TORRE PILOTI NEI PORTI DEL MONDO
ALBUM FOTOGRAFICO
TORRE PILOTI NEI PORTI DEL MONDO
Lo scrittore J. Conrad definì il pilota:
- trustworthiness personified -
ovvero l'attendibilità in persona!
PORTI ITALIANI
TORRE PILOTI - VENEZIA (2 foto)
TORRE PILOTI - NAPOLI
TORRE PILOTI - TARANTO
TORRE PILOTI - GIOIA TAURO
TORRE PILOTI - LIVORNO
PORTI FRANCESI
MARSIGLIA Porto Vecchio - TORRE PILOTI
FOS - MARSEILLE
FOS
LE HAVRE
PORTOGALLO - LISBONA
BELGIO - ANVERSA
Port-House
GERMANIA
HAMBURG
Piloti HAMBURG
Piloti KIEL
STRALSUND
HANSEATIC PILOTS
SPAGNA
VALENCIA
LA CORUÑA
OLANDA
ROTTERDAM
SCANDINAVIA
MARSTRAND (SVEZIA)
ISOLA DI ÅLAND
Kobba-Klintar
COPENHAGEN (DANIMARCA)
GDANSK - POLONIA
PORTI INGLESI
SCOZIA
GREENOCK
ABERDEEN
SPITHEAD (U.K.)
HARWICH
Pilot arriving by helicopter at the rendez-vous
CALSHOT- HAMPSHIRE
ROGER STIRK HARBOUR
TOWER CLYDE
LIVERPOOL: Pilot Office-1883/1978
PORTSMOUTH
SPINNAKER TOWER
DOVER
TURCHIA
ISTAMBUL
CANADA
VANCOUVER
STATI UNITI
CAPE HENLOPEN DELAWERE
NEW YORK - STAZIONE PILOTI
HONDURAS
PUERTO CORTES
AUSTRALIA
SYDNEY
SOUTH AFRICA
PORT ELIZABETH
EMIRATI ARABI
KALIFHA
ARABIA SAUDITA
JEDDAH
CARLO GATTI
Rapallo, 2 dicembre 2016
DRAGUT e la vita di bordo delle galee nel secolo XVI
DRAGUT
la drammatica vita a bordo delle galee
nel secolo XVI
La vita di bordo delle galee era alquanto dura. Quanto ingrata fosse la navigazione sui vascelli mercantili in quell'epoca possiamo intuirlo da un manoscritto del prosatore spagnolo frate Antonio da Guevara, vescovo, cronista e membro del consiglio di Carlo I ('Gli inventori dell'arte del navigare e dei molti lavori sulle galere', pubblicato a Pamplona nel 1579) nella quale sono raccolti vari appunti sul suo viaggio a Tunisi avvenuto nel 1536.
Quanto al vitto il vescovo segnalava che: "...l'acqua pulita, fresca di buon sapore non si trova, mentre è presente un'acqua calda, torbida, fangosa e spesso fetida" mentre "...se i passeggeri chiedono di bere talvolta vino debbono tacere e far finta di niente, anche se annacquato, torbido, acido, marcio, poco e caro...E ancora sul cibo aggiunge "...E' privilegio della galera che la carne che han ordinariamente da consumare sia carne secca di caprone, frattaglie di pecora, vacca salata, bufalo pressato elardo rancido; il tutto meglio mezzo crudo che cotto, meglio bruciato che arrostito meglio poco che molto. Posta sulla tavola la carne deve muovere nausea solo a guardarla, essere dura come il diavolo a masticarsi, salata come rabbia per essere mangiata, indigesta come come pietre per essere digerita".
"E' privilegio della galera che se il passeggero desidera mangiare un poco di carne, manzo o capretto fresco, la debba comprare dai soldati che la ebbero a rubare oppure avventurarsi a rubarne "gli stesso..."
Ed ecco un suo appunto relativo al pane: "...si trovano biscotti neri e duri, pieni di vermi, spesso coperti di ragnatele e qualche volta rosi dai sorci; la carne per lo piú è mal cotta, più dura del legno e più salata del sale, piú difficile da digerire che non una pietra".
Tornando al vitto, col nome biscotti si intendevano le gallette e, all'uopo, negli angiporti, c'erano appositi forni specializzati per quel tipo di panificazione destinata alle navi.
Il cibo era pressoché identico in tutte le marinerie dell’epoca e, ad esempio, la Repubblica di Genova passava ai suoi galeotti una razione di biscotto, dure gallette di circa mezzo chilo: in parte sotto forma di minestra a base di 'massamoro', un pastone di gallette polverizzate e, le restanti, intere.
La razione restava invariata sia d’estate sia d’inverno e in più, due volte il mese, era servita una minestra di riso, fave e olio, che veniva arricchita nelle festività, con l’aggiunta di una libbra di carne, 300 grammi circa, e un boccale di vino da 73 centilitri.
Un altro esempio? Vediamo come erano trattati i rematori.
Durante le battaglie dovevano restare incatenati e vogare secondo gli ordini, così da collaborare a facilitare le manovre per vincere e, se qualcuno di loro fosse stato ferito, per non sovrastare con i suoi lamenti gli ordini urlati dai responsabili, gli veniva infilato in bocca un grosso tappo di sughero.
Ecco un estratto di alcuni capitoli estrapolati dal volume di Emilio Carta "DRAGUT: le avventure dell'ammiraglio pirata nemico acerrimo di Andrea Doria" e legati al mare nel XVI secolo: come era la vita di bordo degli schiavi legati ai remi, come e cosa si mangiava e tante altre curiosità di sicuro interesse per il pubblico.
Dragut è stato un personaggio importante nello scacchiere mediterraneo di quei tempi e un grande rivale di Andrea Doria ed Emilio Carta ha effettuato una seria ed attenta ricerca storica, anche attraverso diverse fonti turche, aggiundovi curiosità e aneddoti rivalutando insomma Dragut cui, per troppo tempo, è stato riservato un ruolo generico di pirata tout court. Sono convinto che sabato pomeriggio sarà una conversazione divertente".
Emilio CARTA
Rapallo, 31.12.2015
TEMPO DI GUERRA... amarcord 3
TEMPO DI GUERRA
AMARCORD ... 3
La mia guerra fra Prà e Pegli
Dal libro < Liguria amore mio> di Renzo Bagnasco. Mursia Editore. Capitolo X
Il giorno in cui fu dichiarata l’ultima guerra ero, con la famiglia, in villeggiatura a Visone, un paesino vicino ad Acqui Terme; sentimmo l’annuncio, anche se di quel messaggio io capii ben poco. Dall’evidente immediata preoccupazione dei miei genitori e dall’improvviso silenzio che piombò nelle vie del piccolo borgo, in contrasto con il clangore che dalla Piazza di Roma la radio faceva arrivare sino a noi, avrei dovuto capire che qualcosa di grave stava succedendo ma, si sa, i ragazzi, privi d’esperienze di riferimento e sensibili solo alle cose che vedono, non avvertono il pericolo se non quando ormai lo stanno correndo.
Mio padre, che aveva combattuto nella prima guerra mondiale e mia madre, che quella guerra l’aveva subita, compresero subito il dramma; io ci arrivai solo dopo qualche anno.
La prima reazione dei miei fu di ritornare subito a casa come se, una volta là, fossimo al sicuro; ma la “tana” é pur sempre, in emergenza, il luogo istintivamente più protettivo in cui rifugiarsi.
Trascorso il primo anno, la guerra promessa come veloce e facilmente vincibile, si rivelò, per chi sapeva esaminarla obiettivamente, aver preso ben altra piega. A mano a mano che il tempo passava, sempre più frequentemente si sentiva riferire da conoscenti che loro amici, rientrando dal fronte di guerra per curarsi da ferite sofferte o per una convalescenza seguita a quelle, riportavano notizie d’enormi inspiegabili sbagli, di presunti sabotaggi perpetrati dai nostri contro i nostri combattenti e di un’allarmante generale impreparazione.
Tutte queste cose contrastavano con quanto quotidianamente si sentiva dalla radio o io leggevo sul giornalino il <Balilla >, che il “regime” distribuiva nelle scuole; però anche sul <Vittorioso >, Romano vinceva sempre.
Ben presto, la mamma, sorella di un “marcia su Roma” e promotrice essa stessa di una colletta per erigere, nel suo paese natale, un monumento al fante italiano caduto per la Patria nella prima guerra, cominciò a disapprovare quello che stavano facendo i nostri governanti; come tutte le madri aveva intuito, per istinto, che la strada imboccata era quella sbagliata.
I versi che Vito Elio Petrucci ha voluto dedicarle, mi pare centrino il personaggio:
….a cammin-na in to tempo
comme’ na ciossa attenta
a-e vire do farchetto….
Libera traduzione: …e cammina nel tempo come una chioccia attenta ai volteggi del falco…
Mio padre, questa nuova guerra non la capì mai perché era partito, nel 1915, volontario in marina per combattere e vincere, come fece, i tedeschi; a lui che per onorare la parola una volta data era disposto a tutto, non andava proprio giù doverli accettare adesso come alleati. Così facendo avrebbe dovuto considerare nemici da combattere, i figli di quelli che, ventitré anni prima vide arrivare da altri continenti per dargli una mano e molti morire al suo fianco mentre, assieme, combattevano l’austriaco nemico comune.
Credo che questo fosse lo stato d’animo di molti italiani, sicuramente di quelli che, da sempre, rappresentano la maggioranza silenziosa, nel subire la tragedia che ci coinvolgeva.
Noi ragazzi scoprivamo le cose giorno dopo giorno, maturando più in fretta di quanto non lo avesse fatto la generazione che ci aveva preceduto e certamente più di quella che, dopo poco, ci seguì e così le successive; c’entusiasmavamo ad ogni atto eroico del “Balilla” di turno, colpiti anche dalle illustrazioni sempre puntuali d’Achille Beltrame sulla <Domenica del Corriere >, una specie di C.N.N. di allora, non certo per la tempestività dell’informazione ma per la dovizia di particolari disegnati che facevano rivivere al lettore la drammaticità dell’episodio evocato.
A fronte delle festanti “oceaniche” adunate, documentate dalla stampa e dal cinegiornale Lux, contrastavano gli improvvisi, disperati scoppi di pianto in casa dei vicini, dopo che un carabiniere n’era uscito frettolosamente; qualcuno doveva pur portare le ferali notizie. Sempre più andavo prendendo coscienza che il tutto non fosse un gioco.
Le notti poi, destati di soprassalto dal lugubre ululato delle sirene d’allarme, bisognava fuggire nei rifugi antiaerei, veri e propri cantieri mai finiti, sommariamente avvolti in coperte e con in gola l’immancabile alitosi sulfurea dovuta alla levataccia che interrompeva la digestione; ad ogni incursione aumentava sempre più la gente che ricorreva alle gallerie-rifugio, assolutamente inadatte perché ancora in costruzione. Era gente tremante, infreddolita e rannicchiata in quegli acquitrinosi cantieri, mentre il cielo si rischiarava, a sprazzi, per i laceranti, fragorosi scoppi delle cannonate della contraerea. Tutte queste cose innescarono paure mai più sopite; ancor oggi continua a mettermi a disagio il sentire lo scoppio lacerante del “colpo tonante” che avverte della fine dei fuochi d’artificio, sparati in occasione di feste patronali.
A noi però bastava una successiva giornata di sole per dimenticare, apparentemente, la squassante notte, ma non così per gli adulti che assommavano alla loro, anche la paura per la nostra incolumità, con davanti, ogni giorno, sempre più nere prospettive.
Il 25 Luglio del ‘43 ed il successivo 8 Settembre, sconvolsero la vita della mia famiglia; l’alleato tedesco, sentitosi tradito dai nostri governanti, si tramutò di colpo in aguzzino, cercando di evitare che il soldato italiano gli sgusciasse fra le grinfie, rivestendosi in borghese con abiti rimediati, aiutati in ciò dalla popolazione e per di più convinto, visto che nessuna autorità lo smentiva, che la guerra fosse davvero finita e, comunque, da sfuggire. Non voleva essere lui a pagare le colpe di codardi pasticcioni che in quel dramma ci avevano trascinato e poi, felloni, erano fuggiti lasciandoci soli e senza guida.
Era obiettivamente difficile capirci qualche cosa; noi ormai parteggiavamo per quello che, ufficialmente, avrebbe dovuto essere ancora il nostro nemico.
Ascoltavamo i suoi notiziari, diffusi da Radio Londra nel buio della sera; si cercava di captarla, sintonizzandosi sino a che non si sentiva l’inconfondibile lugubre ripetitivo tambureggiare che segnalava l’inizio del notiziario, subito seguito dalla trasmissione vera e propria che, ancorché disturbata dalle interferenze emesse dalla censura fascista, riuscivamo, in qualche modo, a sentire, compreso i criptici <messaggi speciali > che l’emittente mandava in onda in chiusura e rivolti ai partigiani per coordinarli; ognuno di noi, sentendoli, li interpretava a modo suo, decifrandone ad orecchio l’astruso significato.
Erano i nuovi alleati che, da nemici, erano tornati amici come nel ’15 -’18, anche se continuavano a bombardarci o tenerci svegli con il loro onnipresente “Pippetto”, l’estenuante ricognitore De Havilland “moschito” costruito per non essere facilmente individuabile da eventuali radar che noi non avevamo e idoneo al volo notturno.
Mio padre, non avendo aderito alla causa fascista, non trovava facilmente lavoro e, buon per noi che, almeno alla fine ci sia riuscito, rimediandone uno insolito e “asettico”; poco prima dello sfascio nazionale, lo accettò anche perchè fuori Genova: il cercatore d’oro alle Ferrere, due cascine poste sopra il lago di Lavagnina, nella zona di Lerma, ad Ovada. Và anche detto che quelle miniere erano già state sfruttate e abbandonate dalle legioni romane e, poi, dai napoleonici.
Solo ora capisco che la società che gli garantì il lavoro, sicuramente aveva, all’italiana, trovata la strada per ottenere un qualche finanziamento per il recupero e la riattivazione di vecchie miniere d’oro, nell’intento, ormai vitale, di procurare nuove ricchezze da buttare nel divorante crogiuolo della guerra.
Per la verità, d’oro se n’estraeva una quantità ininfluente, ma evidentemente sufficiente ad ottenere nuovi finanziamenti, specie se elargiti da mano compiacente. A tutte queste cose però all’epoca nessuno pensava e, meno che meno, mio padre che, concordato lo stipendio, si buttò nella nuova avventura con l’entusiasmo che lo contraddistinse in tutte le sue intraprese che, prima di tutto, per attirarlo dovevano stimolarlo. Molto giocò sulla scelta il fatto di poterci portare lontano dai pericoli insiti nel restare a vivere in Città.
Mi ricordo di quando si inventò un’attività, sempre per cercare di sbarcare il lunario durante il conflitto senza dover arrivare a compromessi con le sue convinzioni contrariamente a molti suoi colleghi che invece lo fecero ritrovandosi, alla fine, ricchi e incensurati. Il suo atteggiamento d‘allora, ancor oggi condivido. Ma torniamo alla nova iniziativa: si mise a rigenerare le lime perchè durante quegli anni terribili non si trovava quasi nulla, essendo tutto finalizzato alla produzione bellica. Immaginarsi quindi l’acciaio che era divenuto, al di fuori del giro bellico, introvabile per chi, artigiano, lavorava senza poter accedere alle “commesse” militari. Realizzò dei vasconi di legno che riempì con soluzione elettrolitica e, nei quali immergeva vecchie lime usurate; la corrente galvanica che le attraversava, corrodeva uniformemente le superfici esposte, rimodellando in qualche modo le asperità iniziali. Meglio che niente!
Tutta la famiglia, non appena noi figli terminammo il lacunoso anno scolastico, frequentato a singhiozzo fra un allarme aereo ed un bombardamento, si trasferì nel basso Piemonte a Cravaria, ai piedi delle Ferrere e poco prima della diga che formava il lago della Lavagnina, zona lontana dalle incursioni e che, essendo agricola, garantiva la farina, il latte delle vacche locali ed un forno a legna per cuocervi del pane casereccio e potervi arrostire la selvaggina che mio padre, abile cacciatore, ci procurava. Per noi ragazzi tutti quei prati da potersi godere in assoluta libertà ci facevano scoprire un’indipendenza inattesa; la fantasia era poi stimolata da dei grandi cumuli di sassi, ancor oggi esistenti, ammonticchiati lungo il fiume da generazioni successive di cercatori d’oro, che immaginavamo rovine di vecchi castelli, crollati sotto i nostri assalti. E’ paradossale ma in tempo di guerra si gioca alla…..guerra.
Lì ci sorprese l’8 Settembre del 1943.
Con mio fratello, dopo aver procurato ai pochi soldati italiani presenti in zona a protezione della menzionata diga, degli abiti civili per consentir loro di tornare alle rispettive case, andammo ad ispezionare le due batterie di mitragliatrici pesanti antiaeree, sistemate ai lati di quello sbarramento e proprio sopra la casa del guardiano. Arrivati, anche se non molto pratici, c’industriammo per sabotare quelle armi e, tanto toccammo e girammo, che riuscimmo a smontarne tutti gli otturatori, gettandoli poi nel sottostante lago assieme alle cassette contenenti i pezzi di ricambio. Convinti di non essere stati visti da alcuno, dopo l’irreparabile sabotaggio rientrammo a casa senza far menzione della nostra impresa; purtroppo le cose non andarono lisce come noi pensavamo. Il guardiano pare ci avesse visto e subito riferì ai suoi superiori; questo è almeno quello che ci siamo sempre sforzati di credere per scartare la delazione politica, che ci avrebbe visto, all’epoca, nei panni di vendicatori impietosi.
Fatto si è che due giorni dopo una colonna militare motorizzata, composta di quattro o cinque mezzi tedeschi, sbucò dalla polvere sollevata dalla strada di terra battuta che arriva da Lerma, fermandosi al bivio di Cravaria davanti all'allora nostra casa; ancor oggi, proseguendo in piano, si va alla centrale elettrica mentre, salendo, si arriva alla diga.
Mia madre, alla quale avevamo poi raccontato quel segreto per noi troppo grande, seguì, celata dalla tendina, i movimenti di quei militari, cercando di capire, attraverso gli atteggiamenti e i gesti, quali ne fossero le intenzioni. Dalla prima anfibia, che seguiva la staffetta in moto, dopo un concitato parlottare e sbattere di tacchi, si staccò un Maresciallo dei Carabinieri, certamente guida e interprete, che si diresse senza titubanze verso di noi e bussò alla porta.
Facile immaginare l’effetto che quel battere fece su tutti noi; quando mia madre aprì, papà era per fortuna a lavorare, credo le si leggesse in viso tutto il dramma. Il Maresciallo, usando un linguaggio volutamente burocratico, fece finta di non averci identificati ma ci fece chiaramente capire che sarebbe stato meglio, anzi, molto meglio se quando fossero ritornati dalla loro ispezione, dopo aver attinto maggiori notizie dal guardiano delatore, non ci fossimo fatti più trovare. Per il momento avrebbe preso tempo, riferendo che non gli eravamo sembrati i ricercati.
Sono convinto che la nostra famiglia gli debba la vita; da quel giorno ho capito perché l’arma è nota anche come “Benemerita”. Quel sant’uomo, che non abbiamo mai più rivisto, speriamo non abbia pagato con la vita, altri gesti di generosità compiuti, come questo, per puro altruismo.
Tornati a Pegli, per noi ragazzi ci fu un solo scopo; continuare a fare quello che iniziammo lassù. C’intrufolammo fra i tedeschi che occupavano la zona, giocando alla guerra con divise e finte armi simili alle loro ma da noi confezionate, in modo da accattivarci le loro simpatie; alcuni erano padri e altri addirittura nonni, richiamati alle armi come truppe d’occupazione, così da liberare i loro giovani per poterli mandare a morire al fronte.
Di loro mi è rimasto l’acre afrore del sego, largamente usato per mantenere morbidi gli stivaletti e le pelletterie, parte importante dell’abbigliamento e l’insolito gusto e odore della loro gialla margarina spalmata sullo squadrato, acidulo pane di segale. Da queste frequentazioni ricavammo la notizia che stavano ultimando di minare i sentieri e i dintorni che portavano alla batteria contraerea della Bastia, posta sulla punta del colle che accoglie la Torre Cambiaso, a Prà, subito a ponente di quella della Marina installata sul Castellaccio, una collina che sovrasta il Lido di Pegli.
Decidemmo di “dare una mano agli alleati” anglo-americani, sminando quei sentieri. Il pomeriggio stabilito mio fratello, il cucino Franco ed io c’intrattenemmo, più a lungo del solito in modo che, al primo buio, anziché tornare a casa, avevamo informato i nostri ignari genitori che saremmo rimasti più tempo colà, c’inerpicammo per le “fasce” per raggiungere la zona prefissata.
La luce della luna, sbucando ogni tanto fra le smagliature delle nuvole che correvano veloci sfilacciate dallo scirocco, rischiarava ad intermittenza non prevedibile, la zona, stagliando, ogni volta contro il cielo scuro, ma non del tutto nero, la sagoma della sentinella armata che, alla sommità della collina, faceva la guardia girando fra le varie piazzole della batteria camminando sul basso muretto che le contornava. Noi, inerpicandoci dal di sotto, eravamo nascosti alla sua vista dalle lunghe ombre dei cespuglietti mentre, lei, era visibile ogni volta che ispezionava quelle proprio sopra di noi; raggiunto il sentiero, avanzando carponi, dovevamo innanzi tutto capire dove e com’erano state sotterrate le mine antiuomo, congegni anch’essi a noi sconosciuti. Più tardi scoprimmo che erano scatolette di legno con, appena appoggiato sopra, un coperchio mobile e imbottite d’esplosivo; pigiando inavvertitamente con il piede sul coperchio, questi si rincalcava sulla scatola sfilando la sicurezza che tratteneva la molla con il percussore che, colpendo il detonatore, innescava l’esplosione.
Camminavamo gattonando in fila indiana; il primo sondava con un bastoncino di legno il tratturo antistante nel tentativo di scoprire almeno un po’ di terreno smosso; al primo indizio, scavammo con delicatezza e vedemmo che avevano sotterrata quella mina vicina al ciglio esterno dello stretto percorso, mentre, al centro, la terra appariva compatta; lentamente, con le mani la dissotterrammo scoperchiandola, così da evitarci brutte sorprese in caso d’inavvertita pressione.
Chi la scavò la passò, aperta, a chi lo seguiva e, da questi, una volta neutralizzato il percussore-detonatore, al terzo che doveva riporla in un sacco. Riprendemmo, sempre acquattati, a ricercare la seconda; impresa non facile per chi, come noi, non aveva la più pallida idea di come le avessero dislocate. Bisognava, ad ogni bagliore di luna, individuare altra terra smossa, prima di poter avanzare o appoggiare le mani su un territorio così infído; occorreva anche controllare che la sentinella non ci scorgesse, ogni qual volta il suo ripetitivo giro di ronda la portava sopra di noi.
Finalmente ecco la seconda mina; era occultata alla base della scarpata, dalla parte opposta della prima, sul lato verso monte del sentiero, ma mezzo passo più avanti della prima trovata; fu facile poi scoprire lo schema perché le avevano seppellite a scacchiera lungo i lati del percorso, distanziate dello spazio di un normale passo, lasciando invece accessibile il centro. Trovata la chiave, proseguimmo estraendo la terza e poi la quarta; la quinta, nel passarcela di mano, sfuggì alla presa.
Trattenemmo il fiato mentre la scatoletta, per fortuna senza più il coperchio che, rotolando, avrebbe potuto far scattare il percussore nel bel mezzo di un campo minato, ruzzolava balzellando lungo la scarpata. Morti di paura ad ogni suo cozzare contro un ostacolo, la seguivamo senza neppure più respirare; finalmente si fermò e, tutto quello che a noi sembrò un trambusto, non fu avvertito dalla sentinella che si trovava in quel momento, evidentemente, dalla parte opposta. Senza parlarci ma con gli occhi dilatati, decidemmo di abbandonare l’impresa e, quatti quatti, tornare a casa.
Finita la guerra, solo vedendo i film sui marines intuimmo il perché di quell’inspiegabile posizionamento; vedemmo che abitualmente avanzavano in fila, camminando sui cigli, così da lasciar sgombra la corsia centrale per usi di servizio ed, in oltre, in caso d’attacco aereo era più facile sottrarvisi, buttandosi al riparo delle scarpate, piuttosto che rimanere facile bersaglio, visibile a centro strada.
Naturalmente, come capita ai ragazzi, una volta che scoprimmo il “giochino” ne scemò anche l’interesse e non vi ritornammo più; la paura del pericolo scampato non c’influenzò più di tanto, perché solo ora ne capiamo il vero rischio di quello che, all’epoca, ci sembrava un eccitante gioco.
Per fortuna gli alleati non aspettarono il nostro contributo per venirci a liberare.
Nel frattempo, eravamo agli inizi del ’44, alla Lavagnina e dintorni, molti ragazzi genovesi in età di leva, vi si rifugiarono per non partire per il fronte, essendo voce comune che la guerra, ormai definitiva persa, da lì a poco, sarebbe finita; l’idea di <resistenza > venne dopo, anche se proprio in quel periodo iniziarono a coagularsi le Brigate partigiane, che capitanate da ex ufficiali dell’esercito italiano cominciarono a darsi un’organizzazione, collegandosi con gli alleati.
La presenza in zona di sempre più numerosi “renitenti” che i nazisti chiamavano “banditi”, non passò inosservato ai tedeschi sino a che, un brutto giorno, una nutrita autocolonna risalì quelle strade, non più accompagnata da comprensivi Carabinieri ma, questa volta, spalleggiata dalle squallide Brigate Nere con il compito di fare piazza pulita di tutti quei giovani disarmati. Fu una carneficina; un folto gruppo fu tradito dal fanciullesco attaccamento ad un cagnolino randagio, che, adottatolo, portarono con loro a nascondersi nel buio delle gallerie delle miniere d’oro, i cui lavori, ripresi da mio padre, erano nuovamente sospesi per il precipitare degli eventi. Al vociare dei perlustratori, il bastardino iniziò ad abbaiare, tradendo il gruppo. Nessuno si salvò.
Un altro, studente di medicina all’Università di Genova, fu ferito in un bosco, di là del fiume, proprio davanti a Cravaria e lì dovette morire dissanguato, fra lamenti strazianti, perché fu proibito ai contadini di portargli soccorso; la prima a scoprirlo fu un'anziana pia donna, tale fu davvero la pietosa signora Volpe, che sino a che il giovane era in vita, nonostante le lacrimevoli perorazioni, non riuscì ad impietosire il responsabile di quella carneficina. Solo quando, dopo quarant’otto ore, la voce non si avvertì più, le fu concesso di avvicinarsi al corpo di quel martire che, a furia di sfregare la nuca a destra e sinistra per il dolore, aveva lasciato nel terreno un incavo.
Mi piace pensare, e questo ho sempre detto ai miei figli, che anche da quella piccola cavità, sia germogliato l’albero della nostra libertà.
Dovettero passare molti anni per non sentire più, nelle notti di vento, quelle strazianti invocazioni di soccorso, inutilmente emesse da un giovane, non ancora ventenne, rimasto anonimo e che non accettava una morte così atroce ed inutile.
Tutti quei giovani, anche quelli i cui nomi non sono incisi nel marmo, ma che egualmente caddero, sparpagliati, nelle zone vicine, sono e debbono essere accomunati con i <Martiri della Benedicta >.
Ogni qual volta ritorno in quella vallata salendo da Lerma, fermo la macchina poco più avanti del bivio con Casaleggio e, nel silenzio di quei luoghi non frequentati, nell'ascoltare dall’alto lo sciacquio del sottostante torrente Lavagnina, penso a quanto scrisse il poeta Edoardo Firpo né <Ai Martiri di Crovasco >
………………………………
Ma in ta gran paxe di monti
se sente l’eco de l’aegua
lontan ch’a-i ciamma, ch’a-i ciamma.
Libera Traduzione: ■ Ma nella gran pace dei monti si sente l’eco dell’acqua lontana che li chiama, che li chiama.
In quel periodo, noi tre, sempre più affiatati, eravamo consapevoli di appartenere alla medesima “banda”; nonostante imbevuti di spirito patriottico che, come Balilla, c’era stato inculcato il senso dell’onore e della patria, come per tutti i ragazzi, la libera “banda” d’appartenenza, era cosa più importante. Certo una mano ad alimentare il nostro disincanto ce la davano, senza saperlo, anche i famigliari, evidenziando gli errori che commetteva chi governava l’Italia in quei tempi.
Il termine <partigiano > cominciò a circolare poco dopo, anche se loro, per i nazisti e per i residui fascisti erano ricercati, lo abbiamo già visto, come <banditi>; a noi, tali non parevano e fu quindi naturale che il nostro giovanile spirito di contraddizione ce li facesse, al di là delle nostre convinzioni, ammirare; decidemmo di stare con loro visto che molti di loro erano nostri amici anche se un po’ più anziani di me. La ricostituzione dell’esercito italiano dopo l’otto Settembre, avvenne al Nord, sotto il pungolo e il controllo nazista che, allo scopo, manovrava i fascisti aderenti alla appena inventata Repubblica di Salò; crearono reggimenti che, almeno nel nome, usurpavano pagine di gloriose eroiche epopee passate, nella vana speranza di accattivarsi le simpatie del popolo. Ricostituirono così gli alpini, gli assalitori di marina, la X MAS ed, in fine, i bersaglieri.
Contemporaneamente un altro esercito si era ricostituito sotto l’egida alleata e capitanato dai vecchi comandanti, iniziò, al fianco di quelli, a risalire l’Italia per liberarla. Di loro e di tutti i loro morti, la strumentalizzata propaganda del dopoguerra non ne parla mai, così come non menziona mai i seicentomila militari italiani lasciatisi marcire nei lager nazisti pur di non aderire al nuovo governo fantoccio che continuamente li blandiva assicurando loro una mendace libertà. E si che gli uni e gli altri sono stati, a tutti gli effetti, combattenti e morti per la nostra libertà, quindi dovrebbero essere commemorati ogni qual volta si parli di Resistenza. Ma si preferisce esaltare chi molto spesso occupò le città solo dopo che i tedeschi occupanti se ne erano andati, vedi Genova e Milano.
Al confine fra Prà e Pegli, nella grande area delle ex ferriere Ratto, poi divenuta ILVA, c’erano dei capannoni abbandonati con un gran piazzale che li univa, attraversato e servito da binari dell'abbandonata rete ferroviaria interna che, un tempo, collegava il vicino pontile sul mare cui attraccavano i battelli che fornivano il minerale ferroso, alle fonderie e, da queste, alla rete ferroviaria nazionale. Queste peculiarità fecero sì che tutti gli eserciti che si sono succeduti, utilizzassero il sito come prima zona d'accorpamento e successivo smistamento. Iniziarono i tedeschi che la occuparono in forze così come fecero con il resto dell’Italia non ancora liberata dagli alleati; poi, ricostruito l’esercito italiano fantasma, vi acquartierarono i giovani di leva, chiamati a difendere il nuovo regime, ma che non avevano però pienamente aderito da poter essere inquadrati fra le forze fasciste, tipo Brigate Nere o Muti. A loro bastava non essere considerati renitenti.
Furono accorpati in un raccogliticcio reggimento di bersaglieri e, proprio lì, completavano il loro addestramento; n'approfittarono anche per utilizzarli, come comparse, in documentari cinematografici che il regime faceva “girare” nei boschetti di Villa Doria a Pegli, ambientandovi improbabili azioni anti-partigiane che, distribuiti nelle sale cinematografiche sotto il loro controllo, dovevano figurare essere avvenute sul serio e in montagna.
Quando toccò il turno degli Alleati, anche loro la requisirono per mettervi a riposare, nell'attesa d'ordini, i loro uomini stanchi del fronte. Noi della “banda”, a quel tempo, abitavamo in quella che era stata una vecchia masseria dei Marchesi Cambiaso, proprio al di qua del muro di cinta di quel piazzale e non potevamo quindi che subire l’influenza e il fascino di tanta variegata umanità in divisa.
Durante l’occupazione dei bersaglieri e della Wermach, quel parco ferroviario con annesse officine, divenne luogo ove raggruppare per effettuare riparazioni e manutenzione, treni ricolmi di mezzi cingolati avariati sui vari fronti; un giorno arrivò un convoglio stracolmo di carri armati leggeri italiani, nuovi di fabbrica, con la tipica mimetizzazione da utilizzarsi nella guerra d’Africa; peccato però che nel frattempo l’avevamo già persa unitamente al Sud e al Centro d’Italia.
Di notte il treno era minuziosamente sorvegliato mentre, di giorno, vista la contemporanea presenza di tanti militari, aveva fatto ritenere superfluo un tale impegno. Nell’ora del rancio, mio cugino Franco, senza avvisarci, salì su di un vagone, s’infilò nel carro armato più vicino al gran cancello in disuso, arrugginito, rabberciato e utilizzato solo raramente come uscita d’emergenza dei treni. E’ poi rimasto un mistero come, lui ragazzino, possa essere riuscito, ci disse di essersi aiutato utilizzando gli attrezzi in dotazione al carro trovati all’interno, a smontare e trascinare fuori la mitragliatrice che affiancava il cannone, il cui peso è elevato; basti pensare alla canna esterna che, per proteggerla dalle armi nemiche, era costruita con esuberanza di acciaio. A cose fatte ci venne a chiamare e, poco prima del coprifuoco, allora ormai in vigore, andammo a prelevare l’arma da lui sommariamente nascosta, per riporla nel nostro nascondiglio segreto che, ben presto, si riempì d’armi d’ogni tipo, tutte sottratte a quello che, nel frattempo, era divenuto il nemico della nostra “banda”.
Tutta quest'attività non poteva poi che sfociare nelle Squadre d'Azione Partigiana, nel frattempo formatesi e operanti in Città in appoggio coordinato con i partigiani sui monti; l’unico rammarico fu che, solo mio fratello, il più anziano dei tre, fu accolto nel locale 334 Brigata Partigiana di Prà. La nostra “banda” però continuò ad operare come prima ma, adesso, fiancheggiando chi si era prefissata un’azione orientata al bene comune; questa decisione ci diede la prima vera responsabilità.
Senza saperlo avevamo dato l’addio al ragazzino che ormai non era più in noi.
Renzo BAGNASCO
Rapallo, 17 Aprile 2014
LA FOCACCIA SA DI MARE ...
LA FOCACCIA SA DI MARE …
PREMESSA:
Regione che vai, focaccia che trovi!
Non c’è angolo d’Italia che non abbia una sua specialissima e tradizionale focaccia da gustare lungo la strada, a casa, ovunque…
In Italia se si vuole gustare una focaccia non c’è che l’imbarazzo della scelta e le varianti sono davvero numerose. Qualche esempio? La focaccia alla genovese, la focaccia di Recco, la schiacciata, la pinza veneta, la pinsa romana, la stria emiliana, lo gnocco al forno con ciccioli, la focaccia di Susa, quella barese e quella messinese, la crescia marchigiana e umbra, la pitta calabrese, la puccia salentina e chi più ne ha più ne metta.
Tra le specialità più amate della Liguria c’è senza dubbio la famosa focaccia alla genovese (in dialetto fugàssa). Prima dell’ultima lievitazione questa focaccia viene spennellata con un'emulsione composta da olio extravergine d’oliva, acqua e sale grosso. Nei forni liguri si trova anche la focaccia di Recco, preparata con una sfoglia sottilissima ripiena di formaggio fresco. La specialità, che ha conquistato il marchio di Indicazione Geografica Protetta, risalirebbe al XII sec. C’è anche la focaccia di Voltri che ha gli stessi ingredienti della classica di Genova, ma la consistenza dell’impasto e la sua cottura sono diversi.
Dopo la consueta premessa, il lettore avrà capito la “rotta” che faremo e dove andremo a dare fondo l’ancora…
Quando verso le 05 smontavo dal turno di notte in porto, era ancora troppo presto per tornare a casa, svegliare Kendo, il nostro Akita Inu, che a sua volta avrebbe svegliato mia moglie e i nostri quattro studenti...
Era meglio soprassedere onde evitare “cagnare” nel vicinato infine, sarebbe stato più divertente svegliare la truppa con il profumo della focaccia con la cipolla sotto le narici…
L’alternativa era sempre molto attraente: si trattava di ripetere un “pellegrinaggio” costiero ormai collaudato da anni, il Tour della focaccia a tappe che si snodava al buio per 30 km lungo l’Aurelia fino a Rapallo.
Se smontavo di guardia dal Porto Petroli di Multedo andavo addirittura qualche chilometro nella direzione opposta fino a Voltri, presso il famoso panificio Priano: un mito sacro per gli amanti della focaccia alla genovese tradizionale e con la cipolla, la mia passione!
Se invece smontavo dal Porto di Genova facevo tappa da BRI, a pochi metri dalla spiaggia di Priaruggia per l’incontro settimanale o quasi con il panettiere Giuan e qualche gabbiano nella baia. Era sempre buio e tra noi ed il solito guardiano notturno che chiamavo “baffo”, per ovvi motivi, si era stabilita una simpatica complicità, anche perché eravamo gli unici esemplari viventi in posizione eretta tra 600.000 genovesi allungati…
Conoscendo l’orario della prima sfornata, mi presentavo al momento giusto per ritirare il mio primo chilo di focaccia “bionda” con la cipolla, ma era pronto anche il secondo chilo di quella tradizionale che avvolgevo nella carta gialla tradizionale e poi in un plad per mantenerla al caldo; belin! riflettevo tra me: “ma guarda un po’ come li ho viziati questi gattini!”
La nostra cambusa di casa, finalmente, cominciava a stivarsi di roba buona! A parte mi facevo allungare due etti di “bionda morbida” che divoravo insieme a Giuan.
La focaccia con la cipolla va innaffiata col bianchino ed il mio amico, in cambio di un paio di pacchetti di Marllboro ricevute in regalo da un Comandante soddisfatto della manovra, mi allungava un gotto di quello buono di “Coronata” che teneva sotto il banco…, si brindava al GENOA e alla salute dei nostri vecchi.
Ora vi é persino più facile capire quanto fosse giustificata quella sosta notturna al termine di una tirata di 24 ore di sali e scendi dalle biscagline delle navi!
Devo solo aggiungere che quella piccola “crociera” era un rito famigliare, simile ad una nuotata nell’azzurro mare o nella piscina sotto casa in cui vedi o sogni un altro mondo perché sai che l’altro sta dormendo!
Uscivo dal negozio ma non riuscivo a staccarmi fisicamente da quella baia, e con la complicità delle note di Bruno Lauzi m’intrattenevo ancora un po’ con i gabbiani che non disdegnavano il lancio di piccoli bocconi di focaccia impregnata di olio buono; quella con la cipolla non la volevano, forse sentivano che non gliela avrei mai data…
Il più aggressivo e sfacciato lo chiamavo “gundun” e quello che invece si faceva fregare il boccone era u “belinun” di turno, e così lo chiamavo. Abitavano lì da sempre per abbellire l’alba e animare le giornate invernali, erano sempre gli stessi, mi conoscevano bene e leggevo nei loro occhietti il desiderio che fossi sempre di notte. Si sentivano i custodi di quel piccolo paradiso ai confini della Grande Genova.
Priaruggia di notte
ANCHE LA FOCACCIA HA LA SUA STORIA
Congedandomi dai miei amici di Priaruggia, Giuan mi diceva sempre la stessa frase: “Salutami la concorrenza” – “Gente de Rivëa, gente de galëa!”
Sapeva che la tappa successiva era Recco dove mi sarei tuffato su un paio di chili di focaccia col formaggio …
Una volta gli raccontai la vera storia da “fugassa rechelinna”: “Chissà quante volte l’hai mangiata quella di Recco, ma forse non conosci la sua origine: la focaccia di Recco nacque nel XII secolo, o meglio, a quell'epoca risalgono i primi documenti che parlano di questa specialità gastronomica.
Come veniva impiegata? Ebbene, sembra proprio che a fugassa de Recco venisse offerta ai crociati in partenza per la Terra Santa. Ma c'è anche chi dice che questa ricetta semplice e genuina fu "ripescata" nel '500 quando - a causa delle invasioni dei saraceni - la popolazione di Recco era costretta a rifugiarsi sulle alture, sopravvivendo con poche provviste e tanta fantasia. Ma non mancano altre testimonianze che risalgono alla letteratura del XIX secolo”.
“ Amiâ Charly che quelli de Recco no dàn un belin a nisciun. Ti pàrli de musse a mi che n’ho faeto di libri…”.
Giuan era il tipico personaggio da caroggi, schietto e genuino e ci soffriva che la sua focaccia col formaggio non fosse da me apprezzata come quella di Recco.
Non siamo qui per fare la réclame ai panifici nostrani tuttavia, chi legge ha anche il diritto di sapere chi merita almeno un sincero ringraziamento per la dedizione e indubbia capacità di realizzare focacce che portano il marchio della Riviera di Levante nel mondo.
Siamo a Recco per la penultima tappa presso il Panificio MOLTEDO, il quale é soprattutto celebre per la focaccia col formaggio.
Prima di lasciarvi in compagnia di chi ne sa più di me, cioè del Consorzio Recco Gastronomia, posso assicurarvi che esistono privati cittadini che nelle loro ville tra Recco e Camogli s’improvvisano focacciai di primissimo ordine, in quanto portatori di segreti orali che si tramandano da padre in figlio da secoli, senza comunicazioni con l’esterno… Tra questi vi é un mio carissimo Amico, un Comandante-Pilota di navi che tutti conoscete, ma che evito di rendere pubblico perché, come dicono i camoglini, maniman….. che esprime un concetto intraducibile!
SOSTA “NON FOCACCIERA” A SAN LORENZO DELLA COSTA
Isola del Tino - Faro di San Venerio
La tappa successiva non posso definirla tale perché si tratta soltanto della sosta doverosa del marinaio, una specie d’inchino al MARE ed ai suoi abitanti. Alcuni potrebbero definirla “romantica”, ma per chi scrive é un’altra cosa, forse si tratta di una deformazione professionale: del ritorno al passato di navigante, quando venendo da lontano, vedevo la “spazzola” del faro all’orizzonte e sentivo l’odore di casa…
Arrivato tra il “lusco e il brusco” a San Lorenzo della Costa - (300 mt. s.l.m.) - presso il bivio dove l’Aurelia si divide per chi scende a Santa o prosegue per Rapallo, c’é un piccolo spazio per posteggiare. Se il tempo é sereno, da quell’osservatorio speciale si vede il faro di San Venerio situato sull’isola del Tino:
Elevazione 99 m s.l.m. – Ultima costruzione 1884 – Portata 25 miglia nautiche -
Tempo fa, durante una di quelle soste con “vista sul Tino” mi capitò un fatto insolito… Una pantera della polizia mi piombò alle spalle, in un baleno uscirono due militari in mimetica armati di mitra! Era il periodo delle brigate rosse. “Venga fuori con le mani alzate!” – Urlarono -
“Avrò dimenticato di pagare la focaccia…!” – Pensai tra me –
“Mi faccia vedere i documenti! Cosa fa a quest’ora con il binocolo in mano?”
Ridendo gli spiegai il motivo della mia sosta e con una certa ironia scartai la focaccia ancora calda e dissi: “La preferite con o senza cipolla? Potremmo anche stapparci una bottiglia di bianco di Coronata”
Scoppiarono a ridere e quella sosta si concluse con la mia dotta spiegazione delle caratteristiche del faro del Tino:
3 lampi bianchi - periodo 15 secondi
Ultima sosta a Rapallo
Giancarlo Mangini ha scritto:
“I rapallini si dividono, per quel che riguarda la focaccia, tra le Pellegrine e Vivaldi. Il panificio delle Pellegrine si trova sotto i portici di via Garibaldi, è una istituzione a Rapallo; invece il panificio di Vivaldi è nella parte pedonale di via Mameli, quasi sotto al campanile pendente della basilica. Io sono vivaldiano – così ora i pellegrinisti mi odieranno, ma entrambi i panifici sono, a mio parere, al top dell'arte bianca, ma ognuno ha le sue preferenze”.
Giustissimo! Ognuno ha le sue preferenze e se proprio devo dire la mia aggiusterei il tiro in questo modo “diplomatico” ma sincero:
“Apprezzo molto Vivaldi, ma il mio cuore batte per le Pellegrine per la sua location medievale a ridosso del mare e per i tanti ricordi dell’ultima tappa del mio laico Pellegrinaggio mattutino che mi sono rimasti dentro.
Gustare la focaccia calda sugli scogli della passeggiata, con gli spruzzi delle mareggiate in faccia, ha un sapore unico di Riviera che rimane scolpito non solo nello stomaco…”
Un posto del cuore, per i ricordi che evoca, è il sotto portico delle Pellegrine a Rapallo.
Il panificio Le PELLEGRINE lo si raggiunge facilmente seguendo il profumo della focaccia nell'aria di Caroggio Drito.
Concludiamo con alcune RICETTE per gli appassionati
LA FOCACCIA GENOVESE
Ma la focaccia a Genova non si mangia solo a colazione: ci si ferma a comprarla e si mangia strada facendo come spuntino, è la merenda che si portano i bambini a scuola, sostituisce il pane durante i pasti, sempre presente nei buffet delle feste e per i nottambuli ci sono posti dove dopo la discoteca si trova calda già alle due o tre di notte.
Insomma, è una vera istituzione. E’ una presenza costante, sfornata a tutte le ore.
Inutile dire che ogni genovese ha i propri gusti e di conseguenza il proprio forno e la propria focaccia di riferimento, fermo restando che ci sono alcuni requisiti che una Focaccia con la effe maiuscola non può non avere.
Prima di tutto, se non lascia le dita unte, allora non è lei!
A deve coa d’eujo, deve colare olio, essere ben unta e salata, avere tanti œggi (tanti occhi) cioè tanti buchetti, nè molle nè elastica, ma morbida dentro con il bordo e la superficie croccanti, soprattutto mai e poi mai deve essere troppo alta! in tal caso si chiama marinara.
“Una volta sfornata la focaccia avrà una crosta color nocciola, bianco-avorio nelle occhiature.
Nella parte inferiore deve presentarsi giustamente unta, bianca e dorata. Deve essere alta mediamente due centimetri. L’occhiatura irregolare e profonda con tracce d’olio. Nella parte superiore possono essere presenti alcuni brillantini di sale.
Il profumo deve essere discretamente intenso, di leggera persistenza, non avere sensazioni dolciastre, ma tradire sfumature aromatiche dovute all’olio extravergine di oliva. Al palato è morbida, equilibrata nei gusti fondamentali (acido, dolce, salato), mai gommosa, ma croccante in superficie. Una leggera sensazione di amarognolo, dovuta all’olio, può essere lievemente percettibile. E’ invece chiaramente riscontrabile la sensazione di untuosità.”
La prova del nove comunque è data dalla durata, difficile che superi il giorno dopo, però una buona focaccia fatta al mattino alla sera è ancora mangiabile.
Vi consiglio in ogni caso di consumarla tiepida o comunque entro alcune ore dopo averla sfornata per gustarne appieno la bontà.
Per la focaccia in fondo ci vogliono pochi e semplici ingredienti: farina, acqua, olio d’oliva, lievito, malto e sale.
E’ la lavorazione che fa la differenza oltre alla qualità degli ingredienti, quindi seguite minuziosamente tutti i passaggi che ho descritto in attesa che sia in grado di creare un video.
Se siete abituati ad usare il lievito madre, potete sostituire al lievito di birra circa 150 g di lievito madre, fermo restando che la ricetta DOC riconosciuta della vera focaccia genovese è quella che vi ho scritto sotto.
La durata della lavorazione (dall’inizio dell’impasto all’infornata, comprese le varie lievitazioni) è stimata dal disciplinare in 10 ore (non può comunque essere inferiore alle otto ore), con tolleranze che tengono conto del tempo atmosferico: umidità, temperatura.
La cosa più difficile secondo me è imparare a fare i buchi, perchè ci viene d’istinto farli con la punta dei polpastrelli e delicatamente, invece dobbiamo imprimere con un movimento deciso ed una certa forza tutta l’ultima parte delle ultime falangi.
La focaccia ligure
Ricetta di Ezio Rocchi
Ingredienti
Per la biga:
- 500 g di farina Manitoba
- 225 g di acqua
- 5 g di lievito di birra
Per l'impasto:
- 150 g di biga
- 500 g di farina Pizza e Focaccia Molino Grassi
- 300 g di acqua
- 30 g di olio extravergine d'oliva
- 15 g di lievito di birra
- 10 g di malto
- 12 g di sale
Dosi di salamoia per una teglia di 30x40:
- 100 g di acqua salata (55 g di sale in 1 l di acqua)
- 50 g di olio extravergine d'oliva
Istruzioni
- La sera prima preparare la biga che deve fermentare 12/14 ore a temperatura ambiente (18-20°C): impastate brevemente tutti gli ingredienti, circa 4 minuti nell'impastatrice.
- Il mattino dopo iniziate l'impasto con farina, biga, sale, malto ed acqua (tenendone da parte il 5% che andrà aggiunta verso la fine).
- Dopo 5 minuti aggiungete il lievito e successivamente l'olio.
- Dopo circa 8 minuti aumentate la velocità dell'impastatrice ed aggiungete la restante acqua.
- Impastate ancora circa 4 minuti.
- Terminato l'impasto dividete subito senza tempo di riposo in pezzature da 500 g, date una piega e date una forma rettangolare, schiacciando leggermente.
- Lasciate riposare 30 minuti su una tavola infarinata con la chiusura verso il basso.
- Stendete con il mattarello e mettere su una teglia unta con 20 g di olio senza preoccuparsi di coprire tutta la teglia.
- Lasciate lievitare 30 minuti e poi schiacciate e stirate con le mani fino a coprire l'intero spazio della teglia.
- Lasciate lievitare per un'altra ora.
- Spolverate con farina e fate i buchi.
- Per fare i buchi è necessario usare le dita di entrambe le mani che lavorano in parallelo, partendo da un'estremità della teglia per arrivare all'altra. Fate attenzione a non usare solo la punta delle dita ma tutta l'ultima falange!!!
- Versare sull'impasto la quantità indicata per ogni teglia di salamoia ed olio - non preoccupatevi se vi sembra eccessiva - dovete coprire bene ogni buco.
FOCACCIA GENOVESE CON LA CIPOLLA
La focaccia genovese con la cipolla è un’altra squisitezza della nostra città, una variante alla classica focaccia genovese che piace moltissimo anche ai “foresti”. Moltissimi turisti che arrivano a Genova per la prima volta e la scoprono, trovano la focaccia deliziosa, quando qualcuno se entra in confidenza con loro, gli dice che nella versione classica, possono accompagnarla al cappuccino e le facce stupite del turista medio sono sempre divertenti da osservare.
La ricetta della versione con la cipolla che vi presentiamo oggi in collaborazione con I Viaggi del Goloso è un’ altra golosa alternativa alla focaccia classica, una precisazione, la vera focaccia genovese è sottile, unta, con i bucherellini che invitano al morso senza esitazioni, tutte le altre chiamate “focacce” spesse, con bordi improponibili e frequentemente mal cotte, non hanno nulla a che vedere con la focaccia genovese.
LA RICETTA:
Focaccia genovese con la cipolla
Ingredienti:
300 gr. di farina 00
200 gr. di farina manitoba
25 gr. di lievito di birra
250 ml. di acqua
sale
olio d’oliva extravergine
2 grosse cipolle
Preparazione:
Mettiamo sul tavolo la farina 00, aggiungiamo il sale e sopra la farina manitoba, sciogliamo il lievito nell’acqua tiepida e incominciamo a impastare, quando l’impasto risulta amalgamato, lasciamo lievitare coperto per circa 1 ora. Nel frattempo puliamo le cipolle le affettiamo e le mettiamo a bagno in una ciotola con acqua.
Riprendiamo ora l’impasto lievitato e stendiamo la pasta con un mattarello della grandezza della teglia che andremo ad adoperare, ungiamo bene la teglia con l’olio, appoggiamo la pasta stesa, deve essere abbastanza sottile e la lasciamo nuovamente lievitare coperta per circa 1 ora.
Prepariamo ora un’emulsione di olio e acqua in parti uguali e andiamo a cospargere la superficie della focaccia premendo con le dita per formare i famosi buchi.
Scoliamo le cipolle dall’acqua, le condiamo con l’olio d’oliva mescolandole bene e cospargiamo tutta la superficie della focaccia, spolveriamo di sale e mettiamo in forno caldo a 220° per 15 minuti, poi proseguiamo sotto il grill per altri 5 minuti controllando. Sforniamo, lasciamo intiepidire e gustiamo questa prelibatezza …
Le tre fasi fotografiche: prima, durante e dopo la COTTURA
FOCACCIA DI RECCO COL FORMAGGIO
Ecco come si presenta…
Formaggio fuso al centro di due strati sottilissimi di pasta. Un gusto inconfondibile che l'ha resa celebre in tutto il mondo.
Cos’è la focaccia di Recco
Esistono parecchie versioni di focacce al formaggio, ma quella di Recco è sicuramente particolare, oltre ad essere la più conosciuta e celebrata. Quest’ultima è un prodotto da forno fatto con un impasto di farina di grano tenero, olio extravergine d’oliva, sale, acqua e formaggio vaccino fresco a pasta molle. A differenza di altre versioni di focaccia al formaggio, quella di Recco è composta di due sottilissimi strati di pasta che racchiudono una farcitura di formaggio fuso, quasi liquido.
La sua forma può variare; potremo così incontrarne versioni tonde, quadrate o rettangolari ma il suo aspetto la rende comunque decisamente riconoscibile. Si presenta infatti particolarmente sottile, con una superficie irregolare punteggiata da bolle, striature marroni e dalla caratteristica fuoriuscita di formaggio. Il formaggio usato era storicamente la prescinseûa, un antico prodotto caseario ligure che, considerato poi troppo liquido e acido, venne sostituito con lo stracchino e la formaggetta. Con la classificazione, il 2 marzo 2012 (è stato riconosciuto dall’Unione Europea il 3 giungo 2013), tra i prodotti a Indicazione Geografica Protetta (IGP) è stato introdotto l’uso della crescenza di origine ligure, prodotta in valle Stura.
Come si fa - la ricetta originale della focaccia di Recco fatta in casa
La ricetta originale della focaccia di Recco non è affatto difficile da realizzare in casa anche perché si basa su ingredienti molto semplici da reperire e di base della tradizione culinaria italiana.
Ingredienti
- 500 g di farina 00 o Manitoba
- 50 ml olio EVO
- Acqua minerale naturale
- 1 kg di formaggio fresco (es. stracchino)
- sale
Preparazione della focaccia di Recco
1- Su un piano da lavoro di legno iniziare a lavorare insieme gli ingredienti (farina, acqua, olio evo e sale) fino ad ottenere un impasto omogeneo e leggermente colloso.
2- Lasciare a riposare per mezz’ora l’impasto a temperatura ambiente e sotto un panno leggero di cotone.
3- Dopo mezz’ora, prendere una metà dell’impasto realizzato e iniziare a lavorarla con le mani facendola ruotare fino ad ottenere una forma circolare di uno spessore di pochi millimetri (dovrà essere molto sottile, quasi trasparente ma senza buchi).
4- Ungere una teglia cilindrica della dimensione di 60 cm di olio EVO e adagiare la prima sfoglia realizzata sul fondo.
5- Tagliare a pezzetti il formaggio fresco e distribuirlo su tutta la superficie dell’impasto.
6- Prendere la seconda parte di pasta e fare la stessa cosa di prima realizzando una forma circolare.
7- Posizionare la nuova sfoglia sopra al formaggio e schiacciare con le dita i bordi in modo tale da uniformarli ed impedire al formaggio di fuoriuscire dai bordi in cottura.
8- Cospargere di olio EVO e bucherellare leggermente con le dita la superficie.
9- Infornare ad una temperatura elevata di 240°-320° per 4-8 minuti fino a che la superficie non sarà dorata.
Buon appetito! Una porzione di focaccia di Recco (circa 250 g) contiene circa 320 kcal.
Bibliografia:
- Disciplinare di produzione della indicazione geografica protetta “Focaccia di Recco col formaggio”
- Non di solo pane – La focaccia genovese
- Focaccia con la cipolla – Le ricette di VivaLaFocaccia
- Storia della focaccia di Recco. Consorzio Recco Gastronomia
- La storia della focaccia di Recco-Cultura
- Genova Golosa – Focaccia genovese
- Wikipedia - Focaccia classica di Genova - Focaccia alla genovese - Focaccia genovese.
CARLO GATTI
Rapallo, 13 Giugno 2018
JOHN GATTI E I PILOTI DI PRA'
JOHN GATTI E I PILOTI DI PRA’
Tra le persone da annoverare tra gli “amici di Pra’ “ c’è sicuramente John Gatti, il giovane e brillante Capo dei Piloti del Porto di Genova. Avendo compreso le genuine ragioni dei cittadini di Pra’ e le loro legittime richieste ed aspettative, ha di sua spontanea iniziativa corretto tutte le scritte e diciture che, sui documenti dei Piloti e sul loro sito web, riportavano gli obsoleti riferimenti relativi al bacino portuale realizzato davanti a Pra’. John ha la grande responsabilità di dirigere e coordinare i piloti del più grande porto italiano, uno dei più grandi del mondo, quello di Genova, facendo in modo che le navi entrino, ormeggino ed escano nei tempi previsti ed in sicurezza, con ogni condizione meteo. Il suo ufficio si trova nell’edificio di Ponte Colombo che un tempo era il terminal Tirrenia, poi ristrutturato in modo originale, con i prospetti, porte e finestre che ricordano le sovrastrutture di una nave.
Attorno a lui la sala operativa, “high-tech”, da dove è possibile seguire la situazione dei transiti, delle manovre, e degli accosti, e poi altri uffici, e le “cabine” dove i piloti possono riposare nelle pause, e perfino una piccola, deliziosa, mensa con cucina dedicata, operativa 24 ore su 24. La sede è ad uso temporaneo, dopo il triste evento dell’abbattimento della Torre Piloti da parte della Jolly Nero, e resterò operativa fino alla realizzazione della nuova struttura, posta all’impoccatura del porto, di cui, nell’ufficio di John si può vedere uno schizzo a mano libera dell’ideatore Renzo Piano. Il Corpo dei Piloti, oltre alla sede principale a Genova, ha anche due sedi distaccate a Multedo e a Pra’. Il Corpo Piloti del Porto di Genova è composto da 23 Piloti più il Capo Pilota. Le aree in cui operano comprendono i bacini di Genova (Porto Vecchio, Sampierdarena, Italsider), Multedo e Pra’, per un totale di oltre 25 chilometri di costa. Annualmente ogni Pilota svolge dalle 700 alle 1000 manovre che, con il passare del tempo, diventano un bagaglio di esperienza a disposizione delle generazioni che seguono. Per entrare in questa Corporazione è necessario partecipare a un concorso pubblico bandito dalla locale Capitaneria di Porto a cui si accede per titoli ed esami. Occorre infatti aver effettuato diversi anni di navigazione su navi al di sopra di un certo tonnellaggio per arrivare a sostenere gli esami di diritto, manovra, inglese e comunicazione previsti dal concorso. Il vincitore accede a un tirocinio della durata di un anno, al termine del quale deve superare un ulteriore esame pratico, che consiste nello svolgimento di una manovra, e uno teorico sulla conoscenza del porto e delle sue caratteristiche. Il pilotaggio è un servizio di interesse generale che contribuisce in maniera rilevante alla sicurezza e alla piena funzionalità del porto, ma è anche un lavoro che permette di assaporare paesaggi incantevoli da punti di vista esclusivi e la bellezza del tratto di costa su cui è seduta Pra’, con il verde dei boschi che scende fino all’acqua, è uno spettacolo che aggiunge una perla alla collana di meraviglie offerte dalla Liguria vista dal mare. John ci ha reso una sua personale ed appassionata testimonianza: «Nascere e crescere nella delegazione di Pra’, abbracciata tra gli Appennini e il mare, vuol dire conoscere la Tramontana: un vento freddo che pulisce il cielo e rende l’aria asciutta e frizzante, ma significa anche aver visto tante volte lo Scirocco e il Libeccio frustare di sale l’intero paese. Non sono solo gli elementi a spingersi ai massimi livelli: in pochi chilometri di costa troviamo gru che appartengono alla generazione delle più grandi al mondo e davanti a loro evoluiscono i così detti “giganti del mare” per ormeggiare nel Bacino Portuale di Pra’, uno dei terminal più moderni d’Italia che riesce a superare periodicamente i suoi stessi record».
John GATTI – Guido BARBAZZA
Rapallo, 22 Novembre 2016
Göteborg -3-Indiaman GÖTHEBORG
L’INDIAMAN GÖTHEBORG
Una passeggiata a ritroso nel tempo
L’Indiaman Götheborg appartenne alla Compagnia Svedese delle Indie Orientali. L’originale si arenò il 22 settembre 1745 sulla scogliera di casa (Rivöfjorden), di ritorno dal viaggio in Cina. L'incidente avvenne con mare calmo, tempo sereno e a mezzogiorno. Sono tuttora in corso degli studi per accertarne scientificamente le cause.
Nei due precedenti servizi abbiamo scoperto Göteborg: una città giovane, frizzante e vivace con 25 teatri, 19 musei, due università che contano oltre 60.000 studenti. Dopo Stoccolma, è la meta svedese che attrae più turisti stranieri con il famoso parco di divertimenti di Liseberg estesa su un'ampia superficie nel cuore della città, con attrazioni di tutti i tipi, ristoranti, negozi, spazi per concerti, spettacoli e giochi. Ma Göteborg é anche molto laboriosa. Seconda città della Svezia con mezzo milione di abitanti, pullula di cantieri e traffici portuali che si snodano ordinatamente lungo il fiume Göta Älv fino all’estuario.
In questo Paese modernità, efficienza e cultura si fondano con la storia del mare. Il collante si chiama “spirito marinaro” il cui profumo di pece, catrame, pitture di bordo, cordami e containers esotici permea le calate di questa magica città e ricorda al visitatore l’anima pellegrina della Svezia su tutti i mari del globo. Già, quel mare freddo e infido che nella sfida quotidiana con la gente di queste parti ha, tuttavia, concesso loro ricchezza, bellezza, stile e amore per una convivenza e tolleranza che non ha pari al mondo.
Storicamente la città fu la “porta principale” della Svezia per i traffici navali verso le Indie Orientali. Oggi, il desiderio collettivo di tenere in vita una parte importante della propria storia navale, ha da circa un ventennio il suo simbolo più significativo nell’INDIAMAN GÖTHEBORG affondato 250 anni fa. La sua perfetta replica di veliero commerciale, porta lo stesso nome (antico) della città.
Il Götheborg appartenne alla Compagnia Svedese delle Indie Orientali. L’originale si arenò il 22 settembre 1745 sulla scogliera prospiciente il fiordo di casa (Rivöfjorden), di ritorno dal viaggio in Cina. L'incidente avvenne con mare calmo, tempo sereno e a mezzogiorno.
Nel 1990, le Autorità decisero di ricostruire il Götheborg, ed il 6 giugno 2003 ci fu la cerimonia del varo. La replica del vascello fu eseguita rispettando la costruzione originale dello scafo, usando lo stesso materiale dell’epoca: alberi, sartie, vele, attrezzature nautiche ecc... tuttavia, la nave venne dotata anche di apparati moderni: due motori ausiliari per le manovre e per i servizi di bordo, impianti di refrigerazione, acqua potabile ecc...
Il 2 ottobre 2005 il Götheborg imbarcò l’equipaggio che era composto di 70 uomini e donne. Di questi più di 20 erano professionisti, altri 50 erano volontari. Pether Ribbefors, membro del Gothic Knights e Direttore del Museo Nazionale svedese, fece parte dell'equipaggio.
Cosa successe quel 12 settembre 1745 ?
Il veliero Götheborg originale, fu costruito nel cantiere Terranova di Stoccolma e fu varato nel 1738. Nonostante le dimensioni e lo scarso allenamento delle maestranze... dopo un anno e mezzo d’intenso lavoro, quel curioso vascello d’altri tempi era pronto a sfidare gli oceani.
Fu chiamato Götheborg perché nel ‘700 la Compagnia delle Indie Orientali Svedese aveva il suo Quartiere Generale a Göteborg e tutti i viaggi per l’Oriente iniziavano e terminavano nella città portuale che portava il suo nome ed il compartimento navale. La nave aveva una portata di circa 830 tonnellate. Il maiden voyage ebbe inizio il 20 gennaio nel 1739. Il Götheborg fu armato con 30 cannoni (per la difesa anti pirateria) ed un equipaggio di 144 persone.
Divenuto ormai famoso nei Seven Seas, l’Indiaman aveva già concluso felicemente tre viaggi per la Cina, ma il 12 settembre 1745, dopo un viaggio di 30 mesi, concluse la sua giovane esistenza inabissandosi in un modo inspiegabile, dopo aver urtato in pieno giorno contro un banco roccioso vicino all’estuario dell’Älv. Gran parte del carico: tè, porcellana, spezie e seta fu recuperato e salvato. Una delle teorie più accreditate spiegherebbe l’affondamento con la posizione assunta dalla nave trovatasi improvvisamente incuneata tra due correnti diverse e contrarie, quindi “senza governo”: un fiume di acqua salata più pesante ed uno di acqua dolce più leggera. Da queste due forze di densità diversa, ne sarebbe risultata una terza che avrebbe spinto il veliero fuori rotta nonostante il vento fosse favorevole da SW (di poppa) e maneggevole come intensità.
Passarono più di 200 anni dal naufragio ed il Götheborg fu completamente dimenticato. Nel 1984, grazie al ritrovamento di un sacco contenente frammenti di porcellane da parte di alcuni subacquei, iniziò un’intensa opera di recupero che incuriosì l’opinione pubblica e, in seguito coinvolse poco alla volta tutti gli strati sociali della Västkusten e poi dell’intera Svezia. Si trattò per gli svedesi stessi di una strepitosa occasione di prendere coscienza del proprio passato navale. Nessuno all’inizio dell’avventura aveva immaginato che in breve tempo sarebbero sorte iniziative serie e molto costose tendenti a “ricostruire” quel pezzo di storia della East India Company svedese con tanto fervore.
Fu intrapresa una ricognizione archeologica sottomarina con l'aiuto di oltre 100 volontari che fu supportata dall'industria svedese della Regione. Tra gli anni 1985 e 1993 il progetto ottenne un sostegno finanziario di circa 8 milioni di euro, mentre il lavoro dei volontari ebbe un finanziamento di circa 5 milioni.
Ben presto si consolidò l'idea di costruire una “replica” fedele all’originale, ma solo nel 1992 ebbero inizio i lavori costruttivi del nuovo Götheborg, per il quale fu necessario realizzare un nuovo Cantiere Navale denominato TERRANOVA (come quello originale di Stoccolma) nella parte Nord della città (Hisingen) con un ampio scalo e tutte le sezioni tecniche per la realizzazione dello scafo, degli alberi, delle vele e delle attrezzature nautiche.
Il varo avvenne il 6 giugno 2003 alla presenza del re Carlo XVI Gustavo, della Regina Silvia e del Principe Carlo Filippo in una spettacolare cornice di pubblico di oltre 90.000 spettatori e i media di tutto il mondo. Il 3 settembre 2004 la nave fu battezzata dalla regina Silvia, in una solenne cerimonia avvenuta fuori del Teatro dell’Opera House.
Il progetto “Nuovo Götheborg” fu gestito dalla Compagnia delle Indie Orientali Svedese, che tuttora fa parte di una Fondazione senza scopo di lucro.
Dopo circa due anni d’allestimento, finalmente tutta la Svezia poté raccogliersi entusiasta intorno all’attesa PARTENZA, a vele spiegate, del Götheborg: destinazione Cina. Una folla immensa, assiepata ovunque, assistette alla lunga processione d’imbarcazioni sul fiume a sirene spiegate che accompagnarono invelate e con il Gran Pavese, quell’anacronistico viaggio a ritroso nel tempo. La tradizione era emersa dagli abissi per dire ancora la sua nel mondo del commercio globalizzato. Fu una giornata memorabile!
Quella bella e possente nave di legno seguita da centinaia di barche in uscita dal porto di Göteborg, si ripropose il 9 giugno 2007 quando il vascello fece ritorno alla base destando lo stesso incredibile entusiasmo. Era passato un anno e mezzo e di quel giorno esistono ancora pittoresche testimonianze di chi rimase sugli scogli alla foce del fiume da quando spuntarono gli alberi all’orizzonte, fino a quando il vascello ormeggiò felicemente nel cuore della città.
Il primo viaggio di prova ebbe luogo il 22 marzo 2005. In seguito La nave visitò ben 56 città tra il 2005 e il 2010.
Da allora l’Indiaman si é cimentata ogni anno in numerose spedizioni di rappresentanza in Svezia, Inghilterra, Irlanda, Francia ecc.. Nell'estate 2010 partecipò, ai festeggiamenti di nozze della Principessa ereditaria Vittoria.
Notevoli sforzi sono stati compiuti durante il periodo di progettazione e di costruzione per adeguare il veliero al concetto di sicurezza moderna. Ricostruire un modello antico in sintonia con gli standard moderni, é stata una sfida molto più difficile del previsto. La nuova Götheborg soddisfa oggi elevate esigenze in materia di sicurezza, stabilità e robustezza disponendo di paratie stagne, isolamento antincendio e vie di fuga di emergenza. Un moderno motore ausiliario le consente di avanzare senza vento, di manovrare in emergenza e in fase di ormeggio e disormeggio in porto. Un motore diesel genera energia elettrica, attiva il sistema di ventilazione, mette in moto pompe si sentina e antincendio, produce acqua potabile e permette l’esercizio delle cucine di bordo.
ALBUM FOTOGRAFICO
Il vascello Götheborg si avvicina a Stenpiren di Göteborg, il suo "ormeggio estivo" (Sommarförtöjningen), per il resto dell'anno la nave attracca a Eriksberg, dove il Grande Porto Canale incontra il fiume Gota, nel centro della città. Questo attracco è simbolico: in mezzo al Grande Porto Canale si trova un grande edificio, la sede della Compagnia delle Indie Orientali del 1700, ora prestigioso Museo della città. Vicino a questo edificio sono visibili chiatte e merci provenienti dall’Estremo Oriente. In questo suggestivo scenario, molti spedizionieri svedesi dell’epoca d’oro hanno ancora la loro sede.
In questa suggestiva immagine del 4 Giugno 2015, la Indiaman GÖTHEBORG salpa per la sua crociera estiva sulla costa occidentale norvegese. Il viaggio proseguirà per Bremerhaven e Amsterdam e alcuni porti inglesi. Il ritorno a Goteborg é previsto il 27 settembre 2015.
Ecco come si presenta l’ormeggio invernale dell’Indiaman GÖTHEBORG nel porto di Göteborg.
DATI NAVE
• Lunghezza fuori tutta: 47,54 mt
• Lunghezza totale compreso l’albero di bompresso: 58,5 mt
• Altezza sopra la linea di galleggiamento: 47 mt
• Larghezza: 10.84 mt
• Superficie velica: 1964 m². Le vele di tela di lino inglese hanno iniziato la loro cucitura nella primavera del 2001.
• Pescaggio a poppa: 5.25 m
• Pescaggio a prua: 4,75 m
• Zavorra: 292 tonnellate di piombo
• Peso totale: 1.150 tonnellate
• Motori: 2 Volvo Penta per il funzionamento dell'elica (405 kW).
• Motori: 2 Volvo Penta A 180 funzionamento del generatore kW. (produzione di elettricità)
• Eliche: 2 Rolls-Royce Seffle, a passo variabile.
• Quattro serbatoi di carburante con una capacità totale di 36.000 litri di carburante.
• Velocità media: 5-6 nodi (9-11 km / h), velocità massima di motore: 8 nodi (15 km / h)
• Equipaggio: 80 (di cui 50-60 sono studenti).
• Provviste per 80 persone (60 giorni), e archiviazione di backup per 30 giorni.
• Navigazione e strumenti di comunicazione: GPS, radar e Satcom B (terminale Inmarsat B).
• Pompa acqua con capacità di produzione di 18.000 litri di acqua dolce al giorno.
• 10 cannoni (Salut). L'originale aveva 30 cannoni da 3 libbre come difesa contro i pirati o altre navi nemiche.
• La polena di prora e le decorazioni a poppa, furono realizzate da Andy Peters di Oxford in Inghilterra.
Il viaggio in Cina, gli approdi
Domenica 2 Ottobre 2005 alle 13,45 il Götheborg lasciò il suo Home-port svedese e si diresse verso la Cina. Già nel fiordo Älvsborgsbron aveva una velocità di 9.7 nodi. Alle ore 21 del 3 issò arriva due vele di trinchetto.
Il Götheborg navigò lungo la rotta storica verso la Cina via:
Cadice (Spagna) 19 novembre 2005 - 28 Novembre 2005
Recife (Brasile) 30 dicembre 2005 - 10 Gennaio, 2006
Città del Capo (South Africa) 19 febbraio 2006 - 28 febbraio 2006
Porth Helizabeth (Sud Africa) - 9 marzo 2006 - 25 Mar 2006
Fremantle (Australia) - 13 maggio 2006 - 25 Maggio 2006
Jakarta (Indonesia) - 18 giugno 2006 - 28 Giugno 2006
Canton (Cina) - 18 luglio 2006 - 12 agosto 2006
Shanghai (Cina) - 24 agosto, 2006
Hong Kong (Cina) - 29 novembre 2006 - 12 DICEMBRE 2006
Singapore (Singapore) - 30 dicembre 2006 - 14 gennaio, 2007
Chennai (India) - 31 gennaio 2007 - 10 Febbraio 2007
Djibouti (Djibouti) -14 marzo 2007 - 17 marzo 2007
Alessandria d’Egitto - 1 Aprile 2007 - 3 Aprile 2007
Nizza (Francia) - 17 aprile 2007 - 24 aprile 2007
Londra (Regno Unito) - 19 maggio 2007 - 2 Giugno 2007
Göteborg (Svezia) - 9 Giugno, 2007
Il 21 luglio 2006 raggiunse finalmente l'obiettivo storico di arrivare a Canton (Cina) dopo quasi 20.000 Miglia Nautiche.
Il 9 giugno 2007 il Götheborg, dopo quasi 20 mesi complessivi di viaggio rientrò nella sua Göteborg ed ormeggiò al Pier 4 alle ore 18,30. A riceverla era presente il presidente cinese Hu Jintao e il Re Carl XVI Gustaf.
Carlo GATTI
Rapallo, 24 dicembre 2015
TEMPO DI GUERRA ...amarcord 2
TEMPI DI GUERRA
AMARCORD... 2
Un mio NATALE da ragazzo
L’inverno del ’44 – 45 non finiva mai. Era di un freddo mai sofferto prima e con certe nevicate inusuali, almeno per noi del ponente di Genova. Nessuno sapeva che era l’ultimo Natale di guerra. Il mare, in certi giorni, dava l’impressione che ‘fumasse’ per l’impatto con l’aria gelida. Un giorno vidi, quasi sotto costa, due balene che avanzavano affiancate sbuffando.
Per ragioni di sicurezza, in mare non passava alcuna imbarcazione ormai da tempo. Le uniche unità erano dei rari scuri motoscafi tedeschi, in giro di perlustrazione.
All’imbrunire scattava il coprifuoco e chiunque, non autorizzato, fosse stato sorpreso per le strade, poteva essere passato subito per le armi. Noi ragazzi subivamo queste ristrettezze ma chi più ne soffrivano erano i nostri genitori impossibilitati, ad esempio, a poter, la sera, aiutare un congiunto ammalato a casa sua. Per riscaldarci si bruciavano palle di carta che facevamo in casa, macerandola e facendole poi asciugare al sole. La legna era pressoché introvabile.
La settimana prima di Natale noi ragazzi cominciavamo a tirar fuori da una sdrucita scatola sistemata sotto al letto, i vecchi “macachi” in terracotta di Albissola; quando si rompevano il problema era incollarli. Non esistevano, come ora, tutti i tipi di colla per qualunque qualità di materiale: l’unica era la colla da falegname, la stessa che già usava San Giuseppe quando Gesù era ancora Bambino! ma quella colla non reggeva l’umidità ne resisteva ai colpi. Tutto il vantaggio del progresso e dell’aggiornamento, da noi arrivò solo dopo la guerra.
Mio fratello, mio cugino Franco ed io andavamo poi sulle colline sopra a Prà per staccare con le spatole il pan di bosco che, con il freddo e l’umido, ricopriva certe rive ombrose lungo i piccoli corsi d’acqua. Tutto il mancante lo realizzava la fantasia e la carta che sporcavamo, illudendoci rassomigliasse a roccia. Il cielo di carta blu con le stelle lo vendevano i cartolai e, se era “velina”, si poteva, con il meccano, giocare sulla trasparenza creando un’asta rotante con in cima una lampadina da pila, a simulare il percorso lunare. Gli stessi vendevano anche i presepi “autarchici”, cioè fogli di cartone con su stampate a colori, le figurine del presepio, da poi ritagliare.
Non si usava l’albero. L’unico era l’antico ramo d’alloro ( a ramma d’ofêuggio ) che i macellai legavano all’esterno del negozio; per la Festa, donavano ai migliori cliente i “berodi” ( sanguinacci) e qualche “ scianchetto” d’alloro. In alcune case si allestiva una specie di albero, addobbando un ramo con cioccolatini, mandarini e canestrelli. In genere erano marittimi che avevano visto qualcosa di simile nelle Americhe: insomma, un albero di Natale ante litteram.
Il vero e proprio albero di Natale, quello classico, lo scoprimmo per la prima volta attraverso le finestre del bovindo del Comando che la Wehrmacht aveva insediato nel Castello Vianson, in cima alla passeggiata di Pegli. Quello sì era tutto un brillio e lustrini.
Il pomeriggio della vigilia eravamo andati in casa di Franco ad aiutarlo a realizzare il suo Presepio. Visto che si faceva buio, anche se eravamo abbondantemente nell’ora “libera” dal coprifuoco, decidemmo , mio fratello ed io, di rientrare.
Intanto giungevano dall’attigua caserma delle Brigate Nere schiamazzi e spari di festa. Alcuni, ormai ubriachi, sostavano cantando davanti al portone d’entrata della stessa. Come arrivammo sulla strada, uscendo dal giardinetto che la distanziava dalla casa, li sentimmo vociare e muoversi di corsa verso di noi. Rientrammo naturalmente nel giardino ma loro irruppero, sparandoci. Ci appoggiammo al muro della casa e quelli, urlando, ci bloccarono puntandoci le armi al petto. Uscirono anche le zie e, dopo un lungo battibecco alternato ad urli, quei ceffi puzzolenti d’alcool se ne andarono. Sul muro i segni dei proiettili ci sono ancora.
Nel frangente mio fratello, poco più grande di me, che aveva in tasca delle pallottole da moschetto ed operava già con la SAP di Prà ( Squadra Azione Patriottica) le aveva fatte scivolare per terra mentre quelli ci tenevano fermi per il collo. Per fortuna, cadendo, non avevano fatto rumore perché eravamo finiti con i piedi dentro ad una bassa aiuola. Solo il mattino dopo le raccattammo ma quella sera, avute le loro assicurazioni, rientrammo di corsa a casa a raccontare l’accaduto. Il mattino dopo, Natale, i nostri genitori andarono a protestare con gli Ufficiali che, imbarazzati porsero le scuse, adducendo l’accaduto al fatto che quei “masnadieri”, sentendosi proprio sotto Natale, soli, invisi alla cittadinanza e ormai terrorizzati per la imminente fine, aggiungo io, si erano ubriacati per darsi coraggio e affogare i rimorsi e le inquetudini.
C’è andata bene. Ricordo bene quel Natale perché, dopo quell’episodio, mai più nessuno mi ha festeggiato a colpi di …. mitra.
Renzo BAGNASCO
Rapallo, 17 Aprile 2014
FONS GEMINA - SAN MARTINO DI NOCETO - RAPALLO
FONS GEMINA – RAPALLO
L’ACQUA DI FONTE CI RICORDA LE APPARIZIONI DI MARIA VERGINE…
In molti poeti e scrittori di tutti i tempi aleggia, al di là di ogni dubbio, la suggestione e la malinconia di una devozione filiale per la Madonna, vista come lo Spirito dell’acqua simbolo di vita, Stella del mare, Regina del Cielo corredentrice del Verbo che dà la vita.
Quando appare, la Madonna non di rado lascia dietro di sé una fonte miracolosa. La più celebre è quella di Lourdes, naturalmente, ma ce ne sono di più antiche, come quella di Caravaggio, e di più moderne, come quella di Montichiari, Santuario di Maccio (Como), Madonna dello Splendore (Giulianova), Amore Misericordioso (Collevalenza), Marvicio nel cuore dell’Aspromonte, ma l’elenco sembra infinito perché esce dai confini nazionali per andare in Francia, Polonia, Russia ed oltremare.
LA FINE DELLA SETE NON È BERE A SAZIETÀ,
MA DIVENTARE FONTANA PER DISSETARE ALTRI,
FACENDOSI SORGENTE PER L'ALTRUI ARSURA.
LORENZO PIVA
"NON BISOGNA CHE CESSI LA PIOGGIA PER METTERCI IN CAMMINO. E' BELLO ANCHE BAGNARSI DI ERRORI E RIMPIANTI PUR DI ARRIVARE IN CIMA ALLA MONTAGNA DELLA VERITÀ"
(FONTE NON SPECIFICATA)
Il racconto sulla FONS GEMINA può soltanto iniziare il suo breve viaggio con il ricordo che tutti i rapallesi hanno nel cuore:
Nostra Signora di Montallegro
Dedichiamo la sintesi ai nostri numerosi followers stranieri.
Secondo la tradizione locale la Vergine apparve nel primo pomeriggio di venerdì 2 luglio 1557 al contadino Giovanni Chichizola, originario di San Giacomo di Canevale, frazione del comune fontanino di Coreglia Ligure, di ritorno dal mercato ortofrutticolo di Genova. Giunto nell'entroterra rapallese, nelle proprietà boschive della famiglia di fazione ghibellina Della Torre, all'altezza del monte Letho (conosciuto dai locali come "monte di morte" o "della morte" a causa delle numerose scorribande dei briganti), l'uomo - affaticato dal lungo viaggio a piedi e stremato dal caldo - si addormentò nei pressi di uno sperone di roccia.
All'improvviso, fu destato da un bagliore: al contadino apparve una "dama vestita d'azzurro e bianco e dall'aspetto grazioso e gentile", come testualmente riportò in seguito ai primi popolani e alle autorità civili e religiose accorsi sul monte. La donna pronunziò solo poche parole, che per la comunità cristiana rapallese risuonano ancora vive:
“Va’ e dì ai Rapallesi che io voglio essere onorata qui”
Il Santuario di N.S. di Montallegro
DORMITIO MARIA (Il TRANSITO di MARIA SANTISSIMA)
Per dar prova della "miracolosa apparizione", la Madonna lasciò in dono al contadino un quadretto di “arte bizantina” raffigurante la Dormitio Maria (il Transito di Maria Santissima), da donare alla comunità rapallese. Dopo l'improvvisa scomparsa della "Bella Signora", sulla stessa roccia in cui era avvenuta l'apparizione cominciò inoltre a sgorgare acqua fresca e pura.
FONS GEMINA
Un po’di storia…
Il Prof. Massimo Bacigalupo ce la racconta così:
“L’ultimo capitolo della prima edizione di Rapallo nei secoli (di Pietro Berri-1964, a cura del Comune di Rapallo) è il più ridente e ci porta a San Martino di Noceto alla scoperta della Fons Gémina, monumentino di cui nessuno sembra aveva trattato prima di Berri, il quale ce ne fornisce la storia e ne trascrive e traduce le dotte epigrafi. In realtà questo capitolo è il racconto di una gita lungo la rotabile che sale a Ruta passando per S. Maria, ed è animato da un entusiasmo che ci dice molto sulla personalità di Berri, uomo non facile alle esternazioni sentimentali, ma ben sicuro nei suoi gusti e nelle sue convinzioni, come fermo e autorevole nello stile. Eccolo invece per un attimo confessare fra le righe il suo amore per questa vallata e per la fonte sulla quale ha lasciato traccia un vecchio arciprete latinista, per il quale evidentemente egli prova la simpatia del compagno di studi a distanza di decenni. Inoltre Berri accetta l’ipotesi del Ferretto che nei pressi della fonte, nella Villa Granello, si trovasse un’antica pieve ospite della quale sarebbe morto il Vescovo Onorio fuggiasco da Milano, il giorno 23 febbraio del 570. 1400 e passa anni fa, altro che Rapallo nei secoli! San Martino è intitolata al guerriero e poi vescovo di Tours che proprio in Liguria nel IV secolo avrebbe diviso il mantello con un mendicante.
Camogli: Il mosaico simbolo della STELLA MARIS che guida e protegge i naviganti
Scopriamo che la frazione è sempre stata legata a Camogli per lo smercio dei prodotti agricoli e per la vocazione marinaresca degli abitanti, e che “i Camogliesi avevano ricambiato questa reciprocità di interessi e questa fraternità nell’aspro lavoro sulle tolde sbattute dalle onde, e, ai margini dell’antica via pedonale, occhieggiano tuttora tra il folto della vegetazione, le villette che i vecchi lupi di mare avevano fatto costruire sulle ombreggiate pendici”.
ALBUM FOTOGRAFICO
I due ruscelli gemelli a destra e sinistra s’incontrano formando un piccolo laghetto… la FONS GEMINA
Venendo da Rapallo in direzione Ruta di Camogli, la Cappelletta é situata a circa 300 metri dalla Chiesa di San Martino di Noceto.
Fonte Canala (Fons Gemina)
Nel territorio rapallese, oltre alla chiesa parrocchiale di San Martino di Noceto, è presente un'antica fonte denominata fons gémina realizzata nel 1810 così come testimonia una lapide marmorea in latino; nella nicchia sopra l'arco a sesto acuto è conservata una statuetta della Madonna Coronata di argentei gigli.
Fons Gemina significa, in latino, “fonte gemella” ed è una fonte che trae il nome dalla particolarità che da essa sgorgano due fonti distinte. Essa è, molto probabilmente, di origine romana e risale invece solo al 1810 la struttura a sesto acuto in cui è posta una statuetta marmorea della Madonna.
La fonte è sita a San Martino di Noceto, una frazione di Rapallo che in passato era ricca di noccioli e castagni, da cui dovrebbe derivare il nome “Noceto”.
UN APPUNTAMENTO:
Rapallo: “Fons Gemina”, Concerto alla Fonte a San Martino
Rapallo: “Fons Gemina”, Concerto alla Fonte a San Martino
Da Filippo Torre di “Fons Gemina” riceviamo e pubblichiamo:
A coronamento del suo sesto anno di attività, il Circolo Culturale “Fons Gemina” presenta un evento lungamente atteso e mai realizzato prima: il concerto presso il monumento di cui l’associazione porta il nome.
Nel 2012 i soci fondatori del circolo scelsero infatti la “Fonte Gemella” (“Fons Gemina”, in latino) di San Martino di Noceto per simboleggiare la propria aspirazione a rappresentare un sicuro punto di riferimento nell’ambito del tessuto culturale di Rapallo; nel corso degli anni l’associazione ha voluto quindi rappresentare per la città una vera e propria “sorgente di idee”, così come espresso dal proprio motto.
La Fons Gemina, uno dei monumenti meno noti di Rapallo, è nel contempo uno dei più antichi; esso si trova tra la chiesa millenaria di Ruta e quella di S. Martino di Noceto e il suo aspetto attuale è frutto di una ristrutturazione realizzata nel XVII secolo. La sua origine è tuttavia riconducibile al X secolo, periodo nel quale la fonte viene citata come “speciale” in quanto caratterizzata da due sorgenti perenni gemelle.
Ci è parso quindi che il Concerto alla Fonte fosse il modo migliore per suggellare un anno particolarmente ricco di eventi, incentrato come consuetudine sulla multidisciplinarietà delle proposte.
L’appuntamento, che si avvale del Patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Rapallo, è fissato alle 17.00 di sabato 19 maggio. Ne sarà protagonista il quartetto d’archi composto da Alessandro Alexovits (violino I), Massimo Vivaldi (violino II), Simona Merlano (viola) e Paola Siragna (violoncello). Il repertorio, incentrato su composizioni di diverse epoche e stili, non mancherà di proporre alcuni dei brani più celebri della storia della Musica.
In caso di pioggia, il concerto si svolgerà presso l’attigua Chiesa Parrocchiale di S. Martino di Noceto.
Vi aspettiamo come sempre numerosi.
Chi scrive, dedicò nel 18.5.2011 un saggio sul sito di
MARE NOSTRUM RAPALLO:
Rapallo: SANTUARIO DI N.S.MONTALLEGRO: Navi, Marinai e la Devozione Mariana
CARLO GATTI
Rapallo, 16 Maggio 2018
DONAZIONE "REGATTA" AI PILOTI DI GENOVA
DONAZIONE DELL’OPERA REGATTA AI PILOTI DEL PORTO DI GENOVA
Giovedì 13 ottobre 2016
Giovedì 13 ottobre 2016 una delegazione di Mare Nostrum ha fatto visita alla Stazione Piloti del Porto di Genova.
Era in programma la donazione di un bassorilievo in ardesia chiamato REGATTA, voluta dal suo proprietario, il socio Renzo Bagnasco, presente alla cerimonia, che ha desiderato unirsi a Mare Nostrum per questo gesto che é stato MOLTO APPREZZATO dal Capo Pilota e dalla comunità dei Piloti di Genova. Il socio Regista-Comandante Ernani Andreatta ha raccolto molto materiale: interviste, riprese cinematografiche, fotografie e tante altre curiosità marinare che vedremo in occasione dell’Evento programmato in cui il Capo Pilota John Gatti affronterà il tema: LE PROBLEMATICHE DELLA PORTUALITA’ ALLE PRESE CON IL GIGANTISMO NAVALE. L’attività del Pilotaggio Marittimo sarà inoltre ampiamente documentato con la Mostra fotografica PILOTAGE che si terrà al Castello Antico di Rapallo dal 22 ottobre al 6 novembre 2016.
La nostra visita ha coinciso con la manovra d’attracco di una gigantesca nave portacontenitori cinese di 368 metri di lunghezza, sotto la direzione del Capo Pilota John Gatti, proprio nella banchina del SEK davanti alla Stazione Piloti.
Il forte vento di tramontana (22-23 nodi) ha reso la manovra alquanto complicata. Ma tutto si è concluso nel migliore dei modi. Non mi dilungherò nella descrizione della accoglienza riservataci, né sull’efficienza e funzionalità della Stazione Piloti per non anticipare la documentazione cui facevo riferimento perché sarà in seguito riportata sul sito di Mare Nostrum Rapallo. Rimane tuttavia da sottolineare il significato dell'EVENTO, che rappresenta un’importante pietra miliare nella trentennale storia della ASSOCIAZIONE MARE NOSTRUM RAPALLO.
Segue uno scritto del socio Renzo Bagnasco che ci fornisce la motivazione della sua personale volontà di DONARE “REGATTA” ai Piloti genovesi:
REGATTA
Questa opera, creata dallo scultore Stelvio Pestelli genovese, la stiamo oggi donando ai Piloti del Porto di Genova perché resti con loro sempre e, con essa anche noi che l’abbiamo donata. Respireremo il loro sudore e l’acre odore della lana bagnata ogni qual volta ritorneranno da una loro “missione”. Quale miglior compagnia può volere di più uno che ama il mare? Ci siamo uniti nella donazione con Mare Nostrum-Rapallo perché ci accomuna la passione per il mare. Alla mia tarda età ho già preparato la sacca da marinaio che mi ha sempre seguito in mare quando lo navigavo con la mia amata Nada, io comandante e lei….mozzo. In quella sacca ci ho messo dentro tutto quello che ho fatto e nulla di superfluo perché, dove andrò, mi si dice non si possa bluffare; il buon Dio mi ha concesso il tempo di raccogliere e riordinare quello che ho fatto e non quello che avrei voluto fare. Quando mi chiamerà sarò pronto ad “IMBARCARMI” per l’ultima volta e non a “partire”: ecco perché non ho le valige. Anche per arrivare là, navigherò con nel cuore la stessa forte speranza che aveva chi doppiava Capo Horn: confidare nella misericordia di Dio. La scultura immortala, anzi ci fa rivivere, uno dei momenti più adrenalinici di chi va per mare: la partenza di una “regata” alla genovese, che sembra confusa e caotica, mentre invece è calcolata al millimetro: se sgarri sei fuori. In questa scultura si respira questa tesa atmosfera e quando un’opera ti fa vivere l’emozione di quello che l’artista voleva significare, vuol dire che sei davanti ad un’opera d’arte. Sia il poeta che lo scultore come il pittore, quando, attraverso le loro opere ti coinvolgono, vuol dire che hanno raggiunto lo scopo.
E pure noi, ascoltando e vivendo proviamo le stesse sensazioni ma loro le sanno esprimere: se non fossero così sensibili sarebbero come noi.
Buona compagnia quindi cara scultura: ti abbiamo affidato in buone mani; gente che tutti i giorni respira salmastro e questo basta. Ho scelto di restare con voi cari amici, perché fra noi di Mare Nostrum, anche senza parlarci, come quando sui velieri il vento cancellava le parole o nella rumorosa sala macchina ci si doveva parlare, basta guardarci.
Grazie!
Renzo Bagnasco
A queste toccanti parole di Renzo Bagnasco aggiungo il pensiero che ho espresso al Capo Pilota John Gatti:
Il socio Renzo Bagnasco ha voluto coinvolgere L’Associazione MARE NOSTRUM che rappresento, nella DONAZIONE del bassorilievo REGATTA ai Piloti del Porto di Genova. Nessuno più di loro, in questo grande porto talvolta martoriato, è più degno di possederla.
I piloti dei porti sanno che il mare scuro come l’ardesia è presagio di burrasche vicine, ma non hanno ragioni sufficienti per rimanere a ridosso della diga.
Lo scultore genovese Stelvio PESTELLI, purissima espressione del “mare di Liguria”, ha usato la nostra pietra, il nostro vento e le nostre barche per calarsi nel profondo della spiritualità e dell’essenza del marinaio ligure: duro, spigoloso, ma coraggioso e pronto fino al sacrificio estremo. Lo dice la sua STORIA, quella lontana e quella dei giorni nostri.
Grazie!
Il Presidente
Carlo GATTI
ALBUM FOTOGRAFICO
A sinistra Carlo Gatti a destra John Carlo Gatti
John Gatti e Ernani Andreatta
Renzo Bagnasco
Piloti in Sala Operativa
La portacontenitori YANG MING ha ormeggiato al SEK
Pilota che sale sulla "biscaglina"
Carlo GATTI
Rapallo, 19 Ottobre 2016
Göteborg-2-Il PORTO e la città
GÖTEBORG
la città figlia del mare
Göteborg é una città moderna che vive nel ricordo del suo passato marinaro. Il suo porto sulla costa occidentale della Svezia é il più importante della Scandinavia come traffici commerciali. La città, nella sua struttura urbana, caratterizzata dalla presenza di numerosi canali e ponti di collegamento che si estendono fra le colline della città, ricorda le città di San Francisco o Amsterdam. Ma il fascino della città scandinava è del tutto unico, rispetto alle simili città olandesi e americane, ma anche nei confronti degli altri centri della Svezia. La nostra gita a Göteborg ha avuto proprio il compito di cogliere le sue peculiarità usando lo scatto fotografico e la nostra innata curiosità. Buona lettura.
Poseidon
Storicamente la città fu la porta della Svezia per i traffici verso le Indie Orientali: nel porto resta la ricostruzione visitabile di un grande veliero commerciale affondato 250 anni fa (lo illustreremo in Göteborg-3), nonché un Museo della Navigazione (Sjöfartsmuseum) che descrive la gloriosa storia della marineria svedese, con esposizioni dedicate ai traffici, alla pesca e all'industria delle costruzioni navali. Nello stesso palazzo si trova anche l'acquario con pesci tropicali e ambientazione dell'habitat marino del Mare del Nord.
Stena Germanica
NOVHOTEL
Nelle due foto sopra si notano i ricchi palazzi monumentali degli armamenti e armatori svedesi lungo il Göta Älv.
Il Museo a cielo aperto Maritiman (a destra)
Attraccato lungo la Banchina Sud del fiume il Maritiman. Un Museo Marittimo a cielo aperto, in cui si possono visitare 19 navi galleggianti, dalla petroliera al Battello Fanale, dall'incrociatore lanciamissili Småland al sommergibile Nordkaparen e molti altri esemplari di naviglio nordico costiero e d’altura.
Cenni storici e geografici
Göteborg con mezzo milione di abitanti è la seconda città più popolosa della Svezia, dopo Stoccolma. Situata nella contea di Västra Götaland e collocata nella provincia storica del Västergötland, sorge allo sbocco del fiume Göta, che sfocia sul Mare di Kattegatt, espandendosi geograficamente lungo l’intero sbocco del fiume fino a comprendere un arcipelago di rocce aride e scogliere, tipico delle coste selvagge del Bohuslän (isolotti di roccia, insenature e pittoreschi villaggi di pescatori). I ritrovamenti archeologici testimoniano la presenza dei primi insediamenti umani già 8 mila anni fa, e la città deve il suo nome alla tribù germanica dei Geati che abitava la parte meridionale della moderna Svezia. Il fiume su cui sorge la città si chiama Göta Älv (Fiume Göta), e Göta Borg è il forte/bastione costruito sulla foce del fiume per proteggere il porto, creato per essere la porta principale della Svezia per il commercio con l’occidente. Il porto fu attivo fin dal XII secolo, ma il borgo non fu vera e propria città fino al secolo XVI, quando un primo insediamento venne costruito dal re Carlo IX ad ovest del fiume Gota. Bisogna aspettare il 1612, data in cui Gustavo II Adolfo di Svezia costruì un nuovo insediamento alla foce del fiume secondo modelli olandesi, con strade e canali artificiali e una grande piazza, l’attuale Gustaf Adolfs Torg, vicino al canale principale. Dal XVIII secolo comincia l’era d’oro della città, divenuta porto principale della Svezia. Nel 1731 viene fondata infatti la Compagnia svedese delle Indie Orientali che avrebbe dovuto sviluppare il commercio con l’estremo oriente. Con l’avvento delle nuove tecnologie e l’aumento della concorrenza straniera, molti cantieri hanno oggi chiuso anche se il porto di Göteborg rimane il principale porto della Svezia. La città ha trasformato in parte la sua fonte di ricchezza nelle industrie manifatturiere, ed è sede di importanti aziende internazionali come SKF, Volvo ed Ericsson. Grazie all’influsso della corrente del golfo, la temperatura a Goteborg difficilmente in inverno scende sottozero, e le estati sono sempre molto fresche. Per muoversi in città in tutta comodità si può utilizzare la fitta rete tramviaria che la attraversa, la più grande d’Europa.
Parco divertimenti di Liseberg
In questa parte del Parco di Liseberg un tempo approdavano motovelieri per i loro traffici di cabotaggio. Oggi queste imbarcazioni fanno parte del paesaggio riportando alla luce la loro storia.
Hans, Gretel e la strega... (fratelli Grimm)
I caproni qui rappresentati fanno parte della ricca mitologia svedese
E’ sicuramente una delle attrazioni più visitate di Göteborg, a testimoniare anche la grande forza innovatrice che pervade tutta la città che in soli tre secoli di storia ha letteralmente trasformato più volte il proprio aspetto, adattandolo ai cambiamenti storici e culturali. Liseberg, a sud-est e a breve distanza dal centro, è il parco divertimenti più grande e più frequentato di tutto il Nord Europa, inserito in un magnifico scenario naturale, inserito nella top ten dei migliori dieci parchi divertimenti del mondo da Forbes Magazine nel 2005. Inaugurato nel 1923, oggi vanta oltre 50 tipi di attrazioni fra castelli incantati, giostre, giri d’acqua in canotto e montagne russe ed è visitato da oltre 3 milioni di persone e continua a essere acclamato come il più antico parco divertimenti della Svezia. Fra le attrazioni da non perdere, oltre alle montagne russe fra le migliori al mondo, l’Hotel dei fantasmi, un itinerario tra i corridoi di un albergo infestato. Oltre alla stagione estiva è possibile visitare il parco anche nei mesi invernali di novembre e dicembre, per le celebrazioni del Natale svedese, quando l’attrazione cardine diventa il mercatino di Natale, con la tradizionale cucina svedese, tra vin brûlé e specialità di carne di renna. Il parco è decorato da decine di giardini, il più recente dei quali è il Lisebergs Lustgård, una zona nuova con piante spettacolari intervallate da cascate e uno scenario naturale. Il parco ospita inoltre anche una sezione di sculture artistiche, concerti musicali ed esibizioni teatrali.
Il centro città
Il centro della città è vivo e giovane, e offre ai turisti una grande varietà di scelta fra eleganti caffetterie e locali alla moda, vicini a grandi centri commerciali. Qui si trova anche l’Università di Göteborg che con oltre 60 mila studenti è la più grande della Scandinavia e caratterizza lo spirito della città e ne anima le strade con eventi sportivi e musicali, soprattutto concerti rock, fiere e congressi. Per questo motivo Göteborg è spesso considerata come la città più accogliente di tutta la Svezia.
La Balena Blu imbalsamata
L'offerta culturale comprende il museo di Storia Naturale (Naturhistoriska Museet), con l'unica balena blu imbalsamata nel mondo, il museo d'Arte (Konstmuseum) con opere di maestri italiani come Veronese, Carracci, Canaletto e fiamminghi (Rembrandt, Rubens), il Museo di Arte Applicata e Design Industriale (Röhsska Museet) in un bell'edificio di inizio ‘900, il museo Etnografico (Ethnografiska Museet) con notevoli reperti sui Saami, la popolazione lappone della Svezia settentrionale.
Il cuore pulsante della città si trova nel grande viale di Göteborg (Kungsportsavenyn e comunemente noto come ‘avenyn’), ricco di negozi, gallerie d’arte, ristoranti, bar e alcune delle più importanti istituzioni culturali. Lo Stadsteatern (Teatro Comunale), il Konserthuset (la Sala Concerti), lo Stora Teatern (Teatro principale e uno dei più antichi della Svezia). Non lontano, sulla Christina Nilssons Gatan, si ammira uno dei teatri più moderni al mondo, la Opera House di Goteborg (1994) che ogni anno prevede un vasto programma di lirica, operette, musical, balletti e concerti. A lato del viale troviamo anche il grande parco cittadino di Trädgårdsföreningen, con una collezione molto bella di rose (il rosarium più grande d’Europa). Il parco è anche conosciuto per la Palmhuset (Casa delle Palme), un insieme di serre in stile diciannovesimo secolo. Ci troviamo lungo l’incrocio dei due principali canali di Göteborg, tra quello più grande, il Rosenlunds Kanalen, e il Stora Hamn Kanalen.
La cattedrale di Göteborg (Domkyrkan) è invece situata sulla Västa Hamngatan, nel versante nord. La piazza principale della città si chiama Gustav Adolfs Torg ed circondata da importanti monumenti storici: la Börsen (Borsa del cambio), la residenza Wenngren, il Stadshuset (il vecchio arsenale), il Municipio Rådhuset.
La visita delle città riserva ancora piacevoli sorprese: per una visione panoramica ci sono i bus turistici coperti o scoperti a seconda della stagione, oppure il vintage tram: una carrozza speciale vecchia di cent'anni, ma anche escursioni sull'acqua con i battelli Paddan in partenza da Kungsportsbron, costruiti per passare sotto ponti bassissimi. In un'ora si visitano tutte le vie d'acqua della città e si naviga nel porto commerciale sul fiume, sulle cui banchine gli architetti si sono sbizzarriti nel ridisegnare il profilo della città con il celebre palazzo dell'Opera, che ricorda le grandi navi oceaniche.
Göteborg e il suo porto
L’area del porto Lilla Bommen è dominata dalla Göteborg-Utkiken, il grattacielo dell’architetto Ralph Erskine, a strisce bianche e rosse, é familiarmente chiamato "il rossetto", domina la città dalla sua altezza di 86 metri. Da qui si può godere di uno dei panorami più belli di Goteborg. Un’altra grande attrazione è il Barken Viking, la più grande nave a vela commerciale mai costruita in Scandinavia a cui abbiamo dedicato la prima parte di questo viaggio. Salvata dalla demolizione dal governo scandinavo nel 1940, è una delle maggiori attrazioni turistiche della città ed ospita all’interno un albergo, un ristorante e una caffetteria. Attualmente l’ormeggio di questa magnifica nave a palo si trova nell’ambito portuale di Lilla Bommen vicino al “rossetto”.
Feskekörkan
Sorprendente é pure la sconsacrata "chiesa del pesce", un edificio neogotico di fine ‘800 con tetti spioventi, contrafforti e bovindi che ospita il mercato dove si possono comperare o degustare sul posto sgombri freschi del mare del Nord, gamberi, aragoste e i più delicati frutti di mare.
Nell’area del porto si possono visitare anche i cantieri navali di Terra Nova, nella zona di Majnabben per ripercorrere la storia navale della città con lo storico veliero Ostindiefararen Gotherborg, che apparteneva alla Compagnia Svedese delle Indie Orientali.
La Darsena dei Piloti di Göteborg
Il piloti del porto di Göteborg sono 24 e si alternano nel pilotaggio: mare, fiume, porto. A causa degli spazi ristretti, devono anch’essi lottare contro il “gigantismo navale” esattamente come i loro colleghi genovesi, amburghesi ecc... Siamo stati invitati ed ospitati con grande cordialità e promesse di rivederci per approfondire le problematiche tecniche organizzative e di manovra.
A sinistra un bella pilotina d’altomare
La pilotina di Marstrand (la Portofino svedese)
Potenti rimorchiatori in attesa della chiamata
December 28, 2015 by G-Captain
MSC MAYA
Ship Photo of the Day – Port of Gothenburg Welcomes World’s Largest Containership
On December 21, 2015, Mediterranean Shipping Company’s Ultra-Large Containership (ULCS) MSC Maya called at APM Terminals Gothenburg, becoming the largest containership ever to call in Sweden.
With 19,224 TEU capacity, MSC Maya ranks as one of the world’s biggest containerships by carrying capacity and measures 396 meters-long with a draft of 16 meters. The vessel arrived from the Port of Bremerhaven as part of the regular port rotation of the Maersk Line/Mediterranean Shipping Company AE-2/Swan Far East/North Europe Service in the 2M alliance.
The Port of Gothenburg is the only port in Sweden that can accommodate ships of this size. Since 2012, APM Terminals has planned to invest $115 million in the facility to establish Gothenburg as a deep-water hub for Scandinavia and the Baltic area. Gothenburg’s overall container throughput was 837,000 TEUs in 2014, with APM Terminals Gothenburg handling 759,000 TEUs, or approximately half of all Swedish container traffic for the year.
The MSC Maya is the fourth of 20 planned Oscar-class ULCSs’ for MSC. In January 2016, APM Terminals Gothenburg will also host the MSC Zoe, sister ship to MSC Maya.
Impianto per il collaudo dei mezzi di salvataggio navali
Molti castelli e fortezze nordiche sono adattati ad alberghi, ristoranti aperti tutto l'anno. Un esempio da seguire? Direi proprio di sì.
Sbarco alla Fortezza
Le Segrete
L’entrata del canale e porto di Goteborg vista dal Forte Älvborg. Sullo sfondo a sinistra il grande Terminal-containers dove inizia la vera e propria aerea commerciale del porto. Sulla sponda opposta i Servizi Nautici, Agenzie, Armamenti ecc...
L’interno della fortezza é adibito a Ristorante ed é frequentatissimo. Nella foto la sala da pranzo che nel ‘700 ospitava le camerate dei soldati.
Self service
Questo lungo ponte "Älvsborgsbron" collega le due sponde della città.
Della Göteborg più antica rimane poco. Sempre nella zona del porto troviamo la fortezza di Älvsborg alla foce del fiume Göta Älv. Serviva per proteggere l’accesso della Svezia all’oceano Atlantico. In realtà della fortezza medievale costruita attorno al XIII secolo rimangono solo le rovina delle mura, mentre la parte visibile è il nuovo castello (Nya Elfsborg), del XVII secolo. Nelle vicinanze è da non perdere il quartiere di Klippan, lo Skansen Kronan, fortificazione sulla collina a sud-ovest del centro della città.
Carlo GATTI
Rapallo, 22 Dicembre 2015