NAZARIO SAURO: STORIA DI UN MARINAIO

PRESENTAZIONE LIBRO

NAZARIO SAURO: STORIA DI UN MARINAIO

Lunedi 7 Novembre 2016 all'Auditorium San Francesco di Chiavari si è svolta la conferenza per la presentazione del libro NAZARIO SAURO - STORIA DI UN MARINAIO tenuta dal nipote dell’eroe, il Contrammiraglio Romano Sauro. L'evento è stato presentato dal Presidente della Lega Navale di Chiavari Umberto Verna in collaborazione con il Com.te Ernani Andreatta a nome del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta. Presenti all'EVENTO numerose Autorità, Associazioni cittadine e del comprensorio. Ottima lezione per le Amministrazioni extra chiavaresi che ignorano sistematicamente ogni sforzo di chi s’impegna per ricordare ed esaltare i valori culturali e storici della nostra Nazione.

Hanno partecipato all'evento: il Comandante della Scuola Telecomunicazioni FF. AA.  Giuseppe Cannatà, una delegazione del Comune di Chiavari col Vicesindaco Sandro Garibaldi, il Dott. Maurizio Barsotti e il Dott. Nicola Orecchia.

L'Associazione Mare Nostrum Rapallo, era rappresentata dal suo Presidente Com.te Carlo Gatti e da una decina dei suoi soci. Presenti anche Membri dei Marinai d'Italia della sezione di Rapallo con il loro presidente Sergio Bernardini che ha donato un artistico crest al Contrammiraglio Romano Sauro.

Presenti anche i Marinai d'Italia della sezione di Santa Margherita ligure con il Presidente Luciano Cattaruzza.

L’occasione dell'evento era il centenario della morte dell’EROE ITALIANO avvenuta per impiccagione quale traditore dell’Impero Austriaco.

L’Austria applicava già a quell’epoca la legge IUS SOLI in virtù della quale, anche i cittadini delle terre occupate (in questo caso l’ISTRIA) erano austriaci.

Nel corso della conferenza abbiamo scoperto, con una certa meraviglia, che la maggioranza degli italiani, tuttora, credono che Nazario  Sauro sia stato un uomo di terra, cioè dell’Esercito. Chi ha navigato per fortuna sa quanto siano MARINAI gli istriani, e lo siano stati per secoli nell’area politico-militare di Venezia.

Il nostro eroe, prima Comandante di navi mercantili e poi Tenente di Vascello durante la Grande Guerra, nell’occasione della sua cattura, era imbarcato sul sommergibile italiano Giacinto PULLINO come esperto di navigazione, quindi Pilota pratico in quei mari insidiosi.

Il sommergibile era in missione in acque nemiche e finì incagliato su una scogliera non segnalata da luci, fari, fanali, boe e fu catturato dagli austriaci. Non era epoca di Radar, Loran, Decca , JPS  ecc… per cui la notte era ceca veramente. Toccò proprio a lui pagarne in modo tragico le infauste conseguenze, per essere stato colto in fragrante al servizio degli italiani in guerra contro l’Austria.

Il dinamico Contrammiraglio  Romano Sauro (che ha camminato per oltre un'ora da una parte all’altra della scena sotto il palco dell'Auditorium), sta compiendo in barca a vela il giro di 100 porti italiani (100 come gli anni del giubileo della morte). La MISSIONE si concluderà in questo periodo nel 2018 a Venezia, dove riposano le spoglie dell’eroe.

In tutte le soste programmate, il Contrammiraglio  s’impegna nella presentazione del libro da lui scritto con la partecipazione del figlio Francesco.  Ha inoltre precisato che il ricavato delle vendite andrà a favore dell’ente Peter Pan di ricerca che studia le diagnosi e le terapie per i bambini affetti da cancro. L’importanza di questo libro, sta nelle fonti documentali della famiglia e delle numerose testimonianze e racconti orali trasmessi da una generazione all’altra come preziosa eredità, oggi “patrimonio nazionale”.

Verso la fine della conferenza, il Comandante Ernani Andreatta ha emozionato il Contrammiraglio Romano Sauro con un’autentica “sorpresa”. E’ stato infatti tolto il velo da un reperto del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari:

ed è apparso un frammento metallico del sommergibile Giacinto Pullino sul quale era imbarcato l’eroe Nazario Sauro al momento della sua cattura da parte degli Austro-Ungarici.

E’ doveroso precisare che si tratta dell'unico frammento ancora esistente dello scafo del sommergibile Giacinto Pullino.

La conferenza si è poi conclusa con un aperitivo nel “Salone Mastro Checco” dell'antica Casa Gotuzzo in Piazza Gagliardo, con scambio di doni e gagliardetti. La manifestazione si é conclusa con un'ottima cena nel ristorante della celebre piazza dove cinquanta commensali hanno rievocato una gloriosa pagina della nostra marineria. Il taglio della torta offerta dalla Lega Navale  ha suggellato il magnifico EVENTO.

A CURA DI MARE NOSTRUM RAPALLO

Rapallo, 21 Novembre 2016

 

ALBUM FOTOGRAFICO

Una parte del pubblico dell'Auditorium S.Francesco di Chiavari

Il Contrammiraglio Romano Sauro durante la conferenza

Da sinistra Romano Sauro, al centro Giuseppe Cannatà a destra Ernani Andreatta.

La torta offerta dalla Lega Navale di Chiavari

Umberto Verna taglia la torta offerta dalla Lega Navale.


PROVERBI MARINARI Italiani e Genovesi

PROVERBI IN LINGUA ITALIANA

-Il sapere ha un piede in terra e l’altro in mare.

 

-Scienza, casa, virtù e mare molto fan l’uomo avanzare.

 

-Un uccello di mare ne val due di bosco.

 

-Chi va e torna, fa buon viaggio.

 

-Popolo marinaro, popolo libero.

 

-Chi va per il mondo impara a vivere.

 

-Tre cose fanno l’uomo accorto: lite, donne e porto.

 

-Chi ha passato il guado sa quanta acqua tiene.

 

-Piè di montagna e porto di mare fanno l’uomo profittare.

 

-Chi non s’avventura non ha ventura.

 

-Chi non sa pregare, vada in mare a navigare.

 

 

-Chi non va per mare, Dio non sa pregare.

 

-Chi scappa ad una tempesta, ne scappa  cento.

 

-Il mare fa la fortuna ma non le fonti.

 

-Abbi fortuna e gettati in mare.

 

-Loda il mare ma tieniti la terra.

 

-Preparati al mare prima di entrarvi.

 

-Chi dice navigar dice disagio.

 

-Mare, fuoco e femmina tre male cose.

 

-Meglio chiamar gli osti in terra che i Santi in paradiso.

 

-Chi fa due volte naufragio, a torto accusa il mare.

 

-Meglio stare al palo che annegare.

 

-Acqua di mare non porta mai quiete.

-Chi non ha navigato non sa che sia male.

 

- La fine del corsaro è annegare.

 

-La bellezza, il fuoco e il mare fanno l’uom pericolare.

 

-Chi vuol viaggiare a stento, metta la prora al vento.

 

-Dal mare sale, dalla donna male.

 

-Se debbo annegare, voglio annegarmi in grande mare.

 

-In tempo di tempesta, ogni scoglio è porto.

 

-Chi sa navigare, va al fondo; chi non sa navigare, anche.

 

-Chi ha danari fa navi.

 

-Chi ha bevuto al mare può bere anche alla pozza.

 

-Chi è portato giù dall’acqua si abbranca ad ogni spino.

 

-Chi s’affoga si attaccherebbe ai rasoi.

 

-Chi casca in mare s’abbraccia anche al serpente.

 

-Chi scioglie le vele ad ogni vento, arriva spesso a porto di tormento.

 

-Vento potente, fotte la corrente.

 

-I temporali più grossi vengono all’improvviso.

 

-Quando si balla nella tempesta ci si dimentica dei temporali.

 

-Ben diremo e ben faremo: ma va la barca senza remo?

 

-Fama vola e la barca cammina.

 

-Vascello torto purché cammini dritto.

 

-Casa senza amministrazione, nave senza timone.

 

-Gran nave vuol grand’acqua.

 

-Nave senza timone va presto al fondo.

 

-Gran nave, gran pensiero.

 

-A nave rotta ogni vento è contrario.

 

-Non giudicar la nave stando a terra.

 

-In nave persa, tutti son piloti.

 

-Tre cose son facili a credere:uomo morto, donna gravida e nave rotta.

 

-Dove va la nave può ire il brigantino (infatti è più piccolo).

 

-A tal nave, tal battello.

 

-Un po’ di bene e un po’ di male tien la barca dritta.

 

-Dove può andare barca, non vada carro.

 

-Nave genovese, mercante fiorentino.

 

-Senza barca non si naviga.

 

-Per un peccatore perisce una nave.

 

-Chi non unge non vara.

 

-La bandiera copre…la mercanzia.

 

-Ogni nave fa acqua.

 

-Chi non rassetta il buchino, rassetterà il bucone.

 

-Chi s’è imbarcato con il diavolo ha da stare in sua compagnia.

 

-Tira più un pel di femmina che gomena di nave.

 

-Chi mette pece nella barca degli altri, perde pece e barca.

 

-Barca luccicante non guadagna.

 

-A barca sfondata non basta la sassola.

 

-Quando la barca và, qualunque coglione la sa guidare.

 

-Barca ormeggiata non fa strada.

 

-A barca rotta, ogni vento ben venga.

 

-Barca rotta, conti fatti.

 

-Dai e dai la barca arriva all’ormeggio.

 

-Bastimento non sta senza zavorra.

 

-Argomento al nocchier son le procelle.

 

-Il buon nocchiero muta vela ma non tramontana.

 

-Ognuno sa navigare quando è buon vento.

 

-Chi ha buon tempo navighi e chi ha denaro, fabbrichi.

 

-Vento in poppa, mezzo porto.

 

-Vento in poppa, vele al largo.

 

-Secondo il vento, la vela.

 

-Chi non s’aiuta, s’annega.

 

-Molti piloti, barca a traverso.

 

-Chi mal naviga, mal arriva.

 

 

-Chi naviga contro vento, conviene stia sulle volte.

 

-Tutti vogano alla galeotta (tirando a sé).

 

-Altro è vogare, altro arrivare.

 

-Il mondo è fatto a tondo; chi non sa navigare va a fondo.

 

-E’ un cattivo andar contro corrente.

 

-Gran laguna fa buon porto.

 

-Più vale un remo che sia indietro che dieci che vanno avanti(basta uno contrario per far saltare un affare).

 

-In tempo di burrasca, ogni tavola basta.

 

-Isola fa porto.

 

-L’arte del marinaio morire in mare; l’arte del mercante, fallire.

 

-Il buon marinaio si conosce al maltempo.

 

-O polli o grilli; o principe o marinaio.

 

-Barca rotta, marinaio a spasso.

 

-Promesse di marinai e incontro d’assassini costano sempre quattrini.

 

-“Montagnini” e gente acquatica, amicizie e poca pratica.

 

-Giuramenti d’amore, giuramenti da marinaio.

 

-I marinai son come la luna; in tutti i paesi ce n’han una.

 

-L’amor di marinaio non dura un’ora; dove va lui, s’innamora.

 

-Chi perde in mare, perde in terra.

 

-Il mondo è come il mare; vi affoga chi non sa nuotare.

 

-Chi teme acqua e vento, non si metta per mare.

 

-Il mare è il facchino della terra.

 

-Chi sa nuotare non se lo scorda mai.

 

-Come ogni acqua vien dal mare, così ogni acqua torna al mare.

 

-A togliere senza mai mettere, si seccherebbe il mare.

 

-Chi vuol prendere a mattonate il mare, perde tempo e mattoni.

 

-Chi teme acqua e vento non si metta in mare.

 

 

-Chi lo smidollato mandi al mare non aspetti il suo tornare.

 

-Chi casca in mare e non si     bagna, paga la pena.

 

-Naviglie ad acqua, febbre bella e fatta.

 

-Per mare non ci stanno le taverne.

 

-Merita di bere il mare a capo chino chi, con l’acqua, rovina il vino.

 

-Né moglie, né acqua, né sale a chi non te ne chiede non glie ne dare.

 

-Onda che si piega, si riversa.

 

-In cento anni e cento mesi, il mare si riprende quello che gli vien tolto.

 

-Chi dorme non piglia pesci.

 

-Invan si pesca se l’amo non ha l’esca.

 

-Dal mar salato nasce il pesce fresco.

 

-Un pesce in man vale più che uno in mare.

 

-Meglio padrone di una barchetta che garzone di nave.

 

-Pesce cotto e carne cruda.

 

-Carne giovane e pesce vecchio.

 

-Pesce in mare e carne in terra.

 

-Tramontana torba e scirocco chiaro, tieniti all’erta o marinaio.

 

-Vento a libeccio; ne pane ne neccio (castagnaccio toscano)

 

-Levante chiaro e tramontana scura, buttati in mare e non aver paura.

 

-Nuvole grosse, vento a mucchi.

 

-Dal mare le “pecorelle” annunzian le procelle.

 

-Pallidezza del nocchiero, di burrasca segno vero.

 

-Arco in mare, buon tempo vuol fare.

 

-Nave senza timone va presto a fondo.

 

-Barca senza timone non può tenere la rotta.

 

-Chi dorme non piglia pesci.

 

-Chi non ha fortuna non vada a pescare.

 

PROVERBI LIGURI (liberamente tradotti)

- A barca ormai senza speranza, Dio trova un porto.

A barca disperâ Dio treuva porto.

- Acqua dal cielo, acciughe nella rete.

Aegua in çe anciùe in ta ræ.

- A Febbraio la vita del mare si risveglia.

A Frevà primmaveja in mâ.

- Affinché sia bel tempo; scirocco a mezzodì e a sera ponentino.

Pe ese tempö fin: sciöco a mezzogiorno e a sèja ponentin.

- A nave in avaria, ogni vento è contrario.

A nave rotta, ogni vento l’è contraio.

- A seconda del vento, fai vela.

A secondo do vento fanni e veje.

- Attrezzati prima di entrare in mare.

Preparite a-o mâ primma d’intraghe.

- Bandiera vecchia onore di Capitano

Bandëa vegia onô do Capitànio

- Barca carica regge il vento.

Barco carrigòu o reze ô vento.

- Calma piatta invernale, occhio marinaio che il tempo vuol cambiare.

Carma ciatta d’inverno stà all’euggio mainâ che u tempo o vue cangiâ.

- Carne al sole ma pesce all’ombra.

Carne a o sô e pescio a l’ombra.

- Cinque lire di meno ma liberi di mugugnare.

Cinque franchi de meno ma o mugugno.

- Cielo a “pani” se non piove oggi pioverà domani.

Çè a pan, se no ciêuve anchêu ciûve doman.

- Cielo a pagnotte, se non piove di giorno pioverà di notte.

Çè faeto a pagnotte, se no ciêuve au giorno ciêuve a nêutte.

- Cielo a pecorelle, acqua a catinelle.

Çè a pegoëtte, ægua a conchette.

- Chi annoda bene, facilmente snoda.

Chi ben liga, ben derliga.

- Chi è in mare naviga, chi è a terra giudica.

Chi l’è in mà naviga, chi l’è in taera giudica.

- Chi è padrone del mare è padrone della terra.

Chi l’è padron do mâ l’è padron da tæra.

- Chi ha del pesce vada subito ad esitàrlo.

Chi ha pescio, cammin-e.

- Chi impugna la barra, governa il timone.

Chi manezza a manoela, manezza o timon.

- Chi lavora mangia un’acciuga, chi non lavora, (ahimè), due.

Chi lâoa mangia un’anciôa chi no lâoa ne magia due.

- Chi naviga male, male arriva.

Chi mä naviga, mä arriva.

- Chi non ha mai navigato, non sa cosa sia il mare.

Chi no l’ha navegòu no sa cöse l’è o mâ.

- Chi non si dà da fare, annega.

Chi no s’aggiûtta nega.

- Chi orina o sputa sopravvento, se li ritrova addosso.

Chi piscia o spûa sorvevento o se piscia o spûa adosso.

- Chi orina contro vento si bagna le scarpe.

Chi piscia contro vento se bagna e scarpe.

- Chi spinge la barca in mare, un piede almeno ce l’ha ancora in terra.

Chi in mâ la barca abbriva,con un pè o sta in scia riva.

- Chi vuol passare per fesso, giudichi il tempo.

Chi veu passà per belinon, giudighe ô tempô.

- Chi orina contro vento si bagna le scarpe.

Chi piscia contro vento se bagna e scarpe.

- Chi sa navigare bene, solca qualunque mare.

Chi sa ben navegâ passa ogni mâ.

- Confondere il pene con un cordino.

Confonde o belin con a terragninn-a

- Con rete bucata è un brutto pescare.

Rae pertuzâ, grammo pescâ.

- Dal mare sale, dalla donna male (in dialetto mare e male hanno egual grafia)

Da-o mâ sâ, da donna mâ.

- Donna, cavallo e barca sono di chi li cavalca.

Donna, cavallo e barca son de chi e cavarca.

- Dopo il lampo segue il tuono.

Doppo o lampo ven o tron.

- Dopo il bel tempo viene il brutto.

Doppo u bello ven o brutto.

- Doppiato Portofino, moglie ti saluto: sono tornato scapolo.

Passòu ô Monte de Portofin te salùo maggè che son fantin.

- Due a comandare, barca sugli scogli.

Duì Capitanni, barco in tu schêuggi.

- Dove va la barca và Baciccia.

Dove va la barca, va Baciccia.

- E’ brutto navigare contro corrente.

L’è cattivo navegâ contro a corrente.

- E’ il marinaio che rovina il porto.

L’è o mainà che o ruinn-a o pôrto.

- E’ meglio essere padroni di una sassola che capitano di una nave.

L’è mëgio ëse padrön d’unn-a sàssoa che capitanino d’unn-a nave.

- Fare come lo sciocco che per andare a poppa girava l’albero di prua.

Fa comme o demöa che pè andà a poppa o giâva l’erbo de prua.

- Fuggi la tempesta a tutto timone.

Scappa ô mà groussô a fi de roa.

- Fuochi di Sant’Elmo in coperta preannunciano pioggia a lavare coperta e corridoi.

Sant’Ermo in cöverta o lava cöverta e corridô.

- Grande nave, grande pensiero.

Gran nave, gran pensciëo.

- Giornata di mare non può essere tassata (un tempo!)

Giornâ de mâ a no pue ëse tasciâ.

- Il mare è fatto di rotte.

O mâ o l’è faeto de sentè.

- Il marinaio deve saper fare di tutto.

Mainà no ghe ninte che o no sacce fa.

-  temporali più sono grossi e più si sfogano.

I tempörari ciù son grossi e ciù se sfogan

- Il vento gonfia le vele.

O vento o carega e veje.

- Il vento nasce a Voltri, si sposa a Cornigliano e finisce a Sampierdarena.

O vento nasce a Vôtri, o se sposa a Corniggen e se perde a Sampêaenn-a.

- In quarantena il marinaio….si annoia.

In quarantenn-à ö mainà ö sö menn-à.

- I pesci grossi stanno sul fondo.

I pesci grossi stan a-o fondo.

- Il buon marinaio si vede con il maltempo.

O mainà bôn ô se conosce con ô tempo grammo.

- Il mondo è tondo e chi non sa navigare va a fondo.

O mondo ô l’è riondo; chi no sa navegà va a-o fondo.

- Il marinaio è difficile da accontentare; quando è a bordo vorrebbe essere a casa e viceversa.

Mainà diffiçile da contentà; quando o lè a bordo ô vô ê a cà, quando ô l’è a cà ô vou êse in mà.

- Il mare (come la vita) ha le onde, prima t’innalza e poi ti …..nasconde.

O mà o ghà e onde, primma o tè mette in mostra e poi o t’asconde.

- Il mondo è come il mare, annega chi non sa nuotare.

O mondo o lé comme o mâ, nega chi no sa nuâ.

- Il tepore dei panni, mai recò danni.

O câdo di panni o n’ha mai portoû di danni.

- L’acqua del mare guarisce le piaghe.

L’aegua do mà a fa sann-à a carne inciagà.

- L’acqua va sempre nel punto più basso.

L’ægua và sempre in to ciù fondo.

- L’amore di un marinaio dura un’ora perché in ogni porto che và, s’innamora.

L’amô do mainâ o dûa ûnn’ôa perché in tutti i porti che o và o s’innamôa

- Lascia scendere l’acqua e salire il vento (non ti opporre al destino)

Lascià andà l’aegua inzù e o vento in sciù.

- La tramontana non inizia a soffiare se il vento di mare non la precede.

A tramontann-a a no s’addescia se o marin a no a remescia.

- Le mogli dei marinai non sono né vedove né maritate.

E mòggê di mainâ no son né vidue ne maiè.

- Loda il mare ma, se puoi, stai a casa.

Lôda o mâ ma stanni a câ.

-Luglio, mentre a terra si “batte” il grano in  mare si “batte” a vuoto.

Luggio battuggio.

- Luna coricata, marinaio allerta.

Lunn-a accöegâ mainâ in pê.

- Luna rossa o piove o vento.

Lûnna rossa o piscia o soffia

- Mare, fuoco e donna sono tre cose grame.

Mà, fêugo e donna son tre cose gramme

- Mare da tartarughe o pesci mola( tanto è piatto).

Mâ da tartarûghe o da moe.

- Mare (grosso) da ex voto.

Mâ da quadri.

- Marinaio, mai niente (mani bucate)

Mainâ, mai ninte.

- Marinaio non ti fidare dell’aumentare della marea, del controvento, della mezzaluna alta e di colei che ti lancia un’occhiata.

Mainà no te fià da marea ca mònta, do controvento, da lûnna accoegà e da quella che a te dà un’oggià.

- Meglio maiale che pesce

Mëgio porco che pescio.

- Meglio scandagliare tre volte che finire a secco

L’è megio sondà tre voutte che andà in secco

- Montagne chiare e marina scura, naviga sicuro.

Montagna ciaea e marinn-a scùa mettite a veja sensa puia.

- Mozzi, chierichetti e tamburini ( i più in vista) hanno poche speranze di salvarsi.

Mucciacci, ceighetti e tamburin de reggimento han poca speranse dae portà ô cù a salvamento.

- Nei mesi di grano maturo si pesca poco: negli altri và meglio.

Quande o gran o l’abbonda o pescio l’affonda; quande o gran o l’affonda o pescio abbonda.

- Nave vecchia rende all’armatore.

Nave vëgia, richessa de padron.

- Nebbia bassa buon tempo lascia.

Nebbia bassa bon tempo a lascia.

- Nella coda stanno gli aculei velenosi.

In ta côa ghe sta ô venin.

- Non c’è mai bonaccia senza tempesta.

No ghe mai bônassa sensa bôrrasca-

- Non c’è marinaio che non tema il mare.

No ghè mainà sensa puiaa du mà.

- Non c’è pesce senza lisca

No ghè pescio sensa resca.

- Non conta il viaggio, conta l’arrivo.

O no l’è o viagio che conta ma o porto.

- Non fare come Capitan Pesce che orinava in mare per farlo crescere.

No fâ comme Capitan Pesce che o pisciava in mâ pe fâlo cresce.

- Non giudicare una barca stando a terra.

No giudicà a barca stando in tæra.

- Non si può comprare due soldi di pesce grosso.

No se pêu accattâ due palanche de pescio grosso.

- Non si può scendere più in basso del pagliolo.

No se peò andà ciù sutta du paggiò.

- Non si vende il pesce prima di pescarlo.

No se vende o pescio ancon in mâ.

- Non t’imbarcare mai senza viveri se non vuoi morire di fame.

No te imbarcà sensa galletta se non ti vòu moui de famme.

- Non t’imbarcare senza gallette se non vuoi morire di fame.

No t’imbarcâ sensa beschêutto se ti no vê moî de famme.

- Non t’imbarcare senza la scorta dei viveri.

Non imbarcarte sensa pan.

- Non tuona mai senza poi piovere.

No tronn-a mai che no ciêuve.

- Nuvole rosse o piove o tira vento.

Nûvia rossa o che ciêuve o che buffa.

- Ormeggiare con due ancore a prua.

Ormezzo a barba de gatto.

- Pescatori da canna, uccellatori con il visco, traslocatori dei Cristi (colui che nelle processioni trasloca la grande croce da un portatore ad un altro): fresconi così non ne ho mai visto.

Pescoei da canna, caccioei da vischio, stramuei da Cristo: bellinoin coscì no n’ho mai visto.

- Più è violento il fortunale e prima finisce.

A burrasca ciù a l’ë cattiva e ciù a finïsce aspedïa.

- Più si va al largo e più profondo è il fondale.

Ciù se va foa e ciù ghe fondo.

- Poca gomena, poco marinaio.

Poca çimma, poco mainà.

- Promessa da marinaio: subito fatta ma mai rispettata.

Promissa dö mainà, fito faeta e mai ammiâ.

- Quando i gabbiani volano a terra, la burrasca è vicina.

Quando i ochin xeuan in tæra unn-a burriann-a a no l’è lontann-a.

- Quando il promontorio di Portofino è scuro, piove di sicuro.

Portofin scûo, ciêuve segûo.

- Quando l’acqua è arrivata al sedere, tutti imparano a nuotare.

Quande l’aegua all’arriva ou cù, tutti imparan a noà.

- Quando la barca affonda i topi scappano.

Quande a barca a va ä föndo i ratti scappan.

- Quando le nuvole vanno verso mare, prendi la zappa e vai a zappare; se verso la montagna, copriti con il sacco se non vuoi bagnarti.

Quando le nûvie van a-o mâ, piggia a sappa e va a sappà; quando e nûvie van a muntagna, piggia o saccun che l’ægua a te bagna.

- Quando piove e c’è il sole, le streghe fanno all’amore.

Quande ciêuve a luxe ô sô tutte e strie fan l’amô.

- San Pietro ne vuole uno con se.(Inizia la stagione dei bagni e gli inesperti affogano)

San Pê ne vêu un pel ê.

- Sant’Antonio, Sant’Antonio hai la barba d’oro se ci mandi il vento in poppa ma se ti dimentichi di noi, ce l’hai di stoppa.

Sant’Antonio Sant’Antonio, t’æ a barba d’öu se ti ne mandi o vento in poppa, ma se no ti t’arregordi de nöi, ti l’æ de stoppa.

- Sappi navigare secondo il vento se vuoi arrivare in porto salvo.

Sacci navegà secondo o vento se ti voe arrivà in porto a sarvamento.

- Santa Barbara e San Simone, salvaguardaci dal lampo e dal tuono.

Santa Barbara e San Scimu agguardin da o lampo e da-o trun.

- Scirocco estivo fa morire di sete

Sciöco de stae ô fa moi da sae.

- Se con i venti da mezzodì si formano i fuochi di Sant’Elmo sui pennoni, marinaio controlla le scotte.

Sant’Ermo a-o bu de verga con vento a-i mezzogiorni, mainâ attento a-a scotta.

- Se diviene scuro a tramontana, preparati alla tempesta.

Se lë negro a tramontann-a, preparite a buriann-a.

- Se dopo un po’ di maretta le nuvole lambiscono il monte come fossero fumo, sta per piovere.

Se doppo un po’ de böllezzûmme e nuvie rasan o monte comme u fumme,stà allegro mainâ che t’avanzi o lavaggio.

- Se vai alla guerra, dì una preghiera ma due se vai in mare.

Se ti vae in guaera dinne una preghiera, se ti vae in mà dinne due.

- Senza mozzo e granata di brugo, l’immondizia aumenta.

Sensa mucciaccio e sensa spassuia de brugu a rumenta all’aumenta.

- Senza remo non crei mulinelli.

Sensa remmo nö ghe remoin.

- Senza vino si può navigare, senza  il mugugno, no.

Sensa vin se naviga, sensa mugugno no.

- Se si sta ad osservare tutte le nuvole, non si parte più.

Chi dà a mente a tutte e nuvie, no se mette in viagio.

- Stelle brillanti ma senza nuvole avvertono che cambierà il tempo in peggio (non sarà miele).

Stelle che brillano sensa unn-a nuvia in çe, dixan a-o mainâ che o tempo non sa de amê.

- Se piove a Santa Bibiana, piove quaranta giorni e una settimana.

Se ciêuve a Santa Bibiann-a, ciêuve quaranta giorni e unn-a settimann-a-

- Se ciêuve a Santa Bibiann-a, ciêuve quaranta giorni e unn-a settimann-a-

Se piove a Santa Bibiana, piove quaranta giorni e una settimana.

- Se la barca affonda non è certamente colpa di chi ha salpato l’ancora.

Quando a barca a và a picco, no l’è corpa do sarpante.

- Sino a che al mare (mâ come “male”) non gli diranno bene, navigare non mi conviene.

Fin che a-o mâ no ghe dixan ben, navegâ no me conven.

- Sono tutti bravi a navigare con il tempo buono.

Tutti san navegà quande l’è tempo bon.

- Sole sdoppiato, neve e freddo.

Duî sôi, neuive e freido.

- Stelle molto luminose, cambia repentinamente il tempo.

Stelle grosse che fan cieu, cangia o tempo tutto a reo.

- Stelle molto appariscenti, cambia il tempo rapidamente.

Stelle grosse fan gran sciäto, cangia o tempo tutto a rèo.

- Su una nave alla deriva, tutti sono piloti.

In nave persa tutti son pilotti.

- Sul tardi abboccano i muggini.

In sciô tardi i mûsai toccan.

- Tempo, vento, padrone donna e fortuna, possono mutare come fa la luna.

Tempo, vento, padron, donna e fortunn-a se vortan e se regian comme fa a lunn-a.

- Tracciati la rotta e spiega le vele.

Tïte a rotta e allarga e veje.

- Tutto fa, diceva quello che orinava in mare.

Tûtto fa, dixeiva quello ch’o pisciava in mâ.

- Tira più un pelo di donna che l’argano d’una nave.

Tia ciù un peì de mussa che un argano d’en vapore.

- Una volta imparato a nuotare non si dimentica più.

Chi sa nuâ no se-o scordià.

- Uno tira su la pietra e l’altro si prende l’anguilla.

Un o tîa sciû a ciappa e l’atro o piggia l’anghilla.

- Un conto è vogare, altro arrivare.

Atro l’è vögâ, atro l’è arrivà.

- Un po’ di bene e un po’ di male…fanno andare la barca dritta.

Un pô de ben e un pô de mâ o ten a barca drita.

- Un pesce in mano è meglio di uno in mare.

Un pescio in man o l’è mëgio d’un pescio in mâ.

- Uomo di mare; oggi ricco, domani potrebbe questuare.

Ommo de mâ, ancheu ricco e doman a domandà.

- Val più un’oncia i pratica che una lira di scienza.

Vâ ciû unn’onsa de pratica che unn-a lîa de scienza.

- Vale più un “occhiata” che.. dieci “pagari”

Và de ciù una oëgià che dexe pagai.

- Vale più un “occhiata” che.. dieci “pagari”.

Và de ciù una oëgià che dexe pagai.

- Vomitare anche gli intestini per il mal di mare.

Caccià e bele da-o mâ de mâ.

- Voto di marinaio è presto dimenticato; basta che passi la tempesta e se ne scorda.

Voto da mainâ presto o se scorda, passâ a burriann-à ciù o no se ricorda.

A cura di Renzo Bagnasco

e del Webmaster Carlo Gatti

Rapallo, 11 luglio 2014

 

 

 


MOBY PRINCE, un'altra Ustica?

MOBY PRINCE

Un'altra Ustica?

Foto n.1 – La Moby Prince in navigazione

Quella fatale coincidenza

Abbiamo già avuto occasione di occuparci della tragedia del traghetto MOBY PRINCE della Soc. Navarma, ma solo per rimarcare la fatale coincidenza con un’altra catastrofe del mare: l’incendio e il successivo affondamento della petroliera HAVEN davanti alle acque di Arenzano. Tredici ore separarono la collisione del traghetto italiano dall’esplosione della petroliera cipriota e tutto avvenne a sole 75 miglia nautiche di distanza.

Porto di Livorno. Alle 22,25 del 10 aprile 1991, il traghetto Moby Prince si staccò dalla banchina e sbarcò il pilota con le stesse modalità compiute centinaia di volte in precedenza. Navigò per un breve tratto di canale e poco dopo s’infilò nella fiancata della petroliera Agip Abruzzo prendendo fuoco: 140 vittime, un solo sopravvissuto. Fu la più grave sciagura della marineria civile italiana.

Sono passati quasi  vent’anni, ma nell’immaginario collettivo è sempre vivo  l’ignobile cliché diffuso ad arte sui media il giorno successivo l’incidente:

“Fitta nebbia, un comandante distratto dalla partita di calcio, una rotta sbagliata, tragica fatalità”. D’altra parte, questa "verità" fu il risultato delle Commissioni d’Inchiesta della Capitaneria di Porto di Livorno e del Ministero della Marina Mercantile. Chissà! Forse era la spiegazione più semplice… Ma oggi, sotto la spinta della:

“Associazione 10 Aprile - Familiari delle vittime del Moby Prince” www.MobyPrince.it

è stato compiuto un impressionante percorso di riscoperta degli atti, delle carte e dei documenti, che erano già fin troppo chiari, ma occorreva leggerli ed interpretarli con onestà e consapevolezza. Purtroppo altre prove e testimonianze sono venute alla luce quando la traccia era ormai segnata, quando l’inchiesta sommaria e i successivi due gradi del processo si erano ormai incanalati  verso “la tragica fatalità”. Oggi, improvvisamente il vento è cambiato, sia per la lotta e l’amore della citata Associazione, sia per la determinazione e il coraggio dimostrato da alcuni onesti professionisti dell’informazione.

Una Indagine Provvidenziale

La vicenda del traghetto-passeggeri è tornata alla ribalta in questi ultimi anni per la tenace ricerca di Enrico Fedrighini, milanese, già consigliere presso il Comune e la Provincia di Milano che ha dato il primo colpo di piccone alle sentenze della magistratura, con il suo libro “Moby Prince. Un caso ancora aperto”. Quattro anni è durato l’impegno dell’autore per analizzare faldoni processuali, relazioni, inchieste amministrative e perizie. «Ebbene, c’è tutto nelle carte. Occorreva metterle insieme. Nell’impressionante mole di documenti c’è quanto basta per dire che quella verità è fasulla e che nella rada del porto di Livorno è accaduto ben altro. Qualcosa che abbiamo il diritto di sapere. Perché è una brutta storia, una storia che fa paura». Ha dichiarato recentemente l’autore.

Ma in occasione dell’anniversario del disastro, scende in campo anche Giovanni Minoli, direttore di Rai Educational, riportando l’attenzione degli italiani sul “Moby Prince" diventato ormai un “CASO”. «Questa indagine giornalistica alla fine lascia grande angoscia», dice Minoli. «Emergono grosse novità rispetto alla verità ufficiale"  – e aggiunge – Il "Moby Prince" è un’altra Ustica, di cui non erano conosciuti, finora, i contorni inquietanti. Il mio auspicio è che, alla luce di queste novità, presto ci si occupi del caso con una commissione d’inchiesta».

Lo scrupoloso giornalista della RAI ce lo ha raccontato un mese fa in TV  sottoponendoci carte nautiche della rada di Livorno; proponendo numerose registrazioni di conversazioni radio di operatori portuali in servizio quella notte; nuove prove satellitari emerse dopo le conclusioni delle inchieste. Proviamo ora a calarci nel merito di queste nuove analisi sintetizzandone i contenuti:

- Non è stata trovata traccia di apparati televisivi sul ponte di comando della M.P. che avrebbero accusato di negligenza il comandante Ugo Chessa ed il suo equipaggio – Vedi Nota

- L’Avvisatore Marittimo (di guardia in porto H-24) e molti altri testimoni hanno testimoniato che la rotta percorsa dal traghetto era giusta e prudente e non corrispondente a quella ipotizzata nelle inchieste. Purtroppo la testimonianza di questo “antico” servizio portuale non è mai stato  richiesto.

- La Agip Abruzzo quella sera aveva cambiato diverse volte la posizione d’ancoraggio senza avvisare le Autorità e  dai tracciati radar risulta, inoltre, che la petroliera si trovava ancorata in zona proibita, all’interno del canale d’uscita del porto di Livorno. Questa tesi è confermata dalle registrazioni di conversazione e degli ordini impartiti dal comandante Superina della Agip A.

- Il Centro Meteo dell’aeronautica di Pratica di Mare e la Criminalpol documentano la mancanza di nebbia al momento dell’impatto.  Probabilmente questo elemento e l’accusa d’imprudenza nei confronti di chi non può più difendersi, serviva a nascondere un’altra realtà.

F.2 - La petroliera Agip Abruzzo in fiamme

- Si è anche udita - molto nitidamente - la voce registrata dell’unico superstite del traghetto, il mozzo Barnard, affermare alla radio degli ormeggiatori che lo avevano raccolto a bordo, che c’erano ancora superstiti vivi sulla Moby Prince. Ma nessuno si preoccupò di rintracciare la nave alla deriva nella rada, con il suo carico umano che stava lentamente soffocando.

- Ci fu poi l'episodio del cadavere sul ponte. In un filmato girato da un elicottero dei Carabinieri all’alba dell'11 aprile, si è visto chiaramente un cadavere disteso sulla schiena a poppa, sulle lamiere bruciate. Al momento delle riprese aeree, si è potuto notare come l'uomo non fosse bruciato (indossava una maglia rossa n.d.r.), ma, al contrario, si mostrasse stranamente integro pur trovandosi sul ponte distrutto dalle fiamme. Successivamente, nei video girati dai Vigili del fuoco, lo stesso uomo è apparso completamente carbonizzato, avvalorando cosi la nuova ipotesi secondo cui parte dei passeggeri non morì in breve tempo per effetto  del monossido di carbonio sprigionato dall'incendio. L'ipotesi smentita in fase processuale da alcune perizie, ma accettata da altre, è quella che il passeggero, sopravvissuto durante la notte all'incendio e ai fumi tossici, sia uscito alle prime luci dell'alba per raggiungere i soccorritori, ma a causa dell'enorme calore ancora sprigionato dalle lamiere del ponte, sia morto in un secondo tempo.

- Nel settembre del 1992, venne trasmesso dai telegiornali un video amatoriale girato da un passeggero nei minuti precedenti la collisione. Il fatto che la cassetta trovata in una borsa nel salone De Lux, abbia resistito all'incendio, dimostrerebbe che, almeno in quella zona della nave, non c’erano temperature elevatissime e che una parte di passeggeri/equipaggio abbia potuto resistere a lungo in quelle circostanze.

Foto n.3- Il traghetto il giorno dopo

- I soccorsi partiti immediatamente si sono diretti tutti sulla Agip Abruzzo. Nessuno verso la Moby Prince che venne lasciata in fiamme, alla deriva con il suo carico umano che, diligentemente, aspettava di essere salvato. Moriranno dopo ore di paura, angoscia e disperazione. Eppure la Moby era ben visibile in rada, come dimostra l’episodio dei due bravi ormeggiatori che, con la loro imbarcazione portuale, accorsero  spontaneamente a prestare soccorso e trassero in salvo l’unico sopravvissuto: il mozzo Barnard, e proprio da loro partì la comunicazione alla Capitaneria di Porto che indicava la posizione del traghetto e la necessità di soccorrere altri passeggeri ancora in vita. Le Autorità rimasero silenti, nonostante la presenza del Comandante del porto di Livorno a bordo di una motovedetta di servizio. Chi aveva il compito di coordinare le operazioni di salvataggio, tacque per più di 5 ore. I soccorritori aspettarono invano le  istruzioni, mentre sulla Moby Prince si moriva.

- Le persone a bordo del Moby Prince non sono morte in pochi minuti, ma dopo ore come hanno dimostrato i referti delle autopsie.

- L’impatto non è stato improvviso. Tutti i passeggeri erano nel salone De Lux (stanza provvista di porte tagliafuoco) con bagagli e giubbotti di salvataggio.

Ciò significa che erano stati rigorosamente radunati là, dove sono stati trovati. Nessun corpo presentava traumi. Difficile quindi conciliare tutto ciò con l’impatto improvviso causato, per di più, dalla negligenza del personale che guardava la partita in TV.

- Soccorsi impossibili?  I responsabili della sicurezza sostennero che, data la temperatura delle lamiere, era impossibile salire sul Moby Prince. Nulla di più falso. In quella maledetta notte, alle ore 3.30 un coraggioso marinaio, Giovanni Veneruso, senza alcun tipo d’indumento ignifugo, con il suo rimorchiatore privato decise di avvicinarsi al traghetto ed agganciarlo, mentre le motovedette della Capitaneria osservavano immobili a distanza. Il giovane toccò le lamiere senza problemi, salì a bordo, si guardò in giro e subito gli giunse l’ordine perentorio di abbandonare la nave. Perché?- Sono emerse testimonianze circa la presenza di “strane” imbarcazioni che si sarebbero avvicinate al traghetto con l’intenzione d’abbordarlo e che improvvisamente scomparvero dalla scena del disastro. Cosa cercavano?


Foto n.4 - Base USA di Camp Darby

A questo punto ricordiamo che l’Alto Tirreno è una delle zone più presidiate da impianti di telecomunicazioni militari. La base americana di Camp Darby è molto vicina a Livorno e La Spezia, che insieme formano un sistema integrato di controllo. Tuttavia le anomalie “fuori controllo” furono davvero numerose e tutte senza ragionevoli spiegazioni: - Testimoni non ascoltati – responsabili in servizio, quella notte, non interrogati - Tracciati radar non acquisiti, negati, distrutti - Posizioni delle navi in rada non accertate - Fascicoli scomparsi dalla Procura - Relazioni sparite - Scatole nere distrutte - Giornali di bordo dimenticati - Manomissioni e sabotaggi operati sul relitto del Moby Prince - Tracce di esplosivo militare a bordo del Moby mai presi in esame - Nastri registrati scomparsi - Cassette VHS manomesse – L’elicottero militare che sorvolava la zona al momento della collisione, ignorato e dimenticato - Navi “fantasma“ che si allontanano dal luogo dell’impatto velocemente - Presenza di pescherecci italo-somali i cui nomi compaiono, forse non a caso, nell’omicidio di Ilaria Alpi - Ufficiali che quella sera vedono e relazionano su movimentazioni di materiale bellico tra navi nel porto di Livorno, ma i cui rapporti scompaiono - Alcuni importanti documenti confermano che nella rada di Livorno era in corso una operazione destinata a rimanere “coperta” e che coinvolgeva un numero imprecisato di imbarcazioni - Operazione che doveva restare segreta: 5 navi militari americane cariche di armi provenienti dal Golfo Persico, dove si era appena conclusa l’operazione Desert Storm, erano presenti in zona e sembra ormai accertato che stessero sbarcando materiale bellico destinato alla base di Darby su chiatte a rimorchio e senza luci di posizione.

Il relitto della Moby Prince fu fatto demolire in fretta, lontano dall’Italia, in Turchia, ad Allaga, località tristemente nota, come più volte denunciato da Greenpeace, perché specializzata nel togliere di mezzo navi sospette e pericolose.

Tutto questo porta a ritenere che, quella sera, la zona del porto di Livorno doveva essere tra le più sorvegliate d’Italia da tutti gli operatori civili e militari, Servizi Segreti compresi.

“Quella del 10 aprile è una bella sera di primavera. Il mare è calmo, la visibilità è di 5-6 miglia. Una leggera brezza salmastra mischiata ai vapori della ciminiera della nave penetra nelle narici e accarezza i volti dei pochi passeggeri rimasti sul ponte esterno del traghetto a osservare le luci della città”, scrive Fedrighini. “Sono le 22,03 quando la nave passeggeri molla gli ormeggi e si allontana scivolando sulle acque scure e oleose. Destinazione Olbia. I passeggeri vengono accolti a bordo dalle note musicali di una canzone degli anni ’60, “Quando, quando, quando”. Accadono le solite cose: c’è chi si prepara per la notte, chi chiacchiera, chi beve una birra al bar. Non si tratta di una sceneggiatura, purtroppo”, aggiunge Fedrighini. “Quelle piccole cose banali che ogni persona compie rappresentano gli ultimi istanti di un’intera vita. Centoquaranta persone stanno scrivendo le ultime parole sulle pagine di un libro che per loro è destinato a interrompersi di lì a pochi minuti”. Il "dopo", ossia questi 19 anni in cui i familiari delle vittime hanno chiesto verità, è la parte più inquietante della vicenda: un’inchiesta amministrativa conclusa a tempo di record (11 giorni); questa e molte altre "stranezze" scovate da Fedrighini e Minoli fanno di questa dimenticata strage italiana, la più inquietante. L’ennesimo mistero d’Italia. Con Ustica successe la stessa cosa. Ricordate? Anche in quel caso la Commissione di inchiesta stabilì che l’aereo Itavia era caduto per un cedimento strutturale. Non a caso la strage del Moby Prince viene chiamata l’Ustica del mare. Per sapere la verità sulla tragedia del Moby Prince non si deve fare chissà quali ipotesi fantasiose, non si deve aderire a strampalate ipotesi degli amanti dei complotti o altro, è sufficiente leggere gli atti, i documenti, le testimonianze...... E, a questo proposito, vi segnaliamo l’Atto di Opposizione  (http://www.mobyprince.it/files/OPPOSIZIONE-ALLA-RICHIESTA-DI-ARCHIVIAZIONE-17.05.2010-definitiva) prodotto dall’avv. Carlo Palermo a difesa dei signori Angelo e Luchino Chessa (figli del comandante del M.P.) e Maurizio Giardini, parti offese nel proc.pen. N..... relativo al decesso di 140 persone nell’incidente del M.P.

NotaComandanti e piloti  sono sempre sotto esami, perchè la manovra è la parte più difficile del viaggio e tra questi due personaggi spesso si saldano vincoli di amicizia e di stima che si perpetuano oltre il “retire”. Ugo Chessa, comandante del Moby Prince non arrivò alla pensione perchè morì tragicamente in servizio, nonostante fosse considerato nell’ambiente il miglior comandante di traghetti in quegli anni e sono più che certo che nessuno di noi ha mai creduto, neppure per un istante, all’infamia e al disonore  di cui fu vittima questo “grande marinaio”.

Carlo GATTI

Rapallo, 28.05.11

 


LA CHIESA E L'ORATORIO DI S.MARIA DEL CAMPO

LA CHIESA DI SANTA MARIA

DEL CAMPO

RAPALLO


Primo piano del "LEONE" facente parte della scalinata realizzata nel 1920

L'ORATORIO DI SANTA MARIA ASSUNTA IN CIELO


MUSEI DELLA DEVOZIONE, DELLA CONSERVAZIONE E DI CONTINUITA’ NELLA FEDE

Iniziamo il nostro percorso rivolgendo lo sguardo verso la tradizione popolare, quella da cui proveniamo, nel ricordo dei nostri vecchi i cui gesti di fede ci hanno illuminato per tutta la vita.

 

LE CASACCE E LE CONFRATERNITE OGGI

Reperti di numerose confraternite liguri rimangono in molti Oratori ormai dismessi e trasformati ad uso civile specialmente nel nostro capoluogo. Parte dei loro beni, come gli artistici crocifissi, rimangono a disposizione delle altre confraternite, che per devozione, possono chiedere il permesso di portare in processione le casse processionali o i maestosi crocifissi.

Alle Casacce è intitolata una via del capoluogo ligure, via delle Casaccie, situata nel quartiere centrale di Piccapietra.

Scriveva lo storico Federico Donaver nel suo Vie di Genova (1912) riguardo a questa via:

« Fu istituita a ricordo delle casaccie, processioni di confraternite, recanti costumi variati, a volte ricchissimi, e crocifissi colossali, una volta molto diffuse in Genova e in tutta la Liguria; ora, almeno in città, andate in disuso. Qui era famosa la casaccia di S. Giacomo delle Fucine. Nella scalinata era l'oratorio di S. Stefano, ed altri ne esistevano nei vicoli vicini, parte dei quali scomparsi, tutti formanti casaccie. »

Nel 1972, la fondazione CARIGE finanziò una ricerca storica sulle casacce che ha portato alla realizzazione dell'omonimo libro, considerato da molti la più grande produzione sul mondo delle confraternite liguri attuali e passate. Alla fine della sua ricerca Fausta Franchini Guelfi scriverà:

« ... chi giudica il Portar Cristi come un fenomeno ormai superato, incompatibile con la civiltà moderna, appare in tutta la sua superficialità non appena si tocchi con mano in qual misura ancora oggi il rito processionale casaccesco e l'attività comunitaria della confraternita esprima valori e soddisfi esigenze profondamente radicate nella cultura popolare ligure. C'è alla base, l'antica fratellanza: ieri fondata sul bisogno della mutua assistenza, oggi isola confortante di solidarietà e amicizia nel disperato mare di anonimi della società massificata. ... In quest'ambito gli oggetti tipici di questa cultura continuano a trasmettere un messaggio straordinariamente vivo: e intorno ad essi, nel grande spettacolo processionale, continuano a svolgersi i gesti di sempre, immutabili e sicuri come il trascorrere degli anni e delle generazioni. »

Nel 2004, in occasione dell'anno in cui Genova è stata Capitale Europea della Cultura fu scritto un testo Portatori di Cristo, con alcune interviste riguardante il tema attuale delle confraternite.

Il presidente della Provincia di Genova, Alessandro Repetto, scrisse:

« ... le Confraternite hanno come elemento caratterizzante quello dell'immutabilità e della fedeltà al rito e alla sua declinazione concreta (dai canti ai paramenti indossati) trattandosi, in sostanza, di una eredità morale e materiale che trovava, e tuttora trova, proprio nel passaggio fra generazioni di fedeli, la ragione del suo resistere all'usura del tempo. »

Nella stessa occasione, l'allora cardinale Arcivescovo di Genova Tarcisio Bertone scrisse:

« ….Tra le pratiche penitenziali, quella di portare nelle processioni una grande croce sulle spalle. Tale forma venne nel tempo mutando e si trasformò in processioni devozionali nella quali il Cristo veniva innalzato ancora con la volontà di presentare al mondo il grande sacrificio di amore con cui Cristo aveva redento l'uomo. »

I NOSTRI CROCIFISSI PROCESSIONALI

Nella nostra regione Liguria, la tradizione di portare i Crocifissi in processione risale al XVI secolo.

La cura con cui viene conservato ogni Crocifisso é improntata ad una fervida venerazione in particolar modo negli Oratori dove esistono antichissime organizzazioni (Confraternite) nelle quali si tramandano: devozione, passione e conoscenza.

Queste sacre testimonianze di fede religiosa sono scolpite da VERI ARTISTI: scultori ed ebanisti. La croce, su cui è deposto il corpo ligneo di Gesù, é decorata in argento battuto. Alle estremità superiori della Croce sono collocati i “canti”, decorazioni costituite da foglie dorate o d’argento.

Nel sentire popolare i Crocifissi si classificano in base al peso ed alle dimensioni:

  • Piccoli: dai 30 ai 80 kg
  • Mezzani: da 80 a 110 kg
  • Grandi: dai 110 kg in su

Il Crocifisso più pesante ancora visibile in processione è il Moro della Ruta di Camogli (conosciuto anche come il Mignanego) del peso stimato di oltre 180 kg.

 

La confessione di un anonimo cristezante:

“Per poter mantenere e migliorare le proprie capacità di cristezante, i confratelli si riuniscono nei propri oratori, o in quelli di altri, per provare i Crocifissi almeno una volta o più a settimana durante tutto il periodo dell'anno. Se la forza può aiutare il cristezante, questa da sola non basta, si deve apprendere una grande capacità di equilibrio, una buona tecnica, tanto spirito di devozione e sacrificio, che dipende molto dalla fede che uno possiede, oltre che la passione con la quale uno diventa e si impegna ad essere un cristezante. Si inizia solitamente in età adolescenziale, cioè intorno ai 15 anni, anche se alcuni anche da bambini; l'esperienza di cristezante non ha termine, anche se la tarda età sopraggiunge, i vecchi cristezanti seguono la processione e la vita della confraternita. Non è raro trovare in processione un cristezante con più di 70 anni”.

Il cristezante possiamo anche definirlo: ATLETA DI DIO. La definizione risulta ambigua se vista soltanto dal punto di vista sportivo che naturalmente é insita nella forza prodotta per sollevare il peso del Crocifisso, ma se ci accostiamo al personaggio riflettendo sul contesto storico da cui proviene, allora ci accorgiamo che il nostro interlocutore é l’antidivo per eccellenza! E’ l’erede dello spirito che ha animato per secoli la confraternita medievale attraverso il culto della carità anonima, del sacrificio non dichiarato, dell’umiltà senza volto che si celava nel caratteristico cappuccio che lo metteva al sicuro dalle tentazioni della gloria, della fama e del potere.

Targa marmorea - Ortorio dei Bianchi

Quando questo è calato sul volto non permette di essere riconosciuti indicando l'anonimato delle buone opere: nessuno sa chi deve ringraziare per il bene ricevuto; sono accumunati il ricco col povero, l'istruito col meno colto.

I CRISTI DI SANTA MARIA DEL CAMPO

RAPALLO

La chiesa parrocchiale

UN PO’ DI STORIA

Le origini dell'odierna frazione di Santa Maria del Campo sono riferibili intorno all'XI secolo quando vengono citate per la prima volta le attuali località di Cassottana, Cavagino e Peragallo, queste ultime richiamanti due tipici cognomi rapallesi. Risale infatti ad un atto del 7 aprile 1049 il testamento di un certo Raimondo del fu Tommaso dove si attesta la sua ultima volontà di donare i propri beni, siti proprio nella località di Gausotana (Cassottana), alla chiesa di Santa Maria di Castello di genova. Le località di Cavalixi e Perogallo (Cavagino e Peragallo) sono invece citate quasi quarant'anni dopo, nel testamento datato al 20 aprile 1089 di un certo Ingo, dove proprio quest'ultimo lascia alla nipote Vida beni nel terreno della località campese.

Un documento del 1184 attesta invece la presenza della locvale chiesa intitolata a Sanctæ Mariæ de Planis, Santa Maria del Piano. La chiesa è ancora segnalata il 19 luglio del 1261 nell'elenco della parrocchie o chiese annesse al "Lodo per tasse al clero". Un dato preciso sulla rettoria di Santa Maria del Campo - anticamente citata come Nostra Donna del Campo - viene indicato nel XVII secolo dove la comunità è composta da 155 famiglie per un numero di 695 abitanti.

Contemporanei scritti descrivono l'urbanizzazione del quartiere degli Amandolesi (Mandulexi nel dialetto locale) - storico nucleo di Rapallo dove furono compresi i nuclei di Santa Maria del Campo, San Pietro di Novella, San Martino di Noceto e in parte Cerisola - caratterizzato dalla folta presenza di nuclei sparsi, maggiormente concentrati lungo la piana del torrente Santa Maria, e dediti alla coltivazione agricola e all'allevamento del bestiame. Secondo i registri parrocchiali, sia nel 1750 che nel 1880, la popolazione della sola comunità di Santa Maria del Campo superava gli 800 abitanti.

Da ragazzino, durante le processioni con i Cristi, i miei genitori si preoccupavano che non mi avvicinassi troppo ai “cristezanti” in movimento che, per quanto forti, coraggiosi ed esperti, erano soggetti anche loro a “defaillance” pericolose per sé stessi e per i fedeli troppo vicini.

In seguito passai tanti anni sulle navi e non ebbi più occasione di vedere un Cristo processionale da vicino.

La rivelazione di questo mondo devozionale l’ho scoperta da anziano, dopo molti anni di frequentazione della chiesa di Santa Maria Assunta della frazione di Santa Maria del Campo, e devo dire un GRAZIE di cuore a don Davide per la sua iniziativa di trasferire due Cristi processionali dall’Oratorio soprastante all’interno della parrocchia.

La presente “modestissima” testimonianza é frutto di una impetuosa curiosità che mi ha spinto a raccogliere qua e là racconti, foto e ricordi di persone che, al contrario dello scrivente, hanno vissuto a Rapallo in quest’angolo di paradiso dove la modernità non ha scalfito minimamente il significato antico della conservazione dei valori cristiani.

IL CRISTO NERO

Sui diversi colori dei Cristi processionali (Bianco, Moro, Nero e Rosso) sono state scritte migliaia di pagine nei secoli; tutte le idee sono rispettabili quando non sono contaminate dalla politica di parte e dalle ideologie razziste. Per chi volesse approfondire il tema, segnalo il Link di un saggio del noto storico Franco Cardini:

LA FESTA. UN MODELLO ANTROPOLOGICO E UNA PROMESSA DI SPERANZA.

https://turismo.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/24/2016/11/Cardini_La-festa.pdf

Ma noi ci accontentiamo della versione più semplice. Un giorno, un celebre scultore delle nostre parti volle usare il suo legno preferito, l’EBANO, un legno nero pregiatissimo, duro e pesante, resistente alle intemperie e alle muffe. L'ebano nero è molto apprezzato in ebanisteria, tanto da aver "decretato" il nome di quest’arte.

La sua scultura, da quel giorno fu chiamata: Il Cristo Nero!


IL CRISTO NERO é stato restaurato nel 2000, il più grande presente nell’oratorio, pesa circa 130 kg. La benedizione dopo il suo restauro è avvenuta nel mese di gennaio del 2001 alla presenza di S. E. Mons. Alberto Maria Careggio.

La figura di Cristo crocifisso con le braccia aperte simboleggia l’abbraccio del figlio di Dio all'umanità.




L’angelo con il calice che raccoglie il sangue versato ci ricorda il sacrificio compiuto da Cristo per la nostra salvezza.

Sulla stella che ricopre il ventre di Gesù ci sono molte versioni… quella che noi preferiamo é la seguente:

Il Messia annunciato dai Profeti é evocato come una nuova stella: Una stella nata da Giacobbe. I Magi seppero riconoscere questa stella e la seguirono fino a Betlemme. Il manifestarsi di questo astro prodigioso é il segno dell’avvento del Figlio di Dio.


Se guardiamo con superficialità il nostro grande Crocifisso, ci apparirà come una opulenta costruzione barocca ricca di indorature, fregi e fiori argentati, ma se passiamo ad una più attenta contemplazione ci renderemo conto che tutto ciò su cui posiamo lo sguardo ha un significato ben preciso: i nostri grandiosi Crocifissi celebrano il trionfo della Croce, mistero centrale della fede cristiana.
Dai tre bracci della Croce scaturisce una lussureggiante fioritura della pianta d'acanto dalla quale si diramano numerosi e sottili girali con i loro fiori; la vitalità di questa pianta è data dalla Croce di Gesù, il cui sacrificio costituisce la ricreazione dell'umanità e del cosmo. Lateralmente affiora da un lato la palma del Martirio e dall'altro il ramo di ulivo della pace. Tra questi due simboli é incastonata l'effige della Madonna alla quale é dedicata la Chiesa.

Gesù è il nuovo Adamo che, con il mistero della Sua passione, morte e risurrezione, fa rifiorire l'umanità, riconciliandola col Padre.

In alto, sopra il cartiglio "I.N.R.I." è posta la corona di gloria per la vittoria sulla morte nel mistero pasquale, oltre è la colomba dello Spirito-Santo.
La Croce da strumento di morte viene vivificata da Gesù, vero albero di vita.

Il CANTO SINISTRO


IL CANTO DESTRO

I CANTI sono i tre lati superiori della croce che appaiono in questa tipologia di Crocifissi con una luminosa infiorescenza di fiori e foglie d’oro e d’argento. La Croce da simbolo di supplizio si trasforma in luce di speranza e di gloria annunciando la Resurrezione di Cristo.


Il quarto CANTO, quello inferiore, nella processione dei Cristi viene alloggiato nel CROCCO, (foto sopra), una specie di robustissimo calice di cuoio fissato, con cinghie adatte allo scopo, sull’addome del CRISTEZANTE. E’ il canto della Croce che poggia sull’umanità anelando al suo diretto contatto fisico. Il “portatore” sente e vive questo peso che non é solo materiale, allegorico, a volte festaiolo, ma anche un peso morale carico di responsabilità. Si tratta di un film antico che non finisce mai di emozionare e di stupire il fedele.

La responsabilità cui ci riferiamo é la PAURA di non farcela a sopportare quel peso, e spesso il “portatore” dialoga con Cristo per acquisire la forza di continuare ancora per qualche metro… poi chiama i suoi fidati stramoei ed avviene il passaggio ad un altro CRISTEZANTE.

Il simbolismo religioso é presente anche in questo delicato frangente: l’uomo da solo non può farcela, deve aver fiducia nel prossimo, in quel rapporto d’amore che proprio Cristo ci ha insegnato!

Il CRISTEZANTE in quel momento riflette l’immagine di quel SIMONE DI CIRENE detto il CIRENEO che si legge nel Vangelo di Marco:

“Allora costrinsero un tale che passava, un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e Rufo, a portare la croce. Condussero dunque Gesù al luogo del Golgota, che significa luogo del cranio”.

Io credo sia proprio la figura del Cireneo, il primo Cristezante della bimillenaria storia del Cristianesimo a dare continuità e significato ai riti processionali celebrati dalle circa 130 Confraternite sparse per la nostra terra di Liguria.

L’immagine sofferente del CRISTEZANTE è una vera e propria personificazione, non solo con Simone di Cirene ricordato dal Vangelo, ma con tutta la passione di Cristo.

IL CRISTO “NERO”

IL CRISTO “BIANCO”

IL CRISTO “PICCOLO”

Sono custoditi e curati dalla ARCICONFRATERNITA N.S. DEL SUFFRAGIO presso L’ORATORIO DI NOSTRA SIGNORA DELL’ASSUNTA  di cui vediamo l’interno


A Santa Maria del Campo, sul poggio nelle vicinanze della Chiesa Parrocchiale, si trova l’Oratorio dedicato alla Natività di Maria Vergine, e sede dall’Arciconfraternita di N.S. del Suffragio. L’Arciconfraternita fu riconosciuta dalla Curia Romana il 7 dicembre 1604 come risulta dallo statuto conservato con tanta cura. Il 12 maggio 1617 Monsignor Domenico De Marini, Arcivescovo di Genova accolse una delegazione di parrocchiani di Santa Maria ai quali concesse la facoltà di costruire un oratorio.

L’Oratorio fu costruito nel 1618 probabilmente sulle fondamenta di un primitivo oratorio datato 1300, infatti la diversità dei nomi dati all’Oratorio e alla Confraternita confermerebbe la tesi che in un primo tempo venne costruito e dedicato alla Natività di Maria e in un secondo tempo, nel 1618, ricostruito per la Confraternita di N.S. del Suffragio. L’Oratorio è ad un’unica navata con l’altare centrale dietro al quale si trova un dipinto raffigurante un confratello che sotto la protezione di N.S. del Suffragio getta acqua sulle anime del purgatorio nell’intento di purificarle. Il dipinto fu restaurato nel 1905 dal pittore Luigi Antonio Torniene. L’arciconfraternita, che conta all’incirca seicento iscritti è parte integrante della parrocchia, partecipa attivamente durante il corso dell’anno a diversi appuntamenti ed è sempre presente quando un confratello o consorella tornano alla casa del padre, partecipando in raccoglimento e preghiera ai funerali. Sono sempre presenti alle processioni parrocchiali, indossando “cappa” e “tabarro”, antichi vestiti di grande valore storico e portando sempre le “Argentine” che sono antiche icone in argento. Insieme alla parrocchia partecipano ogni anno al pellegrinaggio al Santuario di Montallegro.

L'interno della chiesa parrocchiale di Nostra Signora Assunta

(Prima dei lavori di restauro)

SANTA MARIA DEL CAMPO - RAPALLO


Il secondo Crocifisso denominato dai portantini CRISTO “BIANCO” per il colore dell’immagine di Gesù, é sotto osservazione, pesa circa 110 kg. I suoi “canti” sono ormai ingialliti dal tempo in quanto l’ultimo restauro è datato 1976.


Il Crocifisso “piccolo” pesa circa 50 kg e sulla croce lignea risalta una stupenda immagine antica di Gesù contornata da “canti” scintillanti e di adeguate proporzioni, i ragazzi più giovani portano questo crocifisso nelle nostre processioni.


 



Canto Destro

Canto Sinistro

 

ALBUM FOTOGRAFICO

Dal sito dei Sestieri di Rapallo

Riportiamo

I “Cristi” e la processione  -  di RAPALLO


I crocefissi processionali o meglio ” i Cristi” sono  una delle principali attrattive delle feste di luglio. Nella Processione della sera del 3 luglio, durante la quale l’Arca Argentea della Madonna viene trasportata nelle principali vie cittadine fra tutte le componenti che la animano si segnalano soprattutto i “portatori di Cristi“.

I Crocifissi sono in genere da cinque a dieci; i più pesanti arrivano sui 170 KG.

I portatöei avanzano lentamente in cappa bianca e il tabarro” con i colori della Confraternita cui appartengono. Ogni tanto la processione si ferma, perché si fanno avanti gli stramöei”, cioè le persone che operano il trasferimento del Cristo da un portatore all’altro; è il momento più difficile e pochi lo sanno.

Il mantinente (maniglione di sollevamento)

Gli stramöei sono i più forti. Essi con una mano sul calcio e l’altra sul chiodo, con uno strappo molto deciso sollevano il corpo del Cristo e lo posano nel crocco del nuovo portatore, cioè in quella tasca di cuoio sorretta dal cinturone e dalle bretelle, in cui si colloca il calcio del Cristo. La tradizione delle Confraternite e dei Cristi è ancora molto forte in tutta la Liguria e continua a resistere al tempo e al mutare delle usanze e dei costumi.


Rapallo – Piazza Cavour


La processione si é fermata dinnanzi alla basilica arcipresbiteriale-collegiata dei Santi Gervasio e Protasio di Rapallo

 

Lo stramôôu che si accinge a fare la sua parte durante una processione indossa la sola cappa legata in vita da un cordone che può avere i colori della confraternita o del tabarino. Al cordone è legato un fazzoletto che serve per asciugarsi le mani dal sudore che potrebbe essere il nemico di una salda tenuta del cristo durante la fase di cambio del camallo. Afferra il mantinente, cioè un manico di acciaio incastrato ortogonalmente alla croce all'altezza dei piedi dell'immagine, a circa 120 cm di altezza da terra. Nella fase di cambio lo stramuo si avvicina al camallo, quando questo sente che la croce è in equilibrio si distacca un poco in quell'istante lo stramuo si avvicina afferrando con la mano principale il mantinente e con l'altra il pessin (la parte finale della croce verso terra), tenendolo in equilibrio sulle sue braccia. La base della croce viene posizionata nel “crocco” una specie di bicchiere in cuoio collegato alle cinghie che s’incrociano sulle spalle dei portatori.

 

Come si può ben capire, per portare il Crocifisso servono braccia robuste e doti di forza congiunte e capacità d’equilibrio, sia i portatori che i “stramuoi” si devono esercitare periodicamente per poter così portare nelle processioni i “Cristi”.
Le ultime foto sopra riportate, riguardano i Cristi dell’Arciconfraternita di Santa Maria del Campo. Si tratta di tre bellissimi Crocifissi processionali, questi vengono portati in processione in occasione della festa dedicata alla Madonna di Caravaggio l’ultima domenica di maggio e per la festa patronale dell’Assunta a ferragosto.

Inoltre un Crocifisso viene portato in processione al Santuario di Montallegro quando la parrocchia vi si reca per adempiere al voto fatto la prima domenica del mese di maggio.


CURIOSITA’ STORICA

Il fatto che i Cristi vengano portati rivolti all'indietro ha origine da un privilegio concesso da Papa Pio V (Michele Ghisleri da Bosco Marengo) canonizzato nel 1723. Il Pontefice al termine della vittoriosa battaglia di Lepanto avvenuto il 5 ottobre del 1571 concesse ai liguri di poter issare il Crocefisso con l'immagine voltata all'indietro. Questo perché nel corso della battaglia navale tutti i crocefissi che erano issati sulla prua delle galee genovesi vennero voltati all'indietro affinché il sacro legno non venisse visto dagli infedeli e fosse ispiratore di coraggio e infondesse la forza per poter vincere nelle truppe cristiane. In realtà esiste anche una motivazione pratica per tale orientamento, ovvero l'immagine rivolta al portatore garantisce un migliore controllo ed equilibrio al portatore stesso, in quanto il peso è rivolto verso di sé. Questo vale soprattutto per i Crocifissi di medio-grande dimensione.

LA STORIA DEL CAMALLO GENOVESE

I l camallo pourtou è colui che porta il crocifisso in equilibrio. Il termine probabilmente deriva dai portatori di Cristo del Porto di Genova. I portuali che caricavano o scaricavano navi venivano chiamati i camalli del porto, difatti le confraternite con i Crocifissi più antichi appartengono proprio alle zone del porto antico. Il camallo prende il Cristo dallo stramôôu e lo porta finché non comincia a sentire la stanchezza, quindi chiama uno stramôôu che possa trasportare il Cristo ad un altro camallo. Il fatto che i camalli più esperti portano il Cristo senza toccarlo con le mani lo si deve all'esperienza, oltre a garantire un migliore bilanciamento.

I crocifissi possono essere portati dal camallo in diverso modo, in primis se si appoggia sulla spalla destra o sulla spalla sinistra, inoltre a seconda delle preferenze del camallo e del posto in cui lo si porta: lo si può portare di taglio, di mezzacosta o di piatto. I "portoei" e gli "stramoei" "chiamano" il cambio del crocifisso con l'espressione dialettale ligure "vegni" (vieni), a volte contratta in "ve'", o col più arcaico "vegna", per richiamare il "purtou" o lo "stramuou" di turno a fare il cambio.

Pratica usuale (anche se deprecata più volte anche con documenti ufficiali per la sua pericolosità) soprattutto nel Genovesato è quella di far "ballare" i cristi al termine delle processioni al suono della banda. Questo ballo, fatto dai cristezanti più abili di solito con il crocifisso più grande della confraternita "di casa", consiste nel girare in tondo (in dialetto "fare la rionda") e far oscillare il crocifisso a tempo di musica ed è grande prova di abilità, forza ed equilibrio da parte del cristezante. Più difficile ancora (e ciò viene fatto solo da pochissimi cristezanti) è il "ballo" fatto ruotando su sé stessi ("elica") con il crocifisso in crocco.

Franco Casoni: intagliatore e scultore chiavarese, é ritenuto oggi tra i più esperti restauratori di Cristi da processione.

Il 12 gennaio 1829 Antonio Maria Gianelli - arciprete della parrocchia di S. Giovanni Battista a Chiavari – fondò “l’Istituto delle Figlie di Maria SS. dell’Orto”.

Oggi – nell’ambito dei festeggiamenti organizzati dalle suore “gianelline”, in occasione del primo centenario della fondazione dell’omonimo Collegio, “a monte” - L’Associazione Culturale Nuova Eos, ha donato all’Istituto una Croce, sulla quale l’artista Franco Casoni ha intagliato un crocifisso.


Franco Casoni, S. Croce e SS. Crocifisso, Chiavari Istituto Gianelli,  2013, (ripresa al momento della benedizione, sotto il pronao della Cattedrale)
(Foto di E. Panzacchi)

Foto prese dal sito della Confraternita dei Disciplinanti Bianchi di
San Giovanni Battista di Loano - Fondata nel 1262

I canti (i tre lati del Crocifisso) sono opera dello scultore Franco Casoni di Chiavari.

Un ricordo di Umberto Ricci

(a destra nella foto)

MIO PADRE E LE FESTE DI LUGLIO

Tra pochi giorni inizierà la Novena dell’Alba che “apre” le nostre feste patronali… E’ impossibile per me non pensare ancora di più a mio padre, che tanto vi era legato.

Da quando non c’è più, rivivo ogni attimo trascorso con lui durante i tre giorni e la tristezza ha lasciato posto a una sottile malinconia….

Il 1 luglio si è sempre svegliato molto presto per poter essere di aiuto in Basilica per la cerimonia della “Madonna in cassa”. Quando l’organo della chiesa iniziava a suonare e nell’aria si sentiva il profumo dell’incenso, lo vedevo dirigere la processione del Parroco e del Vescovo fino davanti all’Arca argentata. Conoscendo il cerimoniale a memoria, stava attento che tutto si svolgesse senza intoppi e lo aspettavamo all’uscita della Basilica per andare a vedere in passeggiata il “saluto dei ragazzi”.

Al termine, è sempre stata tradizione fare colazione tutti insieme in un bar cittadino; poche volte però si tratteneva con noi a scambiare due parole perchè: ”…Sono iniziate le feste! Ci sono tante cose da fare!”

Il 2 luglio invece la sveglia suonava ancora prima…Nei giorni precedenti in casa si sentiva il ticchettio della sua macchina da scrivere perchè preparava i biglietti con i nomi delle Autorità da sistemare nei posti a loro riservati durante la Messa Solenne e poi per il tradizionale pranzo presso il ristorante Da Marco. Lo incontravo che camminava frettoloso per le vie cittadine ed era impossibile scambiare due parole con lui! Alcune volte riuscivo a rubargli 5 minuti per comprare insieme un po’ di croccante sulle bancarelle: gli piaceva tanto e per noi era un momento tutto nostro per stare insieme.
Negli ultimi anni, alle 11:55, ci davano appuntamento dal ponte Ricci (sul fiume Boate) per assistere insieme al panegirico. Impossibile non pensare a lui ogni anno quando i mortaretti risuonano nell’aria….Chiudo gli occhi e lo vedo felice e commosso… Ci teneva troppo ad essere presente, a non perderli per nessuna ragione al mondo!

Il 3 luglio, invece, era tutto preso dall’organizzazione della processione con l’arca della Madonna. Spesso a casa da noi, all’ultimo momento, portava il Vescovo o qualche prete arrivato da lontano a pranzare. Non avvertiva prima; così, mentre eravamo a tavola, lui entrava con l’ospite inatteso! Santi i miei nonni e mia mamma che riuscivano a non lasciare trapelare la voglia di “strozzarlo” ma aggiungevano un piatto…..!

Alla sera invece non veniva mai a cena perchè doveva preparare il percorso della processione che seguiva con attenzione….lo si vedeva andare avanti e indietro per le strade cittadine e, da quando non c’è più, moltissime persone mi fermano dicendo che notano ogni anno la sua mancanza!

Le nostre feste erano per lui un tesoro prezioso da conservare, da tramandare ai giovani. Erano per lui una dimostrazione di fede in Nostra Signora di Montallegro che mi ha dimostrato in moltissime occasioni. Anche nelle sue ultime volontà ha lasciato scritto di essere accompagnato nel suo ultimo viaggio con le note di “Splende in alto”…

Da quando non c’è più, guardo i colori dei fuochi nel cielo illuminato dalla luce della luna e lo immagino seduto su una nuvola mentre si sta godendo lo spettacolo insieme agli altri angeli!

ELISABETTA RICCI

LE CONFRATERNITE NELLA STORIA

Le Confraternite sono associazioni cristiane fondate con lo scopo di suscitare l'aggregazione tra i fedeli, di esercitare opere di carità e di pietà e di incrementare il culto. Sono costituite canonicamente in una chiesa con formale decreto dell'Autorità ecclesiastica che sola le può modificare o sopprimere ed hanno uno statuto, un titolo, un nome ed una foggia particolare di abiti. I loro componenti conservano lo stato laico e restano nella vita secolare; essi non hanno quindi l'obbligo di prestare i voti, né di fare vita in comune, né di fornire il proprio patrimonio e la propria attività per la confraternita.

Le Confraternite furono antiche nella Chiesa cattolica, onde se ne trova menzione nel quindicesimo canone del concilio di Nantes celebrato nell'anno 895, e se ne fa parola nella vita di San Marziale scritta da uno dei suoi discepoli. Recenti studi comproverebbero l'esistenza di Confraternite in Europa forse già nel quarto secolo, sicuramente in Francia nell'ottavo ed in Italia nel secolo successivo.

Le Confraternite si assunsero inoltre numerosi altri compiti sociali quali l'assistenza ai poveri, agli orfani, agli ammalati, agli incurabili, ai carcerati, ai condannati a morte, alle giovani a rischio, si prodigarono per il recupero delle persone deviate e delle prostitute pentite, si impegnarono nel riscatto dei cristiani caduti schiavi dei saraceni. Di grande valore umanitario fu poi l'assistenza agli ammalati contagiosi e la pietosa opera di sepoltura dei morti abbandonati, degli assassinati, dei poveri, delle vittime nelle epidemie, degli stranieri, degli sconosciuti, vero grande problema di quegli oscuri e tumultuosi tempi al quale le Confraternite diedero sempre adeguate risposte. Per l'adempimento di quelle pietose opere di notevole contenuto cristiano, morale e civile, ma ancora per testimoniare fede, umiltà, carità e penitenza, fu necessario indossare un saio e non mostrarsi pubblicamente, nascondere la propria identità, negare il proprio volto coprendolo con un cappuccio, annullando in tal modo completamente la propria personalità, da cui la tradizione tuttora in uso in molte congregazioni.

Le Confraternite ebbero grande sviluppo tra il quattordicesimo ed il diciottesimo secolo, diffondendosi in modo capillare in tutta l'Europa

L'importanza delle confraternite nella Chiesa Cattolica è stata di notevole incisività in particolar modo nei tempi più difficili della sua storia, nel Medioevo e più segnatamente durante il periodo della Riforma protestante ed il loro contributo fu determinante nel battaglia per contrastare il protestantesimo in Italia, nella lotta alle eresie ed in tutte le altre vicende interne ed esterne alla Chiesa Cattolica.

La funzione delle Confraternite resta dunque importante per il lungo cammino percorso sulla via della speranza, per il patrimonio di esperienze acquisite nelle opere di apostolato, per la secolare presenza nella Chiesa e nella società e per la funzione di raccordo svolta tra di esse, bagaglio prezioso non facilmente sostituibile, né tanto meno surrogabile.

Esse vengono da lontano e sicuramente andranno lontano.

Tra i maggiori artisti di statue per gli artistici crocifissi c'è Domenico Bissoni,* autore di alcuni dei più antichi crocifissi processionali di grandi dimensioni, tra cui il più famoso, il Cristo delle Fucine, appartenente alla Confraternita di S. Giacomo delle Fucine e attualmente conservato presso L’Oratorio di Sant’Agostino Abate (Genova) detto della Marina; il figlio di Domenico Giovanni Battista Bissoni; Anton Maria Maragliano*, che ha prodotto anche molte statue processionali, Pasquale Navone e nella metà del XIX secolo è molto laborioso lo scultore savonese Antonio Brilla.

*Domenico BISSONI

di Francesco, detto Veneziano. - Scultore. Operava già nel 1597 a Genova, ove morì nel 1645. Intagliò, tra l'altro, un gruppo processionale di quindici statue, poi distrutto. per l'oratorio della Santa Croce a Genova, e soprattutto crocefissi d'avorio e di legno, fra i quali notevoli sono quelli dell'oratorio di S. Giacomo Maggiore e di S. Maria d'Albaro a Genova. Aggraziata è la sua Madonna del Rosario nella chiesa di S. Stefano di Polcevera. Nel 1608 con Daniele Casella e G.B. Carloni eseguì gli ornamenti marmorei delle nicchie della cappella del Battista in S. Lorenzo (sempre esistenti).

*Anton Maria Maragliano

nativo di Genova, secondo alcune fonti nella zona della chiesa di Santo Stefano, fu il figlio di un fornaio genovese benestante. Sarà nel 1680 che entrerà nella bottega artigiana dello zio materno Giovanni Battista, con regolare contratto di accettazione, dove apprenderà l'arte della scultura e vi si specializzerà. Già nel 1688 è titolare di una propria bottega artigiana dove si formeranno, oltre al figlio Giovanni Battista, gli scultori genovesi Pietro Galleano e Agostino Storace.

Maragliano morirà il 7 marzo del 1739, presumibilmente nel capoluogo ligure, dove verrà sepolto all'interno della chiesa di Santa Maria della Pace di Genova.

Conosciuto soprattutto per le sue sculture lignee, fu attivo fra la fine del Seicento e i primi quattro decenni del secolo successivo, in particolare a Genova dove tenne una rinomata bottega. Ebbe il suo studio accanto alla chiesa del Rimedio di via Giulia.

Rinnovò in chiave barocca e pre-rococò l'arte del legno, operando una "riforma" collegata alla poetica di grande decorazione contemporaneamente svolta da Filippo Parodi nel marmo e Domenico Piola nella pittura e attuando un efficace compromesso tra ispirazione aulica e gusto popolaresco.

Furono interessati molti oratori e altari di chiese e di santuari.

Il suo laboratorio produsse numerose tipiche sacre rappresentazioni, raffiguranti Madonne, santi, scene bibliche e statue da presepio, diffuse in chiese, oratori e santuari di tutta la Liguria, in particolare a Genova, Rapallo (Chiesa di San Francesco, nella cappella a sinistra della navata maggiore, il gruppo ligneo del Cristo incoronato di spine), Chiavari, Celle Ligure, Cervo, Savona) ma anche in Spagna. Numerose anche le casse e crocifissi da processione prodotti per le Casacce (le potenti confraternite genovesi).

 

STATUTO GENERALE DELLE CONFRATERNITE E DEL PRIORATO DELLE CONFRATERNITE DELL’ARCIDIOCESI DI GENOVA

LINK

https://www.oratoriodelmonte.it/assets/statuto-confraternite-con-decreto2.pdf

CHIESA DI NOSTRA SIGNORA ASSUNTA

SANTA MARIA DEL CAMPO

Veduta del leccio storico e del campanile parrocchiale

 

 

Dal sito della Parrocchia riportiamo:

Nei primi giorni di ottobre 2018, il leccio secolare posto a fianco della chiesa parrocchiale di Santa Maria del Campo è stato sottoposto ad un importante opera di potatura resasi necessaria per diminuire peso e volume della pianta.

Questa operazione ridimensionamento si è resa necessaria in quanto alcune perizie hanno constatato che il tronco del leccio è minato da un fungo che ne indebolisce la consistenza. Quindi alleggerirlo in modo significativo è diventata una scelta inevitabile per evitare il pericolo che l'albero si spezzi o che se ne verifichi uno sradicamento con conseguenze facilmente immaginabili.

Come era prevedibile l'operazione di potatura del leccio è stata accolta da qualcuno con qualche perplessità. Tuttavia questa dolorosa soluzione è la unica che consente di prolungare la vita della pianta. Naturalmente continueranno anche in futuro i monitoraggi periodici che vengono fatti ormai da anni per individuare eventuali criticità che possano far diventare l'albero un pericolo per transita e sosta nei pressi della chiesa parrocchiale.

 

L'interno della chiesa parrocchiale

Nostra Signora Assunta

(dopo i lavori di restauro)

 

14/8/2015 - Al centro, tra don Luciano e don Davide, il vescovo S.E. Mons. Alberto Tanasini benedice i lavori di restauro

Dal sito della Diocesi....

RAPALLO – Nella festa in onore di Maria Assunta in cielo, la comunità parrocchiale di Santa Maria del Campo di Rapallo ritrova lo slancio per iniziare già in terra quel cielo che vive in pienezza la Madre di Dio. Nella festa dell’Assunzione, la Celebrazione Eucaristica presieduta dal Vescovo Tanasini nella Chiesa restituita alla sua primitiva bellezza dopo il devastante incendio che la distrusse nel giugno 2010. Festa nata da una intuizione profonda del popolo, ricorda monsignor Tanasini. Colei che è stata Immacolata e Vergine non poteva non entrare con il suo Figlio nella gloria.  Da qui dunque una domanda che attraversa il cuore dell’uomo: quando una vita è compiuta? Successo, soldi, l’esercizio di un potere che diventa affermazione sugli altri sono spesso le nostre risposte. Ma sono solo un grande inganno sottolinea il Vescovo.  Maria ci presenta il compimento di vita dato dall’entrare nella gloria. E nel contempo continua senza sosta il recupero dell’edificio sacro. Dopo il rinnovamento del sagrato, degli interni e della statua lignea di Maria, nel corso della festa è stato inaugurato il restauro dell’organo a canne. Lo strumento datato 1793 è stato rimesso a nuovo grazie ai fondi della Compagnia San Paolo, dell’Otto per Mille e del Comitato Festeggiamenti.

Il concerto inaugurale

L'inaugurazione dei restauri è avvenuta domenica  9 agosto 2015 con il primo concerto rapallese del XVII Festival Organistico Internazionale “Armonie Sacre percorrendo le Terre di Liguria”.

Ne sono stati protagonisti gli organisti svizzeri Gabriele e Hilmar Gertschen e l’Ensemble Rapallo Musica diretto da Filippo Torre. Il folto pubblico presente ha così avuto la rara opportunità di ascoltare dal vivo un intressantissimo e molto apprezzato repertorio per organo e orchestra.

 

La chiesa di Santa Maria Assunta a navata unica, racchiude un significato simbolico. Esso deriva non solo dalla struttura architettonica del soffitto che spesso nelle chiese romaniche e gotiche ha la forma di una carena capovolta, ma anche e soprattutto dalla "barca" da cui Gesù ammaestrava le folle (Luca 5,3), come anche dalla barca-chiesa che san Pietro Apostolo guida nella tempesta (Matteo 8, 23-27; 14, 24-34) e che i vescovi continuano a guidare ovunque ed in ogni epoca. Nell'VIII secolo san Bonifacio scriveva che "la Chiesa è come una grande nave che solca il mare del mondo. Sbattuta com'è dai diversi flutti di avversità, non si deve abbandonare, ma guidare".

La statua della Madonna Assunta


Nella Chiesa parrocchiale Nostra Signora Assunta, impregnata di arte BAROCCA, ho contato un centinaio di Angeli e angioletti, arcangeli e cherubini, messaggeri celesti e guerrieri alati, ma anche putti, amorini e cupidi che popolano l'arte figurativa  di ogni tempo e paese.

Nelle Litanie lauretane, che si recitano alla fine del Santo Rosario, la Madonna viene salutata con l’appellativo di “Regina degli Angeli”. Maria, proprio perché profondamente inserita nel mistero trinitario del Verbo, si eleva al di sopra di tutte le creature, non solo terrestri, dai profeti agli Apostoli, dalle vergini ai martiri, ma delle stesse creature angeliche. Cristo Gesù, non solo come Dio è Signore e Padrone dell’universo, ma anche come uomo - Dio è re di tutti gli uomini e di tutte le creature, compresi gli Spiriti celesti che sono i “suoi angeli”. L’evangelista Marco, parlando della seconda venuta di Cristo, profetizza: “Si vedrà allora il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e grande gloria, e allora manderà i suoi angeli a riunire i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo” (Mc. 13, 26). Gesù Cristo è infatti Figlio di Dio non per adozione ma per natura, mentre gli angeli non sono che servi e figli adottivi di Dio.

La pregevolissima opera lignea é opera dello scultore genovese Giovanni Battista Drago ed é stata realizzata nel 1864.

 

L'ORGANO

 

L’organo è senza dubbio una delle opere d’arte più importanti custodite all’interno della chiesa parrocchiale di Santa Maria del Campo. Nell'agosto del 2015 la chiesa si é arricchita di una nuova importante opera restaurata: l’organo Luigi XV della seconda metà del secolo XVIII. La bottega organara DELL’ORTO e LANZINI di Dormelletto (Novara) ha curato il restauro della parte musicale mentre il laboratorio artigiano CALZOLARI – GARBARINO si è occupato di riportare all’antico splendore la cassa d’organo in essenza di pino laccata in policromia. Si tratta di un pregevolissimo esemplare di scuola settecentesca ligure, costruito da Francesco Ciurlo di Santa Margherita Ligure nel mese di maggio dell’anno 1793, come si legge sul cartigliomanoscritto incollato sul frontalino sopra la tastiera.

La struttura ad armadio centinato è composta da due parti principali: la parte inferiore è formata da quattro lesene e da due ante a pannelli poste ai lati della tastiera.

La parte superiore è composta da due lesene tra le quali vi sono quattro ante con apertura a gabbiano che racchiudono una splendida trifora riccamente intagliata. Il cappello è un trionfo di sagome centinate e modanate a sbalzo, sormontato da una splendida cimasa riccamente scolpita a motivi vegetali e floreali.

Tutte le lesene, comprese le due ad angolo, sono decorate di lacca blu, contornate da sagome e ornate con intagli a motivo flroreale decorate in lacca ocra.

Lo strumento, a trasmissione meccanica, dispone di una tastiera, una pedaliera e 12 registri più due effetti “speciali”: il Tamburo e i Rosignoli.
L’organo è stato filologicamente restaurato al fine di recuperare la piena funzionalità e le caratteristiche sonore di un tempo, pensate appositamente per la chiesa di Santa Maria.

Io sono convinto del carisma particolare con cui la musica riesce a toccare l’animo delle persone e parlare al cuore di tutti attraverso un linguaggio universale. Ma la musica é anche la via d’accesso alla spiritualità, alla riflessione su tematiche profonde come la fede e sul mistero

L’affinità tra musica e dimensione spirituale ha radici antichissime che, seppure in forme diverse, si è manifestata e si manifesta nella maggior parte delle culture umane. Ma come si raggiunge il divino? Da sempre i fedeli si pongono questa domanda ed elaborano numerosi tentativi di rispondervi. Spesso è la preghiera lo strumento privilegiato per collegarsi alla sfera del sacro e varie sono le modalità di attuarla; offerte, recitazione di parole, digiuni, astinenze, ma anche attraverso il canto e/o l’utilizzo di strumenti musicali.

Fin dalla notte dei tempi, la musica è sempre stata associata al divino. Si è sempre pensato che la musica unisse l’uomo alle divinità e tuttora si ritiene che l’universo si sia creato tramite un suono magico: AUM, da cui tutto è nato. Il suono stesso è ritenuto di origine sacra e la stessa musica è considerata qualcosa di potente e di enigmatico.

Il TRANSITO  E L'ASSUNZIONE DI MARIA VERGINE IN CIELO


Nel catino absidale abbiamo due pregiatissimi affreschi che ci mostrano: L'Assunzione di Maria Vergine in cielo.

Navata centrale della chiesa di Luigi Morgari realizzata nel 1903 e raffigurante l'incoronazione di Maria nella gloria del paradiso.

Lo sguardo missionario, universale si allarga anche al cosmo. L'artista barocco non limita mai il suo punto di vista alla chiesa terrena per quanto forte e gloriosa possa essere. Egli coglie il legame fra la Chiesa militante e la Chiesa trionfante e si compiace di sottolinearlo.

SACRO CUORE DI GESU'

 

Altare barocco con colonne a tortiglione. Di lato si notano gli strumenti del supplizio di Gesù Cristo

 

 

 

Il gruppo artistico degli Angeli in posizione plastica sopra la lunetta ha un fascino sublime

 

ALTARE MAGGIORE

 

Martedì 1 novembre 2016, Festa di Ognissanti, è stato benedetto il nuovo altare della nostra Chiesa Parrocchiale.
Il manufatto, che va ad abbellire ulteriormente l’edificio di culto rimesso a nuovo in moltissime delle sue parti negli ultimi anni, è stato donato dal Comitato Festeggiamenti Santa Maria impegnando il ricavato delle sagre gastronomiche realizzate in occasione delle feste patronali degli ultimi anni.

L’altare, che riprende motivi stilisti ed elementi architettonici ricorrenti all’interno della chiesa è stato progettato dall’architetto Stefano Tassara, realizzato con la struttura lignea da Luciano Canepa e decorato con effetto marmo dalla Ditta Calzolari e Garbarino di Santa Margherita Ligure.
La decorazione riprende le tinte dell’onice rosso,  bianco statuario, grigio bardiglio e nero portoro; al centro del fronte principale è stato realizzato a rilievo e indorato lo stemma di San Bernardino IHS acronimo di Iesus Hominum Salvator.

CRISTO SENZA CROCE

La passione e morte è l'ultimo evento della vita di Cristo. Negli altri misteri (che colgono un aspetto della vita di Cristo) non si contempla in modo esplicito la croce, per quanto ogni mistero rinvii a tutti gli altri e certo alla croce. (di anonimo)

 

Altare dedicato alla

Madonna di Caravaggio

 

Le caratteristiche fondamentali dell'architettura barocca sono le linee curve, dagli andamenti sinuosi, come ellissi, spirali, o curve a costruzione policentrica, talvolta con motivi che si intrecciano tra di loro, tanto da risultare quasi indecifrabili. Tutto doveva destare meraviglia e il forte senso della teatralità spinse l'artista all'esuberanza decorativa, unendo pittura, scultura e stucco nella composizione spaziale e sottolineando il tutto mediante suggestivi giochi di luce ed ombre.

L'artista: Antonio Canepa


MADONNA DEL ROSARIO

Madonna del Rosario - Altare

Il rosario, a partire dal XIII secolo acquisì il significato religioso indicante le preghiere che formano come una "corona", ovvero una ghirlanda di rose alla Madonna.


Le sue origini sono tardomedievali: fu diffuso grazie alle Confraternite del Santo Rosario, fondate da Pietro da Verona, santo appartenuto all'Ordine dei frati predicatori, tanto che se ne attribuì la nascita ad un'apparizione della MADONNA, con la consegna del rosario al fondatore dell'Ordine SAN DOMENICO.

Interessante e di particolare valore artistico è questo dipinto raffigurante la Madonna del Rosario  fra San Domenico, San Rocco e San Giuseppe (posizionato nel secondo altare a sinistra dall'ingresso), restaurato presso il Laboratorio di Restauro della Regione Liguria nel 2013 a dell'Associazione Santa Maria del Campo, è riferibile alla pittura ligure del primo quarto del XVII secolo.

Nutritosi alle fonti disegnative di Giovanni Battista Paggi, l’autore è incline a forzature tardomanieristiche, che interessano le opere pittoriche di quegli anni e si accosta, anche per la ricercatezza cromatica, recuperata dal bel restauro, ad analoghe soluzioni sperimentate da Andrea Ansaldo, al quale rimandano anche la deformazione anatomica della gamba destra di San Rocco (si veda la Fortezza di Palazzo Ducale a Genova) e la postura in contrapposto della figura di Maria (si vedano ad esempio le Virtù cardinali affrescate nelle lunette di Villa Spinola San Pietro a Sampierdarena databili entro il 1625).

Splendida la risoluzione cromatica, ricca di sfumature, degli azzurri del manto e dei rossi della veste di Maria: una sinfonia di colori sulle note del blù e del rosso, dove ogni ombra è resa per caricamento o alleggerimento del tono, con tenui variazioni e con totale assenza del nero.

CROCIFISSIONE

Nell’area absidale della nostra Chiesa Parrocchiale si trovavano due dipinti su tela: sulla destra quello raffigurante la CROCIFISSIONE, sulla sinistra quello raffigurante l'ASCENSIONE DI GESU' CON SAN GIOVANNI BATTISTA e SANT'ANTONIO, entrambi restaurati dal Laboratorio Martino Oberto Studio Opere d’Arte di Carla Campomenosi e Margherita Levoni di Genova nel 2013 a cura dell'Associazione Santa Maria del Campo.

LA CROCIFISSIONE ( Pittore ligure, attivo nel XVII secolo, olio su tela, cm 250 x 164) ornava in origine il primo altare a sinistra, intitolato al Santissimo Crocifisso.

Si sa infatti che nel 1605 certo Bernardo Moltedo "donava un artistico quadro per l'altare del Crocifisso".

Acquistato nel 1807 un'altro quadro la tela raffigurante LA CROCIFISSIONE venne tolta dalla sua ubicazione originaria e collocata nel presbiterio.

Importante quale testimonianza storica dell’antica devozione verso il SS. Crocifisso, il dipinto è da riferire a un artista ligure che elabora senza particolare novità stilemi tardo cinquecenteschi.

 

ASCENSIONE DI GESU' CRISTO

La tela di fronte al Crocifisso, raffigurante l’Ascensione di Cristo e i Santi Giovanni Battista e Antonio proviene secondo Casotti dalla cappella di San Lazzaro, l’antico lebbrosario di Rapallo.

La proprietà dell’opera fu oggetto di contesa all’inizio del XVIII secolo (1707) fra la parrocchia di Santa Maria del Campo, che evidentemente la spuntò, e la parrocchia di San Massimo, alla quale forse giunse la tela raffigurante la Crocifissione con la Madonna e Santa Maria Maddalena..

Il dipinto palesa l’influenza sulla pittura ligure della seconda metà del XVII secolo della cultura emiliana, in particolare correggesca, studiata e ammirata dagli artisti barocchi a cominciare da Pietro da Cortona e in Liguria frequentata soprattutto da Domenico Piola, Stefano Gaulli detto il Baciccio e Gregorio De Ferrari, dal quale sembra trarre ispirazione l’anonimo autore del dipinto di Santa Maria del Campo, forse un frequentatore della bottega di Gregorio, del quale non raggiunse tuttavia l’altissimo livello qualitativo.

L'ORGANO CON LE VOLTE DECORATE

Visto dall'ALTARE MAGGIORE

Pulpito

 

Particolare del Pulpito marmoreo

 

SANTA FLORA

 

Nicchia con statua dedicata a Santa Flora

 

Riprendendo un'antica tradizione andata in disuso per qualche anno, la comunità parrocchiale di Santa Maria del Campo, 31 luglio di quest’anno ha festeggiato Santa Flora di Cordova di cui conserva alcune preziose reliquie poste nella teca dell'altare del Sacro Cuore.

Santa Flora nacque a Cordova nella Spagna islamica, da padre musulmano e madre cristiana. Una volta morto il padre fu educata al cristianesimo insieme alla sorella Baldegoto ma fu osteggiata dal fratello musulmano. Scappò una prima volta dalla casa natale per farvi poi ritorno poiché suo fratello aveva fatto imprigionare dei religiosi e dei chierici per ricattarla. Tornata, fu brutalmente battuta. Si allontanò di nuovo da casa per anni e ne fece ritorno per volontà di martirio.  Flora sapeva del destino che l'avrebbe aspettata se si fosse consegnata al cadì. Fu imprigionata ed in carcere conobbe Eulogio, uno dei martiri di Cordova, che diede notizia del suo martirio, trafitta con la spada. In seguito, anche il martire perì decapitato per aver professato la fede cattolica.

Si disse che il corpo della Santa, dopo essere stato gettato nei campi, fu rispettato dagli animali selvatici che non se ne nutrirono. Il suo emblema è la palma.

CHIESA DI SANTA MARIA DEL CAMPO

 

 

Lo spazio parrocchiale di Santa Maria del Campo inizia  a monte con questa edicola dedicata alla Madonna

Il rissëu ligure

Il mosaico a ciottoli in Liguria è denominato ”rissëu”.

L’origine conosciuta di questi mosaici in Liguria risale all’incirca al XIV e XV secolo: questo è il periodo in cui questa arte ha cominciato a diffondersi e ad affermarsi. Sicuramente ad oggi la Liguria è la regione italiana con il più alto numero di mosaici di ciottoli.

Sicuramente, i naviganti genovesi, oltre ad  instaurare scambi e  relazioni commerciali con i popoli del Mediterraneo, importarono in patria  anche la  nobile arte del mosaico a ciottoli.

La Liguria, che è  una catena montuosa affacciata sul mare, è geologicamente ricca e quindi ha garantito nel tempo l’abbondanza e la facile reperibilità dei materiali lapidei, naturalmente presenti sulle spiagge e sui greti dei torrenti.

Inizialmente questi mosaici  decoravano i sagrati, gli spazi antistanti e vicini ad edifici religiosi, chiese, chiostri e conventi. Questi mosaici dalla forte carica simbolica, contenenti  fitte trame di segni, densi di significati metaforici e anche metafisici, fungevano quindi da luogo di passaggio della coscienza umana, dal mondo esterno alla sfera del sacro. Erano un tramite per i fedeli che entravano nel luogo di culto.

UN PO' DI STORIA:


dal sito web della parrocchia riportiamo:

Le origini di questa frazione del comune di Rapallo non sono di facile reperibilità, e i primi riferimenti storici certi risalgono all'anno Mille.

Un atto datato 7 aprile 1049 documenta la donazione a Santa Maria di Castello in Genova, da parte di un tale Raimondo (di cui non si sa molto) di terreni ed altri beni situati in località "Gausotana" (Cassottana), mentre il 20 aprile 1089 è un certo signor Ingo che lascia a sua nipote di nome Vida i beni posti in località "Cavalixi" (Cavaggin) e "Perogallo".

E' del 16 aprile 1184 l'atto di vendita, da parte dei coniugi Grimaldo e Alda, di loro terreni dal fossato di Noceto sino alla strada ; e dalla chiesa sino alla costa di Ruta, e questo conferma l'esistenza di un edificio sacro in loco, anche perché, sempre secondo quest'ultimo documento, a quel tempo esisteva una chiesa intitolata a S. Maria del Piano (" Sanctae Mariae de Planis", successivamente Santa Maria del campo).

Altro documento del 23 luglio 1201 menziona un certo Gandolfo Merlo quale rettore della chiesa di Santa Maria, e proprio quest'ultimo attesta di aver ricevuto 20 soldi da un certo Alberto per la fornitura di un barile d'olio.
La certezza dell'esistenza di una chiesa a Santa Maria la troviamo in un atto del notaio Giovanni d'Amandolesio del 19 luglio 1261 che menziona l'elenco delle Parrocchie annesse al "Lodo per tasse al clero" e tra cui troviamo appunto Santa Maria, oltre a San Massimo, Foggia, Novella e altre.

La chiesa e l'intera frazione si sviluppò nel corso degli anni, e una relazione del parroco datata 1533 indica che le anime presenti all'epoca erano 536 e secondo i registri parrocchiali raggiunsero nel 1750 la cifra di ottocento abitanti.

La chiesa era sorta in una posizione dominante su tutta la valle, e nel corso degli anni subì una radicale trasformazione.

Infatti, fu la Curia genovese a sollecitare l'esecuzione di lavori, come apprendiamo da una lettera del vicario del 26 luglio 1610 in cui si legge: "Ci vien fatto notizia che la chiesa parrocchiale di Santa Maria del Campo di costì non è ancora del tutto restaurata  conforme a quello che fù ordinato in visita".
Pertanto, l'anno seguente l'arciprete di Rapallo potè benedire il nuovo altar maggiore dedicato alla Vergine Assunta.

Ma è nei primi anni dell'Ottocento che la chiesa si arricchisce anche dei suoi quattro altari che possiamo osservare ancora oggi; il primo, eretto nel 1807, è dedicato a Nostra Signora di Caravaggio, il secondo a Nostra Signora Addolorata , il terzo al Santissimo Rosario ed infine il quarto è dedicato al Crocifisso; in quest'ultimo altare, nel 1824 il parroco Cavagnaro fece incastonare una teca contenente la Reliquie di Santa Flora.
I parrocchiani "Campesi" si impegnarono costantemente per rendere sempre più bella la loro chiesa, e proprio per questo motivo l'arcivescovo di Genova, monsignor Luigi Lambruschini, visitò la parrocchia e la elevò a Prevostura.

È nel 1793 che, grazie a Francesco Ciurlo, la chiesa venne dotata di un organo; nel 1864 viene poi commissionato il gruppo processionale dell'Assunta a Gio Battista Drago, scultore di Genova, la cui opera verrà in seguito abbellita dal campese Antonio Canepa, artista di grandi doti al quale si deve la realizzazione della statua della Madonna di Caravaggio.

Ma l'elemento architettonico che più di tutti gli altri colpisce il visitatore che arriva a S.Maria è l'imponente scalinata costruita nel 1920 e che conferisce alla chiesa ancor maggiore risalto.
L'opera fù realizzata grazie al contributo di Francesco Cassottana, sotto la supervisione del parroco di allora Silvestro Maggiolo, che resse la parrocchia dal 1895 al 1949.
Arriviamo al 1934, quando l'edificio viene dichiarato Monumento nazionale; nel 1949 la parrocchia passa nelle mani di don Angelo Cattoni, a cui si deve la costruzione dell'asilo infantile che verrà inaugurato nel 1964 oltre ad altre opere.

L'attuale concerto di 12 campane risale agli anni 1957 - 59, e da allora il loro suono scandisce la vita di tutti gli abitanti di Santa Maria.

Nel 1970 don Cattoni lascia il posto a don Gerolamo Noziglia che guida la parrocchia sino al 1991, sostituito dall'attuale parroco Don Luciano Pane .

Da queste poche righe, si può notare come la chiesa di S.Maria rappresenti un edificio ricco di memorie per tutti i campasi e rapallesi che, il 15 agosto d'ogni anno, si danno appuntamento per una solennità mariana che, sorretta dalla forza vitale della tradizione, è festa di popolo.

In questa tabella sono elencati tutti i parroci che nel corso del secondo millennio hanno prestato il loro servizio in questa Parrocchia, dalle origini conosciute fino ai nostri tempi.

1201 - 1226

GANDOLFO MERLO

1239 - 1263

GIOVANNI di Campo

1263 - 1270

GUGLIELMO di Rapallo

1270 - 1290

ANDREA FERRARI

1310 - 1313

MATTEO

1320 - 1332

PASQUALE

1357

DOMENICO

1423 - 1466

CARLINO di Nascheto

1479 - 1480

TOMMASO GIUDICE

1480

PAMMOLEO BARTOLOMEO di Levante, poi Vescovo di Accia in Corsica

1490 - 1517

BADARACCO

1517 - 1520

GIUDICE BIAGIO

1520 - 1530

SALVAGO PANTALEO

1531 - 1564

BOERO BERNARDO di Taggia

1564 - 1568

UGOLINI FRANCESCO

1568 - 1573

BORZESE STEFANO di Rapallo

1573 - 1584

RUSTICI TOMMASO di Cavizzano - Piacenza

1585 - 1621

BERNARDINI MICHELE di Piacenza

1622 - 1640

CAFFARENA BENEDETTO

1640 - 1644

MARCONE FRANCESCO di Moneglia

1644 - 1685

PERAGALLO PROSPERO di Ruta

1686 - 1704

VASSALLO FORTE di Portofino

1704 - 1710

FLORIA GIOVANNI BATTISTA di S. Margherita Ligure

1710 - 1739

PERAGALLO FRANCESCO di Camogli

1739 - 1793

PERASSO ANTONIO MARIA di Maissana

1794 - 1822

DEMARTINI FRANCESCO di Lorsica

1822 - 1858

MINOLLI VINCENZO di Masso

1895 - 1949

MAGGIOLO SILVESTRO di Camogli

1949 - 1978

CATTONI ANGELO di S. Margherita Ligure

1978 - 1991

NOZIGLIA GEROLAMO di S. Massimo - Rapallo

1991 - 2015

2015 -

PANE LUCIANO di S. Margherita Ligure

SACCO DAVIDE di Rapallo

“QUASI OLIVA SPECIOSA IN CAMPIS”
Una gloriosa bandiera, tanti significati

L’inaugurazione del nuovo vessillo del Comitato Fuochi Santa Maria in programma il 14 agosto 2018 è l’occasione per analizzare un dettaglio molto particolare della vecchia bandiera del Quartiere Chiesa, datata 1928, che proprio quest’anno festeggia i suoi primi 90 anni.

Oltre all’immagine della Madonna Assunta dipinta a mano su stoffa, l’elemento che più incuriosisce l’osservatore è sicuramente la dicitura che campeggia ai piedi dell’effige mariana, ossia:
“Speciosa in campis”.
Trattasi di un estratto da un versetto biblico (Libro del Siracide 24,14), nel quale Maria viene chiamata “uliva” nella frase “Quasi oliva speciosa in campis”, la cui traduzione letterale sarebbe “come un ulivo che svetta maestoso nella pianura”.

Se si considera che l’olio d’oliva è citato nella Bibbia circa duecento volte, sia per quel che concerne gli usi quotidiani, che per gli usi più strettamente sacri, si capisce la rilevanza assoluta che l’albero di ulivo ha da sempre avuto nella storia dell’umanità.

Dalla sua importanza materiale deriva evidentemente la sua rilevanza sacrale, tanto da simboleggiare direttamente la benedizione di Dio, come si legge nel Deuteronomio (Dt. 11, 13-17).

Associato nei testi sacri frequentemente alla festa (Sal. 104,15), dalle notevoli proprietà terapeutiche, l’uso dell’olio d’oliva si inserisce costantemente nel contesto di situazioni aventi per protagonisti i sacerdoti, i profeti, i re e gli ospiti importanti, ai quali conferisce sacralità, onore ed autorevolezza.

La tradizione artistica delle rappresentazioni sacre e della Vergine documenta da sempre il tributo all’albero dell’ulivo ed ai suoi frutti; a tal riguardo, per restare dalle nostre parti, merita particolare rilievo quello dedicato nel 1888 dal celebre pittore genovese Niccolò Barabino con la sua splendida “Madonna dell’olivo”, celeberrimo dipinto nella parte inferiore del quale si legge, guarda caso, il predetto versetto “Quasi oliva speciosa in campis”.


A questo punto la domanda sorge spontanea, ossia quali fossero state le motivazioni che hanno indotto i committenti e/o il decoratore del vessillo del 1928 a scegliere proprio questo versetto e non altri tra i numerosissimi dedicati alla Vergine nei testi sacri.

Le motivazioni potrebbero essere molteplici soprattutto se valutate da diversi punti di vista personali, ma il primo elemento che balza all’occhio è sicuramente la parola “campis”, termine immediatamente riconducibile a “Campo”, toponimo di Santa Maria in epoca antica.
Analogamente, il riferimento all’albero di ulivo che si erge maestoso nella pianura potrebbe far pensare alla volontà di mettere in risalto la collocazione di pregio della chiesa parrocchiale in un contesto urbano all’epoca decisamente rurale; l’edificio religioso infatti, ancor prima della realizzazione della scenografica scalinata nel 1920 e della successiva realizzazione dell’attuale facciata, era ben visibile anche da molto lontano proprio per la sua posizione sopraelevata rispetto al “campo”.


Proprio sulla nuova facciata degli anni ’20, sull’altorilievo soprastante la statua dell’Assunta, è ancora possibile leggere chiaramente, accanto al monogramma mariano, il versetto biblico “Quasi oliva speciosa in campis” , iscrizione riportata sul “nastro” che lega due ben evidenti mazzi di rami d’ulivo.

Restando in tema di olive, un ulteriore spunto riconducibile alla vita prevalentemente a carattere agreste di inizio novecento, potrebbe essere il fatto che buona parte (se non tutti) i componenti del comitato ideatore della vecchia bandiera (Giacomo Oliveri, Vittorio Valle, Giuseppe Valle, Michele Macchiavello, Silvio Costa, G.B. Schiappacasse) fossero dediti alla coltivazione delle olive.
Tra l’altro, ulteriore curiosità, dai ricordi tramandati sembrerebbe che i promotori, anziché autotassarsi come spesso accade in questi casi, avessero organizzato una specie di lotteria parrocchiale.

Restando più legati alla bandiera, questo “svettare maestoso” dal sapore biblico potrebbe essere riferito al fatto stesso che il vessillo era all’epoca (e rimane tutt’ora), uno dei più imponenti della zona, come si evince chiaramente da un pregevole documento scritto, datato 15 agosto 1928, a firma Piero Simonetti di Emilio (consultabile integralmente sul sito www.santamariadelcampo.it), in cui si legge che “….La festa ebbe inizio domenica 12 quando fu benedetta la nuova grande bandiera genovese destinata a dominare non solo sulla sparata maggiore del giorno 15, ma anche su tutta la festa. La nuova maestosa bandiera è la più grande che Rapallo abbia: misura nove metri di lunghezza per sette di larghezza…”


Detto questo, sperando di non aver annoiato, bensì incuriosito ulteriormente, l’attento lettore, con la speranza di aver fatto cosa gradita con questa mia semplice analisi, sono sicuro che anche il nuovo vessillo del Comitato Fuochi saprà offrire numerosi ed interessanti spunti di riflessione che, chissà, tra altri cento anni potranno a loro volta essere riscoperti ed apprezzati dalle nuove generazioni di sanmariesi.

Stefano Podestà

NEI DINTORNI DI

SANTA MARIA DEL CAMPO

A Santa Maria del Campo, presso la Cappella Gesù Misericordioso (ponte nuovo) nel mese di gennaio si tiene la presentazione del LABORATORIO DI PREGHIERA E VITA che si propone di accompagnare i partecipanti in un rapporto personale con Gesù accogliendo l’uomo nella sua totalità, con tutto il suo bagaglio di gioie, dolori e difficoltà, per portarlo a riscoprire l’amore del Padre.

Interno della Cappella

La cappella si trova a pochi metri dal Ponte in stile romano lungo il torrente Santa Maria


Nei primi giorni di ottobre il leccio secolare posto a fianco della chiesa parrocchiale di Santa Maria del Campo è stato sottoposto ad un importante opera di potatura resasi necessaria per diminuire peso e volume della pianta.

Questa operazione ridimensionamento si è resa necessaria in quanto alcune perizie hanno constatato che il tronco del leccio è minato da un fungo che ne indebolisce la consistenza. Quindi alleggerirlo in modo significativo è diventata una scelta inevitabile per evitare il pericolo che l'albero si spezzi o che se ne verifichi uno sradicamento con conseguenze facilmente immaginabili.

Come era prevedibile l'operazione di potatura del leccio è stata accolta da qualcuno con qualche perplessità. Tuttavia questa dolorosa soluzione è la unica che consente di prolungare la vita della pianta. Naturalmente continueranno anche in futuro i monitoraggi periodici che vengono fatti ormai da anni per individuare eventuali criticità che possano far diventare l'albero un pericolo per transita e sosta nei pressi della chiesa parrocchiale.

Il Santuario di N.S. di Caravaggio

La bianca facciata del santuario della Madonna di Caravaggio si erge solitaria sulla vetta del monte Orsena (detto anche Caravaggio) nella frazione di Santa Maria del Campo a 615 m. s.l.m. Data la sua posizione all’incontro di tre crinali, è raggiungibile con piacevoli passeggiate, anche dalla località Ruta di Camogli e dalla valle di Uscio.
Il luogo dove oggi sorge l'attuale santuario era meta di un'annuale processione degli abitanti di Santa Maria del Campo e alla metà del Seicento vi si costruì la prima cappella dedicata alla Vergine Maria, nella quale fu posto un quadretto della Madonna donato dagli abitanti. Nel 1727 la cappella fu ingrandita, anche grazie al contributo degli emigrati, ed aumentò la devozione da parte degli abitanti della frazione. Il santuario fu però chiuso dalla Curia nel 1742, forse a causa del prevalere Santuario di Caravaggiodell’importanza del Santuario di Montallegro. L'edificio cadde così in uno stato di abbandono e fu demolito nel 1790 su ordine del doge della Repubblica di Genova. Nel 1838 la parrocchia di Santa Maria del Campo, non più soggetta alla chiesa madre rapallese, decise la riedificazione di un nuovo santuario, che sopravvisse ai bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale, ma subì più volte pesanti danni vandalici, fino ad essere recentemente ricostruito nelle forme attuali.

CROCE DI SPOTA’


Monumento ai caduti - "Croce di Spotà". Raggiungibile dal sentiero per il Santuario della Madonna di Caravaggio, la croce monumentale è stata edificata nel 1935 sulla sommità collinare di Spotà quale monumento ai caduti della Prima guerra mondiale.  Alta 15 metri e in cemento armato, su progetto di Filippo Rovelli, sarà solennemente inaugurata la mattina del 30 maggio 1935. La "croce di Spotà" è visibile da diverse zone della città.

 

CENOBIO DI SAN TOMMASO

Sulla sommità di una piccola collina a Santa Maria del Campo sfiorati dall'autostrada Genova - Livorno, sorgono i ruderi dell'antico Cenobio di San Tommaso "XII secolo". Quello che rimane di questo antico e storico edificio sacro è molto poco, qualche muro in pietre squadrate, una colonna con base e capitelli su cui poggiano gli archi che reggevano il tetto, si vedono ancora alcune finestre allungate che sono rivolte verso la valle.

La costruzione si sviluppa su due navate distinte, questa usanza trova esempi conosciuti che si hanno solo in Liguria e in Garfagnana, infatti nel medioevo era solito che gli uomini fossero divisi dalle donne e dai bambini durante la liturgia; anche della facciata di questa antica chiesa non è rimasto molto, si vede un'antica porta d'accesso situata in corrispondenza della navata di destra.

Un restauro avvenuto nel 1924 ha consolidato un'abside ancora oggi ben visibile, altre informazioni su questi ruderi immersi nel verde fra gli ulivi e i castagneti della nostra terra di Liguria, si possono avere dagli scritti dello storico Arturo Ferretto che ha saputo ricostruire abilmente la storia della nostra Rapallo.

Ferretto dichiara che questo monastero dovrebbe essere stato costruito nel 1160, poiché vi è un atto di vendita di terre fra i confini dove sorge il cenobio da parte dei coniugi Giulia e Giovanni Malocello datato 4 febbraio 1161, altro documento significativo è un atto datato 3 febbraio 1230, nel quale il Pontefice Gregorio IX prese sotto la sua protezione le suore di San Tomaso di Genova e ne indica fra i beni la chiesa di San Tomaso a Rapallo e pare confermare l'idea che a costruire questo luogo sacro siano state proprio le suore benedettine genovesi.

In altri documenti del 1200 si apprende che il monastero ebbe una priora il cui nome era Anna e un cappellano di nome Rubaldo. Fra questi preziosi documenti rimasti, uno dei più importanti porta la data del marzo 1247 dove per la prima volta il monastero viene denominato "San Tomaso del Poggio", e si legge che le suore lo affidano al rettore Lanfranco per quindici anni, consegnandogli per un compenso di 40 soldi le terre sul poggio. Quest'ultimo è quindi un atto importante con il quale, la chiesa di San Tomaso diventa "succursale" della parrocchia di Santa Maria del Campo.

Nel difficile periodo medioevale il monastero ha attraversato non pochi problemi sino ad arrivare alla primavera del 1582, quando il visitatore apostolico Mons. Francesco Bossio vescovo di Novara, effettuato un sopralluogo, stabiliva inesorabilmente la fine di questo monastero chiedendone la vendita, essendo ormai senza più alcun reddito utile alla sua sopravvivenza, e preso atto che ormai da tempo non vi veniva più celebrata la messa. La sentenza però non venne subito eseguita e nel novembre del 1597 l'Arcivescovo di Genova Mons. Matteo Rivarola durante la sua visita a Santa Maria del Campo, ordinò invece di distruggere la chiesa oppure di restaurarla a spese del popolo. Il popolo però non riuscì a restaurare il monastero per mancanza di risorse e allora vennero vendute le case canonicali e con il ricavato venne ingrandita la parrocchia di Santa Maria e sul campanile della chiesa parrocchiale vennero accolte le due campane del monastero.

Gli abitanti armati di piccone incominciarono così la demolizione di questo edificio sconsacrato, ma per fortuna o per divina intercessione non arrivarono sino alle fondamenta, e così sono giunti sino ai nostri giorni i resti di questo monastero di San Tomaso del Poggio.
Un monumento che è bello ricordare con le parole che Arturo Ferretto scrisse sul "Mare":

"La tela che il destino ha ordito intorno alla chiesuola di San Tomaso, fu smagliante ed ingemmata di corrusca beltà ed un dramma si svolge pure presso quel nume tutelare che custodiva il poggio poetico.
I baldi ruderi che sopravvissero al tragico eccidio nereggiano ancora in un groviglio di edera, di spini, di rovi e di parietarie, in un velario freddo di muffa annosa, in un manto di lunghi capelveneri tremanti e stillanti: ma quei ruderi, non corrosi del tutto dalla ruggine del tempo, favellano tuttora d'una esuberanza che più non è, di una gloria non del tutto volta al tramonto. Dalle finestre ad imbuto che vi guardano come occhi sbarrati, in mezzo alla cornice delle cose naturali, entra ancora, nelle gaie giornate, un raggio di sole che illumina e scalda quel cimitero d'idoli infranti, e l'abside, quasi intatta, e la maestosa colonna su cui poggiano due archi minaccianti rovina, colle bozze di pietra fosca e quadrata, non riesco a distruggere del tutto ogni suggestione di memoria, sicché, nell'ora buia di angoscia , sono indizi dispersi della storia rapallese, quasi vergognosi, sono voci naufraghe e sommerse nel gran turbine d'oggi".

A conclusione di questo viaggio nella storia della Chiesa di Santa Maria del Campo, sento nel mio cuore un profondo senso di gratitudine verso i nostri avi “MAESTRI” per averci lasciato in eredità un patrimonio di così alto livello architettonico, artistico e culturale che aveva come scopo, fin dal suo nascere, l’esaltazione della fede, della religiosità e del senso di appartenenza alla comunità parrocchiale.

Un lavoro enorme che ancora oggi ci stupisce nel vedere ricoperto di FEDE ogni centimetro di quei muri che si proiettano fieri verso il cielo.

La rotta tracciata da quei CAPITANI senza volto e spesso senza nome, ancora oggi é percepita come la tradizione forte e vera che va difesa e conservata ad ogni costo, un valore per cui é doveroso lottare, sudare e partecipare affinché non si spezzi MAI quel filo della storia che ci unisce a loro dal 1600 fino ad oggi.

 

RINGRAZIO don Davide per avermi più volte aperto la porta, acceso le luci ed incoraggiato in questa modestissima iniziativa.

RINGRAZIO in modo particolare il Dott. Stefano Podestà: Artista, Fotografo e Scrittore per la sua

“Quasi oliva speciosa in campis” e non solo, da cui ho attinto foto e testi per arricchire questa mia umile ricerca.

Ricerche, commenti ed impressioni di

Carlo GATTI

Rapallo, 8 dicembre 2018

FESTA DELL'IMMACOLATA CONCEZIONE

Il dogma fu proclamato da Pio IX nel 1854 con la bolla «Ineffabilis Deus»: sancisce come la Vergine Maria sia stata preservata immune dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento.


SIMONETTA PETTAZZI PREMIATA CON LA FIAMMA DELLA PACE

Conferimento della "Fiamma della Pace" alla Dottoressa Simonetta Pettazzi

Nel pomeriggio di sabato 20 Maggio 2017, il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta ha avuto la gradita visita di Sua Altezza l’Arciduca d’Austria Markus d’Asburgo-Lorena, pronipote di Francesco Giuseppe ed Elisabetta d’Austria e del   Colonnello delle Forze Armate  Austriache  Ingegner Karl Skrivànek,  presidente della O.M.V.

Österreichischer Marineverband, cioè  l’Associazione Marinai Austriaci che ha il compito di conservare la memoria della Marina Austroungarica.

Gli ospiti erano accompaganti dal Cavalier Stefano Foti di La Spezia, promotore dell'evento.

La serata è poi proseguita con l'aperitivo offerto nel Salone Mastro Checco dell'Antica Casa Gotuzzo, nel Rione Scogli di Chiavari e con la cena nel ristorante attiguo "il Vecchio Borgo" dove, al termine, è stata offerta una torta con l'effige dello stemma riportato nello stendardo dell'Impero Austro Ungarico.

Per finale non poteva mancare un tocco di delicatezza da parte dei nobili ospiti.

Dopo lo scambio dei Crest e di altre importanti pubblicazioni avvenute nelle sale del  Museo Marinaro, al Comandante Ernani Andreatta è stato donato un bellissimo volume dal titolo "La Guerra Navale 1914-1918",  a cura del compianto  Achille Rastelli e Alessandro Massignani,  mentre  alla Dottoressa Simonetta Pettazzi, è stata conferita la medaglia della "Fiamma della Pace".

"La Fiamma della Pace", è una Associazione per la promozione della pace, fondata da Sua Altezza Imperiale e Reale Arciduchessa Margarete Herta Asburgo-Lorena e dal suo vice-presidente nella persona di Sua Altezza  Imperiale e Reale Arciduca Sandor Asburgo-Lorena, diretto discendente dell'Imperatrice e Regina Maria Teresa del Sacro Romano Impero Germanico che fu  Arciduchessa d'Austria, Regina d'Ungheria, Boemia, Croazia. L'associazione si prefigge di promuovere la pace laddove questa è minacciata da interessi nazionali o di parte, con interventi presso le opportune sedi governative o rappresentanze locali.

E’ molto attiva in tutta Europa in particolare nell’Europa dell’Est e nei Balcani non escludendo peraltro paesi del Medio Oriente. L’appartenenza a questa Associazione di "Diritto Austriaco",  è titolo di merito personale e coinvolge i membri nel sostegno morale alle attività, salvo altri impegni di natura volontaria a carattere più operativo.

La "Fiamma della Pace" può essere  conferita in diverse forme.

Al comune di Montesilvano, nell'agosto del 2015,  la Fiamma della Pace, è stata conferita in forma di monumento in legno. Così,  il sindaco Francesco Maragno ha accolto la principessa Herta Margareta, e  l'arciduca Sandor d'Asburgo, giunti a Montesilvano, insieme al colonnello Karl Skrivànek. «Oggi - ha detto il Sindaco - abbiamo il dovere di insegnare, diffondere, difendere e promuovere gli ideali di libertà, di tolleranza, di solidarietà e di rispetto che costituiscono il miglior antidoto contro ogni sorta di discriminazione fra i diritti delle persone e delle genti».

L'11 Marzo 2017 a Montecarlo, in occasione della cerimonia per il "Premier  Wiener Bal - Printemps Monaco" evento di grande risonanza organizzato in nome della Tradizione, della Cultura e della Pace, nel salone  Bellevue del Café de Paris, la principessa Herta Margareta e  l'Arciduca Sandor d'Asburgo, hanno consegnato al giornalista sanremese Roberto Pecchinino  il prestigioso premio Internazionale "Fiamma della pace 2017", importante riconoscimento aperto a politici, diplomatici, rappresentanti dei media e attivisti di pace.

Il simbolo della Fiamma della Pace, in questo caso, era rappresentato da una scultura in legno di una fiamma,  montata su una base di pietra.

Nella foto, il Colonnello Karl Skrivanek con il Cavaliere Stefano Foti in rappresentanza dei Marinai d’Italia e Simonetta Pettazzi.

Conferimento della FIAMMA DELLA PACE alla Dott.ssa Simonetta Pettazzi nel Salone Mastro Checco dell’Antica Casa Gotuzzo di Chiavari. Da sinistra il Colonnello Karl Skrivanek e L’Arciduca MARKUS d’Asburgo Lorena.

Ovviamente, la dottoressa Simonetta Pettazzi non ha i titoli internazionali dei meriti sopra descritti ma ha riscosso subito la simpatia dei nobili ospiti sia nella visita  al Museo Marinaro che nell'accoglienza  di benvenuto nel Salone "Mastro Checco" dell'Antica Casa Gotuzzo per le sue innate doti  di cordialità, gentilezza e  cortesia !

Pertanto il conferimento della Fiamma della Pace alla Dottoressa Simonetta Pettazzi di Chiavari, sotto forma di medaglia dorata e smaltata, è ben giustificata anche in questo caso.

Foto di gruppo

Da sinistra il Com.te C.F. Marco Rainoldi, Enrico Paini, Francesca Perri, Simonetta Pettazzi, Paola Ferraris, Giancarlo Boaretto, Il Comandante della Scuola TLC C.V. Giuseppe Cannatà, Il Colonnello Karl Skrivanek, Ernani Andreatta, un amico del Duca di Zoagli, quindi Jasmine, sorella del Duca Canevaro, il Duca di Zoagli Emanuele Canevaro,   l’Arciduca Markus D’Asburgo Lorena, Franco Casoni, Giovanni Demartini, ed il Ten. Colonnello Vito Casano.

La Cerimonia si è svolta nel Salone Mastro Checco dell'Antica Casa Gotuzzo alla quale assistevano il Cavalier Stefano Foti, promotore dell'evento, il Tenente Colonnello Vito Casano in rappresentanza della Scuola Telecomunicazioni Forze Armate di Chiavari, Ernani Andreatta Fondatore del Museo Marinaro e i Curatori Giancarlo Boaretto e Paola Ferraris.

Comandante Ernani Andreatta

Mare Nostrum Rapallo

Rapallo,  20 giugno 2017

 

 


STORIE DI NAVI: T/N FLAVIA

STORIE DI NAVI

T/N FLAVIA

 

La T/N FLAVIA fu acquistata dalla Cunard nel 1961 da parte della "Cogedar" (acronimo di "COmpagnia GEnovese Di ARmamento"), Società di Navigazione che nulla aveva all'epoca a che fare con la "Giacomo Costa fu Andrea" ovvero "Linea "C", come era pubblicizzata commercialmente.


La nave, ex-"MEDIA" della Cunard, fu infatti acquistata dalla Cogedar per essere adibita al servizio di linea di classe turistica Europa-Australia in coppia con la M/N "AURELIA" (ex-HUASCARAN) in sostituzione della M/N FLAMINIA (ex-GENOVA) oramai del tutto obsoleta. La "FLAVIA" venne sostanzialmente adibita al trasporto di Emigranti tra il Nord Europa (Bremerhaven) e l'Australia via Suez, talora (ma non sempre) con uno scalo a Napoli, mentre il viaggio di ritorno era un viaggio lungo un itinerario denominato "turistico" che comprendeva la traversata del Pacifico con scali a Auckland (Nuova Zelanda) e Papeete (Polinesia Francese), il passaggio del canale di Panama (scalo a Balboa), uno scalo a Curaçao (Antille Olandesi) per ritornare a Bremerhaven via Southampton e Rotterdam. Mentre il viaggio di andata era frequentato essenzialmente da emigranti che abbandonavano definitivamente l'Europa, quello di ritorno era frequentato da emigrati residenti in Australia e anche nelle Antille che tornavano in Europa in viaggi turistici, soprattutto verso la Gran Bretagna, ma mediamente senza ristabilirvisi.

La nave rimase su questo servizio, che a tutti gli effetti era un servizio di linea e non di crociera, fino alla chiusura del Canale di Suez nel 1967 quando le due navi, FLAVIA e AURELIA, furono fatte passare per Città del Capo. Ad un servizio del tutto analogo e con vicende del tutto analoghe erano adibite le navi della SITMAR (FAIRSEA, CASTEL FELICE e FAIRSKY, cui nel 1964 si aggiunse la FAIRSTAR (ex-OXFORDSHIRE).


I servizi della Cogedar, vuoi per cambiamenti nei contratti di trasporto degli emigranti, vuoi per la chiusura del Canale di Suez, furono sospesi nel 1968 e la FLAVIA, dopo l'ultima crociera in partenza dall' Australia, il 20 settembre 1968 lasciò Melbourne diretta in Europa.


Durante il suo viaggio di ritorno fu noleggiata alla "Atlantic Cruise Line" per crociere da Miami e verso la fine dell'anno venduta alla Costa cui la nave non era prima mai appartenuta. Con l'occasione gli equipaggi della Cogedar furono in parte trasferiti alla Costa e in parte alla SITMAR e da allora cominciò la nuova storia della "FLAVIA" sotto i colori dei Costa.



Dopo l'acquisto dalla Costa Armatori fu sottoposta a lavori di ristrutturazione e trasformazione presso le Officine A & R Navi di Genova e diventò una nave da crociera. Fu allungata di 7,92 m questo comportò l'aumento della stazza da 13.345 TSL a 15.465 TSL. Potè trasportare 1.320 passeggeri in classe turistica. La nave fu ribattezzata FLAVIA C e utilizzata per le crociere nel mondo. Nel 1982 fu venduta al Shipping Company di Hong Kong e rinominata FLAVIO per essere utilizzata come nave da crociera casinò, ma queste crociere erano impopolari e FLAVIO trascorse la maggior parte del tempo ormeggiata nel porto di Hong Kong. Nel 1986 fu rinominata LAVIA per la Lavia Shipping di Panama, il 7 gennaio 1989, durante alcuni lavori scoppiò un incendio che in breve si diffuse in tutta la nave, fortunatamente non vi furono morti. Furono impiegati quattro fireboats e oltre 250 vigili del fuoco per domare l'incendio ma LAVIA affondò a causa delle grandi quantità di acqua pompata a bordo nel tentativo di spegnere le fiamme. La nave fu rimessa a galla e rimorchiata a Taiwan, dove arrivò il 19 giugno. È stata demolita da Chi Shun Hia acciaio Co Ltd, Kaohsiung.

QUESTE INFORMAZIONI STORICHE SONO STATE AGGIORNATE GRAZIE ALLE RICERCHE DEL SIG.MARIO SANNINO.

A cura del Comandante Mario Terenzio PALOMBO

Fotografie a cura del webmaster Carlo GATTI

 

Rapallo, 19 ottobre 2016

 

 


Nel pieno della TEMPESTA

NEL PIENO DELLA TEMPESTA

Rotta verso Nord Ovest alla ricerca di un po’ di “bonaccia”

 

Ho avuto la fortuna (o sfortuna) di essere nato in un periodo “speciale”: i miei primi ricordi iniziano nel tragico periodo della Seconda Guerra Mondiale. Qui nella zona di Ortona fu particolarmente cruenta perché era attraversata dalla linea Gustav: nel paese e nella zona nord c'erano i tedeschi, a sud gli alleati…

Proclama che ordinava di lasciare le proprie case

 

LO SFOLLAMENTO

Ho ancora nitida l’immagine di mamma con le lacrime, quando, con un carretto tutto rotto, lasciammo casa e con le poche cose che avevamo potuto prendere, andammo senza meta verso nord. Era la fine di  dicembre. Su quel carretto portavamo un po’ di tutto, ma specialmente coperte e roba per coprirci tutta la famiglia. Giovanni era venuto ad accompagnarci e ritornò subito a Chieti, che era stata dichiarata ‘Città Aperta', dove abitavano le sorelle della moglie che avevano potuto ospitarli. Intanto noi avevamo Rotta NW, ogni tanto mamma mi posava sul carretto, ma i cavalli si lamentavano ed allora mi riprendeva in braccio, mi accostava il visetto al suo e anche se fredda anche lei, solo quel gesto mi scaldava, però ogni tanto mi poggiava per terra (ero troppo pesante per stare sempre in braccio), e mi diceva “mò camin nu ccun mamm!!" (adesso cammina un pò, figlio mio!!)

Durante il viaggio Silvi era stata colpita da una bomba degli Alleati e noi eravamo diretti proprio lì. Passammo vicino a una bellissima villa e mamma, come altre donne, era corsa a vedere se c’era qualcosa da mangiare, ma evidentemente era stata già abbandonata da tempo e ‘visionata’ in precedenza! Tornò con una mattonella di ceramica con l’effige di una Madonna. Chissà, forse fu grazie a quella se dopo varie peripezie tornammo tutti a casa sani e salvi! Io la conservo gelosamente e dietro ho scritto "Preda di guerra di nonna Memena ...", lei l'ha tenuta sempre sul suo letto.

 

 

Arrivammo a Roseto degli Abruzzi. ll tempo era inclemente, ma avemmo la fortuna di incontrare un signore che, visto chi eravamo, ci affittò una casetta piccola dove poterci fermare. C'erano anche altre persone delle parti nostre. Ferro e la moglie furono ospitati dalla sorella del "Sordo" quel pescatore che poi, quando sarei cresciuto, sarebbe diventato il mio migliore amico e maestro per ‘arte marinara’. Allora la famiglia era così composta: Papà, Mamma, Silvana, Marinella, Io, il Nonno Nunzio, e Dorina (la colf di nonno e baby sitter di Silvana). Mamma doveva pensare a tutto e specialmente a fare da mangiare, con quel poco che riusciva a racimolare... Fortunatamente papà, essendo ferroviere, percepiva sempre lo stipendio e riusciva a trovare per le campagne limitrofe un po’ di farina, olio e quanto bastava. Poi mamma trasformava subito il tutto in pane, pasta... Devo riconoscere che non abbiamo mai sofferto a fame.

 

Intanto io a febbraio avevo compiuto 4 anni. Ricordo chiaramente solo due episodi di mamma di quel periodo:

 

1) quando le avevano detto che i tedeschi avevano preso papà, insieme ad altri, poi fortunatamente era riuscito a nascondersi, però a mamma venne dallo spavento, una bellissima ciocca di capelli bianchi che partiva dalla fronte e si distingueva perfettamente tra i suoi bei capelli neri;

 

2) la faccia terrorizzata di mamma quando, mentre ero con Dorina, improvvisamente suonò l'allarme aereo. Dorina aveva una paura matta delle bombe e mi lasciò lì dov’ero e scappò al rifugio. Io mi ricordo solo una fornace abbandonata, piena di cacche e che piangevo perché non sapevo cosa fare. Dopo un po’ vidi mamma e tutto finì per il meglio. Roseto degli Abruzzi era una bella località balneare con delle bellissime ville abitate solo di estate, ma per noi non fu proprio una spensierata villeggiatura… Tornammo a ‘casa’ a metà di giugno... ma non c'era rimasto più niente, anche la terra era tutta sconvolta da profonde buche di bombe... sul terreno erano passati i cingoli dei carri armati che avevano distrutto anche l'erba (in mezzo alla quale di solito crescevano anche piante di 'cicoria', buona da mangiare)!

 

 

I MIEI PRIMI DIECI ANNI

"LA STORIA DELLA CIVILTÀ DELL'UOMO"

Nei primi 10 anni, ho riattraversato la storia della civiltà dell'uomo!!! Da dove vogliamo cominciare?

LA GROTTA

Spesso, durante la guerra, si "VIVEVA IN UNA GROTTA" costruita apposta per nascondersi dai tedeschi. I primi ricordi cominciano proprio lì dove mamma mi doveva stare sempre vicino per non farmi piangere, altrimenti i tedeschi ci avrebbero individuati e avrebbero preso gli uomini validi... Quando piangevo, mi chiudeva la bocca, con il rischio di soffocarmi. Solo in questa circostanze ricordo mamma preoccupata.

IL VESTIRE

Premetto che ero invidiato da tutti, perché papà era ferroviere e percepiva lo stipendio e, anche se basso, si riusciva a comperare qualcosa. Bastava andare a un chilometro nell’entroterra dove le donne con un PRIMITIVO TELAIO, tessevano la stoffa ed io, piccolo com’ero, restavo ammaliato nel vedere quel telaio dal funzionamento così complicato e dal quale in ultimo veniva fuori quella tela robusta, di colore blu, con la quale, figli e padri vestivano.

Oggi Zà' Stella ha 88 anni, é lucidissima ma parla solo il dialetto stretto; però un interprete che ci regala la traduzione si trova sempre da queste parti: "Tua madre mi aveva raccontato che era riuscita a trovare una vecchia bandiera tricolore e con la parte verde confezionò un "pagliaccetto" per te, come usava allora. Tu avevi meno di quattro anni ma avevi un bel caratterino e non volevi indossarlo, ma poi tua mamma si rese conto che avevi ragione, quella tela ruvida e forte ti pizzicava tra le gambe..."

 

Durante la chiacchierata Zà Stella ricorda perfettamente di quando gli aerei alleati passavano bassi per bombardare i ponti sui torrenti che si trovavano lì vicino, senza mai riuscire a colpirli... "ogni volta scappavamo terrorizzati in ogni direzione... ma siamo ancora qui...!"

Riprendo il racconto:

Ho visto tosare le pecore, filare la lana (di solito questo era il compito delle nonne), e poi con la lana, fare di tutto, e questo lo faceva anche mamma, calzini, maglie, vestitini per bambine, di tutto, in somma... Con 4 ferri addirittura…

LE SCARPE

 

Noi bambini da maggio a ottobre andavamo scalzi... Noi avevamo in famiglia lo zio Giovanni (quello che prima della guerra, conduceva l'azienda elettrica del nonno Nunzio, dotato di tanta inventiva oltre che di un innato senso artistico), il quale a noi bambini costruiva degli zoccoletti con un pezzetto di legno sagomato ed una fascia di tela di sacco, inchiodata ai lati… Mamma, per mia sorella specialmente, era capace di fare delle scarpe di spago, bellissime…In autunno mamma mi comprava le scarpe e guai a giocarci a palla (quella di stracci, si intende, per quella di gomma si sarebbe dovuto aspettare ancora un po’) sarebbero dovute durare fino a Pasqua, quando si compravano quelle più leggere. Purtroppo quelle scarpe si consumavano subito, e bisognava rimettere la suola dal calzolaio e, quando si bucavano di nuovo, mamma mi metteva dalla parte interna delle suolette di cartone che duravano qualche giorno, se non pioveva!!! Era “bello” la domenica a messa, quando bisognava inginocchiarsi, si poteva individuare benissimo, grandi e piccini, quelli che avevano le scarpe bucate, perché restavano in piedi con la testa bassa!!!! Io non ho portato mai un paio di scarpe del mio numero... Sempre qualche numero in più perché diceva mamma che mi sarebbe cresciuto il piede e intanto riempiva la punta di cotone, ma non si è mai verificato che fosse necessario togliere quel cotone dalla punta, perché le scarpe si rompevano sempre prima!

IL MANGIARE

Papà, quando eravamo sfollati, andava per le campagne limitrofe e riusciva a rimediare un po’ di farina con la quale mamma era capace di fare tutto dal pane alla pasta. Anche l'olio era difficile trovare. Quando siamo tornati mancava addirittura il sale (Mancavano i cammelli per ripristinare "la via del sale"). Papà lo riportava da Margherita di Savoia, dove c'erano le saline. Spesso mettevamo a bollire l'acqua del mare, finché non evaporava tutta, ma ricordo ancora adesso il sapore amaro di quel sale… Era il periodo del contrabbando, dal Sud, con il treno, portavano al Nord olio, sale, sigarette e altro, ma non pagavano il biglietto e a decine viaggiavano sopra il treno. Io restavo impressionato da quelli che con il treno in moto, saltavano da un vagone all'altro, li chiamavano "gli sciacalli". Spesso quando i treni merci, la notte, restavano fermi alla stazione per dare la precedenza ai passeggeri, venivano completamente saccheggiati e a seguito di ciò le Ferrovie furono costrette a mettere di guardia dei poliziotti. Ogni tanto c’era qualche sparatoria!

LE IMBARCAZIONI EGIZIANE TIPO "RHA" (I CANNIZZI)

Incredibilmente, io, fino a 6/7 anni, non avevo mai visto una barca... A Nord di Ortona c'erano i tedeschi, e a 4 km. A S., gli alleati. Bastava prendere una barca, di notte e con 7 mg. avevi raggiunto la 'libertà'. Tanti hanno provato, molti ci sono riusciti, ma tanti sono stati mitragliati dalle vedette che di continuo, con i potenti fari, cercavano di impedirlo. Le barche, per quanto nascoste e mimetizzate, venivano bruciate dai tedeschi o forate dai colpi di mitra da renderle inagibili, e subito prese come legna da ardere, perché mancava anche quella. Allora i mezzi per potersi allontanare qualche centinaio di mt. dalla riva, per mettere qualche nassa e prendere qualche seppia, venivano fatti i "CANNIZZI"... Erano dei fasci di canne comuni, legati uno all'altro, con la parte più grande a formare la poppa e la parte delle punte, più sottili, leggermente piegate in sù, formavano la prora...!!! SONO PARTITO QUINDI DALL'EPOCA DEGLI EGIZIANI... questi cannizzi' sono nominati anche da D'Annunzio, nel "Trionfo della morte" scritto proprio qui vicino a San Vito, con i quali uno di quei pescatori dei famosi 'trabocchi', spesso lo aiutavano a raggiungere la riva.

I cavi, propriamente detti a terra "funi", non c'erano, allora venivano realizzate con delle trecce fatte di felci che, se facevi scorrere la mano in senso inverso, ricordo, tagliavano come un rasoio..!

 

I segnali da attaccare a quelle funi costruite con delle felci per salpare e individuare le nasse, venivano utilizzate delle zucche come questa nella foto. Le nasse, visto che la rete non esisteva, venivano fatte di canne o di giunchi. La zucca di quella forma, serviva per usarle come gli uomini primitivi… dall'imbuto per le botti, tagliando la parte superiore, tagliando la parte laterale per costruire qualcosa per prendere liquidi o generi come grano ecc., per bere addirittura aggottando l'acqua da un recipiente tipicamente abruzzese la cosiddetta "conca" fatta di rame, da bravi artigiani locali, con le quali le donne andavano a procurarsi l'acqua alle sorgenti o ai pozzi ed avevano la capacità di portarla sul capo, senza reggerla con le mani. E tanti altri usi ancora. Siamo quindi ritornati all'uso dei popoli primitivi. Molti sono gli aneddoti a proposito dell’uso di queste zucche.

A LEZIONE DI NUOTO NEL 1945

 

Era un tipo di zucca che da bambini adoperavamo per imparare a nuotare Allora noi non avevamo niente né braccioli né ciambelle. La plastica non era ancora stata inventata e i genitori, se avessero saputo che saremmo andati a fare il bagno, ci avrebbero dato le botte. Loro non venivano al mare, avevano ben altro da pensare...

 

Qualche volta, quasi di sera, mamma faceva il bagno con qualche sua amica. Ma non aveva il costume e lo faceva con la sottoveste, non c'erano soldi per comperare una gonna, figuriamoci per un costume, non ti dico la mia gioia, quando io mi attaccavo al collo e le stavo sulla schiena e lei nuotava a rana...

 

Noi bambini, cominciavamo da marzo, ma il bagno lo facevamo nudi, per non bagnare quelle mutandine che portavamo.

 

Allora per imparare a nuotare, si prendevano due di queste zucche, si legavano con una cimetta di 50 cm. tra di loro, poi si mettevano sotto le ascelle e così si era sicuri di galleggiare (una zucca di quel tipo, sono riuscito a trovarla per farla vedere ai miei nipoti, un reperto!).

 

Dovevi cercare di imparare subito, perché dove toccavano sotto il braccio quelle zucche avevano una specie di minuscoli chiodini e ti graffiavano da farti uscire il sangue. Avevamo 5 o 6 anni e nessuno di quelli che già avevano imparato aveva voglia di reggerti ecc.

 

C'è una bella differenza, ma eravamo contenti ugualmente eccetto quando succedeva (e spesso) che quelle mutandine di "percalle" bianche, che lasciavamo in tutta fretta su quei sassi bianchi non riuscivi a trovarle più e così tornavi a casa nudo. Al di là della 'vergogna', i rimproveri di mamma erano come se avessi perso un vestito di Versace e ti rimandava di nuovo a cercarle, se nel frattempo non si era fatta notte! Si ricominciava la mattina seguente di buon’ora, prima che altri potessero trovarle.

 

 

LA LUCE ELETTRICA

La prima lampadina l'ho vista a 10/11 anni, nonostante mio nonno avesse una azienda elettrica con una vasta zona di utenze. Finita la guerra, non esisteva più niente: cabina elettrica minata, trasformatori, fili di rame, pali di legno, non esisteva più niente.

Appena tornati, avevano pensato di rimettere su l'azienda, ma dopo poco era uscita una legge per cui dopo 10 anni questa sarebbe passata allo Stato e a seguito di ciò, si decise di venderla. La nuova ditta impiegò molto tempo per realizzarla!

Mia sorella frequentava le Magistrali e la sera studiava prima con un bicchiere dove venivano versati dell'acqua e sopra dell'olio usato, magari per friggere, nel quale veniva intriso uno stoppino ed emetteva la classica luce dei morti...(La PRIMA FORMA DI ILLUMINAZIONE CHE SIA MAI ESISTITA). Poi era arrivata la lampada a petrolio, che papà riportava dal lavoro perché lo usavano per le lanterne! Ricordo che ogni tanto bisognava pulire il tubo di vetro che dopo un po’ diventava nero dal fumo! Poi c'era il lume a carburo, quello dei minatori, ma papà non voleva che si adoperasse perché lo riteneva pericoloso.

Lui non immaginava neanche cosa facessimo noi bambini con il carburo… Si faceva una buca nella terra, piuttosto fangosa, si metteva un po’ di acqua, poi si mettevano dentro dei pezzetti di carburo e subito la buca veniva sigillata da una scatola metallica alla quale era stato tolto un fondo, e nella parte superiore veniva praticato un forellino dal quale sarebbe uscito il gas, una volta in pressione, con un bastoncino si avvicinava una fiammella vicino al forellino e la scatola partiva come un razzo…

SISTEMA D’IRRIGAZIONE: Lo SHADUF

Per irrigare gli orti, visto che i contadini dei primi anni ‘40 non avevano sistemi più moderni di pompaggio, si servivano di una specie di trabocco chiamato SHADUF, che sollevava l'acqua dai pozzi poco profondi che si trovavano ad una giusta distanza dal mare.

Si trattava essenzialmente di un palo conficcato vicino al pozzo, in cima al quale veniva fulcrata una trave che da una parte aveva un contrappeso e dall'altra era legata una pertica che portava il secchio a scendere dentro il pozzo.

Lo sforzo veniva compiuto per immergere il secchio nel pozzo  che, una volta riempito, risaliva facilmente grazie al contrappeso.

L'acqua raccolta serviva per riempire la vasca d’irrigazione che si trovava al limite dell’orto. Raggiunta la giusta misura, si apriva lo scarico e l'acqua attraverso un rigagnolo disegnato sulla sabbia, arrivava alle piante di pomodoro.

Quando il solco era pieno, un'altra persona (che di solito era un bambino), mandava l'acqua nel solco successivo, mentre il contadino cercava di alimentare il più velocemente possibile l'acqua nella vasca, altrimenti la canaletta si sarebbe asciugata.

Ricordo che da bambino, mentre i contadini facevano quel lavoro, io andavo a “navigare” con il mio “osso di seppia” in quei solchi, cercando di non farmi vedere perché temevano che danneggiassi il percorso dell’acqua.

Non potendo fare un disegno per spiegarne il funzionamento, dopo tanto ho trovato la foto di un “trabocco da irrigazione” che assomigliava vagamente a quello, così chiamato, che viene usato ancora oggi per pescare sui fiumi.

Sebbene il contesto sia molto diverso, la sua funzionalità conferma l'universalità del metodo, la cui origine risale agli egizi ed ai contadini della “mezza luna fertile” della Mesopotamia fin dal III millennio a.C. e si chiamava lo "SHADUF"...


Lo 'SHADUF'

Questo era il sistema di irrigazione che ho avuto la fortuna di vedere da bambino, ed io ho sofferto anche di questo, perché il mio più caro amico di giochi, arrivati ad una certa ora, doveva andare nei campi dal papà, per cambiare il solco da innaffiare, mentre il padre  tirava su i secchi d'acqua senza nessuna interruzione, altrimenti  il  rigagnolo si sarebbe asciugato.
Il riposo sarebbe arrivato quando il pozzo era prosciugato, in attesa che la sorgente lo riempisse di nuovo.

 

I PATTINI A ROTELLE

Anche dopo i 10 anni ci sono stati periodi di sacrifici, alcune cose restano impresse nella mente di un bambino e servono anche per formarne il carattere. Ecco un altro aneddoto:

 

Avevo 12 anni, andavo a scuola a Pescara, ogni mattina mi soffermavo davanti ad un negozio dove erano esposti dei pattini, i primi con le ruote di fibra. Allora la strada era da poco asfaltata, bella nera di catrame, senza buche perché le macchine erano poche ed i grossi camion non c'erano. Di solito, specie al pomeriggio, passavano dei ragazzi con i pattini e il gruppo prendeva tutta la strada, ricordo ancora il rumore di quei pattini e la scia di aria che lasciava, tanto erano veloci"… Erano i primi con i cuscinetti a sfere.

 

Quelli che guardavo io, non erano così, però a me sarebbe piaciuto tanto averli ugualmente.

 

Alla fine dell'anno, visto che ero stato promosso, finalmente mamma mi comprò i tanto sospirati pattini. Li porta a casa, vado per metterli, ma le scarpe non entravano, per quanto i pattini fossero regolabili... La mia unica speranza era zio Giovanni, ma lui al solito, doveva ancora tornare da Pasquino, dove combatteva con il mare. Ricordo che gli andai incontro di corsa.., infatti lo incontrai poco prima del fiume e mentre lui pedalava, io di corsa, scalzo, gli illustravo già il problema. Arrivati a casa, mi sono rimesso le scarpe e purtroppo, pur arrivando a fine corsa, la scarpa non entrava.

 

Mamma subito disse: "se ne và bon(e), dumane matin, jamm a P(e)scar(e), e me facci(0) ardà le sold...3.500 lire, na parol è..!" Traduzione: se non vanno bene, domani mattina andiamo a Pescara e mi faccio ridare i soldi..., 3.500 lire, non è una cosa da niente…). Non posso descrivere il mio stato d'animo, speravo che ne avessero un altro paio adatti.

 

La mattina successiva, siamo andati a Pescara con il treno, utilizzando una delle 15/20 caselle disponibili. Era gratis, anche se scrivevi Bolzano, ma a noi non serviva, non facevamo viaggi di piacere, il massimo della distanza mamma la utilizzava per andare a Vasto che allora si chiamava HISTONIUM da zia Bambina, per farsi cucire qualcosa... Arrivati a Pescara, mamma, prendendomi per mano e tirandomi quasi, perché io non volevo che le ridesse indietro, arrivammo al negozio ed una volta spiegato il problema al commesso, questi con la chiave apposita, prende il piede e cerca di mettere la scarpa nei pattini. Poi si rivolge a mia madre e le dice: "Signora, non vede che le scarpe sono diventate tonde… Come può entrare nella sede?" e mamma "mica posso ricomprare pure le scarpe… perciò riprendetevi i pattini e ridatemi i soldi."

 

Mentre a me veniva da piangere, il commesso: "non è possibile ridare i soldi indietro, può comprare altre cose" e mamma: "no, io voglio i soldi indietro, altrimenti vado alla Questura". Visto il diniego mamma mi prende per mano e tirandomi, mentre io singhiozzavo, andiamo in Questura, dove lavorava un cugino di papà, figlio di Zì Rocco.

 

Spiegato l'accaduto, Tonino si chiamava, dice a mamma,: "io adesso telefono, però è difficile che ti ridiano i soldi..." e così fu. Mamma era disperata. Torniamo lì ed il commesso, "Signora, mi dispiace, non è per nostra colpa, ma quelle non sono più scarpe!" Ricordo, mentre indicava con lo sguardo le mie scarpe. Mi sono guardato anch'io i piedi: rivedo ancora quelle gambette secche, nere, un po’ storte, con dei segni bianchi sopratutto sulle ginocchia (ex cadute ecc..), ed infine… le scarpe... In realtà a forza di rimettere la suola, il bordo, che teneva con le grosse cuciture la 'pelle' della parte superiore mano mano si stendeva sempre più assottigliata. Era diventata un centimetro larga e la 'scarpa', visto che era corta (calzavo un numero piccolo, anche perché erano dell'anno precedente, era diventata quasi tonda. Ho sentito un senso di vergogna, umiliazione e anche se ero piccolo, ho detto tra me "i miei figli non andranno mai con delle scarpe così…"

 

Quando finalmente non le mettevo più le ho tenute da parte. Molti anni dopo le avevo riportate qui, per farle vedere alle figlie, e messe su quel piccolo soppalco nel bagno piccolo, insieme alle scarpe da sposa di Marinella. La colpa, non era dei miei genitori, ma dalle condizioni in cui si viveva, anzi io ero più fortunato degli altri, perché avevo almeno la possibilità di comperare i pattini.

Ricordo mamma quasi piangente, che cercava di comperare quello che poteva servirle, con quella cifra, ma lei ne avrebbe fatto volentieri a meno. Prese un attaccapanni da mettere dietro la porta, delle posate, qualche tegame e così delusi, affranti, chi per un motivo chi per l'altro, tornammo a casa... Ecco questa è una storia indelebile dalla memoria, e insieme alle altre, hanno fatto parte di quella molla capace di spingere me (e gran parte di quelli della mia generazione), a far risorgere l'Italia dalla miseria della guerra! Volontà che ai giovani di oggi spesso manca perché hanno tutto.

BARCHE E "INVENZIONI" (alcune delle quali non riuscite troppo bene!!!)

 

La barca del pescatore era poco più di quattro metri e la vela era un po’ grande, andava bene per le andature larghe, in quanto doveva tirare lo strascico (con l'aggiunta del fiocco per di più), per le andature strette era una barca che richiedeva un impegno notevole.

La barca del pescatore

L'altra aveva un albero di 7,5 mt, quasi 1.5 m. di quello originale... Infatti per poter reggere bene l'albero con il sartiame, sono state messe due crocette..! Mi piaceva correre e avevo messo a punto tutti gli accorgimenti possibili per aumentare la velocità. Il tutto brevettato dal mio povero amico, la cavia umana: Renato.

 

La mia barca, io (di spalle), e Renato (la mia cavia)

La barca aveva una deriva retrattile in ferro abbastanza pesante, (si tirava su con un paranchetto), io poi, per aumentare la stabilità, avevo realizzato sul fondo dello scafo un binarietto sul quale scorreva un bel peso per quando bordavo di bolina, costituito indovina da cosa? Un freno di quelli belli grandi dei treni merci che spesso erano fermi davanti casa!!! Bastava togliere una grossa coppiglia ed il contrappeso era pronto... A quei tempi non esisteva il trapezio... Io forse ne sono stato l'ideatore perché quel povero amico era sempre appeso fuoribordo e spesso per qualche emozione in più, gli mettevo un sacchetto di sabbia sulla pancia...

RENATO CHE PLANA A RIMORCHIO DELLA BARCA A VELA

Un giorno eravamo in barca, con un vento al traverso che a faceva volare davvero. Mi viene in mente una prova e la propongo alla mia cavia, Renato. “RENÀ, io dico che con questa velocità, se ti metti lungo su questo banco (che avevamo a centro 1.60 x 0.35 mt.), legato con la cima dell'ancora, tu dovresti quasi planare… Proviamo dai…” Armiamo il tutto Renato sulla tavola, fila la cima, volta... ", la barca frena, ma riprende subito velocità. Renato, visto che la tavola non era nata per quello scopo, comincia a girare vorticosamente, come un 'cucchiaino' per la pesca alla traina, e lui cercava di parlare ma non riusciva tanto girava forte ed io che lo incitavo a non mollare, alla fine quando si era gonfiato di acqua come un otre, l’ho recuperato dicendogli "forse non è riuscito bene." E lui "proprio no".

LO SLITTINO PER LA NEVE

 

Gli esperimenti venivano fatti molto spesso, di tutti i tipi. Non ricordo con precisione, avevamo 12/13 anni, quell'anno era arrivato da Mestre, Renato, il quale, dopo una bella nevicata con successivo ghiaccio, tira fuori uno slittino con il quale andava meravigliosamente, scendendo proprio dalla strada che scende da Tollo (proprio davanti casa di mio cugino Tonino, il futuro Generale). Allora non eravamo ancora veri amici, ci aveva prestato lo slittino per fare giusto qualche discesa..., ma tutto lì.

 

Arriva il mese di Luglio e, parlando con Tonino, dico: "Frà, qui bisogna pensare per l'inverno.. Se fa la neve, dobbiamo costruire una slitta anche noi, altrimenti restiamo come l'anno scorso!" E così con tanto 'sudore' (era proprio il caso di dirlo), troviamo l'occorrente e la slitta era finalmente pronta.

 

Certo, sarebbe stato bello poterla provare… Ed ecco il lampo di genio: proprio dietro casa di Tonino, alla curva successiva, c'era un burrone di circa 50 mt., dove avevano buttato la bella sabbia gialla tolta dalla collina soprastante, per far sì che non franasse (cosa che sono stati costretti a rifare, dopo 60 anni, perché è franata di nuovo con conseguente interruzione di mesi, del traffico).

 

Lì era proprio l'ideale andare a provarla, infatti io, ai comandi e Tonino dietro, si parte... , una meraviglia! Solo che eravamo quasi alla fine quando lo slittino punta su uno scoglio (di tipo 'arenaria' difficilmente distinguibile) e vedo Tonino volare da dietro che va a finire in mezzo ad una immensa siepe di rovi, eravamo solo con i pantaloncini corti, per quanto io facessi per aiutarlo a venire fuori, quando arrivò ad uscirne sembrava proprio Gesù dopo la flagellazione, aveva sangue dappertutto, peccato che allora non c'erano i telefonini per fare le foto, perché con un ramo di quegli spini per corona era l'immagine per il Venerdì Santo era perfetta! Purtroppo, non tutte le ciambelle riescono col buco!

SUB

 

Da piccolo, ho sempre avuto la passione per andare sott'acqua.. Anche se l'acqua era limpida allora, ero sempre con gli occhi rossi, perchè mi piaceva vedere i granchietti, qualche pesciolino, e non sarei uscito mai dall' acqua. Allora le maschere non c'erano!!!

 

Fino a 12 anni, non avevamo l'acqua corrente, allora mi lavavo nella bacinella e, prima di lavarmi, vi immergevo la faccia per allenarmi a resistere il più possibile. Durante la giornata lo facevo parecchie volte ed ogni volta nonna Memena, mi bussava alla schiena e mi diceva: "jsci..., mò t(e) sfiet .." = (tira fuori la testa.. che così ti soffochi!!!).

 

Poi avevo un sistema per riuscire a farmi dare 10 lire da nonna e mi serviva anche per allenamento. Facevo una bella inspirazione, e poi espellendo l'aria lentamente, emettevo un suono continuo che veramente durava tanto, lo facevo finché non diventavo cianotico... E dopo due o tre volte che facevo quel lamento, la nonna per non sentirmi più, mi dava le 10 lire.

 

Quando poi era tempo di bagni al mare, era più il tempo che stavo sotto la superficie, che sopra...mi piaceva tanto, stare sotto l'acqua in apnea perché riuscivo a conoscere meglio i pesci che venivano a mangiarmi in mano! E poi mi serviva per la pesca delle cozze, cannolicchi e altro. Avevo un bel fiato!

 

Comunque avrei voluto realizzare qualcosa tipo “palombaro”, così con un altro mio amico, cominciamo a progettare come poter fare. Abitavo in una frazione dove non esisteva neanche un negozio… non avevamo soldi... praticamente niente!

 

Innanzi tutto bisognava realizzare qualcosa per poter camminare sul fondo come i palombari. Questo non fu difficile in quanto, abitando vicino alla ferrovia, è stato facile prendere quelle specie di mattonelle di ferro, con quattro fori, che servivano per tenere fermo il binario sulle traversine di legno con 4 grossi bulloni. Bene, su queste abbiamo fissato dei vecchi zoccoli trovati per la spiaggia, poi avevo adocchiato un tubo di gomma telata, poco più lungo di un paio di metri, che papà adoperava per travasare il vino dalla botte ai recipienti più piccoli. Solo che puzzava di vino e respirare quell'aria già ubriacava...

Cominciammo le prove, avevamo un pattino di zio Giovanni. Il sistema per restare e camminare sott'acqua, era perfetto. Ciò che non andava era il tubo perché, oltre alla puzza, arrivati ad una minima profondità, l'aria non arrivava più…

 

Quella è l'età della scoperta di tutto. Beato chi ha un maestro, però anche se non lo hai, impiegherai più tempo, ci sbatterai a faccia, ma alla fine riuscirai a scoprire, senza saperlo, principi importanti di fisica e meccanica.

 

Così arrivammo alla scoperta che con un solo tubo di un certo diametro, l'aria non faceva in tempo ad essere respirata e poi essere riemessa oltre una certa lunghezza del tubo!

 

Ci sarebbe voluto un sistema: innanzitutto era necessaria un tipo di maschera dove poter far circolare l'aria e da lì respirare. Le maschere che siamo abituati a vedere oggi, non esistevano, la plastica non era stata ancora inventata, però avevamo adocchiato una maschera antigas, quelle della guerra, finita da non molto, che un vecchio aveva in un capannone e che faceva al caso nostro.

 

Non passò molto che riuscimmo a rubare quella maschera e la nuova sfida fu di fare in modo che il tubo fosse interrotto nell'interno di essa. Non poche furono le difficoltà per evitare che entrasse acqua, ma alla fine bene o male ci siamo riuscimmo. Infilammo i due tubi dove c'era quella specie di proboscide dove aveva il filtro e siccome non avevamo niente di adatto all’uso perché il silicone non era stato ancora inventato, dopo ore di concentrazione, arrivammo alla soluzione “naturale”: la cera d'api, che chiedemmo ad un apicultore. La necessità aguzza l'ingegno! Ora il problema grande era trovare qualcosa per poter pompare l'aria. Gira e pensa ... alla fine vidi un soffietto a mantice, con due manici di legno, con un mezzo metro di tubo di ferro che papà, prima della guerra, adoperava per dare lo zolfo alle viti! Armiamo il tutto, andiamo dove l’acqua era un po’ alta, ed io sul pattino dirigevo le operazioni. Legai con una cima il mio amico Renato (la cavia di tutti i miei esperimenti, non sempre riusciti...), per sicurezza e una volta giù, comincio a pompare... ma dopo qualche attimo, vedo arrivare a razzo su Renato, con gli occhi rossi tossiva come non avevo mai sentito nessuno!

Esaminiamo le cause: in quel soffietto, nonostante fossero passati 15 anni, evidentemente c’erano ancora tracce di zolfo, per quanto fossi stato tanto a pompare, più che altro per la polvere e la ruggine… Comunque, dopo giorni e giorni di pompaggio a vuoto, e ricordo perfino di averlo messo sopra una pentola di mamma, dove bolliva l'acqua con tanto vapore, alla fine l'impianto era perfetto. Entrava un po’ d'acqua dalla maschera, ma riuscire a stare sott'acqua a 3/4 mt, per diversi minuti, e poter giocare con i pesci, era un sogno!

 

Pensandoci adesso, è stato un prodigio realizzarlo con niente… Adesso basta andare in un negozio, con i soldi di papà e comprare tutto! Però non li invidio i ragazzi di oggi, drogati da quegli affaretti che hanno in mano e dai quali non tolgono mai lo sguardo, senza mai guardare in alto, vedere una nuvola: perché corre? chi la spinge? dove va...!.

 

 

Nunzio CATENA

 

Ortona, 16 Giugno 2014


LONDON VALOUR - Il GIORNO del Diavolo

LONDON VALOUR

IL GIORNO DEL DIAVOLO

LA ROTTURA DEI TEMPI


Foto n.1 - Quando l'anticiclone delle Azzorre si ritira verso W, si apre una porta ai flussi di aria fredda marittima di origine atlantica che, provenendo da NW e correndo lungo il bordo dell'alta pressione, giungono in Mediterraneo accelerate dal corridoio (vedi freccia nera nella carta meteo). Si stabilisce così il regime dei venti di Maestrale, caratteristico di queste zone, che sorgono spesso improvvisamente, forti nel golfo del Leone, più forti sulle coste occidentali corse e ulteriormente accelerati dall’imbuto delle Bocche di Bonifacio.

Caratteristica del Maestrale

Talvolta si possono verificare situazioni peggiorative, come quando nel golfo di Genova si viene a creare una "depressione sottovento" dovuta a un brusco abbassamento della pressione a ridosso all'arco alpino, oppure se si verifica una situazione di bassa pressione sull'Europa orientale, che concorre con la sua circolazione ciclonica all'accelerazione delle correnti da NW. Nel nostro emisfero le depressioni girano nel senso orario, pertanto, il fenomeno meteo inizia a Scirocco (SE), si rinforza a Libeccio (SW) e sfonda a Maestrale (NW). Il mese di aprile è spesso interessato da questo pericoloso fenomeno che i marinai chiamano rottura dei tempi e sui bordi la gente di mare drizza le antenne quando appare il mare lungo. Si tratta sicuramente di quel sintomo ancestrale che localizza, in una zona non troppo lontana, un vento tempestoso che avanza inesorabilmente e con il quale, presto, si dovrà fare i conti…

IL GIORNO DEL DIAVOLO

In questa premessa c’è la spiegazione di quanto successe quarant’anni fa, in quel famigerato 9 aprile 1970 che vide sfracellarsi sulla diga del porto di Genova la T/n London Valour. Chi c’era non può che ricordarlo come “il giorno del diavolo”. 22 persone perirono sotto gli occhi di una città attonita, sbalordita e impotente dinanzi ai terribili colpi di mare sollevati da un vento che in poche ore girò da Scirocco a Maestrale rinforzandosi ad ogni quadrante della rosa dei venti. In quelle condizioni estreme, raramente viste dai genovesi, a poco o nulla valsero i numerosi tentativi di salvataggio improvvisati dai coraggiosi soccorritori.

I Fatti

Il 2 Aprile 1970 la nave partì da Novorossisk diretta a Genova con 23.606 tonnellate di cromo. Il 7 Aprile giunse a Genova e diede fondo l’ancora in rada, nell’attesa d’andare in banchina per le operazioni di scarico.

Alle 12.00 del 9 Aprile la pressione barometrica era molto bassa: 748 mm. Il vento era debole e spirava ancora da Scirocco. La diga foranea spariva letteralmente sommersa dalla risacca e quel gonfiore del mare mostrava in quel momento un fenomeno meteo esagerato, mai visto prima: senza onde e senza vento, il porto e la città non avevano più protezione, la diga era come inghiottita. Secondo le testimonianze di bordo, nessun avviso di burrasca era stato emesso via radio o segnalato nell’ambito portuale dal Semaforo della Lanterna. Alle 13.00 il vento girò a SW ed andò aumentando d’intensità.

Ci fu una riunione sul ponte di comando della London Valour, ma il comandante D. M. Muir non diede particolari disposizioni e si ritirò in cabina con sua moglie.

Alle 13.30 l’ufficiale di guardia sul ponte avvisò il Comandante e l’ufficiale di guardia in macchina che il tempo era in netto e rapido peggioramento, ma fu il 1° Ufficiale di coperta che, scorgendo dal suo oblò la diga estremamente vicina, diede l’Allarme Generale.

Il C. Macchinista recepì l’emergenza e si prodigò per accelerare al massimo l’avviamento della turbina. Purtroppo la prontezza a manovrare la macchina fu data soltanto pochi minuti dopo l’impatto della nave contro la diga.

Alle 13.50 il vento da libeccio era forza 8 e il barometro segnava il valore più basso della giornata 742 mm.

M/n LONDON VALOUR

Nave

Varo

Ristrut.

Stazza L.

Lungh.

Largh.

Equip.

London

Valour

 

1956

Haver.

U.K.

1967

La Spezia

15.875

174.73 mt

21.43 mt

56

58 *

* La cifra è riferita al momento del naufragio. Essa comprende la moglie del Comandante e quella del Marconista che erano ospiti a bordo e non facevano parte dell’equipaggio.

L’Impatto

Nel frattempo il fortunale da libeccio raggiunse e superò i 100 Km/h sollevando onde eccezionalmente alte e violente che si abbatterono frontalmente contro la diga foranea. Verso le 14.25, l’ancora del mercantile britannico London Valour non mordeva più il fondale e cominciò ad arare e in pochissimi minuti la nave scarrocciò per 1300 metri, dalla sua posizione d’ancoraggio fino allo schianto contro la scogliera frangiflutti della testata di levante della diga Duca di Galliera.

Foto n.2 - La London Valour in agonia sugli scogli della diga. Alcuni naufraghi sono visibili in controplancia. Notare a sinistra l’imbarcazione dei piloti che si è impennata sulla cresta di un’onda.

Sul posto arrivarono i piloti portuali, l’elicottero dei VVFF, rimorchiatori, motovedette della Capitaneria, dei Carabinieri, della Finanza e della Polizia, Alle 14.45 i valorosi Vigili del Fuoco misero in funzione un va e vieni, (una doppia cima di nylon tesa tra la diga e il ponte di comando), sul quale scorreva una carrucola munita di cintura a braga per consentire il salvataggio di un naufrago per volta.

La nave si spaccò in due tronconi e i membri dell'equipaggio si trovarono divisi in due gruppi, tutti muniti di giubbotto salvagente. Dorothy, la moglie del comandante Edward Muir, fu sbalzata dall’imbragatura della precaria funivia e precipitò tra gli scogli spazzati dalle onde, sotto gli occhi del marito, nonostante i tentativi di salvataggio di un Vigile del Fuoco che si tuffò invano più volte. I depositi di nafta cedettero e il combustibile, nero e denso come catrame, si sparse in mare e avviluppò i naufraghi caduti in acqua. Tra questi, il comandante del mercantile, che rifiutò l'aiuto di un soccorritore, si slacciò il giubbotto e si lasciò andare.

Foto n.3 - “Volteggiava sulla scena del disastro, sfidando la bufera, il leggendario elicottero dell'ardimentoso capitano Enrico, eroe dei Vigili del Fuoco che poco tempo dopo non sarebbe più rientrato da un'ennesima operazione di salvataggio”.

Le operazioni di Salvataggio

Nella fase iniziale della tragedia, una parte dell’equipaggio si era concentrato presso il cassero centrale della nave. Questa era la zona più pericolosa perché battuta e schiacciata tra le onde e la diga.

Un razzo ed una cima di collegamento furono comunque sparati sulla diga ed i Vigili del Fuoco riuscirono ad approntare il già citato Va e Vieni, che poté salvare tre marinai indiani. L’apparato sembrava collaudato ed il Comandante convinse la moglie a mettersi in salvo, ma subito dopo s’inceppò. Alla signora Muir mancarono le forze per resistere aggrappata alla teleferica e precipitò tra gli scogli dinanzi agli occhi atterriti dell’equipaggio e del marito che, incurante del pericolo, volle darle l’estremo saluto con la bandiera inglese (Union Jack, N.d.A.). Questo fu il momento più drammatico e commovente della tragedia che colpì la nave ed il nostro scalo.

Poco dopo, un’onda gigantesca spazzò via il marconista Mr. Hill e sua moglie che sparirono insieme ed annegarono tra i flutti. Il 2° Macchinista Mr. Carey fu strappato dalla stessa onda e scaraventato in mare, ma fu miracolosamente salvato dalla ciambella dell’elicottero del Cap. Enrico. In quell’occasione il Comandante fu visto per l’ultima volta, era ferito gravemente ad una gamba e volle seguire la stessa sorte di sua moglie.

La stessa incredibile onda aveva sollevato il 1° Ufficiale di coperta Mr. Kitchener, 31 anni, di due piani, sino alla Monkey Island (il ponte della “bussola normale”, ubicata sopra la timoneria, N.d.A.), dove già si trovavano il Cadetto Mr. Lewis ed altri marinai indiani. Questi ultimi, sebbene sollecitati dai loro superiori, rifiutarono il tuffo della speranza e perirono massacrati tra gli scogli.

Gli Ufficiali inglesi furono invece salvati dai Piloti del porto e dalla vedetta del capitano Telmon della Capitaneria di porto. Una parte del personale che si era concentrato a poppa si salvò per due fattori principali:

a)- Il coraggio e l’iniziativa dimostrata dal 2° Ufficiale inglese, Mr. Donald Allan McIsaac, 25 anni. (L’ufficiale che era di guardia sul ponte di comando nel momento del naufragio, N.d.A.)

b)- Nell’impatto con il terminale della diga, la poppa della nave risultava libera e sporgente. Da quella posizione più esterna, i più coraggiosi tra l’equipaggio si gettarono in mare e subito dopo furono raccolti dai soccorritori.

Altri provvidenziali salvataggi avvennero tramite il collegamento nave-diga approntato e curato con estremo coraggio dai Vigili del Fuoco e dai marinai della nave.

Tra i tanti atti di coraggio e di grande valore compiuti dai genovesi, desideriamo ricordare quello che si verificò alle 16.17 quando, sulla cresta di un’onda gigantesca, arrivo un naufrago, tutto nero di catrame, al di là della barriera di protezione del canale di calma. Italo Ferraro, un pallanuotista-sub di quasi due metri, si tuffò con muta e pinne dal terrapieno della Fiera e, come un angelo calato dal cielo, afferrò il marinaio, lo mise in salvo e poi sparì. Nell’impatto della nave contro gli scogli appoggiati alla diga, lo scafo subì notevoli spaccature, dalle quali straripò il fuel oil, con cui venivano accese le caldaie. Il prodotto combustibile si sparse in mare, la cui superficie divenne una lastra nera che imbrattò completamente i naufraghi tanto da renderli irriconoscibili, estremamente scivolosi e quindi difficilmente catturabili dai soccorritori.

Le vittime

Nel disastro perirono 22 persone. Si salvarono 38 membri dell’equipaggio: i più coraggiosi, coloro che si tuffarono in mare e furono spinti dalle onde tra le braccia dei soccorritori che si erano appostati un po’ ovunque, in quelle acque vorticose, schiumose ed impazzite.

Nei giorni successivi, gli stessi media Inglesi definirono eroico il comportamento dei soccorritori genovesi che intervennero in quelle drammatiche operazioni di salvataggio

Una delle Verità

Quando, dopo il naufragio, i sommozzatori s’immersero per ispezionare lo scafo, notarono che le sette lunghezze di catena (ogni lunghezza misura 25 metri, N.d.A.) filate dalla nave per ancorarsi, erano distese ed intatte. L’ancora poggiava sul fondale melmoso di 25 metri, però, le unghia delle marre erano rivolte verso l’alto e tra loro passava un cavo d’acciaio.

Questa circostanza fu la fatale spiegazione del cedimento dell’ancora della nave e del suo rapido avvicinamento alla diga, nel momento di massima forza del mare e del vento.

Le marre si capovolsero nell’impatto con l’insospettata presenza di un cavo d’acciaio e non poterono mordere il fondale, fare presa nel fango e porre quindi resistenza all’effetto di quella libecciata devastante.

Le Responsabilità

La Corte Reale di Giustizia del Tribunale Marittimo di Londra, il 17 Maggio 1972 emise la seguente sentenza:

Il naufragio e la conseguente perdita della London Valour fu causata dall’errata condotta del comandante Cap. Donald Marchbank Muir, 57 anni….

Emerse pure che: “il comandante dimenticò di avvertire i suoi Ufficiali di coperta che, alla Sezione Macchina della nave, (C.Macchinista, Mr. Samuel Harvey Mitchell, N.d.A.) necessitava un congruo preavviso prima di dare la tradizionale “prontezza”, a causa d’ordinari lavori di manutenzione ai motori ausiliari che erano, comunque terminati in mattinata.

I Protagonisti

A seguito di questi fatti furono concesse:

LE MEDAGLIE DI “BENEMERENZA MARINARA”

al cap. Giuliano Telmon (Capitaneria di Porto) : Oro

al cap. Rinaldo Enrico (Vigili del Fuoco) : Oro

al pilota Giovanni Santagata (Corpo Piloti-Porto) : Argento

al pilota Aldo Baffo (Corpo Piloti) : Argento

al pilota Giuseppe Fioretti (Corpo Piloti-Porto) : Bronzo

Conclusione
Nonostante l’eroico comportamento di tutti i soccorritori intervenuti in mare, in terra e in aria, a rischio della propria vita, il bilancio delle vittime fu molto grave e la tragica lezione impartita dall’ammiraglio vento impose nuove regole ai responsabili del porto. Nuove norme di sicurezza furono riscritte e, grazie alla loro puntuale applicazione, molte altre vittime furono in seguito evitate. Ci riferiamo all’incendio ed esplosione della superpetroliera Hakuyoh Maru avvenuta nel porto petroli di Multedo il 12 luglio 1981 e soprattutto all’incendio, esplosione e affondamento di un’altra superpetroliera la Haven al largo di Arenzano avvenuta l’11 aprile 1991.

Ultimo Atto

LA LONDON VALOUR AFFONDO’ DURANTE L’ULTIMO VIAGGIO

Il relitto della London Valour, con le sue sovrastrutture emergenti, rimase per diciotto mesi come simbolo e monito di quanto il dio-mare, al di là d’ogni tecnologia, sia ancora l’invincibile peso massimo, posto al centro di un immenso ring e sempre pronto a decidere il destino di chi non lo tema o non lo rispetti secondo le sue regole.

Appoggiata a pochi metri dal vecchio fanale rosso d’entrata, la ex-nave britannica non impedì la costruzione dell’ultimo pezzo di diga verso levante.

Per la verità, fu lasciato un varco navigabile per il transito delle imbarcazioni minori addette alla risoluzione dei vari problemi creati dal relitto.

La London Valour fu liberata del carico ed in parte fu demolita sul posto. Numerose furono le traversie di quel periodo e non facili le decisioni prese dalle Autorità Marittima e Portuale. Nessun Cantiere di demolizione, infatti, era in grado di ospitare un relitto con un simile pescaggio, né tanto meno era facile trovare un porto che rischiasse la paralisi del traffico a causa del suo affondamento, magari sull’imboccatura…

Dopo qualche mese dal disastro, entrò in scena la ditta olandese Smit Tak International Bergingsbedriff, specialista a livello mondiale in operazioni di Recuperi Navali, che vantava un originale sistema per rendere galleggiante i resti della London Valour, tramite l’immissione di milioni di palline di polistirolo nelle sue capienti stive.

La Smit Tak non riuscì a riportarla interamente a galla, ma le garantì, tuttavia, una discreta galleggiabilità, che avrebbe dovuto assicurare il suo rimorchio in mare aperto e quindi l’affondamento, con l’uso di dinamite, nella zona delle Baleari, ad est di Minorca, su un fondale di circa 3500 metri, denominata “Fossa delle Baleari”.

L’abisso marino, destinato ad accogliere le spoglie della London Valour, era stato accuratamente scelto dalle Autorità competenti, con il preciso intendimento di rendere sicura la navigazione in Mediterraneo, oltre che salvaguardare le attività marinare dei Paesi limitrofi, legate alla pesca, turismo ecc… da possibili problemi d’inquinamento.

Il 12 ottobre del 1971, ai primi chiarori dell’alba, il rimorchiatore oceanico Vortice disincagliò il relitto dalla diga e lo fece con molta accuratezza per non creare superflue lacerazioni sotto lo scafo, quindi lo consegnò ai rimorchiatori d’altomare Torregrande (capo convoglio) e Genua per il traino prestabilito.

Epilogo

Siamo così giunti all’epilogo di questa incredibile tragedia marinara e forse nessuno, meglio di Charly, il Comandante del Torregrande, può accompagnarci in questa specie di rito funebre a conclusione di una storia tristissima che, volenti o nolenti, ci appartiene completamente.

Nonostante il tempo fosse buono, al momento della partenza da Genova, il bollettino meteo era pressoché indecifrabile, nel senso che lasciava spazio a quella parola “variabilità” che anche i più giovani lupi di mare imparano presto a detestare e a diffidare per la sua incapacità di prendere una posizione chiara e quindi di non prevedere proprio nulla…Ma il problema più serio, fin dall’inizio del viaggio, era del tutto psicologico: era infatti difficile controllare serenamente la navigazione di prora, avendo al traino un relitto che pescava 22 metri, come una superpetroliera dei giorni nostri, e del quale si potevano vedere soltanto le colonne dei bighi, che apparivano tra l’altro bianchi e fatui come fantasmi e, come tali, capaci di sparire in qualsiasi momento.

Torregrande e Genua avevano un tiro complessivo di 4.500 cavalli di razza, che furono subito totalmente sbrigliati, nell’illusione d’uscire al più presto da quell’incubo! Purtroppo la velocità era poco superiore ai tre nodi. Altri 10.000 cavalli di potenza, magra consolazione, non avrebbero aumentato di un decimo l’andatura, a causa dell’inesistente idrodinamicità della sua massa informe e sommersa.

Tra i nostri equipaggi, cui non difettava certo l’esperienza, la parola d’ordine era: occhi aperti ragazzi”, mentre avevo già preso tutte le misure d’emergenza, tra cui l’aver predisposto un marinaio, di guardia nel locale del verricello automatico (chiamato Troller, N.d.A.), pronto a tagliare il cavo di rimorchio con la fiamma ossidrica, in caso d’affondamento improvviso del relitto.

Dopo il tramonto di quell’insolita giornata di navigazione, il tempo andò peggiorando e nella notte, forti piovaschi impedivano il pieno controllo visivo del rimorchio, che appariva protetto da una barriera bianca di pioggia e schiuma, sulla quale andavano ad infrangersi i potentissimi fasci bianchi di due proiettori da 1000 watt ciascuno.

Lo Stato Maggiore Olandese, che aveva la regia dell’intera l’operazione, era ospite sul Torregrande. Il suo compito era di controllare il buon andamento della navigazione del convoglio sino al punto prestabilito, per poi procurare l’inabissamento del relitto con l’impiego di cariche di dinamite. Ci trovavamo, purtroppo, ad un terzo soltanto del percorso e tutto lasciava pensare ad un suo imminente affondamento. L’esperienza insegna che anche nei momenti difficili ci sia, quasi sempre, un momento di comicità! I nostri ospiti olandesi, celebri per le loro tradizioni marinare, non ressero ai primi colpi di mare e, quasi subito, sparirono sottocoperta, portandosi dietro la puzza sotto il naso e tutti quei strani strumenti, con il quali si erano imbarcati a Genova…Durante la serata cercai di stanarli ripetutamente per renderli edotti della situazione che, a nostro avviso, era ormai irreversibile, a causa del graduale abbassamento del relitto e della velocità quasi del tutto azzerata. Dopo l’ennesimo invito a salire sul Ponte, il nostromo Zeppin, di ritorno dai loro alloggi, mi disse con un tono che non ammetteva indulgenze:

“Se o bon maina o se conosce a-o cattivo tempo… sti chi se treuvan a bordo pe sbaglio; se né battan u belin du periculu, du relittu e de Baleari, pensan sulu a racca cume bestie marotte…! Ma ghe lo ditu in sciu muru au capu: loda o ma e stanni a ca, besugu! Ma chi va imbarcou?

(Trad. Se il buon marinaio si vede nel cattivo tempo…questi qui si trovano a bordo per sbaglio; se ne fregano del pericolo, del relitto e delle Baleari, loro pensano solo a vomitare come animali ammalati! Ma gliel’ho detto a muso duro al capo: loda il mare, ma stattene a casa…Ma chi vi ha imbarcati?

Intorno all’una e trenta di notte, il comandante del Genua G.Negro mi chiamò per radio: “per noi i giochi sono fatti, e di giocare non n’abbiamo più voglia…” gli risposi che anche noi eravamo dello stesso parere e che poteva “staccare” quando voleva, e di continuare a scortarci con il proiettore sino al “finale dell’incompiuta”…

Cercai ancora una volta, invano, d’aver l’O.K. degli olandesi e poi misi in atto, con calma, il piano di recupero dell’attrezzatura di rimorchio per evitare che andasse persa con i resti della London Valour. Verso le 02.30, dopo aver virato a bordo la prima parte del rimorchio (250 metri di cavo d’acciaio), iniziammo a recuperare anche i 220 metri di cavo di nylon collegati al relitto. Eravamo flagellati dall’ennesimo piovasco, ma ci avvicinammo fino a pochi metri da quella visione dantesca…poi, mi portai a poppa estrema e Zeppin mi passò la mannaia di bordo. Mi feci quindi appoggiare il cavo da 90 m/m sul piatto bordo poppiero e diedi un colpo deciso e preciso che ci liberò, brutalmente, da quella funesta angoscia che ci aveva attanagliato per molte ore il cuore e la mente…

Il troncone della ex-nave britannica London Valour colò a picco alle 02.58 del 13 ottobre 1971, sbavando schiuma, eruttando migliaia e migliaia di palline di polistirolo e salutando il mondo con un fragoroso rigurgito”.

Dopo un anno d’inutili studi e progetti andati in fumo, il relitto fu rimorchiato al largo da due rimorchiatori d’altomare al comando dello scrivente.

La London Valour non raggiunse la Fossa delle Baleari, ma affondò per la seconda volta, sotto i colpi di una violenta burrasca a 90 miglia a sud di Genova, su un fondale di 2640 metri, in latitudine 43°02’N e longitudine 08°06’E, ad una quarantina di miglia da Imperia e circa cinquanta ad Ovest di Capo Corso.

Il ruota del timone fu donata all'Ospedale San Martino che aveva assistito i superstiti.

La campana è oggi conservata presso la Chiesa Anglicana di Genova.

La bandiera è stata consegnata alla Capitaneria di Porto.

Fu una tragedia inverosimile, a poche bracciate dalla costa, sotto gli occhi attoniti di una storica città marinara.

Quel giorno qualcuno scrisse:

La London Valour si è inabissata definitivamente, rifiutando ancora una volta di sottomettersi al volere dell’uomo e scegliendosi da sola il fondale che è divenuto la sua tomba, 2640 metri al disotto della superficie di quel mare che così selvaggiamente l’aveva ferita.

Carlo GATTI

Rapallo, 23.05.11

Album fotografico

A rotûa d'i ténpi


L'amico Carlo Pini ci scrive:
"Cari amici, ho potuto leggere sul sito, con interesse e partecipazione, l’oramai datato racconto di Carlo Gatti sulla tragedia della London Valour. Esso ha inevitabilmente agitato in me svariati ricordi, strettamente collegati sia al bambino che al marittimo che sono stato: avevo infatti sei anni quando il naufragio è avvenuto e, nonostante il tempo passato, ne ricordo a menadito la vicenda.

 

Ho dunque coinvolto Enrico Granara, persona interessata alle storie di mare e del mare, valente traduttore di testi d’ogni genere dalle lingue originali al genovese. Qui di seguito ne troverete l’esito, pregevole, reso nei suoni originari della nostra parlata. Esso a mio parere ne restituisce ancora di più la tragicità già così ben illustrata nella originaria stesura del Gatti.

 

Un caro saluto e vivi complimenti per l’energia con cui animate la Società. Carlo Pini"

 

A rotûa d'i ténpi Quande l'anticiclún de-e Azzorre u se retîa versu ponente, a s'arve 'na porta a-e brixe fréide d'u mâ atlanticu, ch'a vegne d'ou Nòrde/ponente, insciû bòrdu de l'âta pressiun, e-e arîvan int'u Mediterràniu, sponciæ int'e n'andannia.  (vanni a vedde a fréssa néigra int'a carta méteo).

 

U l'é cuscì ch'u se forma u scistêma d'i vénti de Meistrâ, ch'u l'é típicu de-e nòstre bande. Vénti che soventi se lêvan tûtt'assemme forti int'u Gurfu d'u Lion, ciû forti inscê coste còrse de ponente e che-e van ancun ciû fòrte int'u tortaieu de-e Bocche de Bonifaçiu.

 

E a-e vòtte pœ accapitâ dôtræ scituasiúin a-a mâpezu, comme quande int'u Gurfu de Zêna a se vegne a creâ 'na "depressiún sótta ventu" dovûa ou fætu ch'a pressiún a redòssu d'u arcu alpìn a chinna tûtt'assemme, ò arîva 'na bassa pressiún insce l'Europa de levante, a quæ, cu-u sò gîu ciclónnicu a zeuga a fâ andâ e brixe da Nòrde/Ponente ancun ciû fòrti.

 

Int'u nostru emisfèru e depressiúin e gîan int'u sensu oràrriu e donca u  fenómenu méteo u l'insa a Sciöcu (SE), u se rinforsa a Lebéccio (SW) e u sfonda a Meistrâ (NW). U méize d'Arvî u l'é soventi int'u mêzu de questu fenòmenu peigûsu, ciammòu da-i mainæ "rotûa d'i ténpi" e inscî bòrdi d'u meu a gente de mâ a issa e antenne quande a vedde u mâ lungu.

 

De segûu u l'é 'n scìntomu ancestrâle ch'u attrœva inte 'na zöna ch'a no l'é lontann-a, 'n véntu tenpestûzu ch'u avansa drîtu sensa inciànpi e cuu quæ, fîtu, ghe saiâ da fâ i cunti…

 

U giurnu d'u diâu

 

U l'é cuscî che se desccèga quellu ch'u l'êa accapitòu l'é quarant’anni, int'u gramm-u 9 d'Arvî 1970, quande a T/n London Valour a s'êa fracasâ insciâ diga d'u pòrtu de Zêna.

 

Quelli che gh'êan i s'aregordan d'u “giurnu d'u diâu”. Vintiduî cristiæn êan morti sòtta i éuggi de 'na çitæ piggiâ da-u resâtu, abarlýgâ, sensa puéi fâ ninte davànti a-i terribili córpi de mâ issæ da' n véntu  che in poche ûe u l'áiva gîòu da Sciöcu a Meistrâ rinforsândose a ogni gælu d'a rêuza d'i vénti.

 

Inte quelle condiçiuín estrême, che i zeneixi àivan vîstu de ræu, a pocu ò ninte àivan varsciýu i mâi tanti tentatîvi de sarvamentu improvisæ da-i coragiûzi òmmi d'u socórsu.

I Fæti

 

U 2 d'Arvî 1970 u piroscafu u l'é partîu da Novorossisk in direçiún de Zêna con 23.606 tonnéi de cromu int'e stîe. 
U 7 d'Arvî u l'êa arîvòu a Zêna e l'áiva caciòu l’àncoa in ràdda, aspetându d’anâ in banchìnn-a pe-e operaçiuín de descàregu.

 

A-e 12.00 ùe d'u 9 d'Arvî u barometru u l'éa bassu: 748 mm. U véntu u l'êa  ancun de Sciöcu. A diga forànea a pàiva sparîa sótta a resàcca e inte quellu momentu u mâ ìnsciu u mostrâva quarcösa d'ezageròu, mâi vîstu prìmma: sensa unde e sensa véntu, u pòrtu e a çitæ pàivan arrestæ sensa proteçiún, cuâ diga colâ da l'ægua.

 

Segóndu i testimònni de bòrdu, nisciún avîzu de bòrasca u l'êa stætu eméssu via radio, ò drentu u pòrtu da-u Semàforo d'a Lanterna. A-e 13.00 ùe u véntu u l'àiva giòu a lebécciu [SW], aumentandu d’intenscitæ.

 

Insciû pónte de comandu d'a "London Valour" gh'êa stæta 'na riuniún, ma u cumandànte D. M. Muir u s'êa retiòu int'a sò cabinn-a cuâ moggê, sensa dâ òrdini particulâri.

 

A-e 13.30 l’ôfisiâle de guardia insciû pónte u l'àiva avizòu u Comandànte e l’ôfisiâle de guardia in màcchina ch'u ténpu u stâva pezoându cu'inna rapiditæ da no credde.

 

Ma u l'êa stætu u 1° ôfisiâle de cuvèrta, ch'u l'àiva dætu l'Alàrme Generàle, doppu avéi vîstu da-a sò cabìnn-a che a diga a l'êa troppu vixìn.

 

U Cappu Machinìsta u l'àiva acapîu a scituasiún e u s'êa missu fîtu a preparâ  l’aviaméntu d'a turbinna.

 

Ma pe sfortùnn-a a lestixe pe manovrâ a màcchina a l'êa vegnûa fœaa sôlo pochi menûi doppu u spunciún de-a näe  contra a diga.

 

A-e 13.50 u véntu da Lebécciu u l'êa a forsa 8 e u baròmetru u segnâva u valû ciû bassu d'a giornâ, 742 mm.

 

Intantu u [fortunâle] da Lebécciu u l'àiva passòu i 100 Km/h issandu unde âte e violente che se abbattéivan contra a diga forànea.

 

Verso e 14.25, l’àncoa d'u mercantîle ingleize no a mordéiva ciû u fundu [no amorrâva ciû] e a comensâva a-arâ, tantu che appreuvu dôtræ menûi a nâe a scaruciâva pe 1300 metri, da-u sò postu d’ancoàggiu scinn'a scciantâse contra a scuggêa ch'a faxéiva da franze-unde insciâ testâ de levante d'a diga Duca de Gallièra.

 

Òua a "London Valour" a l'êa in angonía inscî schéuggi de-a diga e se puéivan vedde d'i naufraghi insciâ controplancia. E, a-a mancinn-a, se puéiva vedde a barca d'i piloti ch'a s'êa isâa insciâ cresta de n’unda.

 

Insciû postu l'êa arîvòu i piloti d'u portu, l’elicotteru d'i pompê, i remorchi, e motovedette d'a Capitaneria, d'i Carabinieri, d'a Finansa e d'i Cantunê.

 

A-e 14.45 i pompê, cuâ sò valentixe, àivan missu in pê un va e ven, ('na çimma doggia de nylon téiza tra a diga e u pónte de comandu), insciû quæ a  scorrîa 'na tàggia cuâ sò çenta a braga p'ou sarvamentu de 'n naufrago pe vòtta.

 

U scaffu d'u mercantîle u s'êa scciappòu inte duî pessi e a sò ciûzma a s'êa attrœvâ divîsa in due gruppi, tûtti cuu sò giaché de sarvamentu. A Dorothy, a moggê d'u cumandante Edward Muir, a l'êa stæta asbriâ da l'inbragatûa de quella funivìa a-a mâpêzu e a l'êa derruâ tramezzu i schéuggi spassæ da-e unde, sòtta i éuggi d'u màiu e nonostante i tentatîvi de sarvamentu de'n pompê ch'u s'àiva bolòu inutilmente ciû vòtte.

 

I depöxiti de nafta àivan cedûu e u combustìbile, néigru e dénso comme catràn, s'êa sparzûu in mâ e avilupòu i naufraghi chéiti in ægua. Tra questi, u cumandante d'u mercantîle, ch'àiva refûòu l'agiuttu de'n socoritû, u s'êa deslasòu u giaché e s'êa lasciòu andâ.

 

“Insciâ scena d'u disastru, u legendâiu elicotteru d'u capitaniu Enrico u xoâva sfidddandu a buriann-a, l'erô d'i pompê che appreuvu u no saiéiva ciû ritornòu da questa sò ûrtima operaçiún de sarvamentu”.

 

 

 

 

E operaçiúin de sarvamentu

 

 

Int'a fase iniçiâle d'a tragedia, 'na parte d'a ciûzma a s'êa concentrâ arrente ou càsau, int'u céntru d'a näe.

 

Questa a l'êa a zona ciû péigûza perché battûa e scciancâ tra-e unde e a diga.

 

De tütte e mainæe 'n fùrgau e 'na çimma de colegaméntu êan stæti asbriæ insciâ diga e i pompê arriescîvan a mette sciû u Va e Ven, ch'u l'avéiva posciüu sarvâ tréi mainæ indien.

 

L’aparâtu u pàiva colaudòu e Cumandante u l'avéiva convintu a moggê a méttise in sàrvu, ma u s'êa incepòu fîtu.

 

Aa sciâ Muir gh'êa mancòu e fòrse pe rexìste agrapâ aa teleférica e a l'êa derruâ tra i schéuggi davanti a-i éuggi aterî d'a ciûzma e d'u màiu, u quæ, sensa dâ a mente ou peîgu, u gh'avéiva dætu l’ûrtimu salûu cuâ bandêa ingléize (Union Jack, N.d.A.).

 

Questu u l'êa stætu u momentu ciû drammàticu e pin de comoçiún d'a tragedia ch'avéiva colpîu a näe e u nostru pòrtu.

 

Aprêuvu, n’unda zagante l'avéiva spasòu via u marconista Mr. Hill e a  moggê, sparî insémme e negæ tra mòuxi. U 2° Machinista Mr. Carey u l'êa stætu scciancòu da-a mæxima unda e asbriòu in mâ, ma pe miâcou u l'êa stætu sarvòu d'ou canestrellu cacciòu da l’élicotteru du Cap. Enrico.

 

Inte quella circostànsa u Cumandante u l'êa stætu vîstu pe l’ûrtima vòtta, u l'êa  ferîu de mainæa grave a'na gànba e u l'avéiva vusciûu andâ aprêuvu ou mæximu destìn d'a sò moggê.

 

A mæxima unda stramesuâ l'avéiva solevòu u 1° ôfisiâle de cuvèrta Mr. Kitchener, 31 anni, de duî ciàn, scinn'a Monkey Island (u ponte d'a “bùscioa normâle”, colocâ sorva u timún, N.d.A.), donde s'attrœvâvan zà u Cadettu Mr. Lewis e dôtræ mainæ indien. Questi ûrtimi, scìben ch'êan stæti incoragiæ da-i sò superiû, s'êan refuæ a fâ u bollu d'a speransa pe finî masacræ tra i schéuggi.

 

In cangiu, i ôfisiâli ingléixi êan stæti sarvæ da-i Piloti d'u pòrtu e d'â vedetta d'u capitaniu Telmon d'a 'Capitaneria'.

 

'Na parte d'a ciûzma ch'a s'êa riunîa a poppa a s'êa sarvâ pe dûe raxuin:

 

a)- u coràggiu e l’iniçiatîva d'u 2° ôfisiâle ingléise, Mr. Donald Allan McIsaac, 25 anni. (U l'êa de guardia insciû ponte de comandu a l'ùa d'u naufragiu, N.d.A.)

 

b)- Inte l'ùrtu cuâ diga, a poppa d'u vapû a l'êa arestâ libera e spòrzente. 
Da quella posiçiún ciû esterna, i ciû coragiûzi d'a ciûzma s'êan asbriæ in mâ e tiæ sciû fîtu da-i òmmi d'u socórsu.

 

Dôtræ câxi de sarvamentu êan stæti puscíbili a mêzu d'u culegamentu näe-diga fætu e manezzòu cuu ciû grande coràggiu da-i pompê e da-i mainæ d'a näe.

 

Tra i tanti àtti de coràggiu e de grande valû compî da-i zeneixi, duvemmu aregordâ quellu compîu a-e 16.17 quande, insciâ crésta de n’unda zagante, u l'êa arîvòu 'n naufragu, vegnûu tûttu néigru de catran, pasôu a linnia de proteçiún d'u canâ de carma.

 

Italo Ferraro, 'n zugôu de bàlla-nêuo e sub de quæxi duî metri, u s'êa ballôu cuâ muta e ætte da-u terapìn d'a Fêa e, comme 'n àngiou calòu da-u çê, u l'avéiva aferòu u mainâ, missu in sàrvu e poi u l'êa sparîu.

 

Inte l'urtu d'a näe contra u mùggiu de schéuggi apogiæ aa diga, u scaffu u l'avéiva subîu d'e spacatûe profónde, da-e quæ u l'êa sciortîu u 'fuel oil' ch'u vegnîva dœviòu pe açénde e câdêe.

 

U cunbustíbile u s'êa sparzûu in mâ e a sò superficie a s'êa cangiâ inte 'na ciàppa néigra ch'avéiva imbratòu ben ben i naufraghi tantu che no se puéivan ciû cunusce e-i êan vegnûi mâi tantu leppegûsi, cuu gran giamìn d'i òmmi d'u socórsu pe aguantâli.

 

E víttime Int'u desastru êan morte 22 persónn-e. 38 òmmi d'a ciûzma s'êan sarvæ: i ciû coragiûzi, quelli che s'êan bollæ in mâ e ch'êan stæti sponciæ da-i mòuxi tra-e brasse d'i òmmi d'u socórsu apostæ 'n po’ dapertùttu, inte quell'ægua vorticûza, scciummûza e inmatîa.

 

Int'i giurni sucesîvi, i giurnâli ingléixi avévan definîu erôica a condûta de-i òmmi zeneixi d'u socórsu ch'êan intervegnûi inte quelle dramàtiche operaçiúin de sarvamentu.

 

Unn-a de-e Veitæ Quande, doppu u naufragiu, i magrúin in inmersciún avéivan ispeçionòu u scaffu, u l'êa stætu notòu che e sette lunghesse de cadénn-a ('na lunghessa a mezûa 25 metri, N.d.A.) fîæ da-a näe pe ancoäse, l'êan distéize e intatte.

 

Difæti l’àncoa a pogiâva insciû fúndu leppegûzu de 25 metri, ma e ónge d'e-e mâre l'êan disposte de d'âtu e tra lô ghe passâva 'n câu d’âsâ.

 

Questa fatalitæ a desscêga che l'áncoa l'avéiva cêduu e che a näe a s'êa acostâ  con rapiditæ a-a diga int'u momentu de màscima fòrsa d'u mâ e d'u véntu.

 

E mâre s'êan inbösæ inte l'urtu cuâ insospetâ prezénsa de'n câu d’âsâ e ascì no-e puvéivan morde u fúndu, fâ da préiza int'a bràtta e fâ rexisténsa a quella lebécciadda devastante.

 

E responsibilitæ A Córte Reâle de Giustìçia d'u Tribunâle Maríttimo de Londra, u 17 de Mazzu 1972 u l'avéiva eméssu questa sentensa chí:

 

U naufragiu e a conseguente pèrdia d'a "London Valour" a l'êa stæta occaxunâ da-a condûta in erô d'u cumandànte Cap. Donald Marchbank Muir, 57 anni….

 

A sentensa a dixéiva ascì che: “ u cumandànte u s'êa ascordòu de avertî i sò Ôfiçiâli de covèrta che, aa Seçiún Màcchina d'u vapû, (C.Machinista, Mr. Samuel Harvey Mitchell, N.d.A.) u l'êa necesâiu 'n bun preavîsu primma de dâ a normâle “lestîxe”, a caxun d'i lòi de manutençiún a-i motôri ousiliâri, i quæ, de tûtte e mainæe êan terminæ int'a mæxima matinâ.

 

I protagonisti Aprêuvu questi fæti l'ëa stætu concessu e "Medàgge de Benemerensa Mainâ”

 

- ou cap. Giuliano Telmon ("Capitaneria" d'u Pòrtu) : Öu

 

- ou cap. Rinaldo Enrico (Pompê) : Öu

 

- ou pilòttu Giovanni Santagata (Còrpu Piloti-Pòrtu) : Argéntu

 

- ou pilòttu Aldo Baffo (Còrpu Piloti) : Argéntu

 

- ou pilòttu Giuseppe Fioretti (Corpo Piloti-Porto) : Brónzu

 

Epílogu Ascì semmu arîvæ a l'ûrtimu attu de questa tragèdia mainâ da no credde.  Nisciún, mêgiu d'u Cumandànte Charly d'a Torregrande u ne pœ accompagnâ inte questu morteiu tûttu particulâ, a concluxún de 'na stôia tristìscima che - ou vuémmu ò no - a ne appartegne arrëu.

 

“Scìben ch'u ténpu u l'êa bun, int'u momentu d'a partensa da Zêna, u buletìn méteo u se puéiva guæi accapî, saiéiva a dî ch'u lasciâva spaçiu a quella paroll-a “variabilità” che scin i ciû zuèni lôi de mâ imprenden fîtu e mâfiaddi a piggiâ in grinta perché no a sà piggiâ 'na posiçiún ciæa e donca no a pœ prevedde guæi 'n belin …

 

Ma l'afâre ciû sérriu, scin da l’iniçiu d'u viægiu, u l'êa tûttu psicológicu:

 

Difæti u l'êa diffiçile controlâ a navegaçiún de prôa, quande ou tràinu gh'êa 'n relittu ch'u pescâva 22 metri, comme 'na superpetrolêa d'ancheu, e d'u quæ se puvéivan vedde sôu e colonne d'i bîghi, che appaîvan gianchi e veui comme fantàximi pronti  tùtt'assemme a spaî.

 

UTorregrande e u Genua avéivan 'n tîu màscimu de 4.500 cavalli de rassa, e questi êan stæti fîtu desligæ, cuâ inluxún de sciortî ou ciû fîtu da quellu seunnu grammu!

 

Ma pe sfortûnna a lestìxe a l'êa pocu ciû de tréi noddi. Ad avéighene âtri 10.000 de potensa - 'na magra consolaçiún - no se puéiva aumentâ l'andatüa mancu de'n déximu, a caxun d'a mancansa de idrodinamiçitæ d'a sò massa informe e sòtt'ægua.

 

Tra i nostri òmmi a bòrdu, tùtti cuâ sò esperiénsa, a parolla d’ordine a l'êa: “éuggi ben ben avèrti, figgeu!”, intantu che mi avéiva zà piggiòu tûtte e mezûe d’urgensa, tra e quæ l'avéi missu 'n mainâ de guardia int'u locâle d'u muinélu outomàtticu (u "Troller", N.d.A.), prontu a taggiâ u câvu de remorcu cuâ sciamma ossídrica, int'u câxu d’affondamentu incontrolòu d'u relittu.

 

Insciû fâ da séia, doppu 'na giurnâ de navegaçiún mâi tantu coiosa, u ténpu u s'êa míssu ou pêzu e int'a neutte 'n ciüvascu fòrte e-e sò rammæ d'ægua no-e lasciâvan u controllu visîvu cunplètu d'u remorcu, ch'u páiva protezûu da 'na miâgia gianca d'ægua e scciumma, insce quæ anâva a infrânzise i fâsci gianchi fòrtiscimi de duì proiettûi da 1000 watt ciaschedún.

 

U Stætu Maggiôre Olandéize, ch'u l'avéiva in man a regîa intræga de l’operaçiún, u s'êa installòu insciû Torregrande. U sò travaggiu u l'êa de controllâ u bunn-a andeiua d'a navegaçiún scin-ou puntu prestabilîu, pe poi passâ u relittu a piccu metténdughe e càreghe de dinamite.

 

Pe sfortùnna, éimu sôu ou tersu d'a rótta e tûttu u ne lasciâva pensâ ou sò passâ a piccu fîtu. Ma l’esperiénsa a ne dîxe che tante vòtte, int'i momenti diffiçili, no-u vegne a mancâ  'n momentu tûttu da rîe!
 
A bòrdu, i nostri olandéixi, famûzi pe-e sò tradiçiúin mainæ, no êan arriêscî arrêze a-i primi còrpi de mâ e quæxi fîtu l'êan sparî sottacòverta, portânduse derê u sò presumî e tûtti quelli arneixi ræi, cuî quæ s'êan imbarcæ a Zêna …

 

Int'a séiann-a mi avéiva de lungu tentòu de destanâli perché i fuîsen informæ de 'na scituaçiún che a niâtri a páiva ormâi irreverscìbile, a caxún d'u fætu ch'u relittu u s'asbasciâva cian cianin e che a  lestìxe a s'êa redûta quæxi a zeru.

 

Dappeu l'ûrtimu invîu a montâ insciû pònte, u nostrommu Zeppin, de riturnu da-e cabinn-e, u m'àveiva dîtu co'inna vôxe ch'a no ammettéiva indulgense:

 

“Se o bon mainâ o se conosce a-o cattivo tempo… sti chi se treuvan a bordo pe sbagliu; se né battan u belin du periculu, du relittu e de Baleari, pensan sulu a raccâ cumme bestie marotte…! Ma ghe lo ditu in sciu muru au capu: loda o mâ e stanni a ca, besûgu! Ma chi v'a imbarcou?

 

L'êa quæxi l’ûnna e mêza de neutte e u cumandànte d'u Genua, G.Negro, u m'avéiva ciammòu pe radio: “pe niâtri i zœghi sun fæti, e de zûgâ  no gh'avémmu ciû cuæ…” Mi gh'avéiva  respostu che niâtri ascì éimu d'u mæximu avvîzu e che lê u puéiva “destaccâ” quande u vuéiva, ma ch'u continuasse a inluminâ [a scena] cu-u proiettû scinn'ou “finâle de l’incompiuta”…

 

Mi avéiva tentòu ancun 'n'âtra vòtta d’avéi l’OK da-i olandéixi, ma pòi con carma avéiva missu in attu 'n ciàn pe repiggiâme i angæsi de remorcu perché no-i se perdesse cu-i resti d'a "London Valour".

 

Versu e 02.30, doppu avéi viròu a bòrdu a primma parte d'u remorcu (250 metri de câvu d’âsâ), avéivimu comensòu a repiggiâ ascì i 220 metri de câvu de nylon ligæ ou relittu.

 

Éimu martirizzæ da'n' neuvu ciüvascu, ma éimu arrentî scinn-a pochi metri da quella visiún dantesca…pòi, mi êa arîvòu a-a fin d'a poppa e u Zeppin u m'avéiva passòu l'ascia de bòrdu.

 

Donca m'avéiva fætu destende u câvu da 90 m/m insciû ciàn d'u bòrdo d'a  poppa e avéiva dætu 'n còrpu decìzu e precìzu ch'u ne avéiva liberòu de mainêa dûa, da quella funesta anscietæ ch'a ne avéiva frustòu u cheu e a mente pe mâi tante ùe …

 

U scaffu d'a ex-näe britànnica "London Valour" u l'êa passòu a piccu a-e 02.58 d'u 13 ötobre 1971, int'en gràn scciummassu, spûandu miggiea e miggiea de ballette de polistirolo e salûandu u mondu con un rumô da no credde.

 

Dappeu 'n annu de stûddi e de progetti sensa resultati, u relittu u l'êa stætu remorcòu ou largu da due barcasse da mâ fundu sòtta u mæ comandu.

 

A "London Valour" no a l'êa arîvâ a-a Fossa d'ê Baleâri, ma a l'ê passâ a piccu  pe-a seconda vòtta, sotta i còrpi de 'na boràsca a 90 miglia a sud de Zêna, insce'n fundu de 2640 metri, int'a latitudine 43°02’N e longitudine 08°06’E, a 'na quarantenn-a de miggia da Imperia e quæxi çinquanta a Ponente d'u Câu Còrsu.

 

A reua d'u timun a l'êa stæta regallâ a l'Ûspiâ San Martin ch'u l'avéiva ascistîu i superstiti. La campann-a a l'é servâ int'a Gêxa Anglicann-a de Zêna. A bandêa a l'êa stæta consegnâ a-a 'Capitaneria' d'u Pòrtu.

 

A l'êa stæta 'na tragedia da no credde, a poche brasse da-a costa, sotta i éuggi smaxî de 'na çitæ mainâ.

 

Inte quellu giurnu quarchedun u l'avéiva scrîtu: a "London Valour" a l'é anæta a fundu pe de lungu, e a l'ha turna refuòu de sottométtise a-u vuéi de l’òmmu, çernénduse pe sò cuntu u fundu ch'u ghe faiâ da seportûa, 2640 metri sotta a superfiçie de quellu mâ che mâi tantu sarvægu u l'avéiva feîa.=

 

 

Carlo Gatti (tradotto da E. Granara - foto B. Malatesta/immagini della Chiesa Anglicana Holy Ghost di Genova)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


LE SPLENDIDE CICOGNE BIANCHE SONO TORNATE A VOLARE NEI NOSTRI CIELI

 

Volo di cicogne sullo Stretto di Messina

(Album fotografico)

 

LE SPLENDIDE CICOGNE BIANCHE SONO TORNATE

A VOLARE NEI NOSTRI CIELI

di Manuela Campanelli

Progetti di reintroduzione della specie avviati con successo nella nostra Penisola hanno permesso di ristabilire la rotta italiana di questi uccelli migratori.

Le Cicogne bianche hanno ricominciato a riprodursi in Italia riappropriandosi di un passato lontano che le vedeva presenti nelle nostre terre. E se questa buona notizia oggi può essere data il merito va senz’altro a una lunga storia di passione e di professionalità per questa specie, iniziata nel 1985 dal Centro cicogne e anatidi di Racconigi in provincia di Cuneo che – grazie alla collaborazione con la Lega Italiana Protezione Uccelli (LIPU) -, è stato il primo ad adoperarsi per riportare questi volatili a nidificare nella nostra Penisola. Di seguito si è attivato il Centro di Fagagna dell’Oasis dei Quadris in provincia di Udine e a ruota il Centro Cicogna Bianca di Goito del Parco del Mincio in provincia di Mantova. In ognuna di queste zone diverse cicogne selvatiche erano state avvistare e alcune avevano tentato pure di costruire il nido. Segno che il territorio era loro congeniale. Perché allora non avviare dei progetti scientifici per consolidarne la presenza? E così è stato.

Una questione di metodo

L’approccio seguito per incentivarne il legame con il territorio è stato sempre lo stesso e prevedeva un certo numero di esemplari stanziali, acquistati presso centri svizzeri, che giunti a maturità riproduttiva, e dopo la prima covata, venivano lasciati liberi di migrare. Con le nuove nascite si sono formati gruppi sufficientemente numerosi che, attraverso il flusso migratorio, sono stati in grado di creare anche un minimo di aggregazione di capi selvatici e quindi un ripopolamento della zona. E i risultati non si sono fatti attendere: ben 272 giovani cicogne sono per esempio nati in libertà dal 1997 a oggi lungo il Mincio e giusto l’anno scorso si sono involati 43 piccoli da 15 nidi incrementando di un quinto le nascite in Lombardia che nel 2017 sono dato alla luce 214 volatili provenienti da 96 nidi.

Un virtuoso via vai

La loro vita senza confini li porterà a partire da qui per mete molto lontane, a incontrare altre cicogne selvatiche per mettere su famiglia o a restare nei vari Centri di reintroduzione svolgendo l’importante funzione di richiamo per altri esemplari che transitano nei cieli italiani durante la migrazione primaverile. La Pianura Padana e le zone umide del Nord stanno tornando a essere un punto di riferimento per loro. Qui trovano infatti ancora cibo in abbondanza. I lombrichi, come i molluschi, gli insetti, gli anfibi, i rettili e i piccoli mammiferi che cacciano camminando, consentono di allevare la prole senza alcuna alimentazione artificiale e di raggiungere un successo riproduttivo, vale a dire un rapporto tra il numero di cicogne nate e il numero di quelle che raggiungono il volo, molto alto.

Dal Nord al Sud Italia

Tirando le somme, le coppie di cicogne presenti nel nostro Paese sono arrivate a essere 350, alcune formate da esemplari rilasciati dai centri di reintroduzione, altre completamente selvatiche e altre ancora miste, cioè composte da un individuo selvatico e da uno rilasciato dai centri. E se la ricolonizzazione della specie è iniziata dall’Italia del Nord, e precisamente da Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia, il Sud si difende bene. La Cicogna bianca ha ripreso infatti a nidificare con successo anche in Calabria e in Sicilia negli ultimi quindici anni, aiutata anche da Enel che ha predisposto piattaforme artificiali sui tralicci dell’energia elettrica per favorirne la riproduzione ed evitare episodi di folgorazione. Grazie a tutti questi contributi, si può pertanto ben dire che la sua presenza nell’Europa occidentale è stata via via recuperata. Le popolazioni di Cicogne bianche sono infatti due: quella occidentale, che nidifica in Marocco, Algeria, Tunisia, Portogallo, Spagna, Alsazia, Germania dell’Ovest - e ora anche in Italia - e migra in parte attraverso lo stretto di Gibilterra e in parte attraverso lo stretto di Messina nell’Africa occidentale a sud del Sahara. Una rotta, questa, senz’altro più decimata in confronto a quella orientale, che nidifica in Germania orientale, Paesi dell’est, penisola balcanica, e passa lo stretto del Bosforo per raggiungere il Corno d’Africa, la Rifà Valles e l’Africa meridionale e che ancora sopravvive bene perché non è gravata da una significativa mortalità legata allo sversamento e alla caccia.

Una specie ancora tutelata

Una domanda stuzzica tuttavia ancora la nostra curiosità. Perché le Cicogne bianche sono diminuire drasticamente nel tempo fino a estinguersi in ampie zone europee, nonostante siano volatili eclettici e opportunisti, si adattino cioè con facilità a diversi ambienti e s’inseriscano in variegati ambiti senza scendere in conflitto con altre specie? Fattori determinanti sono senz’altro la folgorazione determinata dalle linee di alta tensione e la caccia. Le Cicogne bianche incontrano spesso i fucili lungo la rotta migratoria che le porta a svernare in Africa dove tra l’altro non trovano più cibo a sufficienza per la trasformazione di steppe e savane in coltivazioni trattate con pesticidi. Gli esemplari sopravvissuti, nella migrazione primaverile di ritorno, giungono pertanto nelle zone di nidificazione decimati e in condizioni fisiche non ottimali per iniziare la fatica della riproduzione.

Frasi per occhielli e boxini

Il Parco del Mincio ha consentito l’incremento di quasi 300 unità dal 1997, cioè dall’avvio del progetto di reintroduzione: 16 piccoli sono nati in provincia di Brescia e a Ravenna da cicogne liberate da questo Centro.

La Cicogna bianca è un patrimonio di tutti, tutelato in Europa dalle direttive emanate per conservazione delle specie selvatiche a rischio.

Due cicogne si sono conosciute in ritardo. Non portavano anelli ed erano presumibilmente selvatiche. Lei era arrivata nel nostro Paese a marzo, lui il 20 maggio. Hanno provato ad avere dei piccoli ma senza successo. Sono rimasti però insieme nelle nostre terre fino a ottobre poi – sempre insieme – hanno iniziato a migrare.

Una cicogna era nata da un nido costruito su un albero esterno del bosco Bertone nel Parco del Mincio. Era il 2006. E dopo tre anni è tornata nello stesso posto nel 2009, 2010, 2012, 2016 e 2017 per riprodursi. Quando non era qui, è stata vista volare – libera e felice – in diverse località sia Italia e sia altrove in Europa.

 

ALBUM FOTOGRAFICO

Foto di Marco Benedetti

Foto di Marco Benedetti

 

 

 

 

 

Foto di Michele Manara

Foto di Fabrizio Pasolini

Foto di Fabrizio Pasolini

Foto di Francesco Severi

Per gentile concessione a scopo divulgativo!

 

Un coppia di attori famosi...


A BORDO CON IL PILOTA. Libro di John GATTI

 

È normale elencare le qualità e i pregi di un prodotto ma, per non creare false aspettative, preferisco cominciare con il dire cosa non troverai in questo testo.

Quindi, cosa non c'è nel libro A bordo con il Pilota:

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A bordo con il pilota ha oltre 100 elementi grafici tra disegni  e foto. I primi curati da Garipoli Maurizio, Pilota del Porto di Ravenna, le seconde da Fabio Parisi, lupo di mare attraversato da vene artistiche profonde.

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A CURA DI MARE NOSTRUM RAPALLO

Webmaster Carlo GATTI

20 Giugno 2017