PERCHE' IL CANALE DI CALMA DI PRA' (Genova) E' inquinato
Perché il Canale di calma di Prà (Genova) è inquinato
Ogni volta che esco dall’autostrada a Prà e vedo il porto colà realizzato, penso a come poteva, anzi doveva essere, se non ci fossero state le …. fogne. Pare strano ma pure quelle riescono, in Italia, a deviare opere faraoniche perché ci si è dimenticati di regolamentarle per tempo.
Quindi non solo la burocrazia ci intralcia ma pure loro, o meglio, i funzionari inetti che avrebbero dovuto vigilare che si eseguissero i progetti iniziali invece di …infognarsi negli eterni compromessi..
Quando si iniziò a parlare di creare a Pra un nuovo porto, specializzato nella rumorosa movimentazione dei container, si prese subito in esame come garantire, con il tombamento, il problema dello scarico a mare del rio Branega che colà sfocia così come tanti altri piccoli rivi che, come tutti quelli della scoscesa terra ligure, quando piove diventano importanti, repentini e dirompenti torrenti. Poi si tentò di censire pure gli sbocchi, bianchi e neri, che dalla battigia si potessero individuare anche perché, molte delle costruzioni nel sito e sulle alture sono antiche e non esiste documentazione circa i loro scarichi fognari e molti scaricavano, da sempre, nei rivi esistenti. Molte fogne delle cascine in altura, con il tempo e gli smottamenti si erano creati nuovi incanalamenti, per raggiungere i rivi, filtrando sotto il terreno e quindi, invisibili, ma esistenti. Un problema.
Esaminato bene il luogo, si diede incarico di redigere una prima bozza a progettisti di chiara fama, funzionari come si usava un tempo, esempio di rettitudine, emeriti e seri professori universitari ed esperti di costruzioni marittime che si potevano contare sulle dita di una mano; esaminato l’esistente arrivarono alla conclusione che fosse indispensabile e prioritario individuarli e canalizzarli tutti così da portarli a scaricare al di lì della banchina esterna del costruendo porto, canalizzandoli mano a mano che si procedeva a tombare. In altre parole due o tre grandi canali in cemento avrebbero permesso di scaricare le acque intercettate e non, direttamente in mare aperto. Alla fine e in sicurezza, si sarebbe creato il nuovo porto che, “prolungando” sul mare la terra ferma, avrebbe avuto una superficie pari al doppio e forse più di quanto in realtà non abbia adesso. All’inizio nessun “canale di calma” era previsto come invece poi si ci è inventato per mascherare colossali errori e scoordinamenti. Sarebbe stato tutto un grande piazzale che dalla ferrovia e dall’Aurelia raggiungeva la attuale banchina esterna di scarico, con sotto i canali di sfogo. Per rimediare si raccontò pure la panzana che con questa soluzione si sarebbero creati due lati di attracco: uno esterno e una interno, utilizzando appunto quel canale. Questo secondo approdo non fu mai praticato per il basso pescaggio e per la difficoltà a far girare le navi, una volta costeggiato a levante il molo esistente, così da poterle infilarle in quello che eufemisticamente oggi viene chiamato ‘canale di calma’. Poi si compensò i penalizzati abitanti di Prà esaltando l’idea del canale “fognario”, perché di questo si tratta, utilizzandolo come base per sport acquei. Genova avrebbe avuto il suo canale per il canottaggio. Peccato che a causa delle reti nere che vi scaricano e dell’impetuoso vento che soffia da Voltri, si dovette anche per manlevarsi da possibili colpe, affiggere qua e la cartelli che ne vietavano la balneazione. Si raccolsero solo le fogne “visibili” in un unico depuratore Pra-Voltri. Dovendo rimediare per calmare gli animi e non perdere i tradizionali voti molto ambiti in zona, realizzarono sulla vecchia battigia, piscine balneabili per sopperire a quanto, per trascuratezza, resero inagibile e, del canottaggio “olimpico” non se ne parlò più. Ogni tanto vi si svolgono regate di canottaggio a sedile fisso, che altro non sono che i vecchi gozzi “filanti”, sport ormai in disuso e di nessun richiamo; ma attenti a non bagnarsi se si vuol restare sani.
Dopo tanto parlare, come capita in Italia, quando arrivarono i soldi si pose subito mano, anche sotto la potente, interessata e urgente influenza delle poche ditte in grado di eseguire simili imponenti opere, ad eseguire i lavori a mare; per non <disturbare i manovratori>, nessuno tirò fuori i progetti che prevedevano i canali sotto al costruendo molo e solo dopo ci si accorse che non si erano risolti i problemi idraulici del territorio ma, in compenso, si era costruito anche un ulteriore molo interno per contenere il nuovo approdo che si poteva risparmiare se si fosse realizzato il progetto iniziale. Pazienza, l’importante era “godersi” i finanziamenti. Per continuare a procedere indisturbati fu allora che si ideò il ‘canale di calma’ cioè quella lingua di mare fra la vecchia battigia e il molo a nord del nuovo piazzale, cosi che gli scarichi non individuati continuassero, come nel passato, a inquinare il mare. Con quel sistema, a chi avesse obiettato che gli scarichi fognari occulti e i torrenti erano ancora non regimentati, si rispondeva: tutto come prima, liberi di sfociare a mare senza alcun impedimento. Si ometteva di dire che a rendere ancora più inquinate quelle acque “ chiuse”, era il fatto che il canale non sfoga a ponente perché lì c’è la lingua di terra che collega il manufatto per le movimentazioni con la terra ferma e sul quale passa pure la ferrovia per servire il sito: un <cul de sac>, insomma. Quel canale divenne, piano piano e di fatto un porticciolo turistico rabberciato e mal servito ma atto a coprire una mancanza nautica in un sito che lo richiedeva: insomma un ennesimo fai da te che in certe zone non è neppure raggiungibile dai mezzi dei pompieri. Ma all’epoca le Giunte che reggevano le fila, nel mentre non battevano ciglio nel vedere lo scempio che si stata perpetuando, continuavano a ritenere la nautica un lusso per ricchi, anziché capire che avrebbe portato lavoro; quando le ideologie ottenebrano il buon senso.
Morale, siccome le correnti marine scorrono da levante a ponente, quando giungono a Pegli si aprono: un ramo passa esterna al nuovo porto e va verso la Costa Azzurra (è là che trovano le salme di chi annega dalle nostre parti) mentre quella più a terra si infilala nel detto canale a fondo chiuso, non permettendo il ricambio delle acque; la conseguente fuoruscita dei liquami che dovrebbero, per uscire, vincere la corrente stessa che li spinge a Ponente, e poi sfociare su Pegli, resta bloccata in sito. Le frequenti forti ventolate di tramontana, tipiche del luogo, non risolvono il problema, influendo solo a spazzare quanto galleggia sull’acqua e avrebbero reso impossibile un impianto olimpico per il canottaggio..
Insomma un ennesimo pasticciaccio all’italiana che ci fadire: xe peso el tacon del buso.
Renzo BAGNASCO
LA STORIA
Dal 1998 VTE (Voltri Terminal Europa) fa parte del Gruppo PSA, uno dei leader mondiali nel campo della gestione di terminal portuali per contenitori.
L’area portuale di Voltri-Pra trae le sue origini da un progetto dell’allora “Consorzio Autonomo del Porto di Genova”, ora “Autorità Portuale di Genova”, ed è stata sviluppata progressivamente a partire dagli anni settanta/ottanta.
Nel 1992 FIAT Impresit, credendo nelle reali prospettive di sviluppo dell’area genovese, decise di costituire una società di servizi portuali –SINPORT– acquisendo dall’Autorità Portuale la concessione a completare e gestire il terminal contenitori di Voltri.
A partire dal 1992, il terminal si è rapidamente sviluppato raggiungendo in pochi anni la sua attuale configurazione. In parallelo con lo sviluppo delle infrastrutture, sono cresciute le attività e le risorse impiegate da VTE. Il primo traghetto merci fece scalo a Voltri nel 1992, la prima nave Car Carrier nel 1993 e finalmente il 5 maggio 1994 fu la volta della prima nave porta contenitori.
Il processo evolutivo è supportato dalla crescita del numero di addetti diretti sino agli attuali 700 circa, in maggioranza giovani, che hanno acquisito in pochi anni alta professionalità e competenza in virtù di un’intensa attività formativa. Essi costituiscono un elemento importante della competitività del terminal.
Il costante miglioramento delle risorse di VTE è stato largamente apprezzato dal mercato che ha contribuito ad una crescita dei volumi di traffico fino al raggiungimento di circa 1.010.000 TEUs nel 2008 e 1.242.000 TEUs nel 2012 (anno record anche per il Porto di Genova, che superò i 2.000.000 di TEUs anche grazie all'apporto di VTE).
ALBUM FOTOGRAFICO
A cura di Carlo GATTI
Rapallo, 25 luglio 2016
COMPAGNIE DELLE INDIE - La VOC -
COMPAGNIE DELLE INDIE
LA VOC
Per molti versi, il XVII secolo si caratterizzò per l’esplosione delle “attività commerciali” in tutto il mondo. Molti Stati europei, a grande tradizione marinara, assegnarono il monopolio di questi nuovi flussi mercantili a delle Società di Navigazione che divennero famose per il “brand”:
COMPAGNIE DELLE INDIE ORIENTALI / OCCIDENTALI
che possiamo così riassumere:
1) - Compagnia britannica delle Indie Orientali - fondata nel 1600
2) - Compagnia Olandese delle Indie Orientali - fondata nel 1602
3) - Compagnia Francese delle Indie Orientali - fondata nel 1664
4) - Compagnia Danese delle Indie Orientali - fondata nel 1670
5) -Compagnia Svedese delle Indie Orientali - fondata nel 1731
6) - Compagnia Olandese delle Indie Occidentali - fondata nel 1621
7)-Compagnia francese delle Indie Occidentali- fondata nel 1635
Con le scoperte geografiche culminate con i viaggi di C.Colombo nel Nuovo Mondo, la geopolitica del mondo voltò pagina. Nuovi interessi spinsero gli uomini di mare a battere rotte anche inesplorate per avviare contatti commerciali.
Se fino al 1500 era stato il continente asiatico ad esprimere le forme più evolute di società organizzata, a partire da quella data il baricentro della storia andò gradualmente spostandosi verso l’Europa, che si impose come la civiltà dominante a livello mondiale.
Il perfezionarsi delle tecniche di navigazione, congiunto al miglioramento delle carte e strumenti nautici, incoraggiò lo stabilirsi di basi e mercati via mare tra i vari continenti e ciò ebbe come conseguenza, non solo un ampliamento della scena storica di regioni fin lì vissute in totale isolamento, ma anche la rottura di quell’antico equilibrio fra le civiltà euroasiatiche che per millenni era rimasto inalterato. Di questi sconvolgimenti su scala planetaria si avvantaggiò soprattutto l’Europa che, anche in virtù di una vitalità culturale radicata nei suoi trascorsi classici, seppe nel giro di due secoli estendere la propria influente potestà a quasi tutto il mondo di allora.
Nel XV secolo, con il trattato di Tordesillas, Spagna e Portogallo si erano divise le terre d’Oriente scoraggiando qualsiasi tentativo da parte di olandesi, francesi e inglesi di viaggiare verso le Indie. Faceva soprattutto gola l’intero capitolo riguardante LE SPEZIE di cui gli iberici detenevano il monopolio. Questo precario equilibrio trovò il suo punto di rottura nel 1580 quando la Spagna di Filippo II sottomise il Portogallo. Da allora i suoi vascelli carichi di spezie solcavano tutti i mari del mondo e tornavano in patria vendendoli a prezzi sempre più elevati chiudendo di fatto i porti di Cadice e Lisbona ai mercanti degli altri Paesi europei. Tuttavia, questo fine secolo fu caratterizzato da repentini cambiamenti strategici. L’impero spagnolo, essendo troppo vasto e mal amministrato, lentamente entrò in crisi e quando le Province Unite dei Paesi Bassi si rivoltarono contro gli Spagnoli che li dominavano, ottennero l’indipendenza.
Agli inizi del Seicento, con l’indebolimento di Spagna e Portogallo, si aprirono ampi spazi commerciali sulle nuove rotte tracciate da Capitani astuti e coraggiosi degli armamenti del Nord Europa. Nacquero, in questo stallo geopolitico, le Compagnie delle Indie in Olanda, Inghilterra e Francia le quali, con l’appoggio dei rispettivi governi, riversarono cospicui investimenti verso potenti flotte navali per la conquista dei mercati delle spezie in Asia. Le Compagnie divennero sempre più motivate verso un unico obiettivo: accaparrarsi nuovi territori e basi commerciali. La concorrenza fu spietata e non mancarono le guerre.
Le Compagnie diventarono quindi le principali protagoniste della colonizzazione del mondo e della costruzione di un unico mercato “globale” sotto l'egemonia europea. Nel Settecento esse rifornirono l'Europa di SPEZIE (pepe, noce moscata, chiodi di garofano, cannella ecc..) e tessuti orientali, ai quali si aggiunsero, nel secolo successivo, tè, caffè e zucchero. Poiché in Asia i prodotti europei non erano richiesti, le Compagnie dovevano pagare in oro le merci asiatiche. Talvolta, però, per evitarlo, organizzarono commerci interasiatici, scambiando, per esempio, tessuti indiani o pepe e spezie indonesiane con tè e porcellane cinesi. I privilegi delle Compagnie scontentavano in Europa sia i mercanti che non ne godevano sia gli artigiani in difficoltà, per la concorrenza dei prodotti coloniali (soprattutto tessili) importati dalle Compagnie.
In seguito ai crescenti contrasti con la Compagnia Olandese delle Indie Orientali, culminati nel 1623 con il massacro dei mercanti inglesi ad Amboina (Molucche), i due paesi: Olanda e Inghilterra raggiunsero una sorta di tacito accordo che dava all'Olanda una posizione dominante sull'isola di Giava e sulle altre isole dell'arcipelago indonesiano e agli inglesi il controllo dei commerci con l'India (esclusa Ceylon), mentre entrambe le Compagnie restarono libere nei propri movimenti in estremo Oriente.
Il Secolo d'Oro che segnò l'egemonia marittima e commerciale fuori dall'Europa
AMSTERDAM - Liberandosi dall'opposizione degli invasori spagnoli, da piccolo villaggio di pescatori, divenne la città più potente economicamente in tutte Europa, raggiungendo l'apogeo, nell'era che fu definita quella del suo Secolo d'Oro: il XVII. In questo periodo, Amsterdam, ricchissima città mercantile con 200.000 abitanti divenne la terza città d'Europa dopo Parigi e Londra, e si avventurò in quello che sarà un impero coloniale di lunga durata. Fu definita anche una delle più belle metropoli del rinascimento, per avere un'idea, è sufficiente ammirare le traccie lasciate dai rifugiati fiamminghi nel "Tornante d'oro" definito dai tre canali che sono stati tracciati dal 1612 e che presero il nome di Herengracht, Keizersgracht e Prinsengracht.
Con la fondazione nel 1602 delle Compagnie delle Indie orientali, l’Olanda acquisisce il monopolio sull'importazione di spezie dall'Indonesia, di porcellana dalla Cina e dal Giappone, di prodotti tessili dalle Indie. Nel 1664, con la Compagnia delle Indie occidentali, invece controlla il commercio degli schiavi tra l'Africa e le Americhe, ma questa é un’altra storia.
Dopo questa lunga premessa, facciamo ora la diretta conoscenza della Compagnia Olandese delle Indie Orientali.
Il logo della Compagnia Olandese delle Indie Orientali (Vereenigde Geoctroyeerde Oostindische Compagnie), abbreviato in VOC, fu costituita il 20 marzo 1602 con un capitale sociale di 6.459.840 fiorini sottoscritto dalle sei Camere olandesi Il varo della nuova COMPAGNIA avvenne quando il Governo le garantì il monopolio delle attività commerciali nelle colonie nelle colonoie in Asia.
Quale fu la reale causa politica di questa svolta epocale?
Tutto quanto accadde dopo che la ribellione delle Province UNITE dei Paesi Bassi contro la Spagna (1566), e il passaggio del Portogallo sotto la dominazione spagnola (1580), avevano prodotto la chiusura dei tradizionali porti di rifornimento: Cadice e Lisbona ai mercanti olandesi, costringendoli a procurarsi le spezie direttamente all'origine.
Mappa anacronistica delle Colonie Olandesi. In verde scuro i territori occupati dalla Compagnia Olandese delle Indie Occidentali
La Compagnia Olandese delle Indie Orientali nacque dalla fusione di otto compagnie minori messe sotto pressione dagli Stati Generali Olandesi intenti a coagulare le proprie risorse per strappare il monopolio commerciale dei mari delle Indie al Portogallo. La Compagnia era composta da 6 Camere (Kamers) fondatrici. Il suo organo esecutivo era costituito dagli Heeren XVII, ossia i Direttori, scelti in seno ad una assemblea di 60 rappresentanti degli azionisti con una presenza fissa di otto delegati della Camera di Amsterdam e quattro provenienti dalla Zelandia (Paesi Bassi). Il capitale iniziale fu in seguito diviso in piccole azioni rapidamente sottoscritte e successivamente rastrellate dagli stessi Direttori, che assunsero così una posizione oligarchica. Per il governo delle terre coloniali acquisite, la Compagnia creò un'amministrazione stabile con sede a Batavia, facente capo ad un Governatore Generale assistito da un Consiglio delle Indie composto da sedici membri.
Il monopolio dei traffici olandesi tra il Capo di Buona Speranza e lo Stretto di Magellano era stato concesso alla Compagnia per la durata di ventun anni, le fu data inoltre l'autorità di costruire difese militari, trattare con altri Stati e anche di guerreggiare. Nella prima metà del XVII secolo , la Compagnia invase più o meno pacificamente l'arcipelago delle Molucche (Amboina nel 1605, Banda nel 1609) dove la sottomissione dei Principati marittimi di Ternate, Tidore, Batjam raggiunse il culmine della sua potenza.
Sede della VOC ad Amsterdam
Pochi anni dopo, Francesi ed Inglesi furono estromessi e gli Olandesi s’installarono nel mar di Giava, occupando Bantam e fondando Batavia (1619). In questa città la Compagnia stabilì la sua Direzione Operativa Orientale la quale, essendo più a Est di Malacca e Goa, le conferì un permanente vantaggio strategico.
La capillare penetrazione della Compagnia proseguì più ad occidente con l'impianto di Fondi Commerciali a Johore e Malacca (1641), con la costruzione di basi sulla costa indiana del Malabar (1661), con l'invio di mercanti nel Borneo settentrionale (1665) e di missioni religiose a Formosa.
Il Trattato di Breda (1667) sancì l'esistenza di un Impero Coloniale Olandese d'Oriente costituito da una serie di basi commerciali fortificate dal capo di Buona Speranza (1652) a Timor, passando per lo scalo persiano di Bandar Abbas. La situazione di assoluto monopolio di cui la Compagnia godeva nel commercio di alcuni prodotti, permise agli azionisti di realizzare profitti altissimi, con un dividendo del 22% nell'arco della sua esistenza con punte del 132,5% nel 1610 e del 37,5% nel 1619, malgrado cospicui reinvestimenti per rafforzare la Compagnia dal punto di vista militare ed economico.
Entriamo adesso nel merito della consistenza della flotta olandese, e dei suoi metodi non del tutto democratici...
Un vascello della VOC al suo arrivo a Cape Town. Nel corso del Seicento le navi della Compagnia delle Indie Orientali Olandese (abbreviata in V.O.C., Vereenigde Oostindische Compagnie) battevano le acque dell'Atlantico e dell'Indiano e con il loro continuo andirivieni lungo una delle rotte più lunghe al mondo rappresentavano il simbolo stesso del potere navale olandese. Considerate dall'esterno, questi Indiamen (così venivano chiamate, genericamente, tutte le navi utilizzate nel commercio con le Indie) non erano molto diversi dalle navi da guerra che venivano costruite in quel periodo. La caratteristica che li accomunava era di avere la poppa quadra, a differenza dei mercantili di dimensioni più piccole che invece ne avevano una tonda. Per il resto, i costruttori si limitavano a farli un po' più larghi delle navi da guerra, per far posto al carico, e con la poppa un poco più alta, per far spazio ai passeggeri. Queste navi misuravano di solito circa 40 metri di lunghezza, misurati al ponte principale, ma non erano certo le più grandi che venivano costruite in Europa in quegli anni: spagnoli e portoghesi, per esempio, preferivano concentrare le loro merci su un numero minore di trasporti ma di dimensioni maggiori, fino a 1600 tonnellate di stazza o più, illudendosi che la sicurezza fosse in funzione diretta delle dimensioni.
Il Batavia è il relitto di una nave della VOC (Compagnia Olandese delle Indie Orientali) costruita ad Amsterdam nel 1628. La nave affondò nel 1629 durante il suo viaggio inaugurale e divenne famosa a seguito dell'ammutinamento e del massacro che ebbe luogo fra i sopravvissuti. Nei primi anni ‘70 molti oggetti vennero recuperati: alcuni di essi sono ora in mostra al Maritime Museum di Fremantle e altri sono al Geraldton Region Museum. Il relitto si trova oggi a una profondità di 6 metri, nelle vicinanze di Morning reef nelle Houtman Abrolhos, e sono ancora visibili cannoni e ancore, fra cui nuotano diverse specie di pesci. Una replica della Batavia è stata realizzata tra il 1985 e il 1995 ed è attualmente visitabile presso Lelystad in Olanda.
La vicenda del Batavia risulta particolarmente interessante grazie anche alla sua storia caratterizzata dall’ammutinamento della ciurma capeggiato dal capo mercante Jeronimus Cornelisz e dal timoniere Ariaen Jacobsz. L’ammutinamento influenzò notevolmente sia la storia precedente che quella successiva al naufragio, caratterizzando inoltre il sito dal punto di vista della ricostruzione storico – archeologica. La scoperta del Batavia, datata 1963, si deve ad alcuni subacquei sportivi che rinvennero i resti del relitto nelle acque antistanti la Beacon Island nel arcipelago denominato Houtman Abrolhos al largo delle coste del Western Australia.
Nel 1628 il Batavia prese il largo dal porto dell’isola di Texel nel nord dell’Olanda, diretto a Batavia (odierna Jakarta, Indonesia), sotto il commando di Francisco Pelsaert. La nave, costruita l’anno precedente, compiva il suo viaggio inaugurale trasportando un carico di oro e argento utile all’acquisto di spezie nella colonia della Compagnia delle Indie Orientali Olandese. Lasciata Città del Capo in Sud Africa, ove l’imbarcazione aveva fatto sosta per il rifornimento delle provviste necessarie per il proseguimento del viaggio, i due cospiranti diedero inizio al loro piano. Preso il commando della nave cambiarono rotta con l’intenzione di iniziare una nuova vita grazie anche al cospicuo e ricco carico trasportato. E’ noto come Jacobsz ebbe attriti personali con Pelsaert in India, anni prima, mentre Cornelisz si trovava in fuga dalle Netherlands, dove era stato accusato di bancarotta, e dov’era a rischio di arrestato per alcune accuse di eresia.
Museo del BATAVIA
Il viaggio terminò il 4 giugno 1629 allorché l’imbarcazione urtò il Morning Reef nel Wallabi Group dell’Houtman Abrolhos, un gruppo di isolotti e barriere coralline al largo di Geraldton nel Western Australia. Delle 322 persone a bordo, 40 perirono nel tentativo di raggiungere la terraferma, mentre i sopravvissuti organizzarono un campo di sopravvivenza nella Beacon Island. La mancanza di acqua potabile e di approvvigionamenti nell’isola obbligarono il comandante Pelsaert, il timoniere Jacobsz, alcuni membri dell’equipaggio e alcuni passeggeri a compiere un disperato viaggio, a bordo di una scialuppa di salvataggio (9.1 metri di lunghezza), in direzione di Batavia alla ricerca di soccorsi. Dopo 33 giorni di navigazione il comandante e gli altri a bordo (non vi fu’ alcuna perdita!) riuscirono a raggiungere l’Indonesia e, ottenuta un altra imbarcazione – la Sardam – ripresero il largo in direzione dell’Houtman Abrolhos.
Intanto nel campo dei sopravvissuti, durante l’assenza del comandante, Cornelisz continuò a portare avanti il suo piano. Egli era infatti cosciente di essere a rischio di giudizio in caso il comandante fosse riuscito a ritornare con i soccorsi. A questo proposito, progettò addirittura di dirottare eventuali imbarcazioni di soccorso, prendendone possesso, per poter così completare il suo piano e stabilirsi da qualche parte ad iniziare una nuova vita grazie al carico di oro e argento. Cornelisz era comunque cosciente di dover eliminare qualsiasi ostacolo che potesse frapporsi tra lui ed il successo del suo piano. A questo riguardo, il primo provvedimento che attuò fu di ottenere che tutte le armi e le provviste fossero poste sotto il suo diretto controllo. Ordinò inoltre al gruppo di soldati, posti a guarnigione del prezioso carico, di andare a cercare provviste d’acqua in uno dei vicini isolotti e, convinto dell’impossibilita’ di successo, li lasciò al loro destino. A questo punto, sicuri di aver ottenuto il completo controllo dei sopravvissuti, Cornelisz e gli altri ammutinati si lasciarono ad atti di barbarie.
La replica dell'Indiaman Batavia è stata realizzata nel 1995 e riproduce fedelmente la nave originale, affondata lungo le coste australiane nel 1628. La realizzazione degli Indiamen era supervisionata direttamente dalla Compagnia, dal momento che questa, sin dai suoi inizi, aveva scelto di trasportare solo merci proprie su navi proprie, e il modo in cui la Compagnia coordinava attività commerciale e attività cantieristica rimane uno degli episodi più interessanti di programmazione produttiva dell'epoca pre-industriale. La VOC infatti controllava tutta una serie di cantieri, sparsi in tutti i Paesi Bassi. Il più grande era situato ad Amsterdam, su un'isola artificiale del fiume Ij realizzata intorno alla metà del Seicento, e conteneva al suo interno le officine per tutte le fasi di produzione e lavorazione degli accessori necessari a far funzionare una macchina complessa come una vascello a vela. La centralizzazione delle attività permetteva alla VOC di programmare accuratamente, nella tarda primavera o nell'estate di una certa annata, tutte le fasi della costruzione delle sue navi. Il numero delle unità da impostare volta per volta nei cantieri nazionali dipendeva infatti dalla composizione del convoglio di ritorno dalle Indie che si voleva ottenere circa due anni dopo (le navi costruite in questi cantieri infatti venivano usate esclusivamente sulla redditizia rotta Olanda-Indonesia). Una volta fissata la quantità di navi da costruire veniva raccolto il materiale da costruzione, che doveva essere interamente importato, dal momento che i Paesi Bassi erano totalmente sprovvisti di foreste di alberi d'alto fusto. Le querce, i pini, gli abeti arrivavano dalla Polonia, dalla Norvegia, dalla Russia settentrionale e dalla Germania, e venivano lasciati per almeno sei mesi immersi in acqua per evitare spiacevoli deformazioni e crescite del legname una volta tagliato e utilizzato. Verso novembre o dicembre i tronchi erano tirati all'asciutto con argani e falegnami e carpentieri cominciavano a lavorare per dare forma al nuovo vascello. Ci volevano circa tre mesi di tempo perché lo scafo dell'Indiaman venisse completato, e questo era anche il tempo richiesto perché il legname si seccasse. Il varo avveniva in primavera, e l'allestimento veniva completato nelle immediate vicinanze del cantiere, con la nave solidamente bloccata in una specie di fitta staccionata di pali conficcati nel fondo del porto. La nave era pronta a salpare verso settembre, proprio in tempo per lasciare libero lo spazio e le risorse del cantiere per le riparazioni delle navi che ritornavano in quel periodo dalle Indie.
La nave Amsterdam era un vascello della Compagnia delle Indie Orientali, usato nel XVII secolo per scopi commerciali. Dal 1991 è ormeggiata accanto allo Scheepvaartmuseum o museo marittimo di Amsterdam. In realtà, la maestosa nave è una replica dell'originale, naufragata nel 1749 in viaggio verso l'Estremo Oriente a causa di una violenta tempesta. Il vascello è visitabile come singola attrazione o in combinazione con l'ingresso al museo.
Nel 1669 la Compagnia Olandese delle Indie Orientali possedeva 40 vascelli da guerra, 150 navi cargo e 10.000 soldati che difendevano i trasporti. Gli Olandesi arrivavano nelle isole delle spezie e con ogni mezzo, anche il più violento, assoggettavano le popolazioni locali per entrare in possesso delle piantagioni. Cercavano di specializzare ogni isola con la coltura di ogni tipo di spezia, e adottavano regole severissime per impedire a chiunque di trasportare anche solo una pianta al di fuori del terreno nativo. In questo modo, conquistarono l’isola di Banda che aveva il monopolio della noce moscata, l’isola di Ternate conosciuta per i chiodi di garofano e altre isole ricche di cannella e pepe. Soprattutto la conquista dell’Isola di Banda è emblematica del metodo di conquista da essi adottato: poiché la popolazione locale non voleva cooperare, fu sterminata e di circa 15.000 persone ne rimasero qualche centinaio che furono ridotte in schiavitù. Le spezie venivano conservate nei magazzini per regolarne l’afflusso sul mercato e mantenere alti i prezzi e - se le produzioni erano comunque eccessive - venivano bruciate.
Declino e soppressione
Tuttavia, alla fine del Seicento la potenza della Compagnia cominciò a scemare e nel secolo successivo, nel corso della quarta guerra anglo-olandese (1780-1784), furono persi numerosi stabilimenti, altri furono ceduti ai Britannici dopo l'invasione dell'Olanda da parte delle armate rivoluzionarie nel 1794 e nel 1798.
Altre cause del profondo declino della Compagnia Olandese delle Indie Orientali vanno viste:
- nella concorrenza francese e inglese
- nella cattiva amministrazione
- nelle ingenti spese militari dovute alle frequenti ribellioni indigene
- nella crescente corruzione
- nei debiti finanziari che condussero allo scioglimento della Compagnia nel 1799 quando la Compagnia cessò i traffici e fu sciolta due anni dopo lasciando i propri resti allo Stato Olandese.
Si può quindi affermare che in ORIENTE, il più potente gruppo europeo per tutto il XVI e XVII secolo fu la Compagnia Olandese delle Indie Orientali, lo fu soprattutto per la sua organizzazione commerciale e militare che toccò il suo apice nel 1619.
Non spetta a noi assegnare Patenti di Merito ... ma siamo convinti che la MARINERIA Olandese abbia avuto un ruolo determinante in questa affascinante pagina della storia di quel Paese. I suoi capitani furono i primi a trovare una rotta diretta per Batavia, facendo rifornimento (dopo il 1652) nel nuovo emporio olandese del Capo di Buona Speranza, sia navigando verso oriente sfruttando i venti dominanti intorno al 40° di latitudine Sud, sia entrando nell’arcipelago malese attraverso lo Stretto della Sonda.
Nel XVII secolo la Compagnia non diventò mai una grande potenza territoriale, né i suoi Direttori lo desideravano; ma assicurandosi basi in posizioni strategiche, esercitando pressioni sui principi locali e costringendo gli altri Europei ad andarsene dalla zona riuscì a garantirsi il monopolio di lucrosi commerci dell’arcipelago. Nelle altre zone dell’Estremo Oriente la Compagnia commerciava, come gli altri Europei, in concorrenza con gli altri mercanti occidentali e locali, secondo le regole stabilite dai governi asiatici.
La Compagnia Inglese delle Indie Orientali
Fondata nel 1600 per il commercio con le Indie Orientali. Fu costretta dall’Olanda a lasciare l’India dopo il massacro di Amboina nel 1623. La Compagnia negoziò concessioni con l’India Moghul e ottenne il controllo del Bengala nel 1757; le sue attività politiche furono fortemente limitate dal Regulating Act del 1773 e dall’India Act del 1784. Il suo monopolio commerciale in India cessò nel 1813, quello in Cina nel 1833. L’importanza della Compagnia decadde fino allo scioglimento legale decretato nel 1873.
La Compagnia Inglese delle Indie Orientali, costituita nel 1600, era un’impresa di minori dimensioni, che raramente fu in grado di resistere alle pressioni olandesi nell’arcipelago malese, e comunque era impegnata soprattutto nel commercio di cotonerie e pepe dall’India, dapprima nel porto di Moghul di Sarat, poi in scali propri a Madras, Bombay e Calcutta. Nel 1685 avviò un modesto commercio con la Cina, comprando té e porcellane ad Amoy, e più tardi a Canton, dove dal 1698 in poi i suoi agenti si trovarono in concorrenza con la Compagnie de Chine francese.
Come risultato delle rivalità commerciali e delle aggressioni armate da parte delle navi di queste Compagnie, che non tenevano in nessun conto lo stato di pace o di guerra in Europa, l’Estado da India portoghese subì gravi perdite sia territoriali che economiche; e anche molte correnti di commercio locali, marittime o carovaniere, che i Portoghesi avevano lasciato pressoché intatte (limitandosi tutt’al più ad imporre dogane) cominciarono a scemare.
Carlo GATTI
Rapallo, 19 Settembre 2015
DOMINE IVIMUS
DOMINE IVIMUS
RITROVATO IL PRIMO EX VOTO CRISTIANO
L’ex voto marinaro è un segno di gratitudine per una grazia ricevuta. In duemila anni di tradizione votiva cristiana, la storia marinara del nostro Paese passa anche attraverso le migliaia di ex voto fissati anonimamente alle pareti dei Santuari Mariani che presidiano le nostre coste. “Quanta fede su quei muri!”
In questa grafica del Santo Sepolcro di Gerusalemme, si nota nell’ala destra il settore armeno dove fu ritrovata la nave dei pellegrini (Pilgrim Ship).
Schiacciato nell'angolo sud-orientale della città vecchia si trova il quartiere armeno, nel quale vivono circa duemila persone appartenenti a questa antichissima comunità. Il grande monastero armeno é una città in miniatura, con le sue scuole, la biblioteca, il seminario, i quartieri residenziali, tutti disposti attorno alla Cattedrale di S. Giacomo. La maggior parte dell'area era occupata dal palazzo di Erode il Grande. I mercanti armeni arrivarono a Gerusalemme al seguito dei Romani (I sec. a.C.) e furono i primi ad abbracciare il cristianesimo (ufficialmente nel 301). Le sue chiese dipendevano dal metropolita di Cesarea Marittima. Nel 491, la Chiesa armena si scisse da quella cattolica. Una comunità armena stabile, costituita da pellegrini che si fermarono a Gerusalemme, risale al sec. V. Un documento del VII sec. elenca 70 monasteri in Gerusalemme; ciò che resta è solo il magnifico pavimento musivo di uno di essi.
L’archeologia armena in Terrasanta, con il suo passo lento e cadenzato da prove scientificamente certe, ha registrato nel 2004 alcune importanti scoperte. La più originale riguarda il dipinto di una nave rinvenuto nella parte centrale della roccia che era stata parzialmente asportata da Adriano e ricoperta da un tempio pagano. Molto probabilmente ci troviamo dinanzi al primo ex voto marinaro della storia. Il ritrovamento é opera di un team d’archeologi che nel 1978 intrapresero lo scavo nella cappella di San Vartan adiacente a quella di Sant'Elena dove la madre di Costantino ritrovò la croce della Passione di Cristo. A fianco dell'altare dedicato alla Santa, c'è una porta sbarrata che solo di recente viene aperta al pubblico da un monaco armeno per mostrare l’effige della nave romana.
Dipinto della nave romana con relativa epigrafe.
Il blocco di pietra ha le seguenti misure 0.65 x 0,31 mt. Il reperto é localizzato nella Cappella di San Vartan e dei Martiri Armeni che si trova nella sezione inferiore della Chiesa del Santo Sepolcro. Esso rappresenta una nave da carico romana del I° secolo con due timoni di governo a poppa, l’albero appare spezzato dal vento e le sovrastrutture strappate dai colpi di mare in coperta. Il viaggio é stato burrascoso e l’approdo miracoloso. “DOMINE IVIMUS” – (Signore, siamo arrivati). E’ l’allusione al Salmo 121:1- “In domum Domini ibimus” – (Andiamo alla casa del Signore). L’epigrafe certifica l’ex voto di un gruppo di pellegrini cristiani che sono giunti incolumi al Santo Sepolcro per “grazia ricevuta”. La rappresentazione é forse la più antica testimonianza di un pellegrinaggio cristiano in Terrasanta. Da quel fortunoso atterraggio qui raffigurato, alla tragedia del Giglio sono passati due millenni; oggi le navi sono dieci volte più lunghe e cento volte più sicure di quelle del tempo di Cristo, ma i nuovi ‘leviatani’ finiscono ancora sugli scogli perché al posto dell’umiltà del navigante-pellegrino di un tempo, é subentrato il delirio d’onnipotenza. Il vecchio adagio genovese: “se vuoi imparare a pregare vai in mare a navigare” é finito nella sentina della storia e forse anche la tradizione degli ex voto ha iniziato il suo declino.
Qui, erano dunque giunti dei pellegrini, ma non poterono raggiungere la parte centrale della roccia, poiché Adriano aveva sepolto i luoghi santi cristiani con la costruzione del tempio di Venere. Ma l’edificio pagano non riuscì ad eliminare lo spirito del ‘pericoloso concorrente’ della Roma imperiale che risorse più e più volte in quella terra martoriata. Questo fu il motivo che spinse i pellegrini a realizzare il loro ex voto un po' più in là, ma pur sempre nell'area della roccia del Golgota. L’evento accadde tra il I° e 2° Secolo, negli anni in cui il vero luogo della crocifissione era quindi inaccessibile. Tutto ciò confermerebbe quanto la tradizione del luogo sia stata conservata con tenacia e con precisione attraverso i secoli. *
La cappella di Sant’Elena, madre di Costantino
La cappella di Sant’Elena ha tre navate, con 4 colonne che sostengono la cupola, è di proprietà degli Armeni e fu la prima ala del Santo Sepolcro fatta costruire dai crociati. Fonti e scavi archeologici confermano che nel progetto costantiniano l’aula era in qualche modo già utilizzata. Dai muri pendono molte lampade secondo lo stile armeno. Il mosaico del pavimento raffigura le principali Chiese di questo popolo. Le colonne sono coronate da capitelli bizantini, due in stile corinzio e due a cestello, che i crociati riutilizzarono asportandoli dalla vicina moschea El Aqsa. Le finestre della cupoletta prendono luce dal cortile sopraelevato di Deir es-Sultan posto dietro all'abside della Basilica, dove si trovano le celle dei monaci etiopi.
Da circa 2000 anni, milioni e milioni di pellegrini si sono recati a Gerusalemme con ogni mezzo, affrontando mille difficoltà e a volta mettendo a repentaglio la propria stessa vita per fermarsi a pregare pochi minuti davanti ad un sepolcro vuoto. Il senso di tutto ciò lo abbiamo ritrovato per caso in un messaggio trovato sul web:
“Il nostro pellegrinaggio a piedi AD SEPULCHRUM si è concluso la sera di mercoledì 28 settembre con l’arrivo a Gerusalemme. Come i pellegrini che ci hanno preceduto possiamo dire anche noi, con la voce piena di commozione: Domine ivimus, Signore siamo arrivati. La lunga strada, il caldo, la sete, la fatica stemperate dall’amicizia e dalla gioia ci hanno sempre accompagnato in questi 10 giorni. Il senso di un cammino ci ha dato forza e speranza nelle difficoltà. Bruciati dal sole, è vero; con varie vesciche e dolenzie, come spesso accade, ma felici di sentirci uniti ai pellegrini di ogni tempo”.
Carlo GATTI
* Il primo cristianesimo generalmente copre il periodo che va dal suo inizio fino al Primo Concilio di Nicea del 325 d.C. Si sviluppò dalla Giudea romana nell'Asia occidentale e si sparse per tutto l'Impero romano e oltre (cioè nell'Africa orientale e Asia meridionale), fino a raggiungere l'India. Originalmente, questo progredire fu strettamente collegato ai centri di fede ebraica già esistenti, in Terrasanta e nella Diaspora ebraica. I primi seguaci del cristianesimo erano ebrei o proseliti biblici, noti come giudeo-cristiani e "timorati di Dio". Molti di questi primi cristiani erano mercanti, mentre altri avevano motivi pratici per voler andare in Africa settentrionale, Asia minore, Arabia, Grecia e altri luoghi. Oltre 40 di tali comunità vennero istituite entro l'anno 100, molte in Anatolia, nota anche come Asia Minore, tra cui le Sette Chiese dell'Asia. Per la fine del primo secolo, il Cristianesimo era già arrivato a Roma, in India e nelle maggiori città dell'Armenia, Grecia e Siria, servendo da base per la diffusione espansiva del cristianesimo in tutto il mondo.
Rapallo, 30 Dicembre 2013
GENOVA - LA CASA DEL BOIA
GENOVA - LA CASA DEL BOIA
Il porto antico, il cuore della città vecchia dove è nata la Serenissima Repubblica di Genova, spazia dal Mandraccio al Galata e nasconde molti segreti spesso sconosciuti agli stessi genovesi.
Dalle Calate Interne del Porto Vecchio, oggi chiamato Porto Antico, mille anni fa partivano i crociati per la Terrasanta dopo aver alloggiato nella retrostante COMMENDA di S. Giovanni in Pré. Da qui è passata la storia del capoluogo che dura da un millennio, ma questa Genova, “con quella faccia un po’ così…” conserva ancora la curiosa espressione di chi scopre facce sempre nuove, senza chiedersi se hanno una casa o una nave come casa.
Genova - Oltre alla simpatica nomea dei genovesi legata alla dubbia accoglienza, alla poca propensione nello spendere qualche soldino in più e al talento olimpionico per il mugugno, il genovese vive la sua quotidianità con eccessiva abitudine: come ogni difetto porta con sè i suoi rischi, uno fra tutti quello di arrivare a pensare che nel capoluogo ligure le visite guidate si esauriscano con la casa di Cristoforo Colombo, la Cattedrale di San Lorenzo o le Torri di Sant'Andrea.
Non è così. Un esempio: avete mai visitato la Casa del Boia a Genova? Conosciuta anche come Casa di Agrippa, è un edificio del centro storico risalente all'XI o al XII secolo, situato nel quartiere del Molo, all'estremità orientale di Piazza Cavour, proprio di fronte all'ex mercato del pesce.
Un'ottima idea per una visita guidata alternativa. Curiosi di visitarla? Il bello è che si può fare, grazie alla Compagnia Balestrieri del Mandraccio, che ha fatto della Casa del Boia la sua sede e che periodicamente organizza visite guidate. Dopo essere rimasta chiusa per un periodo a causa di lavori di ristrutturazione, ora la Casa del Boia è pronta ad accogliere i visitatori: eccezionalmente, la prima visita guidata è stata fissata per domenica 11 marzo 2018. Ne seguiranno altre.
Entrata della Casa del Boia, o casa di Agrippa
La freccia rossa indica l’esatta posizione un po’ anacronistica e surreale della Casa del Boia in Piazza Cavour sotto la “sopraelevata”. C’é un cumulo di pietre nella congestionata Genova di oggi che chiude a levante il Centro Storico più grande d’Europa, oltre il quale inizia la città moderna con corso Aurelio Saffi che sale e poi scende verso la Fiera del Mare.
Questo petit ensemble di rovine antiche, (indicato dalla freccia rossa nella foto sopra) é la cosiddetta Casa del Boia che tutti i rappresentanti istituzionali della città di Genova hanno inteso conservare nei secoli quale monito rivolto al passante affinché non perda la memoria dei tempi oscuri quando le parole: democrazia e giustizia avevano un significato che nel tempo si era allontanato a dismisura dagli ideali del mondo greco antico dove erano nate.
PIAZZA CAVOUR
Notare nel quadrato a destra in basso: la scritta Piazza Cavour in cui si trova la Casa del Boia a pochi metri dal porto. (carta P.Allodi 1855)
Dietro le “calate interne”, a destra nel disegno sopra, c’é piazza Cavour che, con la sua lunghissima storia, é uno dei più antichi siti di Genova. Dopo le Crociate, da qui prendevano il mare i condottieri delle flotte genovesi, e la consuetudine si protrasse sino alla metà del 1400. Un imponente corteo accompagnava l’ammiraglio dalla cattedrale di San Lorenzo al luogo d’imbarco, dove si congedava dai nobili e dagli anziani tra squilli di trombe, salve di bombarde e i suoni a distesa delle campane.
Le case di allora sorgevano sulla piazza – e di cui alcuni resti sono incorporati nelle costruzioni attuali – appartennero agli Embriaci, ai Mallone ed ai Castello. Nei secoli passati vi si tenne anche un mercato di erbe e verdure.
La CASA DEL BOIA è conosciuta anche come la CASA DI AGRIPPA. Risale infatti al ritrovamento, nel 1902, in un edificio attiguo, di un'iscrizione riferita a Marco Vipsanio Agrippa (63 a.C. – 12 a.C.), genero di Augusto, che ebbe un importante ruolo politico al tempo della transizione tra repubblica e impero. La scoperta avvenne quando, nel corso di lavori di ristrutturazione di un edificio medioevale adiacente alla Casa del Boia, vennero alla luce resti di una costruzione di epoca romana imperiale, datata al III secolo, con una pavimentazione in lastre di marmo, una delle quali riportava la dedica ad Agrippa, recuperate da un precedente edificio del I secolo d.C. ed oggi conservata nel museo archeologico nella villa Pallavicini di Pegli.
Busto di Marco Vipsiano Agrippa
Marco Vipsiano Agrippa é stato un politico, ammiraglio della flotta romana e architetto. Amico di Ottaviano il futuro imperatore Augusto, fu suo fedele collaboratore e anche suo genero. Agrippa fu artefice di molti trionfi militari di Ottaviano, il più considerevole dei quali fu la vittoria navale nella battaglia di Azio contro le forze di Marco Antonio e Cleopatra.
Sul frontone del Pantheon a Roma si legge: Marco Agrippa, figlio di Lucio, Console per la terza volta, edificò.
Nella foto sopra vediamo il frontone del PANTHEON di Roma sul quale l’imperatore Adriano (76 d.C.- 138 d.C.) volle ricordare l'architetto originario, e ripristinò l'iscrizione commemorativa di Agrippa "M. AGRIPPA L F COS TERTIUM FECIT"), in bronzo, quale oggi si vede: l'attuale è tuttavia una copia di fine Ottocento, al posto dell'antica scritta che fu depredata in una delle tante razzie.
Ma ora ritorniamo un po' alla curiosa storia della CASA DEL BOIA.
Questa tradizione popolare derivava dal fatto che le esecuzioni avvenivano presso il vicino Molo Vecchio.
L'attuale edificio è solo una piccola porzione di quello originario, che si sviluppava su più piani e probabilmente si estendeva per tutta la larghezza della piazza, tra il camminamento delle mura delle Grazie e il duecentesco carcere della Malapaga, in cui erano rinchiusi i debitori insolventi. L'edificio è conosciuto soprattutto perché tradizionalmente era ritenuto l'abitazione di colui che eseguiva le pene capitali al tempo della Repubblica di Genova e per questo era detto comunemente Casa del Boia. La costruzione invece, più verosimilmente è medievale, dell’XII° sec. ed è ciò che rimane di un’abitazione civile, probabilmente appartenuta ad un pescatore, poiché la zona allora si trovava proprio a picco sul mare che era ove adesso si trova l’ex mercato del pesce. I genovesi conoscono questa costruzione come “Casa del Boia”, perché è certo che durante le vicissitudini della città dal XII° al XV° sec. le condanne capitali venivano eseguite proprio qui al molo e quindi la leggenda ci tramanda questo sito come l’alloggio del boia quando veniva chiamato a Genova da “fuori” per fare il suo lavoro.
Genova - Piazza Cavour, vicino al porto antico, c’ è un relitto di casa dell’XI secolo che viene chiamata la Casa del Boia. Nella foto é ripresa l’entrata. Il Ministero della Cultura l’ha data in concessione alla Compagnia dei Balestrieri del Mandraccio. Questo edificio si ritiene per tradizione popolare fosse la casa di chi eseguiva le pene capitali al tempo della Serenissima Repubblica di Genova.
Qui il boia trascorreva la notte prima dell'esecuzione capitale assieme ad un aiutante chiamato tirapiedi, perché una volta aperta la botola dell'impiccato aveva il compito di strattonarlo al fine di velocizzare lo strangolamento. Ecco perché il servitore fedele, ma senza autonomia si chiama ancora oggi tirapiedi.
Dopo un lungo periodo di abbandono, nel 1988 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali lo ha dato in concessione alla Compagnia Balestrieri del Mandraccio, che grazie a lavori di recupero architettonico, nel 1990 vi ha aperto la propria sede sociale, arredando l'interno in stile quattrocentesco ed allestendovi un'esposizione di armi, armature e costumi di epoca medioevale.
CONCLUSIONE
Concludiamo l’argomento prendendo in prestito dal sito di Miss Fletcher una foto emblematica….
Vi lasciamo al suo commento originale:
“Si dice che nel XI secolo fosse questo il luogo presso il quale il boia compiva le sue esecuzioni.
Forse è realtà o forse è leggenda, derivata dal fatto che, al Molo, realmente si compivano le esecuzioni.
Tuttavia, circostanza ancor più strana ed ammantata di mistero, nel palazzo di fronte, ad angolo tra Via del Molo e Piazza Cavour, all’ultimo piano, in prossimità di un terrazzino, nel muro, c’è una scultura, che potrete vedere soltanto salendo i gradini di Piazza Cavour e puntando lo sguardo oltre la Sopraelevata.
E’ una testa, proprio di fronte alla casa del Boia.
Svariate e differenti sono le interpretazioni in merito a questa inquietante scultura e io davvero non saprei dirvi quale sia veritiera, mi limito a riportarvele, così come le conosco.
Il Miscosi, noto studioso delle storie di Genova, sostiene si tratti della testa di Giano, altri raccontano che schizzavano fin lassù le teste mozzate dalla scure, altri ancora sostengono che proprio lì sia murata la testa del temibile boia. Non so proprio quale sia la verità ma, in ogni caso, la scultura ha un aspetto decisamente sinistro”.
GATTI CARLO
Rapallo, 18 Aprile 2018
CANALE DI PANAMA - RADDOPPIA ...
CANALE DI PANAMA – RADDOPPIA ...
Il CORRIERE DELLA SERA - Milano, 26 giugno 2016 - 15:09
Intitola oggi:
Festa a Panama per il nuovo Canale - Un gioiello del «Made in Italy»
Una nave cinese inaugura la terza corsia destinata ai moderni giganti del mare Opera monumentale da 5,25 miliardi di dollari, che sfida la crisi dei commerci.
La prima nave ad imboccare il nuovo Canale di Panama, dal lato Atlantico, è stata una portacontainer cinese, 300 metri di lunghezza, battente bandiera delle Isole Marshall. La “Cosco Shipping Panama”, ribattezzata così per l’occasione, ha varcato all’alba di oggi, domenica 26 giugno, le nuove chiuse di Agua Clara per poi attraversare il lago artificiale Gatún e presentarsi puntuale all’appuntamento del pomeriggio, dopo otto ore di viaggio, davanti alla tribuna d’onore montata accanto alle chiuse gemelle di Cocoli, sul versante Pacifico. Ad accogliere il moderno mercantile, avanguardia di quelli che verranno, il presidente della Repubblica centroamericana, Juan Carlos Varela, e un drappello di capi di Stato e ministri stranieri. “Abbiamo costruito la nuova via del commercio mondiale”, commenta Pietro Salini, della Salini-Impregilo e “guida” del consorzio responsabile dei lavori.
Informiamo i nostri followers che su questo stesso sito (Mare Nostrum Rapallo), nella Sezione STORIA NAVALE, il 19.04.2012 abbiamo redatto un saggio sul CANALE DI PANAMA. Lo trovate al LINK:
https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=214:canale-di-panama&catid=36:storia&Itemid=163
Con questo aggiornamento ci proponiamo di sottolineare il nuovo assetto del CANALE che, dopo i lavori di ampliamento, ha reso agibile il passaggio anche alle nuove navi che appartengono, com’é noto, alla categoria del GIGANTISMO NAVALE, argomento più volte affrontato sul nostro sito.
Nome del progetto:
Ampliamento del Canale di Panama - Terzo set di chiuse
Paese: Panama
Cliente: Autoridad del Canal de Panama - ACP
Valore: 3.356 milioni di euro - quota parte 1.288 milioni di euro
Inizio lavori: agosto 2009
Durata prevista: 65 mesi
Il progetto prevedeva la realizzazione di un nuovo Canale che – a complemento dell’esistente – da oggi consente il transito di navi di maggiori dimensioni, incrementando il traffico commerciale in risposta agli sviluppi ed alla continua espansione del mercato dei trasporti marittimi.
DATI PRINCIPALI:
C’é subito da rilevare che l’opera ingegnieristica é tra le più ambiziose mai realizzate al mondo e parla italiano al 50%! Le PARATOIE sono state costruite dalla ditta CIMOLAI che ha battuto sul filo di lana la concorrenza USA. Aggiungiamo il software operativo e molti materiali speciali. La SALINI-IMPREGILO é stata la “guida operativa” al 48% di un progetto che cambierà il commercio mondiale.
ELENCHIAMO LE PRINCIPALI DIFFERENZE TRA LE NAVI COSIDETTE PANAMAX, CHE TRANSITAVANO PER IL CANALE DI PANAMA PRIMA DELL’AMPLIAMENTO, E LE NAVI POST PANAMAX, DI GRANDI DIMENSIONI, ATTUALMENTE IN CIRCOLAZIONI SUGLI OCEANI.
La realizzazione del Terzo Set di Chiuse del Canale permette oggi il passaggio di navi di maggiore tonnellaggio denominate Post Panamax, con una capacità: ......................12.600 TEUs;
lunghezza max: ............... 366 metri;
larghezza max: ...................49 metri;
pescaggio max ................... 15 metri.
Con il vecchio sistema di chiuse, il passaggio di navi tipo Panamax consentiva i le seguenti misure (ben inferiori):
capacità: .......................... 5.000 TEUs;
lunghezza max: ................... 294 metri;
larghezza max: ...................... 32 metri;
pescaggio max: ...................... 12 metri.
In particolare é stata realizzata la costruzione di due chiuse a salto triplo: una chiusa a salto triplo sul lato Atlantico ed una sul lato Pacifico. Queste chiuse permetteranno il sollevamento delle navi dal livello degli Oceani al Lago Gatun (intermedio rispetto ai due Oceani) e viceversa, in un tempo inferiore a due ore. Ognuna delle tre camere che costituiscono ciascuna chiusa:
larghezza: ........................... 55 metri;
lunghezza: ........................ 427 metri;
profondità: ...................23 a 33 metri;
Sono dotate di sistemi di paratie scorrevoli, in senso orizzontale, che consentono di superare il dislivello esistente di circa 27 metri tra gli oceani ed il lago Gatun.
Le Paratoie (Lock Gates).
Il funzionamento efficiente e sicuro delle Chiuse è regolato da Paratoie tipo: “Porte a Scorrimento Orizzontale” che, parimenti alle Porte tipo “Vinciane” delle chiuse esistenti, sono di provata tecnologia ed applicazione in installazioni di questo tipo. Queste Paratoie, azionate da argani elettrici, impiegano circa 3-4 minuti per realizzare la chiusura/apertura delle Chiuse. Le dimensioni di queste Paratoie:
altezza: ..........................23-33 metri;
larghezza: .......................... 10 metri;
lunghezza: ......................... 58 metri.
Impatto ambientale: il riutilizzo dell’acqua attraverso il sistema di Water Saving Basins.
Gli studi effettuati hanno permesso di realizzare una strategia di sviluppo del progetto ambientalmente e socialmente sostenibile al fine di mitigare tutti gli impatti sul territorio, sull’ambiente e sulla popolazione. Una particolare attenzione è stata attribuita sin dalla fase progettuale alla riduzione del consumo di acqua del lago Gatun durante le fasi di transito. A tal fine è stato studiato un nuovo sistema – definito Water Saving Basins – che consente attraverso l’introduzione di Bacini ausiliari il recupero ed il riutilizzo parziale dell’acqua del lago Gatun. In questo modo si ha un risparmio di acqua pari al 60% ed il transito che richiederebbe l’utilizzo di circa 500 milioni di litri di acqua si realizzerà con circa 200 milioni di litri.
PRINCIPALI DATI TECNICI DELL’AMPLIAMENTO:
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Dragaggi: ............................7.100.000 m³ |
Scavi:................................74.000.000 m³ |
Reinterri:...........................18.000.000 m³ |
Calcestruzzi:....................... 5.000.000 m³ |
Cemento: ...........................1.600.000 ton |
Acciaio di Armatura:............... 290.000 ton |
Acciaio per paratoie e valvole:... 71.000 ton |
Edifici (96 unità):..................... 40.000 m² Dal SECOLO XIX riportiamo il seguente commento di A.Q. Viene rilevato da più parti che se si saprà cogliere questa opportunità del Nuovo Canale di Panama che coincide con quello di Suez, il Mediterraneo può Rrtornare ad essere il centro di molte rotte navali. Oggi nel Mare Nostrum Transita il 19% del traffico mondiale in volume ed il 25% per le rotte. L’Italia é Terza in Europa per traffico merci con 473 milioni di tonnellate e prima nei Paesi UE nel corto raggio. In vent’anni il numero dei container movimentati nei 30 Porti maggiori é cresciuto del 425% con un tasso medio del 21% annuo. Ma servono novità sia nelle Autorità Portuali sia nelle infrastrutture: i principali Porti italiani soffrono ancora troppo la concorrenza nel Mediterraneo.
ALBUM FOTOGRAFICO PROVE DI TRANSITO DEL CANALE della bulk carrier BAROQUE
La nave ha salpato, si avvicina nell’attesa che il pilotadel Canale di Panama salga a bordo. In navigazione verso le nuove chiuse. Nel centro della foto si vede a destra il nuovo passaggio, a sinistra il vecchio. Panama Canal Authority
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9.6.2016 - La Bulk carrier BAROQUE (Post-Panamax) all’interno delle nuove chiuse del lato Atlantico del Canale di Panama.
REUTERS/Carlos Jasso
Il rimorchiatore di prora é il Cerro Santiago, uno tra i tanti fatti costruire dal Panama Canal Authority in previsione dell’uso delle nuove chiuse (new locks).
REUTERS/Carlos Jasso
Come si può notare da questa foto, si tratta sempre di manovre di precisione.
Il rimorchiatore di prora é di ultimo tipo. E’ collegato alla nave con due cavi, uno per lato. Notare che entrambi i cavi passano nello stesso passacavi centrale del RR e sono incappellati alla bitta a doppia croce sulla poppa. I due cavi formano la cosiddetta “briglia” che permette di tenere la nave nel centro della chiusa.
REUTERS/Carlos Jasso
In questa successiva immagine si nota chiaramente la briglia in tensione del Rimorchiatore.
In questa immagine panoramica si vede chiaramente sulla destra la Torre di Controllo del Panama Canal Authority
Lato Atlantico del Canale di Panama. La prima nave a transitare sta per affrontare la prima chiusa. Sulla destra della foto s’intravede il vecchio passaggio.
La B/c BAROQUE tra breve metterà la prora nel centro del lago Gatun
Ecco come si presenta la porta galleggiante della chiusa in fase di chiusura.
REUTERS/Carlos Jasso
Gli operatori della Torre di Controllo del traffico del Canale di Panama.
CARLO GATTI
NUNZIO CATENA
Rapallo, 30 giugno 2016
IL RADDOPPIO DEL CANALE DI SUEZ
IL RADDOPPIO DEL CANALE DI SUEZ
Vista satellitare del Canale di Suez
Un po’ di storia
Il bisogno di collegare il Mediterraneo con il Mar Rosso fu soddisfatto per la prima volta dagli antichi egizi, circa quattromila anni fa, con l’apertura di un’altra via d’acqua, che collegava il braccio più orientale del Delta del Nilo con il Grande Lago Amaro e questo con il Golfo di Suez. Di un collegamento diretto fra i due mari si cominciò a discutere prima a Venezia, nel Cinquecento, poi, nei due secoli successivi, in Francia. Fu anche allo scopo di esaminare sul posto il problema che il Direttorio inviò Napoleone in Egitto nel 1799, ma l’ingegnere incaricato dello studio, Charles le Père, scrisse nella relazione che l’idea era irrealizzabile, a causa di un presunto dislivello di dieci metri fra i due mari. L’errore fu corretto mezzo secolo dopo da un altro ingegnere francese, M.L. Linant de Bellefonds, il quale dimostrò che in realtà il dislivello era di scarsa importanza. Così il «sogno» millenario tornò di attualità. Uno dei tecnici che con più passione si dedicò alla realizzazione del progetto fu un ingegnere italiano, Luigi Negrelli di Moldelba, nato nel Trentino e perciò suddito austriaco. Grande tecnico ferroviario e idraulico, realizzatore di opere importanti in Austria, Italia, Svizzera, Germania, il Negrelli studiò il problema dal 1838 al 1858, anno della sua morte, redigendo, insieme con esperti di varie nazionalità, compreso il piemontese Pietro Paleocapa, ministro dei Lavori pubblici del Regno Sabauda, i piani con cui la via d’acqua fu poi effettivamente realizzata da Lesseps. Geniale avventuriero, Lesseps riuscì a persuadere il pascià d’Egitto Mohammed Said della possibilità e necessità di aprire il canale, che fu scavato in dieci anni (dal 25 aprile 1859 al 17 novembre 1869) da una compagnia internazionale con capitali francesi ed egiziani.
Il canale, costato il doppio delle stime originali, era di proprietà del governo egiziano (44%) e della Francia (attraverso più di 20.000 azionisti), mentre altre grandi potenze si mostrarono molto scettiche sulla redditività dell'opera. La prima nave attraversò il canale il 17 febbraio 1867, ma l’inaugurazione dello stesso avvenne il 17 novembre 1869 alla presenza dell'Imperatrice Eugenia con una cerimonia sfarzosa, per la quale Johann Strauss jr compose la Egyptischer Marsch (Marcia egizia). Per l'inaugurazione, il Kdivé d'Egitto aveva chiesto a Giuseppe Verdi di comporre un inno, ma Verdi, restio a comporre musica d'occasione, aveva rifiutato; i contatti con Verdi comunque continuarono, e culminarono nella composizione dell'AIDA, andata in scena al Teatro Khediviale dell'Opera del Cairo il 24 dicembre del 1871.
Inaugurato con fastose cerimonie, il canale misurava all’epoca 161 km di lunghezza, da 70 a 110 metri di larghezza alla superficie, 45 metri alla profondità navigabile e 32 metri a livello del fondo piatto; il pescaggio massimo era di 11 metri e mezzo; il limite di velocità (negli anni Trenta e Quaranta di questo secolo) era di 10 km all’ora. Il transito richiedeva circa 18 ore. In base alla convenzione internazionale di Istanbul, il canale fu dichiarato «neutrale», nel senso che tutti potevano usarlo, «in pace o in guerra, senza distinzione di bandiera. Controllato militarmente dagli inglesi dal 1882 al 1954, nazionalizzato da Nasser il 26 luglio 1956, con un anticipo di 13 anni rispetto alla scadenza della concessione di 99 anni, il Canale di Suez fu chiuso due volte: dal 29/30 ottobre 1956 all’aprile 1957, in seguito alla triplice aggressione anglo-franco-israeliana, e dal 5 giugno 1967 al 5 giugno 1975 a causa della «guerra dei sei giorni».
Fu poi notevolmente ampliato, in modo da poter accogliere petroliere da 260 mila tonnellate a pieno carico e da 370 mila scariche. Le nuove misure sono le seguenti: larghezza alla superficie da 193 a 352 metri; sul fondo 107; pescaggio massimo 16 metri e mezzo. Il transito dura circa 15 ore.
Il Canale di Suez nel 2015
Egitto, pronto il nuovo canale di Suez: un'opera faraonica voluta da al-Sisi
Tutto è pronto per domani. L'Egitto si prepara all'inaugurazione del nuovo tratto del Canale di Suez. Le misure di sicurezza sono state rafforzate in tutto il Paese. Per questa giornata speciale si potrà viaggiare gratuitamente in treno. L'annuncio è arrivato dal ministro dei Trasporti, Hany Dahy, che ha così voluto «ringraziare» i cittadini che hanno finanziato il progetto. Oltre ai treni, sarà gratuito anche il servizio ferroviario metropolitano nei governatorati del Cairo e di Giza. Una fastosa cerimonia alla presenza del presidente Abdel Fattah al-Sisi. Per l'occasione sono stati mobilitati più di 10mila poliziotti e soldati, compresi quelli dei reparti speciali.
Opera maestosa. Questa grande opera è considerato un vero e proprio dono dell'Egitto al mondo. A 146 anni dalla costruzione del Canale di Suez, si realizza un sogno: il raddoppio di una parte del tratto esistente, grazie ad un canale parallelo, che velocizzerà il traffico rilanciando l'economia del Paese. Una vera opera faraonica voluta dal presidente al-Sisi e costruita a tempo di record, in un solo anno. Decine di capi di Stato e di governo, re e principi, emiri e governatori sono stati invitati ad assistere domani all'inaugurazione di questa nuova autostrada del mare. Maestosa la cerimonia con il presidente al-Sisi che attraverserà la seconda via acquatica sullo yacht Mahroussa, la prima nave che navigò nello storico passaggio nel lontano 1869, studiato da Ferdinando Lesseps e realizzato da Alberto Negrelli. A bordo vi saranno le delegazioni dei diversi Paesi.
Dall'acqua al cielo, dove alcuni F16 sorvoleranno l'area con una dimostrazione aerea. Poi l'entrata in funzione effettiva del tratto seguito dal suono delle sirene che risuoneranno in vari porti del mondo. Una lunga giornata di festa, con fuochi d'artificio e performance di folklore locale, che si concluderà con un concerto della marcia trionfale dell'Aida, opera che fu commissionata dal vicerè d'Egitto, Ismail Pascià a Giuseppe Verdi in occasione dell'apertura del Canale sul finire del XIX secolo ma mai eseguita in quella occasione, bensì due anni dopo. Da settimane i principali quotidiani del Paese esaltano l'opera e parlano di uno «storico» evento, mettendo in evidenza come il progetto, «leggendario e mitico» rilancerà l'economia, con ricadute positive sull'occupazione. Nazionalismo e orgoglio anche sui social media con numerosi cinguettii: «Siamo i nuovi faraoni, facciamo miracoli» o «Scriviamo la storia».
Il Canale si allunga per 72 km: un nuovo tratto di 35 chilometri parallelo a quello esistente, oltre all'ampliamento e all'approfondimento dell'attuale per una tratta di 37 km. Un lavoro considerato necessario. Il Canale era diventato inadeguato perché non vi potevano transitare le gigantesche
superpetroliere e i mercantili erano costretti a lunghe attese prima di poterlo percorrere. Lo scopo è velocizzare il transito, diminuendo i tempi di percorrenza attraverso la riduzione dei tratti a senso unico alternato e raddoppiando il traffico giornaliero. Si prevede che farà salire gli incassi dei moli dai 5,3 miliardi di dollari attuali a 13,2 nel 2023, portando vantaggi ai trasporti mondiali. Il costo stimato del progetto è di 8,2 miliardi di dollari. Oltre al raddoppio il piano prevede la costruzione di porti, di una zona industriale, con cantieri navali per riparazioni e altre strutture. Tantissimi egiziani hanno risposto un anno fa all'appello del governo del Cairo a finanziare il progetto e in soli otto giorni sono stati raccolti 6,5 miliardi di dollari tramite la vendita di obbligazioni. Secondo alcuni studi entro il 2050 il nuovo Canale potrebbe garantire all'economia egiziana fino al 35% delle sue risorse.
Con il raddoppio del Canale aumenterà la centralità del Mediterraneo. Sarà questo, secondo l'Osservatorio di Srm sui trasporti marittimi e la logistica, l'effetto dell'apertura del nuovo Canale di Suez, che sarà inaugurato giovedì 6 agosto, sulle rotte marittime. Nel Mediterraneo, infatti, circola già il 19% del traffico mondiale di merci ed i traffici sonoaumentati negli ultimi 15 anni di oltre il 120%. Nell'area inoltre vanno insistendo importanti investimenti portuali nelle varie nazioni del bacino, come Tanger Med, Pireo, Algesiras e Valencia. Tra il 2000 e il 2014 il trend di traffico del Canale ha visto registrare un aumento di oltre il 120% delle merci transitate, valore che sale +202% se si considerano solo i traffici container; (+187% nella direzione Nord-Sud e +219% nella direzione Sud-Nord). Il Raddoppio del Canale consentirà l'aumento del numero di navi di passaggio da 49 a 97 navi al giorno e la diminuzione del tempo di transito da 18 ore a 11 ore; inoltre, a differenza del Canale di Panama che manterrà anche dopo i lavori di ampiamento il limite delle navi da 13.000-14.500 container, il Canale di Suez non ha limiti nella dimensione delle navi che possono transitare. La combinazione di questi tre fattori (diminuzione dei tempi, aumento del numero dei passaggi e nessun limite dimensionale) aumenterà la convenienza di passaggio attraverso Suez anche per alcune rotte dall'Asia verso la costa occidentale degli Stati Uniti che attualmente usano Panama.
In questa foto si nota il raddoppio del Canale
I numeri del secondo canale
Un progetto che avrebbe dovuto essere completato in tre anni ma che il Al-Sisi ha voluto venisse terminato in meno di uno. E così è stato: 72 chilometri resi operativi in meno di dodici mesi, anche grazie all'entusiasmo della comunità industriale e finanziaria locale che in appena otto giorni ha messo a disposizione gli 8,5 miliardi di dollari necessari per la costruzione del passaggio. Il primo Canale di Suez, inaugurato nell'ormai lontano 1869 , è stato costruito in dieci anni.
Carlo GATTI
Rapallo, 28 Agosto 2015
ADONAI
ADONAI
Il PROTOCRISTIANESIMO fu profondamente radicato nella religione degli ebrei. Il gruppo nascente di seguaci continuò a sentirsi nell'alveo dell'ebraismo quindi anche nell’uso dei termini come ADONAI.
Santuario ed Eremo
MARIA SS. MATER ADONAI - Brucoli (Augusta)
La Madonna ADONAI risultava già utilizzata da una comunità cristiana nella seconda metà del sec.III. Custodisce un antichissimo dipinto della Madonna con Bambino e la Croce.
Il Santuario di S. Maria Adonai sorge quasi sul mare nei pressi di Brucoli specchiandosi nelle acque del Golfo di Catania, nella parte nord della provincia e della Diocesi di Siracusa. Sullo sfondo l’Etna
Secondo antiche tradizioni e testimonianze, riprese anche da vari scrittori del XVI e XVII sec. tale Santuario risulta essere un oratorio paleocristiano, ed una delle primissime chiese dedicate al culto di Maria SS., così come ne fa fede il titolo ebraico “Mater ADONAI” (Madre del mio Signore). E’ sicuramente il Santuario mariano più antico della Sicilia e forse, anche, del mondo cristiano occidentale. Una presenza cristiana in questo luogo è documentata a partire dall’anno 253 dell’era cristiana.
La sacra grotta – chiesa- E’ il più antico Santuario della Madonna esistente in Sicilia.
E’ sempre primavera
L’oratorio dedicato a Maria SS. Mater Adonai fu fondato nella prima metà del III sec. da un cristiano di nome Publio, da Trotilo, in una delle numerose grotte di un ipogeo preesistente, denominate “grotte del Greco”, grotte abitate fin dalla preistoria e poi dai greci nell’VIII secolo a. C. al tempo della colonizzazione greca della Sicilia. In queste grotte, assai isolate, trasformate poi dai Greci in una necropoli, trovarono rifugio alcuni cristiani della comunità cristiana di Leontinoi, oppressa dalla sanguinosa persecuzione di Decio e Valeriano. Il santuario è costituito da una grotta davanti alla quale, nel secolo XVIII, dopo la riscoperta della grotta, venne costruito un avancorpo in muratura, che le conferisce l’aspetto di una modesta chiesetta.
Sul fondo della grotta si trova l’affresco della Madonna di Adonai, (vedi foto) realizzato secondo la tradizione da S. Agatone, Vescovo di Lipari, qui rifugiatosi insieme ai cristiani Lentinesi. La Madonna è raffigurata seduta su un serto di nuvole con in braccio il Bambino Gesù che con la mano destra impugna una croce, mentre con la sinistra poggia il suo scettro sul mondo. L’ immagine, secondo il parere degli studiosi, reca i segni di vari interventi successivi nel tempo (corone e globo), ma nessuno è stato finora in grado di datarne con assoluta sicurezza l’età. In questa grotta venne convertito alla fede Alessandro, primo ministro del tiranno di Lentini, dopo il martirio dei tre santi fratelli Alfio, Cirino e Filadelfo. Alessandro prese con il Battesimo il nome di Neofito; divenne poi Sacerdote e primo vescovo della Comunità cristiana di Lentini. Un’antichissima iscrizione ritrovata presso la chiesa ex-cattedrale di Lentini documenta il culto a Maria come Madre del Signore (Adonai) ancor prima del Concilio di Efeso. Nel IV sec. nel nuovo clima di libertà religiosa instaurato dall’editto di Costantino, la grotta-oratorio cadde in abbandono anche perché posta in luogo deserto distante da luoghi abitati. Dell’oratorio dedicato a Maria Mater Adonai rimase solo il ricordo e se ne perdettero addirittura le tracce per circa un millennio, anche se una tradizione tramandava il ricordo di una grotta con un immagine della Vergine che nessuno aveva più ritrovato. Si potrebbe ipotizzare che al tempo dell’invasione araba della Sicilia questa grotta fu nascosta per evitare che venisse distrutta, come tanti altri simboli della fede cristiana. La riscoperta della grotta con l’affresco della Madonna avvenne probabilmente tra il 1500 ed il 1600. Si tramanda che un pastorello la riscoprì in modo strano e da parecchi ritenuto miracoloso. Il pastorello dopo aver liberato un bue che era sprofondato in una buca del terreno - risultata poi essere il lucernario della grotta-oratorio - fu attratto da una misteriosa intensa luce che brillava nella cavità sottostante: calatosi attraverso il lucernario scoprì la luminosa immagine della Madonna con il Bambino.
Il luogo divenne subito meta di pellegrinaggi e dopo qualche anno, accanto alla chiesetta fu costruito un piccolo cenobio (oggi più comunemente conosciuto come “eremo”) da un gruppo di soldati spagnoli, che lì erano capitati per una visita occasionale, ma che rimasero incantati dalla bellezza dell’immagine e del luogo. Abbandonata la vita militare diedero inizio alla particolarissima Comunità monastica laica dell’Adonai, esistita fino al 1950, anno della morte dell’ultimo frate. Questi cenobiti osservavano una propria regola, ricavata in parte dalla fusione di quelle benedettina e cistercense. Questa Comunità di cenobiti si distinse per la vita di santità e per la promozione del culto della sacra immagine di Maria. ll Santuario dell’Adonai costituisce pure una delle più antiche chiese dell’ Italia Meridionale e, in particolare, della Sicilia sud-orientale sopravvissuta anche al catastrofico terremoto dell’11 gennaio 1693 che rase al suolo, con uno spaventoso bilancio di vite umane, quasi un terzo della Sicilia. Documenti notarili attestano l’esistenza della chiesa dell’Adonai già dall’inizio del 1600.
La struttura d’accoglienza del Santuario di Maria SS.ma Mater Adonai di Brucoli (Augusta) utilizza l’antico cenobio-convento da poco restaurato.
Nella prima metà del secolo II, Luigi De Leon da Faenza, alla testa di un gruppo di volenterosi, rifece ex novo l’eremo con 18 celle (quelle attuali), restaurò e rese ancor più grande l’oratorio costruendo un avancorpo, formando l’ attuale chiesetta. (è probabile che la modifica definitiva della chiesa nell’ aspetto attuale con la realizzazione del campanile laterale sia avvenuta con il De Leon, ma purtroppo di ciò non si hanno altre testimonianze). La comunità ebbe una grande fioritura per tutto il secolo XVIII e XIX sotto la guida di grandi figure come Fra Luigi De Leon da Faenza, Fra Luigi Bellieri di Pavia (poi fondatore del celebre eremo di S. Corrado a Noto), Frat’Alfio Drago di Melilli e Frat’Alfonso Vigo di Acireale. Nel sec. XVIII l’eremo ebbe il suo periodo di massimo splendore con conseguente rifioritura del culto della Madonna di Adonai. Nel febbraio 1740 i frati dell’Adonai ottennero la clausura pontificia, ma nella prima metà del secolo XIX la Comunità andò in decadenza, tanto che il cenobio rimase vuoto dal 1809 al 1839. In questo arco di tempo l’indifferenza e l’abbandono fecero ridurre la chiesetta e l’eremo in condizioni molto misere, poco più che delle rovine, ed il luogo rimasto incustodito fu depredato e spogliato di tutto. Nel 1839 otto eremiti sotto la guida di Fra’ Alfonso di Gesù e Maria (dei marchesi Vigo di Acireale) ripopolarono l’eremo e, con il concorso ed il generoso aiuto dei privati e di Ordini religiosi (particolarmente le Clarisse e i benedettini di Catania), fu restaurata la Chiesa. La chiesa fu ripulita, addobbata e riempita di reliquie e di quadri ispirati alla storia dell’ oratorio. Nel 1841 Papa Gregorio XVI concesse l’indulgenza plenaria a quanti, confessati e comunicati, avessero visitato il santuario nel giorno delle feste mariane di Maria Mater Adonai, (5 agosto), dell’Immacolata Concezione, della Natività della B. V. M., della Purificazione e dell’Assunzione e dichiarò altare privilegiato quotidiano perpetuo l’altare sottostante l’immagine della B. V. M. Quest’altare (che era il risultato di varie stratificazioni avvenute in epoche imprecisate) venne però demolito nel 1847 per fare spazio a quello attuale che con una sorta di cornice in marmo policromo incastona come in un quadro l’immagine della Vergine, e nel corso della definitiva sistemazione della sacra grotta vennero rinvenute sotto il piano del pavimento le tombe degli antichi eremiti. Un turbolento periodo furono gli anni 1866-1873 quando in seguito alle leggi eversive del nuovo stato italiano i monaci dell’Adonai rischiarono di vedersi confiscato il cenobio e quanto possedevano. Ne nacque una controversia giudiziaria che si concluse con la vittoria dei frati, anche se durante tutto quel periodo dovettero convivere, loro malgrado, all’interno del convento con gli operai della costruenda vicina ferrovia a cui il governo aveva concesso di abitare all’Adonai. Anche sul finire del secolo XIX la comunità dell’Adonai dovette subire un nuovo forte, momentaneo, periodo di crisi. Nei primi anni del secolo XX il numero dei frati si è progressivamente assottigliato, passando gradualmente da cinque ad uno. Non sono state estranee alla definitiva decadenza del glorioso cenobio le gravi crisi che hanno travagliato l’umanità sfociando nelle due sanguinosissime guerre mondiali. Il Santuario e l’Eremo, dopo la morte dell’ultimo eremita, Fra’ Antonino avvenuta il sette giugno 1950, sono rimasti, per qualche tempo, nuovamente abbandonati e sono diventati preda di vandali sacrileghi che hanno devastato e rubato tutto, perfino l’archivio, il tabernacolo in marmo, la campana, i quadri e una grande tela del 1815 raffigurante l’ordinazione sacerdotale di S. Neofito con le memorie cronologiche del luogo. Ai danni degli uomini si sono poi aggiunti anche i danni della vetustà delle opere murarie. Negli anni 70’ il Santuario con la sovrastante struttura monastica furono dati in comodato per circa un quindicennio ad una comunità ecclesiale di Catania sotto la guida di un sacerdote (P. Antonino Ildebrando Santangelo) che con notevoli sforzi e l’aiuto del volontariato hanno rivalorizzato l’antico eremo. Successivamente tutto il complesso venne affidato all’Azione Cattolica Diocesana di Siracusa, ma questa, ben presto, scoraggiata dal vandalismo fu costretta a lasciarlo.
Ecco come si presenta l’attuale complesso monastico. Da questa porta si accede alla grotta.
Affidati attualmente alla vicina Parrocchia di Brucoli l’Eremo e la Chiesa vanno risorgendo dalle loro rovine grazie alla custodia premurosa ed al lavoro di alcuni volontari. Durante l’anno l’antico cenobio, con una capacità ricettiva di 40 posti è in grado di ospitare in maniera molto “spartana” gruppi scout, gruppi parrocchiali ed ecclesiali per giornate o settimane di spiritualità, campi di formazione con il metodo dell’ autogestione.
A seguito del terremoto del 13 dicembre 1990 nell’anno 2000 sono stati eseguiti lavori di parziale ristrutturazione e consolidamento, mentre nel 2007 (*) sono iniziati i lavori definitivi di restauro. Durante il periodo estivo vi viene celebrata la S. Messa prefestiva, mentre tutti gli anni, da tempo immemorabile ogni 5 agosto, festa della Madonna Adonai si svolge il tradizionale pellegrinaggio. A partire dal 2007, ad anni alterni, la Madonna di Adonai viene onorata con una festa esclusivamente religiosa. Rifioriscono l’oasi di pace cristiana ed il culto a Maria SS. Mater Adonai.
A cura del Sac. Palmiro Prisutto e di Carlo Gatti
Rapallo, 30 Dicembre 2013
MUGUGNO ALLA GENOVESE...
MUGUGNO ALLA GENOVESE ...
La necessità “de mogognâ” dei marinai è un forte desiderio a non subire “chi gestisce il potere”; tanto da poter difendere i loro diritti, addirittura non rendendoli commerciabili. Questi “prestatori d’opera” hanno dato dignità al loro lavoro! Una forma embrionale di Democrazia. (Marcello Carpeneto)
Oggi il mugugno è un segno d’identità della città ma anche dell’intera regione, riconosciuta per la sua gente chiusa e stondäia (brontolona), apparentemente restia all’accoglienza e al turismo.
Un po’ di Storia
Genova - Via Conservatori del Mare
"Le mampae di Via dei Conservatori del mare". Cartolina tratta dalla collezione di Stefano Finauri.
Imboccando questo vicolo si vede ancora oggi una piccola lastra di marmo, doveva esserci l’apposita cassetta per gli avvisi per quegli illustri magistrati.
Ecco, per le denunce e i mugugni di competenza dei Conservatori del Mare bisognava venire qui!
La Magistratura dei Conservatori del Mare era la più antica Istituzione genovese che si occupava della sicurezza del porto e pure delle cause inerenti i sinistri marittimi. Questo organismo aveva sancito, fin dal 1300:
IL DIRITTO AL MUGUGNO
“Ius murmurandi”
Pare che tale privilegio sia stato accordato per la prima volta ai marittimi camoglini, la cui fama se l’erano guadagnata già nei tempi antichi per aver solcato e cavalcato i mari con sempre più crescenti successi. Una simile richiesta, proveniente da una “casta” benemerita, non poteva rimanere inevasa, anche perché si trattava della richiesta di un diritto che aveva un prezzo, anzi due tipi di ingaggio:
“il primo prevedeva paga elevata e niente mugugno, il secondo paga decurtata e diritto a lamentarsi”.
Nacque così, da origini marinare ben documentate, uno stile di vita che piano piano si estese a tutti i genovesi e i liguri in generale forgiando una mentalità sociale che si é protratta fino ai giorni nostri.
Gli armatori e i loro equipaggi, gli Agenti Marittimi, i Portuali e tutte le altre categorie del settore marinaro e portuale entrarono in questo modo di pensare che aveva come base fondante l’intolleranza a ricevere ordini ed ingerenze esterne che non si potevano accettare senza il diritto di mugugnare, quindi discutere “democraticamente”.
Seguendo il filone storico scopriamo che detto diritto/consuetudine trovò la sua pietra d’inciampo nel 1500 ad opera del grande Ammiraglio Andrea Doria che, temendo forse incrinature nella “disciplina di bordo”, preferì imboccare una strada più furba ma anche corretta sul piano della democrazia: “propose ai suoi equipaggi migliori condizioni di lavoro (ad esempio riduzione dei turni di voga) e alimentari (carne essiccata a bordo al posto delle solite sbobe) nonché un salario più cospicuo in cambio della rinuncia al mugugno”.
A questo punto possiamo aggiungere alcune riflessioni relative al mondo dei “bordi”. Chi ha navigato sa che gli ordini, per motivi di sicurezza, non si discutono, sia nella Marina Militare che in quella Mercantile. Questo concetto é sempre stato rispettato nella storia della navigazione fin dai suoi albori, pertanto é bene chiarire che il “mugugno” preso in considerazione in questa rubrica, ha dei limiti ben precisi rimanendo, si spera e si pensa, nell’ambito della dura vita del mare che va sempre tenuta sotto controllo, ma che mai può interferire con gli ambiti professionali della gerarchia di bordo.
Un altro interessante aspetto riguarda il CAMALLO DEL PORTO che di riflesso iniziò ad esercitare il diritto di mugugno percependo 9 soldi anziché 10 per una giornata di lavoro in porto, in compenso aveva il diritto di mugugno.
Si dice, fra i cultori della materia, che la percentuale di chi aderiva al diritto di mugugno fosse altissima tanto da potersi definire il mugugno come tratto distintivo del carattere di tutti gli “indigeni” della regione, alla faccia della presunta tirchieria…
Come scrive Miss Fletcher, un personaggio di grande simpatia e spessore culturale:
L’abitudine a lagnarsi è trasversale e assai diffusa, a Genova il mugugno è libero ed ogni occasione è buona per dar sfogo al proprio malcontento, si mugugna per il caldo e per il freddo, per le cose che non vanno e per quelle si vorrebbero in altra maniera, ogni circostanza può scatenare nuove lamentazioni.
Un’alzata di spalle, il sopracciglio che si inarca, il tono della voce che si fa cantilenante, il mugugno è un rituale e prevede una precisa gestualità. Al di là della propensione al mugugno, nella Superba ci sono tante persone creative e tenaci, vulcaniche ed entusiaste, animate da sincero desiderio di proporre alternative e continue occasioni di crescita per la città e per i suoi abitanti.
Esaltando le sue bellezze e le potenzialità, le ricchezze culturali e le possibilità, mostrando strade nuove da percorrere e modi diversi di guardare e di vivere i luoghi del nostro quotidiano, mettendo in risalto i lati positivi e ciò che altri non credono nemmeno immaginabile.
E questa per me è la Genova migliore, quella che sa fare la differenza.
Naturalmente cedere alla tentazione del mugugno è ammesso, lo facciamo tutti e può anche essere un peccato veniale se lo si fa con il giusto spirito, con una certa leggerezza, sapendosi prendere in giro e con la consapevolezza che lamentarsi e basta non serve proprio a niente.
ALBUM FOTOGRAFICO
LE METOPE SCELTE DA MISS FLETCHER RAPPRESENTANO IL MUGUGNO RIPRESO NELLE DIVERSE SUE ESPRESSIONI ARTISTICHE. FORSE NON E’ UN CASO CHE SI TROVINO SULLA FACCIATA DI PALAZZO TURSI, DIMORA ANNOVERATA TRA I ROLLI ED OGGI SEDE DEL COMUNE DI GENOVA.
Il commento di un anonimo genovese… al quale ci uniamo con simpatia!
MAGNIFICO….questo tuo post dove noi zeneisi siamo colpiti e affondati! azzeccatissimo…..ammia câa Miss semmou coscí còmme ti dixi ti…i discórsci
che gian insciú mogògno soun cæi e scetti “mogògno libberou” o ”levæme tùtto ma lasciæme ou mogògno ”, o ascí ” pe’ fâ andâ e cose drite ghé veu ‘na bella lite, niatri inte ‘na manea o natra douvemmou mogògnâ.
Ciâo grandiscimma, un grande abràsso e gràçie!
CARLO GATTI
Rapallo, 10 Aprile 2018
TRABOCCHI E TRABOCCANTI
TRABUCCO, TRABOCCO, BILANCIA O TRAVOCCO.....e TRABOCCANTI
Il sole catturato... da Rossana!
La nave catturata... da Rossana!
Il Dannunziano "Trabocco Turchino" ormai fatiscente é stato recuperato dalla Regione.
Le foto che seguono le ha scattate il signor DINO PIETRANGELI che ha collaborato alla ricostruzione del TRABOCCO TURCHINO.
Il trabocco più famoso della costa abruzzese lasciato all’abbandono era un colpo al cuore, proprio nell’anno del 150° anniversario della nascita del Vate che lo rese celebre e che da “quella grande macchina pescatoria, simile allo scheletro colossale di un anfibio antidiluviano” , si lasciò ispirare ne Il Trionfo della morte, ad un passo dal suo eremo. Per fortuna la sorte della struttura sembra destinata ad una svolta: “Siamo riusciti a evitare che uno dei simboli dell’Abruzzo venisse inghiottito dal mare”. E’ il commento del Consigliere regionale, e Presidente della Commissione Bilancio, Emilio Nasuti a margine dell’approvazione della legge che stanzia un contributo di 40mila euro da destinare al Comune di San Vito Chietino per il restauro del trabocco di Punta Turchino, descritto da Gabriele D’Annunzio.
“Questo trabocco – spiega Nasuti – è l’unico di proprietà di un Comune, è il simbolo della costa frentana, raffigurato anche in un celebre dipinto di Michele Cascella. E’ interamente realizzato su palificazioni in legno senza fondazioni, ma e’ stato seriamente danneggiato dalle mareggiate degli ultimi anni. Per questo il Consiglio regionale ha deciso di concedere al Comune di San Vito un adeguato contributo per consolidare questo monumento, rappresentativo dell’operosità e della cultura delle genti d’Abruzzo”.
In questa breve premessa abbiamo gettato il seme per la rivisitazione di un tema assai poco conosciuto, specialmente da noi “tirrenici” che spesso abbiamo lo sguardo rivolto verso OVEST, in segno di riverenza per tutto ciò che portato dal vento di ponente ha sapore di novità, di business e di moda. Siamo inoltre esageratamente attratti e distratti dalle nostre coste... nella convinzione d’essere stati baciati, solo noi, dall’Amore di Dio che ci ha fatto nascere da queste parti.
Curiosa quindi questa improvvisa fascinazione verso il Mar Adriatico complice una frase di D’Annunzio che il mio amico Nunzio Catena mi ha recitato al telefono:
« La macchina pareva vivere d'armonia propria, avere un'aria ed un'effige di corpo d'anima » |
Gabriele D'Annunzio: Il trionfo della morte. |
Una serie di domande hanno cominciato a frullarmi nella testa. La “macchina” menzionata dal Vate, si chiama TRABUCCO nelle varianti abruzzesi, TRABOCCO, Bilancia o Travocco nelle varianti molisane e sono un elemento “di corpo e di anima” caratterizzante il paesaggio costiero del medio e basso Adriatico.
Cos’é e come funziona questo grande attrezzo da pesca?
Vi propongo questa definizione che mi sembra la più affidabile e precisa:
“Il trabocco è un'imponente costruzione realizzata in legno strutturale che consta di una piattaforma protesa sul mare ancorata alla roccia su grossi tronchi di Pino d'Aleppo, dalla quale si allungano, sospesi a qualche metro dall'acqua, due (o più) lunghi bracci, detti antenne, che sostengono un'enorme rete a maglie strette detta trabocchetto.”
In pratica il trabocco sfrutta la propria altezza e il lungo sbraccio delle proprie antenne per tenere il suo equipaggio al sicuro dalle insidie del mare agitato.
Lo sbraccio di prora di questo trabocco “furbacchione” ricorda l’albero di bompresso di un veliero un po’ sgangherato... che sfida il mare dall’alto tenendosene lontano con tutte le sue attrezzature marinare fatte di alberi, draglie, rizze, bozzelli e pulegge ecc...
In questa immagine si notano invece le attrezzature da pesca chiaramente “rubate” anch’esse al mondo delle navi ormai fuori moda: lunghi bighi da carico (antenne) dotati di amanti, amantigli, pescanti e tutto l’occorrente per ammainare e poi virare la rete a bilancia con il pescato.
Per saperne di più, mi intrattengo ancora un po’ al telefono con il mio amico Comandante Nunzio Catena, (socio di Mare Nostrum), che abita proprio da quelle parti: Ortona Mare.
Nunzio, ho letto che i trabocchi non sono tutti uguali. E’ vero?
“Hai ragione. Vi sono due tipologie di trabocchi per due differenti tipi di costa.
Nella costa garganica, rocciosa e spesso a picco sul mare, l’impianto da pesca (il trabocco) necessita di un forte ancoraggio ad uno sperone di roccia, per potersi proiettare verso il mare con le sue lunghe antenne. Da quelle parti mancano, infatti, le golfate, le cale e i ridossi per i tradizionali pescatori imbarcati sui piccoli gozzi.
Diversa si presenta la costa abruzzese, i litorali sono meno profondi e viene usata una bilancia (rete), posta in posizione trasversale alla linea della costa. L’attrezzo, più o meno grande, pesca sopra la piattaforma marina, alla quale è collegata da un ponticello costituito da pedane di legno, inoltre le bilance hanno un solo argano, azionato elettricamente, anche quando il mare è perfettamente tranquillo e la rete è molto più piccola di quella dei trabocchi garganici.
Un’altra caratteristica che differenzia le due tipologie è la lunghezza ed il numero delle antenne, più estese sul Gargano (anche il doppio di quelle di Abruzzo e Molise); a Termoli le bilance hanno al massimo due antenne, sul Gargano e nel Nord Barese, a Barletta, Trani e Molfetta, sempre più di due.”
Questi attrezzi da pesca sono tuttora in uso? Oppure sono passati ormai alla storia...?
“I trabocchi di un tempo erano “macchine da pesca” bellissime e molto efficaci. Oggi alcune di loro sono state convertite in ristoranti diventando “macchine da soldi”. Qualche anno fa un mio parente comprò una villa sulla collina che domina dall’alto uno di questi trabocchi, quello del Turchino reso famoso, come ti ho detto, da D'Annunzio nel “Trionfo della morte”. Purtroppo, a causa dell'incuria, fu abbandonato e lasciato cadere in pezzi quando sarebbero state sufficienti qualche tavola e pochi fili di ferro per salvarlo. Per fortuna l’impianto è stato in seguito ricostruito con l’utilizzo di soldi pubblici, ma il risultato non ha nulla a che vedere con la copia originale di qualche secolo fa. La manutenzione ordinaria e straordinaria del trabocco avveniva all’epoca per opera degli stessi “traboccanti” che raccoglievano sulle spiagge tronchi di legno ed altro materiale di recupero ammassato sulle spiagge dal mareggiate.
La pesca al trabocco risale addirittura all’epoca dei fenici che, evidentemente, lasciarono il loro imprinting nel DNA dei pescatori abruzzesi. Nel 1600, forse “imboccati” dai francesi, ci fu un ritorno massiccio verso questa antica forma di pesca che consentiva di mangiare pesce tutto l’anno, anche e soprattutto durante i lunghi inverni burrascosi.
A questo punto della “fiaba” che pesca col trabocco nel mondo dei fenici, ti chiedo: come mai che insieme alla storia di quel popolo, aleggia un altro riferimento mediorientale: il Pino di Aleppo, l’antica città siriana che oggi sanguina a causa di una guerra senza fine.
Alcuni esemplari di Pino d’Aleppo
Tra Santa Margherita Ligure e Portofino svetta questo piccolo esemplare di Pino d’Aleppo che ha trovato ospitalità in una fessura dello scoglio “carega” (sedia).
Ecco come si presenta la corteccia di un Pino d’Aleppo
Continua Nunzio - “Il trabocco è tradizionalmente costruito col legno di Pino d'Aleppo, l’albero più diffuso in tutto il medio Adriatico; si tratta quindi di un legno pressoché inesauribile, modellabile, resistente alla salsedine ed elastico (il trabocco deve resistere alle forti raffiche di Maestrale che battono il basso Adriatico). Ma se ti piacciono le curiosità, te ne racconto un’altra: il termine “trabocco” deriva per sineddoche da quello della rete "trabocchetto", usato nell'uccellagione che é sinonimo di trappola. Il pesce, come un uccello, cade quindi nella trappola...
Entrando un po’ meglio nel dettaglio tecnico, ti assicuro che stiamo parlando di un tipo di pesca molto efficace, anche perché viene fatta a vista. Vale a dire, il trabocco non pesca pesce servendosi di strumenti elettronici, ma lo fa all’antica, forse alla fenicia... che consta nell'intercettare, con le grandi reti a trama fitta, i flussi di pesci che si spostano in cerca di “mangianza” lungo gli anfratti della costa. I trabocchi sono eretti a ridosso di punte rocciose orientate in genere verso SE o NO, in modo da poter sfruttare favorevolmente le correnti .Queste macchine sono molto diffuse e ancora operative lungo tutta la costa della Provincia di Chieti di cui sono originari, i trabocchi sono così frequenti che danno vita alla cosiddetta Costa dei Trabocchi , che si estende precisamente da Ortona a Vasto.
Nunzio, da quante persone é composto l’equipaggio di un trabocco?
“La rete (che tecnicamente è una rete a bilancia) viene calata in acqua grazie ad un complesso sistema de argani e, allo stesso modo, prontamente virata su per recuperare il pescato. Ad almeno due uomini è affidato il duro compito di azionare gli argani preposti alla manovra della gigantesca rete; nei piccoli trabocchi della costa molisana e abruzzese l'argano è azionato spesso elettricamente. Sul trabocco operano in norma quattro uomini, chiamati "traboccanti", che si spartiscono i compiti di avvistamento del pesce e di manovra.
Nunzio, ora tocca a me raccontarti una curiosità. Verso la metà degli Anni ’70 del secolo scorso, fu costruito un trabocco anche sulla costa ligure, a Vesima (nel ponente genovese). L'impianto fu dismesso quasi subito e resistette come struttura solo per alcuni anni.
“Probabilmente non c’é sangue fenicio dalle tue parti...” - sottolinea Nunzio.
Non sono granché informato, ma di una cosa sono certo: la corrente marina costante che bagna Vesima, proviene da una zona portuale lunga 25 KM... te lo immagini il gusto di quei pesci?
Proprio in queste settimane, dall’Adriatico provengono echi di conflitti ambientali: le estrazioni petrolifere che metterebbero in pericolo il turismo, le risorse ambientali e la stessa cultura enogastronomica. E’ così?
“A partire dal 2007 è in corso una dura mobilitazione della popolazione della costa e dell'entroterra abruzzese, finalizzata ad impedire la costruzione di impianti d’estrazione e trasformazione del petrolio nel territorio.
Il primo impianto che ha destato le preoccupazioni degli abitanti è stato il cosiddetto centro olii, ovvero un grande impianto (127.000 m²) di deidrosolforazione del petrolio greggio, progettato dall'ENI. La zona interessata è quella di contrada Feudo, nel cuore della produzione vitivinicola abruzzese. I timori della popolazione riguardano le ricadute sulla salute dell'esposizione all'idrogeno solforato, la distruzione della fiorente economia agricola e gli effetti negativi sul turismo. L'impianto dovrebbe sorgere infatti nelle immediate vicinanze della costa dei Trabocchi. Di recente la legge regionale n. 14 del 2009 ha sospeso la costruzione del centro, ma molte compagnie hanno presentato progetti per la realizzazione di piattaforme marine per l'estrazione e la lavorazione del petrolio, non interessate da tale legge.
Secondo quanto pubblicato il 6 maggio 2010 dal sito www.diebucke.it, lo scorso 18 aprile si è svolta a San Vito una manifestazione contro la petrolizzazione della riviera abruzzese che ha raccolto circa 5000 partecipanti”.
Ritornando al TRABOCCHI, vogliamo chiudere con una buona notizia:
Dal 2015 i Trabocchi diventano Patrimonio UNESCO, Life Style Regione Abruzzo.
Alcuni trabocchi sono stati ricostruiti negli ultimi anni, grazie anche a finanziamenti pubblici come ad esempio la legge regionale abruzzese n.99 del 16/9/1997, ma hanno però perso da tempo la loro funzione economica che nei secoli scorsi ne faceva la principale fonte di sostentamento di intere famiglie di pescatori, acquistando in compenso il ruolo di “simboli culturali” e di attrattiva turistica. Alcuni trabocchi sono stati persino convertiti in ristoranti.
ALBUM FOTOGRAFICO
Bruno Verì
“Per quasi tre generazioni i trabocchi hanno rappresentato il mezzo di sostentamento dei miei antenati" – racconta Bruno Verì, traboccante storico e artefice di questa trovata che sta rivoluzionando il turismo locale – "Mio nonno, e prima di lui il mio bisnonno, con il pescato locale riuscivano a sfamare tutta la famiglia”.
Come abbiamo già visto, é proprio questa, infatti, la funzione originaria dei trabocchi. Palafitte di legno dove sono ‘montate’ reti che vengono calate in acqua, per poi essere sollevate con il pesce intrappolato tra le maglie di corda.
D’altra parte, lo stesso Gabriele D’Annunzio parla del trabocco (o trabucco, com’era chiamato un tempo) come di “una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simile a un ragno colossale”. Quella del trabocco, secondo altre fonti, sarebbe una tradizione contadina, più che marinara; gli agricoltori che vivevano nei pressi della costa, spaventati dal mare ed incapaci di nuotare, inventarono questi marchingegni proprio per riuscire a pescare senza dover affrontare il moto ondoso.
Trabocco a Rodi Garganico
La vita intorno ad un trabocco
Trabocco a Molinella
Trabocco a Peschici
Trabocco Valle del Surdo – Villa Rosa
Trabocco Ristorante “Eredi di Tramalcione”
Il ristorante Trabocco Sasso della Cajana prende il nome da uno scoglio poco distante che emerge dalle onde e dà riposo ai gabbiani (la Cajana).
Se di giorno è bello, il Trabocco di notte è magico. La struttura in legno centenaria sospesa su grossi pali ad alcuni metri sul livello dell’acqua, offre la sera, una suggestione ancora più grande. L’atmosfera che si respira sulla piattaforma del trabocco, mentre soffia la serale brezza marina è incantevole ed incantevole è il sapore della cucina tipica abruzzese. Le centenarie strutture un tempo utilizzate dai pescatori, oggi ben si prestano a degustazioni di prodotti e piatti locali.
Trabocco Punta rocciosa
Il Trabocco Pesce Palombo a Rocca San Giovanni
Sono tantissimi i turisti, provenienti da tutta Italia e da tutto il mondo, che scelgono una vacanza sulla Costa dei Trabocchi proprio per cenare su queste suggestive palafitte sul mare, dove il pescato locale – e in parte i pesci catturati direttamente dalle reti del trabocco – offrono una succulenta cena genuina e gustosa.
Il tratto della Costa dei Trabocchi tra Fossacesia e San Vito
Un Trabocco allestito per un matrimonio
Ringrazio il Comandante Nunzio Catena per l'intervista concessa a MARE NOSTRUM RAPALLO.
05 giugno 2016
San Vito, inaugurato il trabocco del Turchino
Dopo il crollo di due anni fa, torna a nuova vita il trabocco che il Comune utilizzerà per attività didattiche e culturali. I lavori di ristrutturazione sono costati 185 mila euro.
Il taglio del nastro del rinnovato...
SAN VITO CHIETINO. Odora di legno e mare il nuovo trabocco di Punta Turchino. Legno di acacia, larice e pino che luccica non eroso dal tempo e dalla salsedine. La passerella è di nuovo integra, non ridotta ad un filo. Il piano pesca e il casotto poggiano su binari nuovi fissati su scogli ma anche su basi di cemento. La «strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simili ad un ragno colossale», come scrisse D’Annunzio nel “Trionfo della morte”, è tornata a vivere a due anni dal crollo avvenuto nella notte tra il 26 e il 27 luglio 2014. Ieri l’inaugurazione alla presenza anche degli alunni di quinta elementare delle scuole di San Vito marina e paese e della contrada di Sant’Apollinare.
Quasi cento assi di acacia raccolti nella fase di luna calante a gennaio (per il cui taglio San Vito ha pagato 15.500 euro dopo aver rifiutato le acacie che voleva regalare il Comune di Lanciano a far da base, legno di larice per la passerella lunga circa 60 metri e la piattaforma di 98 metri quadrati; legno di pino per il casotto, binari nuovi su cui poggiano le basi della struttura. «Il trabocco è composto di tre pezzi», spiega l’architetto Anna Colacioppo che ha curato il progetto, «passerella, piano pesca e casotto. La passerella, è fatta di sette segmenti e sale fino al piano pesca che è quattro metri sul livello del mare. Abbiamo usato l’acacia per la struttura e le parti basilari, il larice per le assi della passerella e del piano pesca e il pino per il casotto. C’è anche del cemento dove mancavano gli scogli. È l’unico trabocco che protende molto verso il mare (ed è anche l’unico di proprietà di un Comune, ndc) quindi ha bisogno di protezione e cura». Protezione chiesta anche dal sindaco Rocco Catenaro alla Regione mesi fa. «Ho chiesto protezioni, delle scogliere», dice Catenaro, «per evitare che si possa compromettere di nuovo la stabilità del trabocco e per rallentare l’erosione della costa al Promontorio dannunziano, che sta mettendo a rischio anche il sedime ferroviario dismesso. Oggi, però, spazio alla festa, al trabocco costruito dalla ditta Mari Ter srl di Ortona. Un lavoro complesso, su un progetto presentato dal Comune poco prima che la “macchina pescatoria” sprofondasse in mare. Un lavoro costato 185mila euro, 110mila dati dalla Regione e 75mila sborsati dal Comune. Il trabocco sarà utilizzato per attività culturali e didattiche e la
manutenzione sarà affidata a due traboccanti». Dopo il taglio del nastro, divisi in gruppi di 30, sono stati in molti a salire sul trabocco, a scattare foto sulla piattaforma con alle spalle il mare turchino che si confondeva con l’orizzonte. (t.d.r.)
NOTE AGGIUNTIVE SUI “TRABOCCHI DA FIUME”
di NUNZIO CATENA
Notare l'angolo della rete del trabocco.
Nella foto di molti anni fa, io sono ai remi, mia sorella ha il fazzoletto in testa.
Arcobaleno a Ortona (Foto-Rossana)
LA PESCA IN ADRIATICO
Le Paranze da pesca Abruzzesi
TRABOCCHI DA FIUME
Note aggiuntive del Comandante Nunzio Catena
Bilancia del fiume SALINE (Pescara)
Proponiamo una prima volta questa foto per la splendida rappresentazione paesaggistica. In seguito la esamineremo dal punto di vista costruttivo.
- In questo tipo di pesca, occorre salpare la rete nel momento in cui passa il pesce, per cui il traboccante si affida alla dea bendata! Molti usano legare un pesce vivo al centro della rete con il compito di richiamare altre prede.
Una moltitudine di Trabocchi sul fiume Saline (vicino Pescara)
Schizzo di una “bilancia” moderna da fiume
Il Trabocco (o 'bilancia') da fiume é un attrezzo composto di due bilancieri, chiamate anche pertiche o verghelle, (vedi disegno sopra) che sono metalliche ed incrociate allo scopo di sostenere una rete quadrata che viene sollevata ed abbassata da un paranco fissato ad un'asta (oppure può essere direttamente salpato con l'asta). Pare che, attualmente, la misura massima consentita della rete, per uso professionale, sia di mt 4 per lato e dev'essere di tipo amovibile.
Per poter recuperare il pesce dalla rete, occorre ruotare il “traversone” di 90 gradi e portarlo sulla riva come dimostra questa foto in cui si notano le pertiche di acacia.
I TRABOCCHI DI UNA VOLTA, (vedi foto sopra), disponevano di due bilancieri (pertiche o verghelle), composte da rami curvi ed invecchiati appositamente, giuntati l’uno sull'altro (ricordavano le costole della sezione maestra di una barca capovolta).
Le pertiche altro non erano che rami di acacia (Spino di Giuda) che, notoriamente, sono resistenti agli sforzi ed alle intemperie marine.
Le pertiche di acacia presentavano un ulteriore vantaggio: modellate al fuoco, si flettevano molto poco sotto il peso del pescato. Al contrario, quelle attuali in acciaio si flettono parecchio e riducono la superficie utile per la dinamica di quel tipo di pesca.
Riproponiamo questa bellissima foto per definire meglio i particolari delle verghelle della bilancia che si incrociano tra loro e penzolano da un longherone di 12-13 mt di lunghezza), formato da più travi, unite da un adeguato tondino (o piattina) di ferro per evitare deformazioni da sforzo. All'altra estremità (sulla riva) viene fissato un contrappeso con lo scopo di diminuire lo sforzo da applicare al penzolo utilizzato per salpare la rete dall'acqua. Questo lungo traversone viene fulcrato (ancorato) alla cima di un palo fissato sulla sponda del fiume con dei puntelli laterali che lo fissano al terreno, per trattenerlo durante le piene del fiume che a volte sono così impetuose da trascinare tutto l’armamentario in mare. In questi casi non rimane che attendere la bonaccia per andarlo a recuperare prima che un “intruso” lo trovi per primo e ne pretenda il dovuto compenso.
In questa ulteriore foto d’epoca, che desideriamo proporre e tramandare alle nuove generazioni, si notano i Trabocchi in posizione di “riposo” per recuperare il pescato. Nei pressi della foce, a seconda della corrente entrante/uscente, l’acqua é più o meno salmastra. Questa situazione ambientale e variabile, favorisce il transito di molte specie ittiche tra cui: cefali, spigole e qualche passera.
IL MONDO DEI TRABOCCHI HA ISPIRATO ANCHE IL CELEBRE MODELLISTA DI ORTONA
TOMMASO IEZZI
Giornata di vento teso. I trabocchi visti dal colle di San Donato dove é situato il cimitero militare canadese di Ortona.
Chiudo con queste opere d'arte di Rossana Di Paolo
Trabocco della Torretta
Ripreso dal fotografo di Zoagli
Cesare MALATESTA
Carlo GATTI
Rapallo, 23 Marzo 2016
SYRAKOSIA: Gigantismo dell'Antichità
SYRAKOSIA
Gigantismo Navale nell’antichità
Modello del SYRAKOSIA
Il re di Siracusa Ierone II, a dimostrazione della prosperità del suo regno, fece costruire, nei cantieri navali siracusani intorno al 240 a.C., quella che a tutto oggi è ritenuta la più grande Nave dell’antichità. Di questa Nave hanno scritto molti autori attingendo tutti alla medesima ed unica fonte, quella che Ateneo erudito enciclopedista ci ha fatto pervenire con il suo capolavoro: I Deipnosofisti, cioè I Dotti a Banchetto, fortunatamente e fortunosamente sopravvissuto sino ai nostri giorni.
Il trattato rappresenta un’opera importantissima che non è esagerato definire enciclopedica, nella quale si conservano la maggior parte dei frammenti della commedia attica media e nuova, e copiosissimi resti di storiografia greca, e rarità di ogni genere, oggi fondamentali per conoscere la cultura greca.
Ierone di Siracusa, amico incondizionato dei Romani, era anche un ambizioso armatore che costruiva navi da trasporto oltre che templi e ginnasi, infatti fu proprio lui a rivolgersi ad Archimede per la costruzione della famosa nave di cui oggi ci occupiamo.
La Syrakosia in un dipinto del 1798 – In servizio con Gerone II – Tolomeo III
Lunghezza: 110 mt. – Capacità: 1000 tonnelate di carico – Equipaggio: 400 soldati, 100 passeggeri
Artiglieria: 1 balista – 2 catapulte
(senza fonte precisa)
La grandiosa nave Syrakosia, (Siracusana), che Archimede progettò per Ierone II.
Si tratta della più grandiosa nave dell'antichità. La descrizione del Syrakosia, scritta dall’antico costruttore navale Moschione, fu inserita insieme a tantissimi resti di storiografia greca, da Ateneo (II-III sec. d.C.) ne "I Deipnosofisti" (I Dotti a banchetto). La conferma che si tratta della più grande nave dell'antichità, ci viene da Lionel Casson, dell'Università di New York, il quale ne stima la portata in 4.000 tonnellate, superata soltanto da navi costruite nel XIX secolo, quando si utilizzò ferro e acciaio per costruire le stive. La Syrakosia era, quasi certamente, un catamarano, ed il progetto di Archimede, nell'anno 240 a.C., venne affidato, per la realizzazione, ad Archia di Corinto, a Moschione e ad un certo Filea di Taormina.
Alcuni dati tecnici
Moschione ci racconta: “Per costruire questa vera e propria città galleggiante, gran parte del legno arrivò dai boschi dell'Etna, per la corda, sparto dall'Iberia, mentre la canapa e la pece arrivarono dal Rodano. Per i lavori vennero impiegati 300 artigiani e tantissimi aiutanti, che lavorarono i necessari materiali. La Syrakosia, che mostrava al mondo la potenza ed il benessere di Siracusa, disponeva di venti banchi di remi. La cabina del capitano aveva 15 divani e tre camere. Tutte avevano un pavimento a quadrelli di mosaico, fatti di pietre diverse, ove era ricostruito tutto il racconto dell'Iliade. Sulla nave erano stati impiantati anche dei giardini, formati da centinaia di piante, contenute in giare ed irrigate da sentieri di tegole di piombo.
C'era anche un padiglione dedicato ad Afrodite e gran parte delle porte erano in avorio e tuia. Tutte le camere interne erano arredate con quadri, statue, calici e suppellettili oltre ogni immaginazione. Una sala era adibita a biblioteca e sul soffitto di questa sala era disegnata una volta celeste, copia fedele dell'eliotropio di Acradina. Nel bagno realizzato in marmo di Tauromenio, vi erano tre caldaie di bronzo. Tantissime stanze erano riservate ai circa 600 soldati che trasportava ed altro spazio della nave era riservata alle dieci scuderie, contenenti i cavalli, gli attrezzi dei cavalieri. Si trovava anche un serbatoio d'acqua a prua dalla capacità di 2000 metri e nei pressi del serbatoio c'era una peschiera chiusa, piena di acqua di mare e tanti pesci. C'erano 4 àncore di legno e otto di ferro, c'erano, poi, 8 torri e su ognuna montavano 4 giovani con armatura pesante e due arcieri. Sui tre alberi si trovano degli uomini a cui, in cesti intrecciati, erano affidati pietre e proiettili. Infatti, la Syrakosia, benchè sia stata varata come nave mercantile, era equipaggiata anche come nave da guerra e conteneva diverse macchine belliche inventate da Archimede. L'equipaggiamento da guerra era necessario per fare fronte ai pirati che infestavano il Mediterraneo. Poteva trasportare 60 mila misure di grano, 10 mila vasi di pesce siculo sotto sale, 20 mila talenti di lana e 20 mila di altra merce. Soltanto che la Syrakosia fu vittima della sua stessa grandezza. Infatti, non tutti i porti dell'antichità erano attrezzati per ospitarla e quindi, Ierone decise di disafarsene. In occasione di un periodo di carestia in Egitto, la riempì di grano e decise di spedirla in dono al re Tolomeo, ad Alessandria. Qui, venne tirata a secco e si concluse la storia della più grande nave che nell'antichità abbia solcato il Mediterraneo. Archimelo, il poeta degli epigrammi, scrisse un carme per ricompensare Ierone: ‘Chi portò a terra questa nave, questo prodigio?... Già, dice, fu Ierone di Ierocle che a tutta la Grecia e alle isole in dono portò ricche messi, quello che ha lo scettro di Sicilia, il Dorico. Ma, Posidone, custodisci tu questa nave sul bianco fragore dei flutti".
Archia di Corinto quale direttore dei lavori. Dalla storiografia confluita in Ateneo sappiamo che Archimede, nel suo ruolo di epóptes (soprintendente ai lavori), programmò la costruzione della nave in due fasi:
1) - Il varo al termine dei primi sei mesi di lavoro, cioè al completamento dell’opera viva, quando lo scafo sarebbe stato ancora privo degli allestimenti e delle sovrastrutture dell’opera morta e soprattutto quando la stabilità (altezza metacentrica) dello scafo avrebbe garantito un equilibrio idrostatico perfetto.
2) – La fase successiva al varo, prevedeva altri sei mesi di cantiere in mare, da dedicare all’opera morta distribuita su tre ponti con sfarzosi allestimenti interni e imponenti attrezzature belliche.
La nave disponeva di venti banchi di remi, con tre passaggi: il più basso portava al carico, e vi si accedeva da una rampa di scale dritta; il secondo passaggio consentiva l'accesso alle cabine; dopo di questo l'ultimo, per gli amanti. Dal passaggio mediano, lungo i fianchi, vi erano trenta cabine per gli uomini, ognuna delle quali con quattro divani. La cabina del capitano aveva tre camere con tre divani, di cui quella di poppa era adibita a cucina. Tutte le cabine avevano un pavimento a mosaico, che ricostruiva tutto il racconto dell'Iliade, realizzato con pietre diverse. All'altezza del passaggio più alto c'erano una palestra e dei giardini ricchi di piante, irrigati da sentieri di tegole in piombo coperti, e fondali di edera bianca e viti, le cui radici affondavano in giare riempite di terra e irrigate con lo stesso sistema di tegole. Accanto vi era il padiglione di Afrodite, con tre divani, un pavimento in gemme d'agata e altre, tutte preziose. I fianchi e il soffitto del padiglione erano realizzati in cipresso, le porte di avorio e tuia. Quadri, statue e suppellettili adornavano l'ambiente. Accanto una sala studio con biblioteca era arredata con cinque divani. I fianchi e le prte erano in bosso, sul soffitto vi era una volta celeste, copia fedele dell'eliotropi di Acradina. E ancora un bagno a tre divani con tre caldaie in bronzo e una tinozza. Erano state costruite anche diverse stanze per i soldati di bordo e per le guardie. Su ogni fianco erano infine dieci scuderie, ed in corrispondenza di queste, le provviste per i cavalli e gli attrezzi per servi e cavalieri. A prua c'era anche un serbatoio d'acqua, fatto di assi con pece e pezze di lino, dalla capacità di 2000 litri.
L'imbarcazione era talmente complessa e organizzata da possedere una giurisdizione speciale per i crimini commessi a bordo, giudicati da un tribunale costituito dal naukléros , dal kybernétes e dal proréus, secondo le leggi di Siracusa.
La grandiosa imbarcazione fu concepita come una vera e propria domus aurea galleggiante, la cui magnificenza conclude l’iter della fervida attività cantieristica siracusana; venne battezzata con il nome di Syrakosía e donata a Tolomeo Filadelfo (!?) con il nome di Alexandrís.
Un’altra versione modellistica della Syrakosia
La "Syrakosia", progettata e realizzata nei cantieri navali siracusani, è la nave fatta costruire da Ierone II intorno al 240 a.C., a dimostrazione della prosperità del suo regno.
Carlo GATTI
Rapallo, 26 Agosto 2015