IL PORTO DI GENOVA ALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
RIVISTA
MARITTIMA
MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
IL PORTO DI GENOVA ALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
Per gentile conssione degli Autori:
E.BAGNASCO - A. RASTELLI
Si consiglia di usare i tasti: VISTA-INGRANDISCI per ottimizzare la lettura del saggio.
Ringrazio sentitamente gli AUTORI Erminio Bagnasco ed il compianto Achille Rastelli per averci lasciato questo importantissimo DOCUMENTO STORICO che illustra la realtà di totale abbandono e sfascio in cui si trovò il maggior Porto Italiano alla fine della Seconda guerra mondiale.
A cura del webmaster CARLO GATTI
Consulente Storico dott. MAURIZIO BRESCIA-Direttore della Rivista:
STORIA MILITARE
Rapallo, 20 Gennaio 2017
CHIAVARI - RIONE SCOGLI
UN MONITO PER NON DIMENTICARE....
La fotografia (sotto) ritrae i PANNELLI che il Comandante Ernani Andreatta, ha già l'autorizzazione Comunale, esporrà in Piazza Gagliardo in modo permanente, per ricordare ai passanti la splendida Storia del suo Rione Scogli.
Brigantino a palo “Fido” costruito da Francesco Gotuzzo a Chiavari in Ciassa di Barchi e varato nel Settembre 1861. I grandi Velieri varati dai Gotuzzo a Chiavari nel Rione Scogli furono oltre 120, da Matteo Tappani "u sciu Mattè" 55 e da altri costruttori circa una trentina.
Chiavari - 1904 - Cantiere Navale Gotuzzo
La nave Goletta “Luisa” è quasi pronta al varo. Questo tipo di veliero, per la sua ottimale velatura veniva chiamato dagli inglesi “best bark”. I genovesi storpiarono il nome in “barco bestia”
Affinché il Rione Scogli conservi la sua memoria storica e marinara
Sala Storica del Museo Marinaro
Tommasino-Andreatta
presso la Scuola Telecomunicazioni FF.AA.
Via Parma, 34 – Chiavari
PIAZZA DAVIDE GAGLIARDO
un tempo chiamata
«CIASSA DI BARCHI»
1° Pannello
Su questa piazza e in quest'area del Rione Scogli, nei Cantieri Navali Gotuzzo, furono costruiti e varati, tra il primo '800 e il 1935, da Francesco Gotuzzo detto «Mastro Checco» (1808- 1865) il capostipite, da suo figlio Luigi (1846-1919) e dal nipote Eugenio detto «Mario» (1883-1935) oltre 120 grandi velieri: 11 Brigantini, 41 Brigantini a palo, 32 Brigantini Goletta, 7 Navi Goletta, e 30 tra Bovi, Rimorchiatori, Chiatte, Leudi e grosse barche da trasporto. Quando «Mastro Checco»morì nel 1865, come da liquidazione ereditaria del 25/4/1866 aveva ben 9 Velieri in costruzione sugli scali di questo Rione. Due quinti di tali costruzioni vennero assegnati a Matteo Tappani, «u sciu Matté» (1833-1924), per l'assistenza prestata nella costruzione e tre quinti a Luigi Gotuzzo. Matteo Tappani imparò quindi l’arte della costruzione Navale dal suocero «Mastro Checco», avendone sposato la figlia Giulia. Negli anni seguenti, Tappani vi costruì oltre 55 grandi velieri: 35 Brigantini a palo, 9 Brigantini Goletta, 4 Navi Goletta, e 7 tra Bovi e Leudi. Una trentina di grandi velieri furono costruiti dai Briasco, Brigneti, Piceni Gessaga, Sanguineti, Beraldo e Raffo: 6 Brigantini, 2 Brigantini a palo, 4 Brigantini Goletta, e 18 tra Leudi e Bovi. In totale più di 200 velieri presero il largo da questo Rione per rotte in tutti i mari del mondo.
La tradizione cantieristica di maestri d’ascia e calafati continuò nel dopoguerra con costruttori di gozzi e imbarcazioni da diporto. Dopo «l’Epoca Eroica della Vela», verso gli anni ‘30, la Piazza cambiò tipologia diventando sede di famiglie di pescatori e, nel gergo popolare, venne così denominata:
Ciassa di Barchi - 1889 - Varo del Brigantino a palo “Nemesi” dai Cantieri Navali dei Gotuzzo che a quel tempo costruivano proprio sulla Piazza Gagliardo
PIAZZA DEI PESCATORI «CIASSA DI PESCÖI»
Rione Scogli - 1912
La ferrovia è già stata deviata a monte in seguito a terribili mareggiate che ne avevano compromesso la sicurezza. In primo piano il ricovero Torriglia. Le cosidette “Case Canepa” sulla destra della foto, di lì a pochi anni saranno tutte abbattute dal mare. Notiamo il Cantiere Navale dei Gotuzzo con un veliero in costruzione. Le dieci case di Corso Valparaiso (già Via Olearia) stanno per essere completamente demolite. Corso Buenos Aires, alla sinistra della ferrovia, è appena tracciato.
Rione Scogli - I “Seroi” (segantini)
Quando non esisteva ancora la forza motrice le tavole, ricavate da pesanti tronchi, venivano segate a forza di braccia dai segantini che usavano una speciale sega a quattro mani detta anche “31”. Nella foto, abbiamo riconosciuto Adriano Leoni (in alto) e Checco Pastorino Tacchetti.
2° Pannello
RIONE SCOGLI
COM’ERA E COME SI VIVEVA
Scriveva Vittorio G. Rossi, noto giornalista e scrittore: il mare parla, “nessuno sa cosa dice, ma lui parla”. Questo agli “Scogli” lo hanno sempre saputo, o meglio lo hanno sempre sentito nel cuore.
Il mare continua a mandare messaggi con i suoi odori, che cambiano quando cambia il vento, con i suoi colori, che specchiano il cielo, con il rumore delle sue onde, con il suo moto incessante che
incanta i nostri occhi stupiti nella varietà delle sue forme, del fluire e del rifluire, del frangersi e del ricomporsi. Ed il mare qui agli “Scogli”, è sempre lo stesso, ma il Rione, la piazza e le spiagge sono cambiati profondamente nel tempo.
Piazza Gagliardo - 1886 - Impostazione della chiglia del Brigantino a Palo “Nemesi”
Notare sulla destra le “case Raffo” costruite nel 1815. Ben dieci di questi edifici furono distrutti dalle mareggiate tra il 1821 e il 1913. Sulla sinistra l’edificio dove era ubicata la trattoria di Pastorino Tacchetti demolita anch’essa, questa volta dall’uomo, negli anni ‘70 per far posto all’attuale costruzione del cantiere navale
Un tempo la piazza, che era parte integrante dei Cantieri Navali Gotuzzo, come ricordava Franco “Mario” Tommasino, si popolava ogni giorno di maestri d’ascia e di serroi (segantini) che operavano il taglio del legname destinato alle chiglie ed al fasciame dei velieri che si costruivano nel cantiere. Grazie alla testimonianza di Tommasino e agli straordinari dipinti di Amedeo Devoto, definito da tanti un genio, ancorchè poco conosciuto, possiamo tracciare una fisionomia intatta e precisa di questo rione, un caso unico nella storia di Chiavari.
Piazza dei Pescatori -1909
Le case vecchie degli Scogli, cosi si presentavano nei primi anni del ‘900
Nel secolo scorso le famiglie erano poche e molto affiatate, spesso composte di numerosi individui e comunque non ricche. Alcuni emigravano nelle Americhe, altri sceglievano di navigare, altri ancora lavoravano nei cantieri, altri infine vivevano di pesca o facendo gli ortolani. Va osservato come spesso, qui in Liguria, il pescatore curava anche un piccolo orto, irrigato grazie a un pozzo con l’acqua attinta per mezzo dell’antica “sigheugna” (bilancino).
La gente viveva dalle finestre la vita del cantiere, sin dalla mattina, quando la sirena chiamava i dipendenti.
Allora l’aria si riempiva dei rumori del lavoro degli operai e dei calafati, dell’odore del legno tagliato e del catrame, finchè arrivava il giorno del varo del veliero. Era un giorno importante: dopo la benedizione impartita dal Parroco, tutti avevano appena il tempo di trasalire mentre scendeva in mare, per la prima volta, il frutto di tante fatiche.
Una visione panoramica di Piazza Gagliardo nel 1901.
Il veliero pronto al varo è il Guglielmo Augusta. Quello in costruzione è il Luisa, di 1648 Tonnellate di stazza, uno dei più grandi varati nel 1904 nel rione Scogli.
A quei tempi le case erano sprovviste dell’acqua corrente nè vi erano gli allacci del gas e dell’elettricità.
Le famiglie attingevano l’acqua dalla pompa all’angolo di Piazza Gagliardo dove si trovava una fontana pubblica, oppure, quando furono installati, i “treuggi” (lavatoi) nel lato ponente della piazza.
Tuttavia, quando il mare ingrossava, l’acqua assumeva uno sgradevole sapore di salmastro e per attingerne di potabile era necessario andare fino alla fonte che si trovava in fondo a corso Buenos Aires, vicino alla cava di pietra. Le case e le strade erano illuminate grazie a lampade a petrolio e solo nel 1925 la luce elettrica raggiunse la piazza. II gas arrivò solo nel 1936.
Le attività di un cantiere navale degli Scogli ai primi del ‘900
Sulla destra il progettista e costruttore navale Matteo Tappani, “u sciu Mattè” . Da sinistra si notano i “serroi” (segantini) che ricavano le tavole dai tronchi segandole a mano; si nota il “trincaballe”, carro speciale a due ruote per spostare grandi tronchi, e un maestro d’ascia che sagoma una ordinata.
La fontana pubblica o fontanella che era ubicata sotto un grande albero nell'angolo di Piazza Gagliardo, aveva una grande maniglia che azionata manualmente con un certo vigore, consentiva di tirare su l'acqua direttamente dal pozzo sottostante. Dopo che si smetteva di pompare l'acqua fuoriusciva ancora per un minuto o due ed inoltre, tappando l'erogazione con la mano l'acqua zampillava da un piccolo foro consentendo di bere più comodamente.
RIONE SCOGLI
COM’ERA E COME SI VIVEVA
3° Pannello
Antica Casa Gotuzzo sotto mareggiata
Siamo nel 1955, il mare ne aveva già lambito le fondamenta, poi per fortuna le imponenti difese degli anni '60 scongiurarono il pericolo di essere spazzata via. Ma dal 1821 al 1950 circa, ben 43 palazzi o caseggiati, lungo il litorale di Chiavari, furono abbattuti dalle incessanti mareggiate per il contemporaneo avanzare del mare
A volte le mareggiate più violente oltrepassavano l’Antica Casa Gotuzzo e il mare, non trovando ostacoli, invadeva la piazza e giungeva a lambire la ferrovia.“In quei giorni era quasi impossibile uscire di casa e bisognava arrangiarsi in tutto” racconta Franco Tommasino.
Piazza Gagliardo fine ‘800
Sulla destra le case Raffo. Corso Valparaiso a quel tempo si chiamava Via Olearia. Le case sul litorale verso il mare erano state costruite dagli armatori Raffo e Casaretto con i profitti realizzati per il commercio dell’olio di oliva per rifornire le fabbriche di sapone di Marsiglia e Savona. Per questo la chiamarono Via Olearia, quasi un ringraziamento a questo redditizio commercio.
La pesca era praticata in forme del tutto diverse da quelle attuali: le reti erano di dimensioni ridotte, in cotone, e venivano tinte periodicamente con il “tannino“ (colorante estratto dalla corteccia dei pini) per ragioni di mimetismo e per aumentarne la durata. Il calderone per tingere le reti era proprio nel mezzo della Piazza verso lo scalandrone, per varare le barche, che erano quasi esclusivamente gozzi o piccole barche da pesca. Il diporto era ancora di là a venire.
Erano le mani esperte dei pescatori e delle loro donne a riparare le reti: pochissimi ormai ricordano che pochi lustri fa, le reti venivano stese ad asciugare sul viale “Nuovo” cioè Corso Buenos Aires, in una lunga teoria che da via Argiroffo arrivava oltre le serre dei fiori della ditta Crovetto.
Le donne che cucivano le reti avevano l’occhio attento e, con la mano veloce, trattenevano e tendevano la rete con l’aiuto di un alluce e grazie ad una “navetta” di legno o di osso ne ricucivano gli strappi.
L’attività del pescatore era faticosa, senza orari, assai poco redditizia. Oltre a ciò, prestare soccorso a chi si trovava in difficoltà in mare era estremamente difficile e i punti di riferimento per la navigazione erano ottici: le cime dei monti, i campanili, i fari, le stelle. Quando la notte, approssimandosi un fortunale, il mare “entrava”, qualcuno correva sempre di porta in porta a svegliare tutti, si che la gente si affrettava sulla spiaggia per portare al riparo le barche che erano sulla battigia, cominciando da quelle più minacciate. Altre volte, sempre sotto le stelle, i pescatori giungevano a terra con le “manate” colme di pesci “immagliati” e questa era un’altra causa di risvegli improvvisi per il rione; nessuno però si faceva pregare per portare aiuto e liberare le reti dai pesci. A operazione finita il “Gin Gin Tirone“ ed il “Tacchetti” spedivano i ragazzi a comprare della focaccia calda che poi veniva distribuita a
tutti assieme al vino ed a un po’ di pesce fresco che il “Beppe Gambadilegno” si incaricava di cuocere sulla “ciappa”. II modo di lavarsi dei ragazzi era abbastanza spiccio: un tuffo in mare: poi, via! A scuola .... qualche volta ...
1870 - Scorcio dei Cantieri Navali Gotuzzo e di Corso Valparaiso
Già via Olearia (1815-1888) e poi via al Cantiere (1888-1938). Sulla destra le case Raffo.
1870 - Questa è la foto antica dalla quale Amedeo Devoto ha dipinto il quadro qui riprodotto. Notare nelle case Raffo che il primo magazzino ha già subito una iniziale demolizione da parte del mare. Notare altresì l’abbigliamento delle persone ritratte.
4° Pannello
RIONE SCOGLI
COM’ERA E COME SI VIVEVA
1880 - Retrospettiva del Rione Scogli nella parte di ponente.
Nei primi anni del ‘900 questi edifici furono tutti distrutti dalle mareggiate. Erano le cosidette “Case Canepa”. La colonia Fara, inaugurata nel 1938, fu edificata nell’area occupata dalle due case di sinistra dopo che, nel 1908 era stata deviata anche la ferrovia più a monte per via dell’avanzare del mare.
In questo piccolo mondo le porte di casa non erano mai chiuse a chiave, si che quando era necessario allontanarsi per le festività della Madonna delle Grazie, le chiavi, dimenticate in qualche cassetto, erano spesso introvabili.
La vita di questa piazza è stata talmente legata al mare che tutte le cose agli “Scogli” ne erano impregnate o ne portavano i segni: gli intonaci delle case, di colori così solari, ma che non duravano mai troppo a lungo, i gradini rialzati delle porte, le barche con le scalmiere consumate e i paglioli opachi e stinti, gli scantinati che odoravano di antico e di acciughe sotto sale.
Sale che, sciolto in dose robusta nei pentoloni dove si bollivano i “bianchetti”, garantiva in modo semplice ma efficace la loro conservazione durante il trasporto fino ai mercati del Nord Italia; quello stesso sale che durante l’ultimo conflitto mondiale rappresentò per la gente di qui una piccola ricchezza da barattare
con il necessario, allora introvabile. “Scogli”.... Questa piazza offre ancora, ogni giorno, uno spettacolo indimenticabile: sono le sue luci, che cambiano con le stagioni e con l’ora del giorno, che trascorrono sui suoi tetti e sul suo selciato tessuto di arabeschi di porfido.
Ogni alba ed ogni tramonto dipingono negli occhi lo stesso stupore: quello di una cosa nuova, mai vista prima. E’ un tripudio di colori, una tavolozza che spazia dal violetto al rosso, al verde e al giallo o all’arancione ed ogni nube o fiocco di vapore “si tinge di incredibile“; e il mare riflette questi colori: li assorbe e se ne appropria per restituirli a chi guarda, più luminosi ancora, ricchi del suo baluginìo e del suo sfavillare, dell’oro e dell’argento, del suo incessante movimento.
Gli uomini e le donne di questo incantevole angolo del Tigullio erano gente semplice, ma solida, gente non comune. II mare, che colorava la pelle dell’uomo e ne scavava le rughe, donava loro, testimoni le fotografie, uno sguardo diverso, quasi surreale. In quegli sguardi si poteva leggere la libertà, la tenacia e l’onestà; la consapevolezza di ciò che è essenziale, e la fede salda e sincera di chi, da secoli viveva ai piedi di un Santuario: quello della Madonna dell’Olivo, sulla collina di Bacezza. Ora è cambiato tutto qui agli “Scogli”. Di questo cambiamento fa parte anche la struttura immobiliare dello Cantiere Navale dei Gotuzzo costruito nel 1908 e sostituito da quello attuale negli anni ‘70; ma il mare no, nei suoi movimenti è sempre lo stesso per fortuna, anche se le spiagge specie in estate, non sono più piene di barche di pescatori ma di ben altro. Così, abbiamo pensato valesse la pena di ricordare questo “mondo antico“ che non esiste più.
Ma l’inesorabile scandire del tempo che cambia e spesso stravolge tutto, fa parte della vita di ognuno di noi e, nostro malgrado, dobbiamo accettarlo, anche se, grazie ad Amedeo Devoto ed ai suoi dipinti, lo possiamo solo ricordare, con infinita nostalgia.
Piazza Gagliardo nel 1937 circa
Sono già sparite dieci delle 13 Case Raffo costruite nel 1815. Il mare risparmiò soltanto le treccostruzioni tra il Nelson Pub e il Bar 4 Archi. Pastorino Tacchetti a sinistra rigoverna la rete sotto la sua osteria. Sulla destra al centro l’Antica Casa Gotuzzo e l’attuale edificio del Ristorante Vecchio Borgo già “Copetin”.
1919 - Veduta dei Cantieri Navali Gotuzzo con 3 velieri in costruzione.
La goletta “Montalto” è pronta al varo. Notare sulla destra l’edificio del Cantiere Navale Gotuzzo con i portici ad arco ed il tetto di tegole rosse tipo “marsiglia”. La pratica per l'ampliamento e la costruzione del nuovo Cantiere Navale dei Gotuzzo cominciò il 20 settembre del 1857 terminando nei primi decenni del '900. Ci vollero pertanto oltre 50 anni di burocrazia per costruire il nuovo cantiere navale. Un capannone che nella sua semplicità si intonava perfettamente con le costruzioni della zona, conferendole un aspetto piacevole e di buon gusto.
1919 - Veduta dei Cantieri Navali Gotuzzo con 3 velieri in costruzione; un quarto è pronto al varo ed è il Brigantino Goletta MONTALTO
1900/1945 - Piazza degli Scogli
Così come veniva chiamata da Franco “Mario” Tommasino che è anche il costruttore del plastico conservato nell'Antica Casa Gotuzzo. E' la topografia esatta di Piazza Gagliardo.
Bibliografia: “Chiavari Marinara dall’Epoca Eroica della Vela - Storia del Rione Scogli” edito nel 1993 (testo tratto da un articolo di Luca Gibelli).
I quadri e le fotografie riprodotte fanno parte della collezione privata di Ernani Andreatta. Amedeo Devoto (1935-2013) è l’autore dei dipinti riprodotti.
A cura del webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 12 Agosto 2014
Il brigantino ITALIA naufraga a TRISTAN da Cunha
IL BRIGANTINO ITALIA
NAUFRAGIO A
TRISTAN DA CUNHA
Uno scoglio nell’Oceano, tante storie nei secoli scritte dagli uomini e dagli Alisei
Gli Alisei sono Venti Costanti che spirano mediamente a 29 Km/h sulla fascia equatoriale e tropicale compresa fra le latitudini 30° nord e 30° sud.
Tristan da Cunha
(lat.=37°03”Sud – long.=12°18’Ovest) è un remoto gruppo di isole nell'Oceano Atlantico meridionale, distante 2816 km dal Sud Africa e 3360 km dal Sud America. Appartiene al territorio britannico d'oltremare dell’altrettanto famosa isola di Sant'Elena, situata 2161 km più a nord.
Le frecce a Nord e Sud dell'equatore indicano la direzione degli Alisei
Siamo partiti da due annotazioni geografiche per entrare “con scienza e coscienza” in quel mondo velico che ci siamo lasciati alle spalle ormai da un secolo, ma che affiora talvolta con le sue storie umane che non lasciano spazio alla fantasia, perché vivono e si tramandano nel tempo soffiate, appunto, dagli Alisei. La posizione di Tristan da Cunha assomiglia alla boa di un campo di gara velico. Da lì si deve passare per far rotta verso l’Australia, oppure, nella direzione opposta verso l’Europa e le Americhe. Proprio da quelle parti avviene il magico incontro con l’Aliseo di Sud-Est per chi sale, oppure l’impoppata dei venti occidentali di Capo Horn per chi é diretto a levante. Dalle pareti a picco di Tristan da Cunha sgorgano numerose e limpide cascate per rifornirsi d’acqua, ma c’è pure una sparuta comunità che vende aragoste e pelle di foca. Andando indietro nel tempo, su quello scoglio sperduto c’era una guarnigione inglese che aveva l’ordine di controllare la prigionia di Napoleone a S. Elena. Il sergente Glass non rientrò mai più in Inghilterra e là rimase per sempre con la moglie e 16 figli. Ma Tristan da Cunha è anche storia di secoli di pirateria che intercettava i lenti galeoni del ‘500, ma anche i veloci velieri dei secoli successivi. Le segnalazioni delle vedette appostate sulle alture del vulcano, alto ben 2062 metri, davano una giornata di vantaggio ai pirati per organizzare l’agguato, l’assassinio dell’ignaro equipaggio, la rapina del bastimento e del suo carico. Ma la storia che stiamo per raccontare riguarda un naufragio avvenuto a Tristan da Cunha nel 1892 e che si concluse con la perdita del veliero ITALIA. Costruito a Varazze nel 1882, il veliero era famoso per le sue linee eleganti e la sua solidità. Aveva una portata lorda di 1600 tonnellate e 17 uomini d’equipaggio, oltre metà erano camoglini e rivieraschi, il restante di Grottammare (Ascoli P.)
Capitan Rolando Perasso di Chiavari ed il brigantino a palo ITALIA costruito nei Cantieri di Varazze per L’Armatore Dall’Orso di Chiavari nel 1892
Il brigantino a palo ITALIA, al comando del cap. Rolando Perasso di Chiavari, partì da Greenock (Scozia) il 3.8.1892 con un carico di carbone diretto alle Indie, via Capo di Buona Speranza. Navigò sfruttando gli Alisei e giunse senza problemi nelle acque sub-equatoriali. I marinai aprivano regolarmente i boccaporti di mezzana e trinchetto per arieggiare le stive colme di carbone che era stato, peraltro, imbarcato molto asciutto. La mattina del 28 settembre, con grande sorpresa, il nostromo percepì un debole odore di gas provenire dalla stiva di prua. Dopo tre giorni d’incessanti controlli all’interno delle stive, il segnale ricomparve insieme a qualche nuvoletta di fumo sempre più denso, ma le murate e i gavoni non manifestavano alcun aumento di temperatura. Il comandante fece sarchiare il carico nella stiva sospetta nel tentativo di scoprirne il focolaio per poterlo estinguere. Ma il fuoco era troppo basso, esteso per chiglia e la crescente temperatura impediva ormai qualsiasi avvicinamento. Il 2 ottobre il brigantino si trovava a 160 miglia a Nord di Tristan e, spinto da un buon vento di grecale (NE), navigava a vele gonfie con la speranza di raggiungere un approdo. Ma la situazione andò via via peggiorando. L’aumento del calore e la presenza diffusa del gas investivano ormai tutta la coperta. Verso le 23.00 ci fu una detonazione a centro nave che provocò l’espulsione delle boccaporte (chiusura superiore delle stive) di maestra e mezzana. La navigazione già critica si trasformò in vera emergenza. Cap. Perasso radunò l’equipaggio sul ponte e fece imbrogliare (ridurre) le vele di maestra e i velacci. Il cielo era completamente coperto e la navigazione procedeva pertanto stimata. Dalle coffe degli alberi le vedette esploravano le acque circostanti, ma un’insistente foschia limitava la visibilità a meno di un miglio. L’incontro con numerosi banchi di alghe tropicali indicava che Tristan era vicina, e ciò attenuò l’ansia dell’equipaggio. Ma dov’era? Si stavano avvicinando o allontanando da essa? La speranza aggrappata alle sartie del brigantino era l’unica forza a sostenere quel pugno di marinai pienamente consapevoli d’essere in grave ed imminente pericolo. La notte fu lunga da passare! Verso le 09.30 dell’indomani, l’esperto capitan Perasso riuscì a compiere una “osservazione astronomica”. Il veliero si trovava 8 leghe (40 Km circa) a est dell’isola ed ebbe molta fortuna! Subito dopo il vento girò aumentando d’intensità. In breve tempo si sollevarono onde alte e creste che spazzavano la coperta con energia viva e fragorosa, mentre continui piovaschi impedivano ancora di scorgere la costa. Qualcuno dell’equipaggio, ormai stremato dalla fatica e dall’insonnia, verso le 15.00 indicò una linea bianca di prua. Erano i frangenti che disegnavano l’impatto delle onde contro un muro di lava schiacciato da un cappello di nubi grigie e tempestose. Era finalmente la costa di Tristan da Cunha, l’àncora di salvezza che, tuttavia, incuteva terrore con le sue rocce a picco battute dal grecale e striate da luccicanti cascate d’acqua. L’ITALIA veniva da sopravvento, e il suo Comandante calcolò che se naufragio dovesse essere, non poteva compiersi in quel girone infernale, dove tutti avrebbero perso la vita sfracellandosi contro la roccia. Decise allora di aggirare l’isola alla ricerca di un ridosso per spiaggiare, evitando così di colare a picco. Ma c’era il tempo per salvarsi? Da marinaio di razza quale era, Rolando Perasso evitò i numerosi scogli affioranti e, non potendo gettare l’ancora a causa del calore ormai rovente di tutta la zona prodiera, scelse il punto di sottovento che gli sembrava più idoneo, e lì andò ad incagliare, a 60 metri dalla spiaggia, sul lato meridionale dell’isola. La pioggia, l’oscurità e il vento a raffiche ostacolarono lo sbarco dei naufraghi ormai al limite delle forze. Riuscirono infine ad abbandonare il veliero con le lance di salvataggio, ma quando il vento calò dovettero recuperare provviste e tutto quanto sarebbe stato utile per una sosta lunga e ricca d’incognite. L’isola era ancora abitata? Nessuno di loro lo sapeva con certezza. Passarono la prima notte sotto alcuni pezzi di vele strappate, mangiarono il cibo salvato e pregarono ringraziando la Provvidenza per lo scampato pericolo.
Nella nottata furono circondati da una miriade di pinguini che covavano intorno a loro, ma quell’insolita e calorosa compagnia fu improvvisamente scossa da un forte boato. L’ITALIA aveva subito un’altra esplosione. L’equipaggio attese l’alba con ansia e poi scivolò guardingo verso il brigantino ormai devastato. Recuperarono ancora attrezzi, legname da ardere, tela e tutto quanto avrebbe potuto prolungare la loro sopravvivenza ai piedi di quella nera montagna che pareva intenzionata a ricacciarli in mare dopo averli salvati. Erano altri tempi! I naufraghi abbandonarono l’ITALIA con il dolore e la tristezza di chi era andato per mare sapendo che la nave ha un’anima.
Il villaggio di Edinburgh, situato all’estremo a nord, é l'unico pianoro
abitabile dell’isola.
Ad accogliere i naufraghi furono gli abitanti dell'isola, un variegato gruppo d’individui quasi tutti naufraghi o discendenti di naufraghi di baleniere e cacciatori di foche.
Questa dell’ITALIA é una storia vecchia oltre un secolo, ma in qualche modo ci appartiene perché un po’ di sangue camoglino é tuttora vivo e vegeto tra quella comunità di 300 persone che occupano l’unico pianoro vivibile ai piedi del vulcano anch’esso, purtroppo, sempre attivo. A grandi linee la storia di quel naufragio ebbe un clamoroso sviluppo che commosse il mondo e ciò avvenne proprio quando sembrava ormai certo il rimpatrio in Inghilterra di tutti i superstiti del brigantino italiano. Per ironia del destino, due camoglini, Gaetano Lavarello e Andrea Repetto trovarono l’anima gemella e decisero di rimanere per sempre a Edimburgh. L’unico villaggio abitato di Tristan da Cunha, si trova sul lato Nord, simmetricamente opposto a quello del naufragio. I due marinai si unirono in matrimonio con due giovani isolane, Frances Green e Jane Glass, dalle quali ebbero parecchi figli. Un terzo marinaio camogliese, il nostromo Agostino Lavarello, pur essendosi innamorato anch'egli di una bella ragazza di nome Mary Green, preferì invece ritornare in Italia, assieme al resto dell’equipaggio. Nel 1930, Agostino scrisse un libro per ricordare il naufragio e lo chiuse con queste parole riferite a Mary: “... io non la so rievocare che bionda e fresca come allora e talvolta l’illusione é così forte che, guardando alle casette occhieggianti al disopra dei dirupi percossi dal mare, presso la millenaria chiesina di San Nicolosio, mi sembra vederla ancora rientrare correndo al suo piccolo nido e volgersi per l’ultima volta con le mani protese nell’estremo addio...” Oggi, sull'isola di Tristan da Cunha permangono ancora molte “tracce” di quel naufragio: alcuni reperti del brigantino ITALIA raccolti in un piccolo Museo, il Camogli Hospital costruito nel 1971, la strana parlata anglo-levantina, due cognomi tipici di Camogli, e naturalmente il DNA dei discendenti che furono tanti, forse per mancanza di altri svaghi... Queste testimonianze continuano a mantenere vivo il ricordo di quel pugno di marinai liguri incagliati in quello sperduto angolo dell’Oceano Atlantico meridionale. Molti scrittori, giornalisti e inviati speciali d’importanti riviste nazionali ed internazionali hanno ampiamente documentato la vita che trascorre senza tempo sull’isola di Tristan da Cunha che oggi é entrata persino nell’itinerario di lussuose navi da crociera. Ma gli isolani temono le navi perché portano malattie di cui non hanno anticorpi. Ormai é risaputo, il loro isolamento é sinonimo di felicità. Quando nel 1961 il vulcano aprì un cratere e sfiorò il villaggio, il Governo fece rimpatriare gli isolani, ma l’impatto con la modernità delle metropoli inglesi non fece che aumentare il loro stress, ma soprattutto la nostalgia per Tristan. Dopo forse un anno, la lava del vulcano rientrò nelle sue viscere e i “deportati” fecero rientro alla base.
Carlo GATTI
ETTORE - IL FABBRO DI RAPALLO
ETTORE IL FABBRO DI RAPALLO
UN PO’ DI STORIA….
Efesto (Vulcano per la mitologia romana) forgia le folgori per Giove.
Quadro di Rubens (XVII secolo)
Efesto, nella mitologia greca, è il dio del fuoco e della metallurgia. Nell’Iliade, fonte principale della mitologia greca in coppia con l’Odissea, si narra che Efesto fosse uno degli dei più brutti “soggetti” dell’Olimpo e che avesse anche un pessimo carattere.
Efesto, fisicamente disgraziato, passava tuttavia per aver avuto donne di grande bellezza. Già l’Iliade gli attribuisce Carite, la Grazia per eccellenza. Esiodo gli attribuisce come moglie Aglae, la più giovane delle Cariti. Ma soprattutto, si conoscono le sue avventure con Afrodite, che sono riportate nell’Odissea.
Tuttavia, Efesto si era fatto un nome prestigioso come FABBRO DEGLI DEI perché aveva il dono di essere bravissimo nella lavorazione di tutti i metalli: nulla gli era impossibile! Egli, infatti, viveva in un’officina sotto il vulcano Etna, dove lavorava tutto il giorno ai suoi progetti di ingegneria, aiutato dai terribili Ciclopi.
Per questo motivo, Efesto era considerato il protettore di tutte le attività artigianali ed era venerato in tutta la Grecia. Anche nella mitologia romana esisteva un dio dalle caratteristiche simili, chiamato Vulcano.
Efesto ed Ettore (il nostro fabbro di Rapallo) hanno in comune qualcosa? Vediamo un po’…:
- qualche lettera dell’alfabeto: 4 e - 3 t
- la grande passione per il ferro battuto come meglio vedremo in seguito
- Ettore, che non é altissimo, non é neppure brutto e disgraziato come Efesto…, ma ha l’abitudine di “picchiare” il ferro dalla mattina alla sera e se avesse anche un cattivo carattere come il dio greco, sarebbe un bel guaio per chi lo frequenta regolarmente, famigliari compresi… Le sue braccia hanno assorbito e trasportato tanto ferro in 32 anni di mestiere che, per stare in tema, esplodono energia vulcanica in ogni direzione.
- Al contrario di Efesto, Ettore ha un carattere allegro e sempre accomodante, conosce tutti in città e tutti lo conoscono, lo fermano per strada e lo apprezzano per la sua disponibilità, le battute sempre amicali, ma pungenti contro chi non apprezza il “fuoco” del suo diavolo rossonero (il MILAN che ieri ha perso il derby…).
- Abbiamo letto che Efesto passa anche per il patrono dei can da donne! Anche su questo argomento le similitudini storiche tra i due campioni sono tutt’altro che provate… In ogni caso, quando Ettore si convincerà a scrivere le proprie memorie, noi riscriveremo questo articolo per amore della verità, non per curiosità o altro...!
Ora ci lasciamo la mitologia alle spalle ed andiamo a scoprire la storia di questo personaggio che porta sulle spalle il peso di un lungo passato di ferro e di fuoco, ma che possiede anche una visione realistica del futuro.
A domanda (in neretto), Ettore Pelosin risponde (in corsivo):
Tu sei figlio di commercianti molto noti a Rapallo. Come sei arrivato ad intraprendere un lavoro così particolarmente rude e mascolino?
Fui bocciato in 3° ragioneria, un corso di studi per il quale non ero assolutamente portato. Parlai con i fabbri Canessa, Cipro e Queirolo, tre soci di una officina sotto casa mia che erano amici di mio padre, ed ottenni di fare l’apprendista con il compito di guardare ed imparare. Era il 1985, avevo 17 anni ed una gran voglia di fare… solo in seguito capii la verità che stava dietro a quel: “Sta qui e guarda”. Feci quasi due anni di forgia, imparai tutto il possibile in un’epoca in cui vi erano poche macchine in officina e quindi gettavo tanto sudore in un mare di trucchi del mestiere che non sempre mi venivano spiegati. Ma si trattò di un’esperienza importante della quale ancora oggi mi sento debitore con quelle persone.
Ritornato a Rapallo dal Servizio Militare, avevo ormai scelto il mio settore lavorativo: mi assunse il fabbro Sirola il quale aveva uno spettro più largo di committenze per cui ebbi modo di imparare cose nuove e a gestirle ancora meglio.
Passò qualche anno, entrai nell’ambiente e, in quel periodo conobbi Corrado, il mio socio attuale. Avevo 23 anni e lui 27. Avevamo in comune tanta voglia di lavorare, ma anche d’intraprendere privatamente. Corrado, più esperto di me, capì subito dal mio entusiasmo che ero portato per quel tipo d’attività. Inizialmente decidemmo di lavorare insieme nelle ore serali, e poi anche al sabato, alla domenica e ogni volta che eravamo liberi dai rispettivi impegni di lavoro. Poco tempo dopo, ogni sera ci chiudavamo nel suo garage a lavorare per conto nostro, per i nostri nuovi clienti.
Nel 1991 decidemmo di diventare soci e padroni di noi stessi, della nostra passione e soprattutto della nostra nuova officina! Ancora oggi, ogni tanto, mi viene in mente quel proverbio: “Chi trova un amico, trova un tesoro!” - GRAZIE Corrado!
Sono passati un po’ di anni… l’esperienza e la passione di Ettore lo hanno portato ad essere insieme al suo socio Corrado, una affermata ditta del Tigullio.
Tuttavia, tra coloro che ancora oggi praticano l’artigianato, spesso si sente dire:
“Questa attività é solo sacrificio, mal di schiena…, orari continuati e sempre scomodi, pezzo dopo pezzo sparisce anche la nostra identità. La colpa é tutta del progresso sfrenato che non lascia più nulla alla creatività e alla fantasia… ormai si trova tutto pronto all’IKEA…”
Tu cosa ne pensi?
In effetti c’è del vero in ciò che dici – esplode Ettore –
Tuttavia c’é un forte limite sull’originalità di quei prodotti finiti: oggi li vedi all’IKEA, in seguito li ritrovi nelle case dei tuoi amici e conoscenti. Senza accorgersene siamo forse stati tutti omologati nei gusti, nelle scelte, siamo diventati vittime delle mode?
Dov’é finito quel godimento che ci hanno insegnato i nostri vecchi di possedere qualcosa di originale in casa? Noi italiani siamo considerati maestri d’arte e di buon gusto in tutto il mondo, ma pare che nel nostro Paese, a tutti i livelli, si sia rinunciato a giocare un ruolo da protagonisti, come se fossimo diventati tutti pellegrini dei nuovi frequentatissimi santuari che sono giustappunto i supermercati.
Dove sono finite l’autenticità, la fantasia, la creatività, l’estro e la stravaganza?
Hai parlato d’ARTE con palese nostalgia, come un rimpianto che forse insegui da tempo! Come definiresti il tuo lavoro?
Io appartengo con fierezza alla categoria artigianale dei fabbri. Il mio mestiere lo definirei così:
L’ARTIGIANATO E’ L’ARTE DA NON METTERE DA PARTE
Se un mio cliente mi ordinasse un cancello, oppure un berceau, ma anche un semplice tavolo e mi dicesse:
Lo vorrei un po’ originale, lei ha qualche idea?
Beh! Io risponderei a quel signore: vedo che lei ha fiducia nell’artigiano! Continui a fidarsi, non la deluderò e le farò anche un prezzo d’amico!
Dalla fiducia nasce la creatività che dà spazio all’ARTE!
Quando l’arte abbraccia l’artigianato e con esso si fonde, penso al futuro di tanti giovani e intravedo un grande spiraglio nel mercato del lavoro, anche in tempi di crisi economica.
Tocchi un argomento vero ed interessante, ma delicato e pieno di trappole che evidenziano le carenze della nostra società.
In che senso?
La tua idea é giusta e sensata! Ma avviare oggi una IMPRESA per un giovane di buona volontà, talento e fantasia non é semplice. Lo Stato dovrebbe aiutarlo in tutti quei capitoli che vanno sotto il nome di Burocrazia, Fisco e Difficoltà di accedere al credito. Noi abbiamo impiegato oltre 30 anni per rendere questa officina all’altezza dei tempi, vale a dire: l’acquisto di macchinari moderni che sono costosi ed ingombranti, ma che ti danno una resa immediata nel rapporto: tempo/denaro. Aggiungo soltanto che non mi sentirei un fabbro qualificato se non sapessi lavorare alla FORGIA, lo strumento che veniva usato già 2000 anni fa per creare magari strumenti di guerra ma che, ancora oggi, mi permette di lavorare di fino…creare e realizzare quelle forme d’arte di cui si parlava prima.
Anche la scuola può fare qualcosa di utile per i giovani?
Oggigiorno la tecnologia digitale é lo strumento più a buon mercato che esista sia in fase di progettazione, quindi di creatività per quel tipo di oggettistica che soddisfi le esigenze del mercato, ossia i desideri della gente di oggi.
Le faccio un esempio: oggi una nave nasce dal programma di un computer molto tempo prima di entrare nel Cantiere da cui scenderà in mare. La tecnologia aiuta a sviluppare una idea embrionale e portarla al concepimento finale.
Noi siamo gli eredi di un mestiere antico e duro, ma affascinante che c’é stato tramandato dall’età del ferro. Un tempo arrivavo a casa la sera con le schegge nelle mani, gli occhi rossi e la faccia bruciata dal calore della saldatrice; oggi abbiamo le macchine che ci piegano le lamiere e ci risparmiano tanta fatica, abbiamo attrezzi che ci evitano bruciature, piaghe e malattie professionali agli arti e agli occhi, ma finché ci saranno porte, cancelli, finestre, pareti, scale a chiocciola da fare su misura, il fabbro ci sarà sempre con le sue soluzioni pronte e supportate dall’esperienza e dal buongusto che spesso é anche artistico…
E’ davvero importante che in ALTO si capisca che l’artigiano é un maestro che deve tramandare il suo sapere ai giovani, ma il passaggio del testimone tra due generazioni, deve far parte di un programma che sia teso ad unire gli interessi di entrambe. Io per primo, farei i salti di gioia se potessi avere tre o quattro giovani che mi dessero una mano in questa officina dove c’è spazio per sei-sette persone. Pensa un po’ quante cose potrei insegnare a questi ragazzi dopo 30 anni che mangio polvere di ferro picchiando proprio come un fabbro…!
Se poi tra questi ragazzi emergesse anche un giovane talento, allora saremmo in tanti a fare “BINGO”, in primis il Paese che langue nella mediocrità.
I cambiamenti strutturali della nostra categoria devono partire con scienza e coscienza dai Ministeri, dai Municipi, da chi ha le leve del potere in mano ed ha l’obbligo di migliorare la società.
Levami un’altra curiosità: vedo che stai costruendo una scala a chiocciola.
Per quel che ne capisco, come fai a costruire una spirale senza averla opportunamente disegnata nel rispetto delle leggi matematiche?
Io amo il disegno, in particolare quello tecnico che mi permette di eseguire lavori un po’ particolari. Uno di questi é proprio la scala a chiocciola, la cui realizzazione ci viene richiesta in luoghi dove c’è spazio insufficiente per le scale tradizionali.
La scala a chiocciola è il tipico esempio della SPIRALE MERAVIGLIOSA in matematica ed in natura; si costruisce attorno a un perno verticale che serve da asse all’elica che forma la successione degli scalini. Il disegno di queste scale richiede di trovare una soluzione tra la alzata tra gli scalini, l’altezza dei livelli da vincolare e gli angoli di entrata ed uscita dalla scala che determina la quantità di scalini e l’angolo di rotazione unitario tra gli stessi. Il suo asse centrale, nel caso sia presente viene chiamato “anima”.
Per realizzarla a volte mi sveglio di notte, e nel silenzio assoluto trovo sempre le giuste soluzioni. Poco fa ti dicevo che ci vuole passione e studio, infatti questi due elementi sono quasi sempre a monte della manualità vera e propria che subentra come un divertimento, una specie di premio, quando i problemi teorici sono stati risolti nella mia testa.
Ed eccoci arrivati al “punctum dolens” - Il gioco ne vale la candela?
Ti ringrazio della domanda. Spero di essere breve per dimostrarti quanto noi artigiani siamo “abbelinati e tristi”.
Il prezzo finale del manufatto che esce dalle nostre mani, non tiene conto del tempo impiegato nello studio del progetto, ma neppure delle ore che utilizzo per realizzarlo, trasportarlo e poi montarlo sul posto.
Il cliente ha solo un punto di riferimento: il prezzo di mercato del manufatto costruito in serie da macchine ultra moderne e già comprensivo delle spese di consegna e di montaggio!
La commessa del mio cliente va in porto soltanto se il prezzo concordato é ben inferiore a quello di mercato.
Se voglio lavorare mi devo confrontare con questo assurdo sistema che sottovaluta il nostro impegno e tende ad uccidere l’artigianato in generale!
ETTORE IN FAMIGLIA
Ettore e Romina al pascolo...
Ettore con i figli Greta e Cristiano nel giorno della LAUREA
Sopra e sotto
Ettore con l’inseparabile Diana nel suo bosco
Ricky ed Ettore, due c... in un paio di braghe!
Due cognati amici e burloni
Il fuoco vulcanico fa parte della vita di Ettore. Qui é stato ritratto dopo la seconda infornata di farinata. Le salsicce e il castagnaccio non si vedono, ma sono sotto il controllo della "banda" famigliare che li aiuta con lo sguardo… ma non solo…
Le specialità di Ettore e Pino sono: “porchetta alla forgia”, "cinghiale alla Vesuviana” - "frittura alla Stombolicchio- "salamelle alla Prometeo" - "castagnaccio alla brusciaboschi".
ALBUM FOTOGRAFICO PROFESSIONALE
L’officina di Ettore Pelosin e Corrado Malatesta si trova in Via del Ghiaccio 9/4 dove, nel primo dopoguerra esisteva una fabbrica del ghiaccio destinato agli alberghi ed esercizi vari di Rapallo. La zona é molto verde ed elegante perché confina con il Circolo Golf e Tennis - Rapallo. L’edicola della Madonna qui sotto rappresentata é opera del Maestro d’Ascia Franco Merello, ed é incastonata sulla parete esterna dell’officina stessa.
La Madonna del Ghiaccio
Un'ala dell'officina
La Forgia a gas ha sostituito quella classica a carbone vecchia di secoli
Troncatrice
Trapano a colonna
Aspiratore fumi saldatrice
Piegatrice
Ettore prende le misure per piegare la lamiera
Ettore sta per piegare una lamiera con la piegatrice
Ettore mostra ad una visitatrice la piegatura di una lamiera
Cesoia taglia-lamiere
Curvatrice – Curve a tutto sesto
Trapano a colonna
MANUFATTI
Sopra e sotto Ringhiere finite
Ringhiera per Villa Hollander - Corrado a sinistra e Pino
Cancello di Protezione
Inferriata di Protezione
Sopra e sotto
Ringhiere di protezione per interni
Piccola libreria
Cancellata
Sopra e sotto
Intelaiature per ampie vetrate
Bancone rivestito di lamiera
Arredamento in ferro e legno per Bar
Arredamento in legno e ferro
Parete metallica
Cancello di sicurezza
Polleria ROSTER
Sopra e sotto
Arredamenti in ferro battuto
Berceau
LA SCALA A CHIOCCIOLA
Carlo GATTI
Rapallo, 21 Ottobre 2018
IL CANALE DI GÖTA - SVEZIA
IL CANALE DI GÖTA
SVEZIA
GÖTA KANAL
La rete idrografica della Svezia, così estesa e ramificata, non é molto idonea come reticolo di comunicazione per i frequenti dislivelli; pertanto, specie nella parte settentrionale del paese, le comunicazioni sono state difficili fino all’introduzione della ferrovia.
I grandi laghi invece hanno sempre rappresentato vie di comunicazione di traffico locale, specie quando sono stati congiunti per mezzo di canali o di tronchi fluviali artificialmente sistemati.
Il canale più importante é il Göta Kanal, che unisce Göteborg a Stoccolma collegando due mari, otto laghi, tre canali e un fiume attraverso un sistema di 66 chiuse. Costruito tra il 1810 ed il 1823, fu inaugurato nel 1832. Rimane tuttora l’opera ingegneristica più importante della Svezia.
La sua costruzione fu voluta dal re Gustavo Vasa per unire le due maggiori città svedesi senza dovere pagare una tassa che la Danimarca imponeva a tutte le imbarcazioni che passavano lo stretto di Öresund.
La sua lunghezza complessiva é di 560 km, la larghezza é di 28 metri, e la profondità 3,50; lo sviluppo, che é solo parzialmente artificiale, é interrotto, come dicevamo, da 66 chiuse. La sezione che va da Göteborg al lago Vänern, prende il nome di canale di Trollhättan ed é più larga e profonda del resto, tanto da permettere il passaggio di navi di 1350 t. Importante per il traffico della regione del lago Mälaren é il canale Södertälje, che unisce il lago stesso al mar Baltico.
Nel dopoguerra c’è stata la conversione del traffico commerciale in turistico, ma le navi sono rimaste le stesse, naturalmente anch’esse sono state convertite ai nuovi standard moderni.
Le attrazioni turistiche sono numerose e le mostreremo nel percorso fotografico.
Il Göta Kanal si snoda da Sjöstorp (lago Vänern) a Östersjön e ci sono 58 chiuse. I canali artificiali hanno una lunghezza di 190 km, di cui 87 sono stati scavati. Il canale raggiunge la sua massima altezza a Forsvik 91,8 metri.
Le caratteristiche delle navi:
Lunghezza: 30 m
Larghezza: 7 m
Pescaggio: 2,83 m
Altezza: 22 m
Velocità massima: 5 nodi
Durata del viaggio
La compagnia di navigazione Göta Kanal, da maggio a settembre, effettua crociere da Göteborg a Stoccolma e viceversa che durano 4 giorni (3 notti) con le navi storiche Juno del 1874, Wilhelm Tham del 1912 e Diana del 1931. La Juno è lunga 31,45 metri, larga 6,68 metri, ha un pescaggio di 2,72 metri e 29 cabine a due posti; le altre hanno misure analoghe.
Il viaggio in una sola direzione dura 6/7 giorni in alta stagione, di cui sono previsti 5 pernottamenti negli alberghi lungo il percorso. LA NAVIGAZIONE E' SOLO DIURNA!
Imbarcazioni private
Anche i privati con le loro barche possono utilizzare il canale: le cui misure non possono superare:
Lunghezza:88 m, Larghezza:13,2 m, Altezza:27 m, pescaggio 5,4 m
Un po’ di Storia:
Baltzar von Platen (1766-1829)
Tra il 1810 e il 1832 furono scavati 190 chilometri di canali e chiuse, da 58.000 soldati svedesi, scaglionati in diversi periodi, che hanno dedicato 7.000.000 di giorni di lavoro, per 12/g, sotto la direzione del conte Baltzar von Platen, militare di carriera e Consigliere di Stato. Fautore e promotore nonché realizzatore di questa immane opera. Parteciparono alla costruzione del Canale anche 200 disertori russi (1809), e molti tecnici inglesi. L’inaugurazione del primo tratto avvenne nel 1822. B.von Platen rivette il Serafimerorden dal re Karl Johan 14°. B.v.Platen morì 3 anni prima del termine dell’opera. Il suo motto era: “quando dici che non sei all’altezza é perché non ne hai voglia”.
L’inaugurazione avvenne a MEM (M.Baltico) il 26 settembre 1832 alla presenza del re e delle massime autorità. L’avvento della ferrovia, il traffico su gomma, l’aumento del tonnellaggio navale sono le cause principali della conversione del GÖTA canale, fino ad allora soltanto commerciale, in una delle maggiori attrazioni turistiche della Svezia.
ALBUM FOTOGRAFICO
Sette "chiuse"
Pattugliatore Marina Svedese N°91
Pattugliatore Marina Svedese N° 834
Juno
Vaporetti in salita...
WILHELM THAM
GÖTA HOTEL
Castello di Ekenäs
Chiusa
Hiulangaren-Norfdevall
JUNO
SANDÖN
Carlo GATTI
Rapallo, 12 Settembre 2017
ANTONIO PARIS LENA, Comandante del Conte di Savoia
ANTONIO PARIS LENA
Riva Trigoso diede i natali al Comandante del
CONTE DI SAVOIA
Antonio Paris Lena, Comandante del Conte di Savoia
Primo Carnera col Comandante Paris Lena. Anni Quaranta – Dall’album di Edoardo Bo
Nel raccontare le imprese di navi importanti del passato, spesso ci chiediamo: perché la grande storia si occupa raramente degli uomini che le hanno comandate? Eppure quelle navi parlano il linguaggio di chi ha donato loro personalità, spirito marinaro, esperienza, fama e un’organizzazione così forte da riuscire ad essere UNICHE nel panorama internazionale.
Fateci caso, dal varo della nave al viaggio inaugurale, la pubblicità diffonde ampiamente i nomi degli architetti, ingegneri, pittori, scultori e arredatori che l’hanno impreziosita, ma poco o niente dei loro Capitani. Fanno eccezione le grandi tragedie navali, dalle quali le figure dei Comandanti ne escono quasi sempre a pezzi…
Tuttavia, dopo questa introduzione “controcorrente”, possiamo fare un paio di eccezioni estraendo dal cilindro della storia due figure di Comandanti che ancora oggi danno lustro alla marineria del levante ligure. Ricordiamo, infatti, che nel suo immenso album di valenti Comandanti, ci sono due nomi che raggiunsero l’apice della notorietà sul palcoscenico dell’Oceano Atlantico: Francesco TARABOTTO, di Lerici, vincitore del NASTRO AZZURRO con il transatlantico REX, e Antonio Paris LENA di Riva Trigoso che fu per molti anni il Comandante del CONTE DI SAVOIA (Near sister del Rex). Del primo ce ne siamo occupati in altre occasioni ricordando che abitò a Rapallo in via Aschieri nel periodo della Seconda guerra mondiale.
Oggi ci occuperemo del suo rivale – il Comandante running mate Antonio Paris Lena.
Maurizio Eliseo, nel suo libro “REX “ ha scritto:
….. Le navi sfrecciarono a poco distanza, ad una velocità combinata di 100 Km/h, mentre le bandiere, i passeggeri e le sirene si scambiavano i saluti. Probabilmente anche il comandante del Conte di Savoia, Antonio Lena, fece un cenno di saluto a Tarabotto, sperando avesse gradito la foto con dedica che gli aveva mandato da poco: i due comandanti non avevano tempo per frequentarsi e in genere erano sulle sponde opposte dell’oceano, ma la stima reciproca ed un carattere completamente agli antipodi, avevano fatto nascere tra loro una sincera amicizia.
Antonio Lena (1877-1943) nacque a Riva Trigoso e si diplomò al Nautico di Camogli. Fu considerato il più brillante Comandante dell’epoca: parlava cinque lingue, amava conversare di letteratura, cinema, poesia e musica con i suoi prestigiosi passeggeri ed aveva un carattere molto cordiale ed una personalità affascinante. Per queste speciali caratteristiche fu definito: “agli antipodi” del suo competitor Tarabotto. I due avevano anche una visione politica molto diversa. Il vincitore del Nastro Azzurro riteneva di avere un Comandante supremo da cui ricevere gli ordini: Mussolini. Al contrario, Antonio Lena non forzò mai i motori oltre il massimo consentito per non rovinare la nave e neppure lo stomaco dei passeggeri paganti. Sfiorò per pochi decimi la conquista del Nastro Azzurro che, evidentemente, non rientrava nei suoi orizzonti di gloria.
Ma per farci un’idea più precisa della personalità Di Antonio P.Lena, prendiamo a prestito una annotazione di Ulderico Munzi tratta dal suo libro: Il Romanzo del Rex.
Quando gli avevano dato l’ordine di battere il record (Nastro Azzurro) del transatlantico tedesco EUROPA, che resisteva dal marzo del 1930, il comandante Antonio Lena aveva detto semplicemente: “Ci proverò”. “Il duce ci tiene”, aveva esortato il ministro Costanzo Ciano. “Ha un debole per il Conte di Savoia”… “Le prometto che farò tutto il possibile”, aveva ribadito il comandante rispondendo con un saluto militare alla mano alzata nel saluto fascista del ministro. Antonio Lena non amava Francesco Tarabotto. In pubblico si salutavano, si scambiavano battute, erano impeccabili. Ma si detestavano. Erano due caratteri e due fisici opposti. Magro, di media statura, il volto affilato e i capelli radi, Lena pareva un nobiluomo in vacanza anche quand’era in plancia. Il suo alloggio traboccava di libri e giornali. Recitava i brani di Shakespeare e di Dante. Parlava l’Inglese senza alcun accento ed era molto amato dalle donne, soprattutto per la sua conversazione. Era un comandante di stile diverso, un gentleman dell’Oceano, come lo aveva definito la miliardaria Doris Duke. Francesco Tarabotto era in tutto e per tutto un marinaio. Lena poteva anche abitare in un castello della campagna inglese. Tarabotto, se restava a terra più di quindici giorni, cominciava a morire spiritualmente. In sostanza, questa era la differenza fra i due uomini”.
Avrete sicuramente capito che le versioni sulla amicizia tra i due Comandanti non combaciano… Purtroppo, come dicevo all’inizio, anche di questi due “giganti” è stato scritto troppo poco!
Il CONTE DI SAVOIA era raffinato come il suo comandante. Era un liner molto veloce, forse più veloce del suo rivale, aveva al suo interno un’atmosfera di modernità ed eleganza che andava oltre la tradizione classica del REX. Ma le grandi imprese non erano nel suo destino.
Antonio Lena, proprio come un inglese, amava le sfide e le scommesse, ma aveva anche un grande rispetto per le persone, quindi per i passeggeri. Per la sua mentalità era giusto mettercela tutta per conquistare il Nastro Azzurro, ma non per obbedire ad un ordine di Mussolini. Lo tentò per un senso di sportività che non gli mancava di certo, lo fece sfiorando il successo in virtù di quel traguardo che avrebbe esaltato semmai la Marineria Italiana, che nulla aveva di politicamente rilevante.
Il REX invece possedeva la grinta di Francesco Tarabotto che aveva motivazioni più aderenti all’ideologia ed alla propaganda del regime.
Antonio Paris Lena aveva un atteggiamento nobile perché discendeva da una facoltosa famiglia che aveva interessi commerciali ed armatoriali in tutto il mondo, ma dentro era un grande marinaio che si era formato sui leudi e poi sui brigantini oceanici della famiglia. Apparteneva a quella scuola che insegnava ad essere umili e rispettosi dinnanzi al dio-mare che impartisce lezioni e non ama le sfide.
La Seconda guerra mondiale blocca o disperde molte delle nostre navi. Antonio Paris Lena si ritira nella sua cittadina con l’angoscia nel cuore per la fine di tanti sogni. All’indomani dell’8 settembre muore a Sestri Levante travolto da un mezzo tedesco. Un membro d’acquisto della famiglia, l’avvocato Terzi, sarzanese, socialista, viene deportato e muore in Germania.
Nel destino del Comandante A.P.Lena era scritto che doveva morire pochi giorni prima della sua nave.
L’11 settembre 1943 la più bella unità italiana fu ridotta ad un ammasso di lamiere fumanti, sotto i bombardamenti di una squadriglia d’aerei tedeschi. I tedeschi incendiarono il CONTE DI SAVOIA per impedirne la fuga e la consegna agli alleati. La nave bruciò completamente e affondò nella rada. Il 6 ottobre 1945 il relitto fu recuperato, ma per una serie di motivi tecnici e soprattutto economici, la decisione fu quella di demolirla nel 1950.
Nessuno dei discendenti Lena intraprenderà più la carriera del comando marittimo dopo i fratelli Antonio Paris e Paolo Erasmo. Per la famiglia la guerra segna uno spartiacque non privo di risvolti tragici anche se l’attività prosegue, malgrado tutto, con successo. Il conflitto interrompe bruscamente i rapporti con l’America che le avevano dato nome, fama e prestigio, consolidando in maniera definitiva il suo rango di grande famiglia sestrese.
CARLO GATTI
Rapallo, 30 dicembre 2016
I MITICI CARAVANA - Prime Regolamentazioni
I MITICI Caravana
Le prime regolamentazioni del lavoro
Prima che il Regno Sabaudo annettesse Genova ai suoi territori, i rapporti di lavoro erano regolamentati, si fa per dire, direttamente fra gli interessati; una stretta di mano e…vinca il più forte, che poi era sempre lo stesso. Non a caso, all’epoca, il datore di lavoro, si chiamava “padrone”.
Arrivato il Regno, bisognava far capire che eravamo una comunità moderna ed allora s'istituì, per la prima volta a Genova, un vero e proprio “libretto di lavoro” che portasse a conoscenza delle parti contraenti, le norme previste dalla nuova legge, promulgata per disciplinare la materia.
Nel ricercare documenti del nostro passato, me n’è capitato per le mani una copia, fra le prime stampate, risalente all’inizio della seconda metà del ’800.
Il documento, scritto in italiano e francese, quest’ultima era lingua in uso a Casa Savoia e fra l’alta borghesia torinese, doveva essere conservato dal datore di lavoro per tutto il tempo che durava il rapporto; quello che ho visto si riferiva ad una domestica che, da diciotto anni, lavorava sotto il medesimo padrone.
Leggendo le norme, si riceve la sensazione che il dipendente fosse ritenuto un irresponsabile, quasi equiparato ad un qualsiasi animale domestico presente nella casa. Di tutte le infrazioni sarebbe andato incontro non obbedendo, avrebbe certamente “filato liscio” o pagata cara la mancanza. Duecento anni prima, una necessità assai simile deve aver suggerito l’idea di costruire, in Genova, un gran ricovero entro il quale riunire tutti i poveri: l’Albergo dei Poveri, per l’appunto.che egli avrebbe potuto commettere verso terzi, ne rispondeva direttamente e pienamente il suo datore di lavoro che poi, a sua volta, aveva diritto di rivalersi sul dipendente colpevole. Così, ogni nuovo padrone, prima di assumere o pagare il dipendente, doveva controllare se gli interrotti rapporti con il precedente, fossero stati pienamente soddisfacenti per quest’ultimo, pena il rifondere lui stesso quanto ancora fosse rimasto in contenzioso.
Chi sovrintendeva a questi rapporti era nientemeno che il Commissario di Pubblica Sicurezza competente al quale, in caso di licenziamento e nell'attesa che il disoccupato avesse trovato un nuovo lavoro, bisognava riconsegnare il libretto; doveva provvedere lui a che il nominativo del disoccupato, fintanto che rimaneva tale, fosse iscritto direttamente nelle liste dei…..sospetti.
Questa classificazione la dice lunga su com’era trattato il dipendente; le misere paghe correnti all’epoca, evidentemente era notorio, non gli avrebbero permesso di poter accantonare qualcosa per sopravvivere sia lui sia la sua famiglia, ad un periodo di disoccupazione; ciò lo avrebbe indotto a delinquere per vivere e allora, vivaddio, tanto valeva, per evitare inutili passaggi burocratici, iscrivendolo subito fra i possibili “sospetti”, indipendentemente dall’aver già commessa o meno, colpa. Prima o poi ci sarebbe cascato.
Il dubbio è che quella legge, più che disciplinare i rapporti di lavoro, servisse a controllare i poveri, schedandoli e localizzandoli. Non potendo la Polizia tenerli tutti sotto controllo, responsabilizzando i padroni, avrebbero provveduto loro a che tutto filasse liscio facendo valere, con la consueta durezza, coperta dalla più totale impunità, il loro potere; il dipendente, sapendo a quale alternativa sarebbe andato incontro non obbedendo, avrebbe certamente “filato liscio” o pagata cara la mancanza.
Albergo dei Poveri - Genova
Duecento anni prima, una necessità assai simile deve aver suggerito l’idea di costruire, in Genova, un gran ricovero entro il quale riunire tutti i poveri: l’Albergo dei Poveri, per l’appunto.
Fu scelto un sito appena fuori le mura, nella parte Nord Occidentale della Città, nella valletta della Carbonara, dove ancor oggi l’imponente edificio si trova. Non fecero però neppure a tempo ad iniziarlo, che una delle ricorrenti epidemie di peste ne interruppe i lavori per due anni.
La città, all’epoca in piena espansione e benessere, attirava ogni genìa di persone che, nell’abbondanza, potevano trovare come rimediare un pasto e, forse, anche una cena; fu quindi invasa da mendicanti, pezzenti e prostitute. La cosa preoccupò sia la nobiltà sia il potere (all’epoca le due autorità coincidevano) di quel tanto che se ne presero cura o, meglio, si protessero riunendo appunto in quel palazzo-ricovero tutti i bisognosi; controllarne ogni entrata od uscita verificandone costantemente la presenza, fu assai più facile e meno dispendioso che girare per la città a prevenire i disordini.
Per le prostitute invece operava un apposito <Illustrissimo Magistrato >, un lenone istituzionale, che, fin dal 1418, badava a riscuotere la quota spettante alla Repubblica, ancor prima che fosse consumata la marchetta, ritirandola proprio all’ingresso di una bella fetta di città, recintata e a loro riservata; con quei soldi, per anni, la Repubblica finanziò l’Opera della Porto e del Molo.
Da un altro libercolo d’epoca, si rileva che Vittorio Emanuele II, Re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, Duca di Savoia, di Genova, Principe di Piemonte, ecc. ecc., promulgò un < Regolamento e Tariffa pel servizio dei Facchini di Genova > dove, fatte salve le speciali disposizioni per i facchini da grano, da vino, e quelli del Ponte Spinola, del Ponte Reale e del Ponte Legna (in sostanza le zone dove hanno sempre operato i “camalli”), si affermava che tutti i cittadini possono, se scelti, esercitare tale mestiere all’interno della Città e, fra questa e i Ponti (gli attuali moli). Nell’occasione erano equiparati ai genovesi i cittadini sardi quivi residenti, sino allora parzialmente emarginati, con l’avvertenza, all’Articolo 6, che < Niuno potrà far parte, ad un tempo, delle due categorie >. L’Articolo 4, ci fa capire come all’epoca il porto funzionasse <I facchini delle suddette categorie (quelle dell’elenco sopra riportate) non potranno impedire ai negozianti di sbarcare le merci a quel Ponte che loro converrà…> Il monopolio, che questo articolo tendeva ad eliminare, invece lentamente strozzò il porto e, per oltre un secolo, condizionò l’attività portuale e, attraverso questo mal concepito cooperativismo, parte del benessere della Città; la politicizzazione poi, fece il resto.
Anticamente la corporazione dei portuali ha rappresentato per Genova un punto di forza ma, data l’importanza vitale per l’economia cittadina, poteva anche rappresentare un latente pericolo, specie in un’epoca in cui, XIV e XV secolo, le faide fra le potenti famiglie sovvertivano continuamente il potere nella città. Tradizionalmente, in porto, lavoravano i bergamaschi, forti e pacifici lavoratori che, non essendo genovesi, si sentivano estranei alle “beghe” locali; ma se si fossero schierati, avrebbero potuto sovvertire le sorti a favore di chi avessero difeso, determinando la sconfitta certa per l’avversario. Allora, per garantirne la neutralità senza perdere la loro preziosa e determinante presenza in porto, il Senato decretò che il posto di <caravana >, scaricatore, sarebbe stato appannaggio esclusivo dei cittadini bergamaschi; per poter essere però dichiarati tali, era indispensabile certificare di essere nati nella “Bergamasca”. Così avveniva che le madri incinte, se volevano garantire ai figli sicuri posti di lavoro, dovevano sobbarcarsi un estenuante viaggio per andarli a partorire nei territori d’origine, e, con gli attestati dimostranti che il figlio non era nato a Genova, rinunciavano a che ne divenisse cittadino compresi tutti i conseguenti diritti che quello status, comportava; in questo modo Genova si garantì la totale estraneità dei camalli, gente robusta e dalle mani pesanti, alla vita pubblica locale. Il dizionario Genovese–Italiano del Casaccia, alla voce “caravana” puntualizza: <Chiamavansi già da noi con tal nome alcuni individui, nativi di Bergamo, ammessi per la loro buona condotta e fedeltà a facchineggiare nel nostro Portofranco: oggidì furono sostituiti dai nostri>.Questo come gli altri Dizionari analoghi, editi pressoché contemporaneamente in tutta Italia sul finire dell‘800, li volle Casa Savoia, impegnata a far parlare italiano l’intera comunità nazionale; diede incarico ad eminenti professori locali affinché, in ogni Regione, ne pubblicassero uno che traducesse in italiano i termini del dialetto locale, ma non viceversa, perché l’idioma regionale fu ritenuto fonte d’incomprensioni e campanilistiche divisioni e, non invece un patrimonio culturale da conservare. Ecco perché esistono solo glossari che traducono in italiano i vari dialetti, ma non viceversa. Con lo stesso libercolo sopra accennato, s’istituì anche la figura del “Console”, quale rappresentante dei facchini ed eletto da ciascuna categoria; in oltre la città e il porto vengono suddivise in “zone” e si regolamenta il trasporto nell’ambito delle singole circoscrizioni o fra zona e zona, determinandone le tariffe. Stabilisce anche i pesi sopportabili ed i relativi compensi per retribuire il lavoro effettuato per scaricare le navi, comprese quelle in quarantena, regolando il conseguente sbarco e trasporto a terra delle derrate, prevedendo anche l’uso delle chiatte; si trattava di larghi, robusti barconi da affiancare alla nave e sulle quali scaricare direttamente la merce, da poi essere trainate sino ai moli e, all’occorrenza, coperte da teloni impermeabili, potevano trasformarsi in veri e propri magazzini galleggianti per un provvisorio stoccaggio. Stabiliva altresì le tariffe e la percorrenza in metri, in base alle quali variare le retribuzioni per il trasporto dal molo al magazzino e, giuntivi, le maggiorazioni da conteggiare a seconda del piano al quale la merce doveva essere issata a spalle. portata. Nelle <Disposizioni Generali e Particolari > determina che, come norma, il carico trasportabile, da ritenersi “usuale” per ogni facchino, è di cento chilogrammi; in fine puntualizza che è data facoltà ai negozianti di inserire, nella squadra dei facchini, anche uno di loro fiducia.Tutto quanto sopra fu sancito <Addì 15 Febbraio 1851, Visto d’Ordine di S.M.- Il Ministro Segretario di Stato per la Marina, Agricoltura e Commercio, Camillo Cavour>.
Medaglia commemorariva della Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie del Porto di Genova
La statua dedicata ai Caravana
La ragione di tal nome? Il vocabolo deriva dal persiano kairewan che significa, come in italiano il vocabolo carovana, compagnia di viaggiatori. E crediamo di essere nel vero ritenendo che quella parola orientale sia passata nella lingua italiana proprio attraverso Genova e i genovesi, considerate le altre non poche parole arabe, greche, e orientali in genere, del dialetto genovese.
Allora, per garantirne la neutralità senza perdere la loro preziosa e determinante presenza in porto, il Senato decretò che il posto di <caravana >, scaricatore, sarebbe stato appannaggio esclusivo dei cittadini bergamaschi; per poter essere però dichiarati tali, era indispensabile certificare di essere nati nella “Bergamasca”. Così avveniva che le madri incinte, se volevano garantire ai figli sicuri posti di lavoro, dovevano sobbarcarsi un estenuante viaggio per andarli a partorire nei territori d’origine, e, con gli attestati dimostranti che il figlio non era nato a Genova, rinunciavano a che ne divenisse cittadino compresi tutti i conseguenti diritti che quello status, comportava; in questo modo Genova si garantì la totale estraneità dei camalli, gente robusta e dalle mani pesanti, alla vita pubblica locale.
Il dizionario Genovese–Italiano del Casaccia, alla voce “caravana” puntualizza: <Chiamavansi già da noi con tal nome alcuni individui, nativi di Bergamo, ammessi per la loro buona condotta e fedeltà a facchineggiare nel nostro Portofranco: oggidì furono sostituiti dai nostri>.
Il Porto Vecchio a fine ‘800
Questo come gli altri Dizionari analoghi, editi pressoché contemporaneamente in tutta Italia sul finire dell‘800, li volle Casa Savoia, impegnata a far parlare italiano l’intera comunità nazionale; diede incarico ad eminenti professori locali affinché, in ogni Regione, ne pubblicassero uno che traducesse in italiano i termini del dialetto locale, ma non viceversa, perché l’idioma regionale fu ritenuto fonte d’incomprensioni e campanilistiche divisioni e, non invece un patrimonio culturale da conservare. Ecco perché esistono solo glossari che traducono in italiano i vari dialetti, ma non viceversa. Con lo stesso libercolo sopra accennato, s’istituì anche la figura del “Console”, quale rappresentante dei facchini ed eletto da ciascuna categoria; in oltre la città e il porto vengono suddivise in “zone” e si regolamenta il trasporto nell’ambito delle singole circoscrizioni o fra zona e zona, determinandone le tariffe. Stabilisce anche i pesi sopportabili ed i relativi compensi per retribuire il lavoro effettuato per scaricare le navi, comprese quelle in quarantena, regolando il conseguente sbarco e trasporto a terra delle derrate, prevedendo anche l’uso delle chiatte; si trattava di larghi, robusti barconi da affiancare alla nave e sulle quali scaricare direttamente la merce, da poi essere trainate sino ai moli e, all’occorrenza, coperte da teloni impermeabili, potevano trasformarsi in veri e propri magazzini galleggianti per un provvisorio stoccaggio. Stabiliva altresì le tariffe e la percorrenza in metri, in base alle quali variare le retribuzioni per il trasporto dal molo al magazzino e, giuntivi, le maggiorazioni da conteggiare a seconda del piano al quale la merce doveva essere issata a spalle, portata.
Nelle <Disposizioni Generali e Particolari > determina che, come norma, il carico trasportabile, da ritenersi “usuale” per ogni facchino, è di cento chilogrammi; in fine puntualizza che è data facoltà ai negozianti di inserire, nella squadra dei facchini, anche uno di loro fiducia.
Tutto quanto sopra fu sancito <Addì 15 Febbraio 1851, Visto d’Ordine di S.M.- Il Ministro Segretario di Stato per la Marina, Agricoltura e Commercio, Camillo Cavour >.
Renzo BAGNASCO
I CARAVANA
In diversi porti italiani a partire dal XIV secolo, i bergamaschi risultano inquadrati come facchini: a Pisa la maggior parte proviene da Urgnano mentre a Venezia l’importante Compagnia dei Bastagi operante alla Dogana del porto è formata esclusivamente da bergamaschi. Nella Genova medioevale tra le varie arti esercitate da stranieri si segnale per la sua rigorosa organizzazione interna e per i rilevanti compiti ad essa affidati, proprio la Compagnia dei Caravana, cioè i facchini della Dogana, detti in genovese camalli. Quasi tutti di origine lombarda fino al XVI secolo, dal 1576 si sancisce rigidamente l’obbligo e l’esclusività della provenienza bergamasca. I cognomi dei membri della Compagnia che vengono registrati nei documenti ufficiali sono infatti tutti di sicura origine bergamasca e tra le varie località di provenienza si segnalano soprattutto Brembilla, Dossena, Serina e Zogno in Val Brembana. Organizzata secondo i consueti rigidi canoni corporativi, la Compagnia dei Caravana mantiene sempre un ruolo egemone nell’ambito delle attività portuali genovesi fino al XIX secolo, quando la provenienza delle valli di Bergamo inizia a diventare più un’eccezione che una regola statutariamente sancita.
Nota del webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 11 Luglio 2014
Il veliero FORTUNATA FIGARI rimorchia il vapore CONJEE
UNA IMPRESA ECCEZIONALE
La “Nave” FORTUNATA FIGARI
al comando del Capitano camogliese Rocco Schiaffino, ha preso a rimorchio e portato in salvo il Piroscafo da passeggeri CONJEE in avaria, contro il quale è entrato in collisione.
Lo Stretto di Bass tra l'Australia e la Tasmania.
Tutti conoscono, per sentito dire, le famose tempeste di Capo Horn che inghiottivano due velieri su cinque tra quanti osavano sfidarlo.
Pochi, invece, hanno sentito parlare dello Stretto di Bass, che è il tratto di mare che separa la costa meridionale dell’Australia dall’isola della Tasmania. Tutte le insidie che solitamente minacciano le rotte dei naviganti, si trovano concentrate e ben distribuite in quel braccio di mare: rocce semisommerse, bassi fondali, isole deserte, coste impervie, correnti forti, nebbie, venti fortissimi e variabili che giungono direttamente dall’Antartide.
Questa “Scilla e Cariddi” australiana cade in mezzo ai terribili “40 Ruggenti”. Questa denominazione, che risale all’epopea della vela, sta ad indicare le zone intorno ai 40° di latitudine Sud, ove si succedono in continuazione importanti perturbazioni accompagnate da venti tempestosi. Quattrocento sono le navi, fin qui annoverate, tra le vittime sacrificali della terribile natura di quel braccio di mare, tuttavia, la collisione che desideriamo raccontarvi è passata alla storia per il suo atipico ed eccezionale epilogo. Il drammatico episodio non rientrò, per fortuna, nelle “normali” statistiche dei naufragi di quella zona tremenda, sebbene le due navi protagoniste della collisione ne uscissero a pezzi da quella collisione e purtroppo si contarono anche due vittime. “Il Cooje, della Huddard Parker Co. salpò alla vigilia di Natale del 1903, per la sua ennesima traversata dello Stretto di Bass, proveniente da Victoria (Tasmania) ed era diretto a Merlbourne.
Il Piroscafo passò Low Hoad alle 19.15 con una notte chiara, buona visibilità e mare calmo. Purtroppo, il giorno di Natale, verso le 2 di notte, il Cooje incontrò dei banchi di foschia che poi s’infittirono formando una densa coltre di nebbia. Il Capitano Carrington, che aveva una notevole esperienza di simili condizioni meteo, decise di ridurre la velocità e di azionare ad intervalli regolari i segnali acustici per nebbia. Vi fu nuovamente un peggioramento della visibilità e, intorno alle 3,45, apparve sulla dritta la sagoma di un vascello fantasma ...
Si trattava del Veliero camogliese Fortunata Figari, al comando del Capitano Rocco Schiaffino di Camogli, che avanzava inesorabile, come un cavaliere medievale, “lancia in resta”, col suo lungo e micidiale bompresso metallico. Il Capitano Carrington ordinò immediatamente di fermare le macchine e di mettere il timone tutto a dritta, ma fu troppo tardi e tutto inutile. Le due navi si scontrarono con un frastuono straziante. L’albero di fiocco della Fortunata Figari penetrò e demolì la maggior parte delle sovrastrutture e dopo aver abbattuto il Ponte di Comando, distrusse le scialuppe, l’albero ed il fumaiolo del piroscafo Cooje.
Il più celebre e lussuoso postale australiano dell’epoca, in pochi attimi fu devastato e ridotto ad una massa di metalli contorti. Un giornale locale scrisse: “Il Coojee sembra più una chiatta che trasporta rottami che un piroscafo postale”. Il capitano morì sul suo ponte di comando. Un marinaio, rimasto imprigionato sotto le lamiere contorte, morì dissanguato ed il suo corpo fu recuperato dieci ore dopo la collisione. In quei momenti di panico non si riscontrarono vittime tra i 160 passeggeri. Alcuni di loro furono presi dal terrore che la nave stesse per affondare, ed il caos aumentò con il sibilo del vapore dei tubi rotti nella collisione. Molti passeggeri si arrampicarono sulla Fortunata Figari che nel frattempo si era affiancata al Coojee. Le avarie subite dal veliero camogliese furono tutt’altro che superficiali: la prua e l’ancora del piroscafo australiano avevano, infatti, causato una falla lunga tre metri ed alta uno, sul dritto di prora, all’altezza della linea di galleggiamento, ma nonostante la quantità d’acqua imbarcata, le paratie stagne avevano evitato ulteriori danni e soprattutto l’affondamento. Gio Bono Ferrari, nel resoconto dell’episodio pubblicato sul libro “La Città dei Mille Bianchi Velieri” racconta: “Capitan Schiaffino, il comandante della Fortunata Figari, non volle abbandonare al suo destino quelle 160 persone. Sebbene la sua nave fosse gravemente danneggiata, il camogliese tentò nobilmente il salvataggio e fatto calare un grosso cavo verso il vapore ormai sbandato, lo prese a rimorchio e lentamente proseguì la difficile e pericolosa navigazione.
La navigazione proseguì per vari giorni fra difficoltà; ma a tutto, rimediò la tenacia del Capitano e del suo equipaggio composto da camogliesi.
E così, un buon mattino, la vedetta del porto di Melbourne vide avanzarsi verso il porto un grande veliero battente bandiera italiana, con a rimorchio un più grosso vapore tutto sbandato e pullulante di passeggeri. Caso forse unico nella storia marinaresca: quello di un Barco che salva un Vapore.
La Camera di Commercio australiana votò la Cittadinanza Onoraria al valoroso Capitan Schiaffino e il Governo inglese lo condecorò della “Medaglia d’Argento al Valore.” L’Armatore del Coojee non volle accettare il compenso dovuto al salvatore e preferì ricorrere alla Corte dei Lloyd’s, la quale stabilì che il Capitano Carrington era colpevole per non aver ridotto a sufficienza la velocità in quelle condizioni di scarsa visibilità. Il Comandante Rocco Schiaffino fu completamente scagionato. “Dovreste essere nato in Inghilterra”, disse il Presidente della Corte al Capitano camogliese e crediamo che una lode di questo tipo non sia stata mai proferita da un giudice inglese.
La “Nave” FORTUNATA FIGARI al comando del Capitano camogliese Rocco Schiaffino, ha preso a rimorchio e portato in salvo il Piroscafo da passeggeri CONJEE in avaria, contro il quale è entrato in collisione.
Le guerre, solitamente, chiudono epoche che la gente vuole dimenticare; altri cicli si aprono e si riparte da zero. L’intera storia della gente di mare, al contrario, parte da lontano e avvolge a spirale tutti i suoi marinai, con un velo purissimo che si chiama solidarietà.
In questo senso siamo convinti che il mare, nonostante le sue continue “intemperanze”…sia pur sempre il più grande maestro di civiltà.
Carlo GATTI
Rapallo, 20.06.11
Si ringrazia Emilio Gandolfo per averci dato in visione materiale recuperato dal camoglino Vincenzo Merlo, residente in Tasmania, e che ci è servito per integrare la storia della collisione pervenutaci, a suo tempo, dagli scritti di Giò Bono Ferrari.
PESCA CON LA LAMPARA
PESCA CON LA LAMPARA
UN PO’ DI STORIA
Eliano Claudio - Sofista (170 - 235 d. C.) di Preneste (Palestrina); Scrisse 17 libri: Sulla natura degli animali.
Eliano, fra i quattro diversi metodi di pesca da lui dettagliatamente descritti, non contempla l’impiego del tridente, ma al contrario dell’arpione, per il quale conia un termine derivato da quello che indica l’asta. A suo parere questo metodo é il più nobilitante per il pescatore perché: richiede le doti più virili, il pescatore deve essere molto robusto; deve avere un’asta dritta di abete, corde di sparto*, legnetti di pino ben uniti per accendere il fuoco; gli occorre anche una piccola imbarcazione fornita di vigorosi rematori, dotati di buone braccia.
Da questo passo di Eliano, oggi sappiamo che già 2000 fa esisteva la tecnica di cattura del pesce azzurro pressoché simile a quella attuale:
1) - l’arpione veniva recuperato mediante corde di sparto.
2) - la pesca si svolgeva utilizzando la fiamma prodotta dai “legnetti di pino ben uniti” per illuminare l’area di pesca.
*sparto: Erba perenne (Lygeum spartum) della famiglia Graminacee che cresce in alcune zone aride e più o meno salmastre della regione mediterranea (Italia merid., Spagna, Africa boreale ecc.). Ha foglie giunchiformi, lunghe fino a 60 cm. Le fibre della pianta, tenaci e resistenti, sono usate per farne cordami o stuoie e nella fabbricazione della cellulosa da carta.
Facciamo un salto in Egitto …
Nell’antico Egitto la pesca veniva praticata preferibilmente con enormi reti, spesso rappresentate nei bassorilievi tombali: un esempio eclatante é nel basso rilievo di una tomba rinvenuta nei pressi delle Piramidi, (foto sopra) nel quale sono raffigurati sette uomini e un sorvegliante, intenti a manovrare le funi di una grande rete, analoga alle moderne reti a strascico e dotata di galleggianti a doppia coda di rondine, probabilmente realizzati in legno, e di pesi in piombo a forma di goccia allungata.
Questa tipologia di pesi avrà una continuità d’uso immutata fino all’epoca moderna, tanto da creare ancora oggi non pochi problemi di datazione nei contesti subacquei, frequentati per secoli dai pescatori…
In un breve tratto della costa d’Israele, nei pressi di Haifa, sono stati recuperati oltre 1200 pesi da pesca, sia in piombo che in pietra distinguendone il materiale, ma anche la forma e il metodo di realizzazione; i siti hanno anche restituito altri materiali connessi direttamente all’esercizio della pesca come gli ami, oppure come gli aghi da rete, gli scandagli e i residui di lavorazione del piombo per la realizzazione dei pesi.
Questa premessa ha semplicemente lo scopo di ricordare agli appassionati dell’argomento che i pescatori vengono da lontano e ci hanno lasciato in eredità la tecnica di pesca e gli attrezzi che sono usati ancora oggi alla stessa maniera.
OGGI
Acciughe e sardine sono pesci pelagici molto diffusi in tutto il Mediterraneo e nelle acque europee ed africane dell’Oceano Atlantico; in Italia le zone più frequentate da questi pesci "azzurri" sono la Sicilia e il medio basso Adriatico. Un metodo per catturarli, ovvero una tecnica ancora in uso oggi é la pesca con la lampara che viene effettuata da un’imbarcazione madre, e da 3-4 piccole barchette o gozzi che hanno delle grosse “lampare” installate ed alimentate a batteria oppure a gas.
Arrivati sul luogo di pesca nottetempo, i piccoli gozzi vengono ammainati e i marinai, a lento moto di corte bracciate, azionano la lampara per attrarre dal fondale marino: banchi di sardine, piccoli sgombri, alici, acciughe e anche calamaretti, "sedotti" dal forte bagliore della luce artificiale della lampara.
Una volta "radunati" i diversi banchi di pesce azzurro sotto le loro chiglie, i gozzi si avvicinano quasi a toccarsi, a questo punto entra in gioco la barca-madre con il compito di gettare in mare il cianciolo: una rete tesa in verticale che ha sul lato alto dei sugheri galleggianti, mentre nella parte inferiore porta dei piccoli piombi che la stendono formando una parete mobile che lentamente circonda il pesce ammassato in un piccolo spazio.
Chiuso il cerchio, le lampare escono dalla rete e il pesce rimane intrappolato.
Da bordo della barca-madre, tirano delle cime per chiudere la rete sul fondo e trasformarla in un sacco pieno di pescato che viene finalmente viene issato a bordo.
Questo tipo di pesca con la lampara può essere praticata durante tutto l’arco dell’anno, fatta eccezione per le notti di luna piena.
Sono passati molti secoli dalla tecnica appena descritta; oggi la pesca ha assunto connotati industriali che si effettua con pescherecci sempre più accessoriati per l’impiego di moderne tecnologie: radio, radar, sonar; imbarcazioni sempre più grandi che si portano sempre più al largo per la cattura di pesce sempre più grande e pregiato.
Si tratta ormai da tempo di una cattura “industriale” per la quale il “rustico” marinaio pescatore locale di un tempo si é trasformato in un lontano parente "oceanico" che si sposta tra le latitudini e longitudini di due emisferi come una qualsiasi nave dello shipping.
MA NOI NON VOGLIAMO ALLONTANARCI DAL NOSTRO GOLFO.....
A noi é rimasta la curiosità di sapere cosa sia rimasto degli antichi saperi, di quei gesti antichi che ancora si tramandano da padre in figlio lungo le nostre coste.
Anni fa si diceva che il vero pescatore non esce dalle scuole, ma sale sul gozzo del padre per conoscere sulla sua pelle come si governa una barca con il vento e con la corrente, come si prende confidenza con i colpi di mare, come s’interpretano i segnali meteo che ti indicano il peggioramento del tempo, come manovrare le lenze, gli ami e come conoscere le astuzie e le malizie dei pesci, insomma come “fregarli”.
Un tempo il superamento della gavetta lasciava i suoi segni sul volto bruciato dal sole e dalla salsedine, parliamo di uomini fieri che amavano la libertà senza quei limiti imposti dalla terraferma, erano uomini innamorati del mare, e dei loro gozzi che chiamavano per nome in ricordo dei famigliari ai quali si sentivano legati nel mestiere, nella fatica e nel modo si sopravvivere.
LA LAMPARA - Una pesca in estinzione?
Per chi non abbia dimestichezza con questo attrezzo da pesca, spieghiamo che la lampara è un tipo di lampada molto grossa e potente, montata su di una barca che viene usata dai pescatori di notte per illuminare la superficie dell'acqua, al fine di attrarre i pesci in superficie per poi intrappolarli nella rete o catturarli con la fiocina. Per estensione viene chiamato lampara anche il peschereccio che monta tali attrezzature e la rete usata per questo tipo di pesca.
Le lampare possono essere alimentate ad acetilene* o con corrente elettrica.
*L'acetilene è il più semplice degli alchini, idrocarburi, con un triplo legame carbonio-carbonio. Fu scoperto nel 1836 dal chimico inglese Edmund Davy. E’ un gas incolore ed estremamente infiammabile. Ha una temperatura di autoaccensione di circa 305°. È un gas estremamente pericoloso perché può esplodere anche con inneschi minimi e per questo è normalmente diluito nell’acetone.
Dedichiamo oggi la nostra attenzione alla pesca con la lampara delle nostre parti che non tutti conoscono e che ancora oggi, può regalare poca ricchezza… ma tanta soddisfazione nello sfidare con pochi mezzi, un po’ di astuzia e mestiere, l’antico rivale dell’uomo: il pesce azzurro che, detto tra noi, scusandoci per la cacofonia, é l’unico pesce che sa di pesce del nostro mare…
Si vive in democrazia e ognuno é libero d’inseguire i propri sushi … e potersi così sentire uno “esotico stravagante” a migliaia di chilometri di distanza dall’Estremo Oriente… di cui non sa nulla, ma prova a capirlo attraverso la scienza ittica….
La pesca alla lampara é oggi praticata da pochi appassionati, almeno nella nostra regione Liguria, e dire quanti ce ne siano in servizio... é molto facile, basta gettare lo sguardo sul litorale di qualsiasi spiaggia o alla fonda in un qualsiasi porticciolo. Contarle di notte é ancora più facile, sembrano stelle cadute nel golfo in una notte di mare “forza olio” (come dice il mio amico Nunzio) e rigorosamente senza luna.
Ciò che stiamo per dirvi l'abbiamo in parte già visto, ma un conto é la letteratura... un'altra cosa é sentire le voci pittoresche di Nando e Ciccio che me la spiegano così, nei loro dialetti: che sono difficili da scrivere...
Il trucco é antico e facile da capire. Il pesce, abbagliato da una fonte luminosa intensa, sale imbambolato in superficie - racconta Nando sdraiato a pancia in giù sul copertino del gozzo, e si possono anche prendere con le mani. La posizione di cattura, come vedi é scomoda, ma tutto ha un prezzo… e nessuna te la dà gratis...
In effetti non sarebbe giusto e nemmeno educato...! Ribatto seriosamente...
Per dirla tutta, esiste anche un certo gioco di squadra. Nando ha un amico di nome Ciccio, un pescatore siciliano importato negli anni ’50 nel Tigullio, il quale gli fa da battitore a bordo di un altro gozzo senza luce. Il suo compito é quello di precedere la lampara battendo la superficie del mare con uno strumento che lui chiama maglio.
Mi rivolgo direttamente a Ciccio per una spiegazione:
- Se non mi fai capire questo fatto, giuro che vado a farmelo spiegare da uno psicanalista per animali!!! Dimmi come e perché il pesce deve essere scosso dal suo torpore per predisporlo all’esca della lanterna. Se ho ben capito, il pesce, va pre-anestetizzato?
Ciccio mi guarda un po' stranito pensando sicuramente: ma cu é qistu, ma che minchia va cercanne...
- ma che sacciu de sti cose... Tu sai che vo dicere "cugghione"?
Credo di si!
Lu pisci é nu cugghione, ma cu a lampara diventa più cugghione ancora!
Finalmente ho capito! In altre parole l'acciuga viene “rincoglionita” dalla luce, e va a mettersi in posizione come fosse una modella davanti alla fiocina, arpione, lambrogo o retino di Nando , il quale vanta una eccellente rapidità ed una mira infallibile anche se, con molta umiltà, sostiene che il merito della cattura é di Ciccio che glieli manda già pronti da cucinare o da conservare sotto sale!
Abbiamo accennato alla luna piena! Ma come funziona?
Nando mi spiega, nel suo gergo marinaro antico:
- la presenza in cielo della luna piena proietta l’ombra del gozzo sul fondale e sputtana la presenza del pescatore alla lampara. Da cui si deduce che il pianeta romantico é amico dei pesci e un po’ stronza con i pescatori!
Che non é proprio una bella poesia... ma rende l'idea!
Come funziona, o meglio funzionava la pesca alla lampara in Adriatico?
Ce lo racconta il com.te Nunzio Catena di Ortona
Era bello vederle nelle notti d’estate, quando dalla nostra spiaggia
i lumini delle lampare disegnavano, a intervalli regolari, un lungo viale che univa le due sponde dell’Adriatico. Le lampare incantavano i pesci ma anche noi che dalla spiaggia le guardavamo estasiati.
Spesso di notte avevo delle visioni nel sonno: vedevo i pescatori sui gozzi e mi affannavo a chiamarli ad alta voce. Mia madre si svegliava di soprassalto … ed in preda alla delusione le dicevo che non mi rispondevano… Allora si sedeva accanto a me e cominciava a cantare una nenia per farmi addormentare di nuovo.
LE LAMPARE DI UNA VOLTA….
La pesca funzionava così
Ogni peschereccio portava a rimorchio tre battelli che venivano dati fondo, poco lontano uno dall'altro, ad un certa distanza dalla costa. Su queste barche venivano sistemate le grosse lampade che con la loro luce richiamavano il pesce che poi il peschereccio circondava con la rete che successivamente veniva virata a bordo.
Una brutta avventura…
Un tempo i pescherecci erano piccoli e i battelli con la lampara venivano portati a rimorchio e, come spesso accade anche oggi; una notte improvvisamente si scatenò un violento temporale, con forte vento che sollevò onde di qualche metro, al punto che una di quelle barche strappò la cima da rimorchio e quei poveretti del peschereccio, per salvare le altre due, la lasciarono scarrocciare sottovento.
Alle prime luci dell’alba, il tempo era tornato al bello e ci accorgemmo che il mare aveva spinto quella barca, riempita di sabbia ed acqua, sulla spiaggia proprio vicino le nostre case.
Ricordo che ci lavorai quasi tutta la giornata per ripulirla poi, nel pomeriggio, vedemmo un peschereccio che proveniva da Pescara, con rotta parallela alla costa.
Immaginammo subito che erano i proprietari della barca che avevano perduto. Andai a nuoto verso il largo e quando mi giunse vicino gli raccontai l'accaduto e che eravamo pronti a restituirgli la lampara senza nulla pretendere, se non un 'giretto' con il peschereccio, (durante il quale feci timone con mia grande gioia). In quella occasione qualcuno scattò la foto qui sotto.
Il ragazzo fieramente impettito per l’impresa, al centro della foto, é il Comandante Nunzio Catena.
RIEPILOGO
Nando e Ciccio ci danno la situazione in tempo reale:
I pescatori rimasti in attività sono pochi e dimenticati. Hanno canottiere da pirati e tecniche uniche, che nessuno imparerà. Dal porto più grande d’Italia ormai partono soltanto tre barche per la pesca a strascico, cinque a circuizione, sette con le reti da posta: totale 42 imbarcati. L’Aquila Pescatrice è l’unica barca in servizio per 11 mesi all’anno. In Italia il settore segna: -38 % rispetto al 2000. Il registro della capitaneria di porto di Genova testimonia, anno dopo anno, la fine di una storia: 2662 iscritti dal 1972 ad oggi. Si sono arresi quasi tutti. Ma quarantadue pescatori ancora resistono nella darsena del porto antico, in mezzo ai turisti. Vanno a cercare “il pesce buono”.
CARLO GATTI
Rapallo, 16 Ottobre 2018
BOSTON-TALL SHIPS CRUISE 2017
TALL SHIPS CRUISE
2017
BOSTON - MASSACHUSETTS
The Tall Ships Are Coming, The Tall Ships Are Coming!
Enjoy Boston’s scenic and historic inner harbor, view the majesty, and experience first-hand Boston’s rich maritime heritage with a safe and exciting Tall Ships cruise.
Over 40 extraordinary vessels, from around the world, with as many as 14 Class A Tall Ships, and dozens of other charismatic vessels, will descend upon Boston Harbor like enormous colorful butterflies. The city of Boston will be an official -and ONLY- host port for the Rendez-Vous 2017 Tall Ships Regatta -a last stop before arrival Quebec, Canada. Boston, Massachusetts has a long and storied history hosting the Tall Ships, with Massachusetts Bay Lines always participating as an important sponsor and experienced tour provider.
This year marks the 150th anniversary of the forming of the Confederation of Canada, a defining event in the national history of the United States and Canada. It has been suggested as many as 5-7 million visitors will visit Boston just for a glimpse of this peaceful armada.
While the Tall Ships are in port, dates will be reserved exclusively for cruises to view the Tall Ships. Each day, Mass Bay Lines vessels will offer Tall Ship sightseeing cruises, fully narrated by the Captain and crew. You’ll hear a detailed description of the ship’s structure and crew, its history, and other unique points of interest.
What's In Store
On Friday, June 16th, the day before the official festival begins, the large and charismatic sail ships arriving as honored guests and regatta participants, will dramatically anchor nearby setting the stage, under their masthead anchor lights, for a week like no other. This is an oft overlooked yet one of the most visually spectacular moments of the whole visit.
The defining moment however is the Parade of Sails this crowd pleasing event will take place on Saturday June 17th. Very few vessels will provide the requisite 5 hour charters scheduled for this historic occasion. Starting at 7:30 AM, our first cruise departs Rowes Wharf; passengers will be witnesses to an event as rare as an Aurora Borealis. Due to the absence of other ship traffic during the Parade (prohibited by USCG decree) our Captains and crew can focus your attention on the ships arriving under full sails without distraction. We encourage event planners and professional photographers to reserve this day (ASAP) to delight clients and capture many photographic angles of the ships under full sail. There are not enough words to describe the visual beauty and visceral joy that accompanies this experience.
Excitement is inevitable as ships from around the world sail into Massachusetts’s world renowned inner harbor. Make your reservations soon as dates will fill quickly. Private charters are available for groups as small as 45 or as large as 300. Public cruises are also available for singles, couples, families and private groups.
ALBUM FOTOGRAFICO
Eagle
Eagle
Pino SORIO
Carlo GATTI
31 luglio 2017