maestra, molto più bella si presentava con le vele auriche, ma era più impegnativa da governare; quello fu forse il motivo per cui  la cambiarono.
Quando arrivò dal Mar Tirreno da noi in Adriatico, aveva il bompresso e la polena sfasciati completamente, perché durante il trasferimento, a causa della nebbia, erano andati a sbattere contro una scogliera a picco, per fortuna non ebbero danni allo scafo e poterono proseguire il viaggio senza interventi esterni.

Carlo GATTI

Rapallo, 4 Gennaio 2019


IL MUSEO MARINARO DI CHIAVARI INVITATO A VIENNA

di Ernani ANDREATTA

Ottobre 2017

Festa Nazionale Austriaca

CRONACA DELLE GIORNATE A VIENNA PER LA COMMEMORAZIONE DEI CADUTI IN MARE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

1) Siamo partiti in pulmino da Chiavari, diretti a Vienna,  in 8 persone al mattino presto di Martedi 24 Ottobre. Autisti d'eccezione Enrico Paini e Francesca Perri. Arrivati benissimo al Cordial Apartment di Vienna,  dopo 12 ore di viaggio,  passando dal passo del Tarvisio con un tempo splendido.

Subito accolti alla sera da Hans Bernardy un amico e incaricato del Presidente O.M.V. Osterreich Marine Verband,  Colonnello Professor   Karl Skrivanek,   ci siamo recati nella sua suggestiva casa per un aperitivo con vino prosecco. Nel tragitto non è mancata una rapida visita alla famosa Chiesa di Santo Stefano.

2) La casa di Skrivanek è un vero museo di ricordi della sua vita manageriale nel settore dei turbo generatori.  Con  accanto la gentile signora Maria Teresa che parla italiano, in quanto nata da nobile famiglia italiana, c'è tutta la personalità di un uomo che ha vissuto nel mondo  con grande successo il campo militare e imprenditoriale e che poi si è dedicato a mantenere viva la memoria  della Grande Marina Austro Ungarica dove, come spesso ricorda lo stesso Karl,  in quelle navi si parlava anche il dialetto veneziano.

A tal proposito vale la pena ricordare che il grido di battaglia dei Marinai Austriaci era l’italianissimo "Viva San Marco" !

3) I preliminari del giorno prima alla Festa Nazionale Austriaca sono stati una rapida visita a questa splendida città ricca di cultura, di arte e anche di storia legata al mare.  Non poteva mancare un giro di Vienna di circa due ore in un suggestivo BIG BUS a due piani dove, tra le tantissime cose viste e spiegate  ci appare  una enorme statua all'ammiraglio austriaco Wilhelm von Tegetthoff, nato a Marburgo nel 1827 e deceduto a Vienna nel 1871, artefice della vittoria della flotta austriaca nella Battaglia di LISSA. Tegetthtoff è considerato un simbolo della Marina Austro-Ungarica e nel 1896 è stato costruito questo imponente monumento alla sua memoria,  alto 11 metri,  che ha una statua  di tre metri e mezzo.

4) Dopo  una visita d'obbligo al mercato gastronomico orientale all'aperto  di Vienna   si è arrivati a sera.  A cena  c'è stata la presentazione informale dei marinai provenienti da altre nazioni come  Ungheria, Cecoslovacchia, Germania e naturalmente Croazia, con una nutrita delegazione di Austria e  Italia.

Facevano parte del nostro gruppo anche  il Magister Leslie Czyzyk, proveniente dall'Ungheria, il  diplomatico Ingegner  Milan Hala della Repubblica Cecoslovacca,  il Dottor Professor Heinrich Wallnofer di Vienna e il Generale di Brigata "retired" Magister Edwin Wall presidente dei modellisti di Vienna.  Erano altresì presenti il  Colonnello Marco Sonnenwald "Attaché della German-Defence".
5) L'ambasciata Italiana era rappresentata da Maurizio Rubino che rappresentava l'OSZE cioè l'Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa e dal console dell'ambasciata Croata a Vienna Branimir Loncar in rappresentanza dell'Ambasciatore.

E qui una riflessione  è necessaria. Venezia, così come Segonzano in provincia di Trento,  soltanto nel 1866  entrò a far parte del Regno d'Italia e l'annessione fu sancita  dal plebiscito del 21 e 22 ottobre 1866 appunto, che vide vincere il sì con maggioranza assoluta dei voti favorevoli dell'elettorato attivo.

Giuseppe Andreatta, nonno di Ernani,  nato appunto a Segonzano nel 1857  sancisce le origini Austro Ungariche di Andreatta da parte di padre,  oltre che liguri da parte di madre,  Adele Gotuzzo,  la cui famiglia era originaria  di Recco in Liguria.

6) Ed ora entriamo nel vivo e nel cuore della manifestazione.

Il 26 Ottobre una  delegazione Italiana  ha presenziato alla commemorazione della festa Nazionale Austriaca e alla commemorazione dei caduti in mare della prima guerra mondiale indipendentemente dalla loro nazionalità. L'evento, organizzato dal Presidente  Karl Skrivanek è stato  molto scenografico e curato nei dettagli.

7) Oltre  al Colonnello Professor Ingegner Karl Skrivanek Presidente O.M.V. Associazione  Marinai Austriaci,  erano presenti l'Arciduca Markus di Asburgo Lorena o  Habsburg-Lothringen per dirlo alla tedesca;  l'Arciduchessa  Ulrike di Asburgo Lorena e  gli Arciduchi Herta Margarete  e Sandor  d'Asburgo Lorena depositari e promotori della Fiamma della Pace, che nel Maggio 2017,  è stata conferita a Chiavari, alla Dottoressa Simonetta Pettazzi. Presenti anche la Signora Sabine Wegleitner, coordinatrice dei vari spostamenti degli ospiti,  con il piccolo e simpatico figlio Samuel che è stato  fiero di poter parlare qualche parola di Italiano.

Lo sforzo organizzativo da parte di Skrivanek è stato ripagato dal grande successo della partecipazione di autorità sia viennesi che europee.

8) Ecco l'elenco degli ospiti Croati provenienti da Pula o Pola con Marino Popov e  capitanati dal Presidente dell’Associazione Fucilieri di Marina Croati “ VANGA” di Pola,  che parla un perfetto Italiano,  Comandante Karlo Godina, poi quelli provenienti da Split / Spalato e quelli provenienti  da Dubrovnik/Ragusa

e naturalmente quelli Italiani provenienti da Chiavari.

Erano presenti come curatori del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta

  • il suo fondatore Comandante Ernani Andreatta accompagnato dalla moglie Dottoressa Simonetta Pettazzi.
  • Il "Deep Diver"  o palombaro ad alta profondità Giancarlo Boaretto accompagnato dalla moglie Paola Ferraris.
  • L'esperto "Marinaio e storico" Enrico Paini
  • la Signora Francesca Perri organizzatrice di eventi e bravissima  fotografa che ha narrato in immagini tutta la spedizione.

Per Santa Margherita Ligure e Portofino erano presenti il Presidente dei Marinai d'Italia, ANMI, Luciano Cattaruzza ex sommergibilista e la moglie signora Rosa Capurro.

9) In rappresentanza dell’Associazione Nazionale Arditi Incursori di Marina, ANAIM,  dalla Spezia,  era presente il Cavalier Stefano Foti, già Tenente della riserva, insignito della Croce di Cavaliere della Repubblica e  della Croce d’oro al Merito di Marina “Marine-Kreuz” austriaca

e  soprattutto un grande appassionato di Storia Marinara, promotore della presenza  Italiana a Vienna anche nello scorso 2016,  oltre che nel 2017.

Il Capitano di Fregata Massimiliano Pennisi, della Scuola Telecomunicazioni Forze Armate di Chiavari che ospita il Museo Marinaro, già presente a Vienna per vacanza, si è unito dietro nostro invito al nostro gruppo di rappresentanza. Il Presidente Karl Skrivanek  ha donato alla coppia Andreatta Pettazzi un significativo quadretto ovale con una stampa augurale per il loro recente matrimonio mentre l'Arciduca Markus D'Asburgo Lorena  ha donato una tazza o "mug" con raffigurati il Kaiser Francesco Giuseppe Primo e la "Kaiserin" Elisabetta  con una interessantissima e preziosa pubblicazione sulla storia di Elisabetta, Imperatrice d'Austria.

10) Nella  mattina di giovedi 26 ottobre, alle 07.30 ci siamo recati tutti nella bellissima Chiesa di San Michele dove è stata officiata la Santa Messa dai cappellani militari Ortodossi e Cattolici tra i quali,  Il generale di Brigata  dell'esercito austriaco  e Diacono ortodosso Magister Roman Fischer,  Pater Erhard Rauch parroco di San Michele, il Diacono Colonnello Wilhelm Hold e il Cappellano militare ortodosso Vater Alexander DDDr Lapin.  La Santa Messa è stata accompagnata dall'orchestra di 4 elementi della O.M.V.,  di soli ottoni,  molto suggestiva.

Appena terminata la Santa Messa il Presidente dei Marinai Austriaci Karl Skrivanek ci ha guidati nel cortile di Palazzo Imperiale dove abbiamo assistito allo schieramento di numerosi plotoni di soldati delle Forze Militari Austriache per il giuramento di  1300  nuove reclute.

11) Erano presenti nel nostro gruppo guidato da Skrivanek anche gli addetti civili e militari dell'ambasciata Italiana a Vienna.

Nel cortile di Palazzo Imperiale si incontravano spesso simpatici personaggi che indossavanao storiche divise d'altri tempi. E' stato un vero privilegio e soddisfazione essere sempre nella prima fila di questo importante evento dato che il Presidente  Skrivanek ci  aveva  munito tutti di uno speciale lasciapassare per accedere ai migliori posti proprio davanti alla bandiera Austriaca poi issata nel cerimoniale del giuramento.

12) Come vediamo nelle immagini erano presenti sia il Presidente della Repubblica  Austriaca Alexander Van Der Bellen e il Cancelliere Federale Christian Kern che i nuovi eletti del Governo Austriaco e cioè l'astro nascente di soli 31 anni Sebastian Kurz con i vari ministri collegati. La nostra prima fila ci ha consentito di vederli e filmarli molto da vicino ed il Ministro Federale della Difesa e Sport , Hans Peter Doskozil,   si è persino fermato a parlare e scherzare con il piccolo Samuel.

La posizione era veramente privilegiata e così abbiamo assistito  ad una straordinaria cerimonia del Giuramento delle Reclute delle quali vi proponiamo alcuni brevi ma intensi filmati nella loro  bellissima e suggestiva esecuzione. Il tutto termina con il lancio di paracadutisti l'ultimo dei quali faceva sventolare  la bandiera Austriaca.

13) Dopo le  marziali  parate militari veniamo invitati, sempre nel privilegio del lasciapassare fornito da Karl Skrivanek, a entrare  nei locali del Palazzo Imperiale dove ci viene offerto un buffet self service a base di "zuppetta" di Goulash molto gustosa,  pane e naturalmente vino birra e altre bevande a volontà.  Un buffet riservato  soltanto ai VIP dove senza lasciapassare, non si poteva accedere.

14) Verso le 13.30, ci rechiamo nuovamente nella chiesa di San Michele, molto vicina a Palazzo Imperiale dove si è  svolta la nostra cerimonia legata al mare. Una  toccante celebrazione  all'altare maggiore con il suono di un quartetto di ottoni con il "Bandleader" della O.M.V. Reinhold Nowotny che intona alcuni suggestivi brani tradizionali di mare  come  "Avevo un Compagno" e il commovente "Silenzio" .

Quindi Stefano Foti ed Ernani Andreatta hanno l'onore di portare, per l'Italia,  la corona in memoria dei Caduti della Prima Guerra Mondiale.   Insieme a quelle,   con la Bandiera Tedesca e  Croata ci rechiamo nella sacra cappella "detta dei Marinai" della  Kriegsmarine Austro-Ungarica, per depositarle ai piedi dell'altare accompagnati dalla Bandiera dei Marinai dell'O.M.V Osterreich Marine Verband e il Gonfalone del Museo Marinaro di Chiavari

Nelle diverse lingue, vengono letti alcuni passi della Bibbia secondo San Luca 8  Salmo 22 e Salmo  25.  Così,  Il presidente ANMI Luciano Cattaruzza,  per gli Italiani recita "Gesù ha calmato la tempesta in mare" mentre Enrico Paini legge il Testo Marinaro del Salmo 25, "Il Signore è il mio destino". Tra i presenti  vengono accese  le speciali e tradizionali candeline commemorative.

15) Dopo queste suggestive cerimonie, l'organizzazione di Karl Skrivanek ci fornisce un pullman per recarci all'imponente Museo dell'Arsenale e di Marina

dove, dopo  una breve visita al piano superiore ci rechiamo nella sala audizioni per ricevere il benvenuto dal "Deputy Director"  dottor Thomas Reichl a nome del Direttore Dottor Christian Ortner. E' una visita importante che potrebbe aprire a potenziali cooperazioni con il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari.  Tra l'altro l'O.M.V., l'Associazione Marinai Austriaci,  ha organizzato una mostra di  libri speciali e  modelli navali allestita da Ernst Oppel.

16) Le varie nazionalità si alternano nell'esposizione di brevi filmati o conferenze sulle proprie attività. Non essendo purtroppo presente il Presidente dell’Istituzione dei Cavalieri di Santo Stefano, Commendator Ascani, trattenuto a Pisa per seri imprevisti,  Stefano Foti, su suo  specifico mandato, presenta una serie di slides sull’Ordine Militare di Santo Stefano, sulla  Istituzione e sull’Accademia di Marina. Dopo il ringraziamento del Colonnello Skrivanek, che è divenuto Accademico di Marina nel 2017,  nonchè primo straniero ad essere nominato tale, Stefano Foti passa a presentare le immagini sull’Associazione Nazionale Incursori, sulla storia dei mezzi di assalto e sulle forze speciali della Marina , per terminare con un filmato sulla Marina Militare Italiana di ieri ed oggi, che riscuotono vivo interesse e apprezzamento da parte dei presenti . A seguire  Ernani Andreatta porge il suo saluto con alcuni commenti sulla sua attività di appassionato "Storico e Marinaio", fondatore di un apprezzato Museo Marinaro e  presenta un filmato dello stesso in una edizione in tedesco preparata per l'occasione,  che riscuote molti applausi e consensi.

17) Quindi Karl Skrivanek presenta alcune fotografie della sua recente visita in Croazia ospite del Comandante Karlo Godina.

La giornata termina con una cena nel ristorante dell'Arsenale con Servizio a Buffet e vino croato offerto dai marinai presenti.

Prima del commiato e i saluti di rito si passa al conferimento dei  Crest del Museo Marinaro, tre  filmati e la pubblicazione dedicata a Giuseppe Pettazzi per  la sua costruzione nel 1938 della Stazione di Servizio della Fiat Tagliero di Asmara in Eritrea diventata patrimonio dell'Umanità dell'Unesco.

Di tali conferimenti vengono insigniti  Markus D'Asburgo e Lorena  Herta Margarete e Sandor D'Asburgo e Lorena  il Generale di Brigata "Magister" Edwin Wall, presidente dei Modellisti di Vienna, Stefano Foti, delegato ANAIM La Spezia  e naturalmente  Karl Skrivanek.

A Karlo Godina,  da parte sempre del Museo Marinaro,  viene donato il libro sulla vita e le imprese di Enrico Millo firmato dai due autori presenti Andreatta e Paini. Il Museo Marinaro riceve in cambio il Crest "VIRIBUS UNITIS" da Parte del Professor SKRIVANEK.

Luciano Cattaruzza, Presidente dei Marinai d'Italia di Santa Margherita e Portofino ha donato il bellissimo  Crest dell'Associazione al Professor Karl Skrivanek.

18) Il Cavalier Stefano Foti ha donato  libri sugli Arditi Incursori di Marina  agli Arciduchi Markus e Sandor, al Presidente Godina e al Comandante Ernani Andreatta, mentre al Colonnello Skrivanek ha donato un raro libro sul centenario della storia della OTO MELARA ove il colonnello aveva lavorato molto tempo fa per conto dell’Esercito Austriaco.

Ci sembra opportuno, seguendo anche la traccia di questa pubblicazione "Viribus Unitis"  donata da Karl Skrivanek,  spiegare la  commemorazione legata ai caduti in mare dato che da molti anni l'Austria non possiede più porti di approdo per le navi.

19) Nel Novembre del 1918 la bandiera della Kriegsmarine fu abbassata, con evidente tristezza,  per l'ultima volta in una nave di Sua Maestà nel porto di Pola. Sino a quella data l'orgogliosa flotta della Marina Austro-Ungarica  si trovava nei porti di Trieste, Pola, Fiume e Venezia. Sino a quel giorno la flotta dell'Impero Austro Ungarico non era da meno di quelle della Gran Bretagna, Francia e Italia.

Molti libri, musei ed edifici ci ricordano ancora oggi questo periodo di storia e la grande epoca della dinastia degli Asburgo.

Come lo stupendo  castello del Miramare residenza dell'Arciduca  Massimiliano che diventò addirittura imperatore del Messico ma fu poi fucilato dai rivoluzionari della Repubblica Messicana. Da non dimenticare il Palazzo dei Loyd a Trieste e l'ampliamento del porto stesso così come i Cantieri Navali che tra il 1911 e 1912 costruirono le imponenti navi da battaglia VIRIBUS UNITIS, TEGHETTOFF e PRINZ EUGEN.

20) Nel 1798, Venezia, città dei Dogi, divenne  possesso degli Asburgo e ancora oggi troviamo nel suo Museo Storico Navale le ancore delle Corazzate Teghettoff e Viribus Unitis. Moltissimi sono  gli edifici storici a Trieste, Pola, Fiume e Venezia,  che ricordano il periodo Asburgico in queste città che una volta erano i loro porti per l'ormeggio della navi della loro "Grande Marina".

Dopo la perdita di Venezia nel 1866 la Marina Austriaca si spostò nel porto di Pola.

21) L'ultima bandiera da guerra della Kriegsmarine austriaca si trova ormai in un Museo, ma il 26 Ottobre abbiamo visto le riproduzioni di tale bandiera issate che vogliamo definire  "Simboli di Pace" invece che "Bandiere di Guerra" .

E così termina questo indimenticabile giorno dedicato al ricordo della Grande Storia della Marina Austro Ungarica e un senso di nostalgia pervade il cuore di tutti i presenti. I Marinai sono fatti così! La nave è pur sempre una loro casa !

Il mattino dopo si riparte. Il venerdi 27 Ottobre  ritorno,  sempre in pulmino,  con alla guida ancora Enrico Paini e Francesca Perri. Ma questa volta si è deciso di passare dal Brennero. Scelta non molto felice dato il traffico intenso,  così come la pioggia che ha mandato a monte un tentativo di sosta a Salisburgo.  Ma,  in tutta sicurezza,  alle ore 23 del 27 Ottobre siamo tutti a casa a Chiavari e Santa Margherita Ligure.

22) Il Gonfalone e Labaro del Museo Marinaro è stato sempre presente nei momenti più significativi della nostra visita a Vienna. La sua origine "medioevale e costantiniana" adottata come insegna da molte associazioni militari e civili, che contempla il  Timone d'Oro e Medaglie di Lunga Navigazione conferite  ai Comandanti Andreatta Ernani Senjor  e Junior, Croci dei Cavalieri di Santo Stefano conferite nel passato ai  Gotuzzo,    Fiamma della Pace conferita a Simonetta Pettazzi  e altre importanti onorificenze,  vuole rappresentare il Museo come ideale centro di raccolta per chi crede nella  fede della cultura del mare, della storia e del ricordo.

23) Il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta conosciuto ora anche in  Austria, Croazia, Germania e Ungheria e Cecoslovacchia è orgoglioso di questa visita dedicata  a  tutti i Marinai Caduti in Mare della prima guerra mondiale proprio nel giorno della Festa Nazionale Austriaca del 26 Ottobre 2017.

Il senso di Viribus Unitis, cioè "Tutti Uniti"  o "Tutti Assieme" è anche questo,

Buon Vento, Buona Fortuna e Buona Compagnia per il Futuro.

FINE

Un DVD del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari

Testi di Ernani Andreatta

Collaborazione di Karl Skrivanek ,  Stefano Foti ed  Enrico Paini

Rapallo, 3 Novembre 2017

ALBUM FOTOGRAFICO