SAINT MALO' - UNO SCOGLIO, UNA STORIA
SAINT MALO' - UNO SCOGLIO, UNA STORIA
«Abitante di S.Malo’ prima, bretone può darsi, francese per quello che resta »
Saint Malo' è la città storica più famosa di tutta la Bretagna. Si trova in un sito unico, alle bocche del fiume Rance , non lontano da Mont Saint-Michel. La città costiera é fortificata con una cintura di bastioni e il suo centro storico, arroccato su un'isola disegnata geometricamente, guarda la Manica con aria di sfida. La baia é circondata da forti del ‘600 e ‘700 che furono costruiti su secche massicce come vedette avanzate. Lo spettacolo diventa suggestivo quando la marea montante cancella il piedistallo di granito e i forti sembrano galleggiare sull’acqua. L’ampiezza del fenomeno può raggiungere i 12 metri. Con la bassa marea compaiono invece vaste spiagge di sabbia fina che accolgono innumerevoli turisti a caccia di scatti fotografici. Questi capolavori d’ingegneria militare proteggevano Saint-Malo’ dagli Inglesi che attaccavano più volte dal mare senza mai riuscire ad espugnarla.
Oltre ai bastioni che con le loro mura circondano tutta la città con porte che ne permettono l'accesso, a Saint-Malo’ esistono, come ulteriore protezione, dei forti eretti su scogli raggiungibili a piedi con le basse maree.
Su uno di questi faraglioni, l'Ile du Grand-Bé, si trova la suggestiva tomba del grande scrittore romantico René de Chateaubriand nato a Saint-Malo’ nel 1768 che volle essere sepolto qui, sotto una lastra sormontata da una croce rivolta al mare.
Ricostruita dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, Saint Malo’ é oggi in grande espansione e il suo fascino antico e prezioso resta come città dai molti volti. Nelle notti invernali, quando il mare s’infrange sugli scogli e le luci della città si spengono, le strade piombano nel silenzio penetrato dal profumo delle erbe selvatiche e della lavanda che cresce spontanea. Il magico vento del Nord diventa allora il padrone assoluto che sferza i pensieri e mette a nudo l’anima dei suoi abitanti.
In questa atmosfera Saint Malo’ assume l’immagine di un grande schermo che riflette “avventure di mare” ed é facile immaginare la minacciosa flotta inglese avvicinarsi con l’artiglieria puntata contro la fortezza.
Sui bastioni l’attendono ancora i cannoni al loro posto, puntati sull’oceano da cui provengono tutti i pericoli.
Queste armi, divenute ormai un ammasso di ruggine, per secoli avevano protetto la città dalle incursioni dei Sassoni che, nonostante dominassero tutti i mari del mondo, non ebbero mai la meglio su questi intrepidi capitani, corsari ed armatori.
Aperta al commercio marittimo fin dal Medio Evo, Saint-Malo’ raggiunse presto l’apice della sua fama come città corsara . Dal Quattrocento in poi la città fu uno dei più grandi rifugi di pirati d'Europa e dal Seicento i suoi corsari passarano al servizio del Re di Francia, cacciando le navi inglesi e spagnole che intralciavano i loro commerci nell'Atlantico depredando le navi assalite con regole di guerra. I corsari più famosi di Saint-Malo furono René Duguay-Yrouin e Surcouf che cacciò le navi inglesi nei mari indiani.
Mentre il pirata era colui che attaccava i vascelli tenendosi tutto il bottino e il suo destino finale era l’ignobile impiccagione, il corsaro attaccava navi nemiche per ordine del Re di Francia da cui aveva ricevuto la "lettera di corsa", ossia l'autorizzazione ad attaccare navi mercantili nemiche. Al Re spettava il grosso del bottino e il corsaro percepiva solo una percentuale e prestigiose onorificenze. Gli interessi commerciali di Saint Malo, a questo punto, conciliavano con quelli del Regno e la figura del corsaro commerciante e navigatore assumeva anche una valenza militare. In tal modo, i corsari-armatori s’arricchirono sia per i commerci sia per gli assalti alle navi nemiche.
Nel centro storico sono tuttora visitabili le eleganti residenze degli armatori-corsari che non rinunciavano ad un sobrio tocco di nobiltà. Le riunioni per pianificare in tutta sicurezza i loro progetti "semi-legali", avvenivano in scantinati simili a labirinti che nascondevano le ricchezze depredate.
Tuttavia, si ha la reale percezione del fenomeno soltanto quando ci si trova al cospetto delle cosiddette Malouinières, piccoli castelli rurali che gli armatori-corsari più ricchi si facevano costruire nella campagna circostante una volta raggiunto l’apice della propria carriera in mare.
La carriera di questi capitani coraggiosi era dura e lunga. A 14 anni andavano a pesca di merluzzo sui banchi di Terranova-Canada che fu scoperta nel 1534 proprio da J.Cartier di Saint Malo’, poi alla scuola nautica Diderot, a 25 anni erano comandanti e corsari, a 40/45 diventavano armatori. Nella storia marinara di questa città, si legge di alcuni armatori che morirono sostituendo giovani capitani morti in mare e che le donne di famiglia diventassero a loro volta armatori.
Alla fine del XVI secolo le genti di Saint Malo’, forti delle loro ricchezze conquistate in mare, costituirono una Repubblica Indipendente seguendo l’esempio delle nostre Repubbliche Marinare.
Saint-Malo’ diventò molto ricca nel XII secolo quando i corsari controllavano il traffico marittimo nei Mari del Sud e nelle Indie Orientali e i suoi banchieri diventarono i principali importatori del denaro sud-americano in Francia.
René Duguay Trouin (1673-1736) Il più celebre corsaro (si può vedere la sua statua sul bastione St.Louis, nella quale è raffigurato con parrucchino e abito di corte) di Luigi XIV, si distinse durante le guerre contro l'Inghilterra e l'Olanda. Figlio di un ricco armatore fu imbarcato a 16 anni su una nave corsara per mettere fine ad una giovinezza burrascosa. A 24 anni viene integrato nella Marina Reale con il grado di capitano di fregata. Dopo aver conquistato nel 1711 il porto di Rio de Janeiro fu nominato capo-squadriglia (nel 1715), poi luogotenente generale nel 1728; ricevette dal Re anche un titolo nobiliare. Morì a Parigi ma i suoi resti furono in seguito trasferiti nella Cattedrale St. Vincent di St Malo’.
Robert Surcouf (1773-1827) Rispondendo alla chiamata del mare, cominciò molto giovane una carriera ricca di favolosi exploits, che si svolse sotto il Consolato, ma soprattutto nel periodo Imperiale e lo portò a catturare numerose navi inglesi. Egli fu inizialmente un negriero, poi un corsaro ed accumulò un'enorme ricchezza che gli consentì di andare in pensione con largo anticipo (a 36 anni). Si dedicò poi alla formazione di altri corsari e divenne un grande armatore, continuando così ad accrescere la sua fortuna. E' sepolto nel cimitero di St. Malo.
CURIOSITA’
Gli armatori-corsari di Saint Malo’ allevavano i colombi viaggiatori e li addestravano a ritornare al loro nido nelle Malouinièrs con dei messaggi. I volatili potevano compiere 1.000 km al giorno e quando venivano liberati, per esempio a Marsiglia, l’armatore veniva a sapere in giornata che la sua nave era arrivata a destinazione.
Carlo GATTI
Rapallo, 20 settembre 2013
UN IMBARCO ISTRUTTIVO... GIUAN DI CARUGGI
UN IMBARCO ISTRUTTIVO…
Giuan di caruggi…
La NESSY FRIEND era una moderna petroliera dei primi Anni ’60.
Buona strumentazione, locali spaziosi all’americana, una palestra da ginnastica (rimasta sempre chiusa per ordine del Comandante) ed altri comfort che, al momento dell’imbarco, ci avevano fatto dimenticare i disagi raccontati da tanti marittimi imbarcati su carrette tirate su dal fondo nel dopoguerra. La nave aveva una potente turbina che ci spingeva a quasi 20 nodi ci velocità e i viaggi ci sembravano più corti, ma era solo un’impressione. La sala macchina era sempre pulita e gli ufficiali indossavano la tuta bianca come gli ingegneri di terra. Il loro “sano” ambiente sembrava appartenesse ad un’altra nave, o quanto meno ad un’altra famiglia, saggia e di buoni principi.
L’equipaggio era sottoposto alla universale legge del mare:
- - fare la guardia con scrupolo per partire, navigare e arrivare in sicurezza;
- - controllare la posizione della nave tre volte al giorno;
- - raschiare e pitturare in continuazione, anche in Golfo Persico in estate con 50°-60° di calore, non escluso i gavoni di prora e di poppa;
- - il radar era un ottimo Raytheon ma apparteneva ad una sola persona: il Comandante che non era uno stupido, tutt’altro! Ma per capire il suo modo di pensare e di agire occorreva aggiungere circa 130 anni ai suoi 45, e andare indietro nel tempo: al trasporto dei Coolies cinesi nelle stive da Macao al Perù… (Vedi su questo sito: NAPOLEONE CANEVARO, i COOLIES cinesi si ammuntinano).
Per lui la parola DEMOCRAZIA era svuotata di ogni significato in tutti i suoi pensieri, atti ed atteggiamenti.
L’equipaggio proveniva dalle due riviere, solo il Comandante, naturalizzato genovese, era di una città vicino a Napoli.
Quella nave aveva un solo difetto: batteva bandiera ombra - liberiana e l’unica legge vigente a bordo era quella del Comandante che, come avete capito era uno “padre - padrone psicopatico”.
La parte burocratica del viaggio: registrazione arrivi e partenze dai porti, le avarie della nave, del carico, sbarchi-imbarchi equipaggio, eventuali problemi di qualsiasi tipo (assicurazioni, perizie ecc…) erano “risolti” presso il Consolato Liberiano del porto scalato, il quale era del tutto disinteressato alle “beghe da frati” che accadevano tra i rissosi equipaggi latini…
A dire il vero il Comandante era un uomo di mare che conosceva alla perfezione il numero dei bulloni della “sua” nave, era un “tappo” che faceva coppia con il 1° Uff.le di coperta; avevano la stessa età ma tra loro c’era un abisso nell’intendere il concetto di normalità da applicare in un ambiente di lavoro difficile, insano e dislocato in mezzo al mare.
I due soggetti entrarono in conflitto fin dalla partenza da Palermo dove la nave aveva fatto lavori importanti sia in macchina che in coperta.
Quell’imbarco “sui generis” iniziò quando fu anche troppo evidente che i Sottufficiali di coperta prendevano ordini soltanto dal Comandante, in barba all’antica consuetudine di bordo che vede tuttora il 1° ufficiale assegnare ogni mattina i lavori giornalieri al nostromo, tankista, carpentiere e cuoco. Il 1° ufficiale del ponente ligure non accettò mai di essere messo da parte in quel modo scorretto e prepotente e da quel momento condusse una battaglia psicologica che caratterizzò e classificò quell’imbarco come il peggiore in assoluto vissuto da quell’equipaggio nella loro vita da naviganti.
Alla mafia dei “torresi”, così era configurata quella particolare situazione di bordo, si aggiungevano altre figure direi “intimidatorie” che seguivano fedelmente il Comandante ad ogni imbarco: uno era un gigantesco lericino, cameriere della mensa Ufficiali, quarantenne che pochi anni primi era stato campione di pugilato nella categoria dei mediomassimi. Poi c’era il suo cameriere personale, una specie di “rasputin” che aveva il compito di riportargli tutti i “ceti” che origliava tra le “sonorizzate” paratie della nave.
Comandante e 1° ufficiale si parlavano per interposte persone ed era ormai percezione comune che prima o poi ci sarebbe scappato il morto… Per fortuna non andò così, ma non mancarono le risse e le beccate tra questi due “pesi gallo”, qualche occhio nero, minacce di denunce che poi vennero sempre archiviate a causa della “disinteressata” bandiera liberiana…
Le disavventure di quell’imbarco durarono a lungo e peggiorarono quando la parte “normale” dell’equipaggio si accorse che le provviste “buone” della cambusa venivano sbarcate e contrabbandate nei porti dalla “famiglia caina”, e per l’equipaggio rimaneva soltanto da consumare il cibo in scatola.
Questa fu l’atmosfera che respirai al mio primo imbarco da Allievo Ufficiale di coperta che mi vide subito schierato, direi “appiccicato” al 1° ufficiale perché da lui dovevo imparare il mestiere, sia durante le guardie in navigazione, sia in segreteria, sia nella gestione del carico.
Un imbarco sfortunato e scioccante che per fortuna si concluse dopo 7 mesi e 24 giorni quando il santo protettore dei marittimi s’impietosì al punto da dire: “ora basta”!
Il Golfo Persico
Il monte Fuji detto anche Fujiyama
La nave, dopo sei viaggi consecutivi Golfo Persico - Giappone, ne fece un altro per Luanda (Angola) e poi finalmente si verificò il miracolo che nessuno aveva osato immaginare: il viaggio per Genova, dove ¾ dell’equipaggio sbarcò per motivi personali… senza doversi pagare il viaggio di rientro, per esempio dal Giappone, e neppure quello del rimpiazzo subentrante.
Solo in questo modo il nostro “dimagrito” equipaggio ebbe il suo giorno della liberazione!
Un imbarco così disastroso avrebbe meritato di essere analizzato da una commissione di psichiatri e non solo… anche perché non poteva che concludersi con un finale altrettanto “psicopatico”; vi anticipo che non fu tragico come l’immaginazione di ognuno potrebbe suggerire, ma fu di tutt’altro tipo che definirei comico… giudicate voi stessi!
Direi quindi che lo scopo di questo memory non é quello di coinvolgere il lettore nella storia “pietistica” del mio primo imbarco che potrebbe interessare solo una piccola parte dei miei conoscenti; ma piuttosto l’esperienza che ne derivò dall’aver scoperto quanto la solitudine del marittimo sia la causa di tanti malesseri che sono difficili da spiegare alla gente di terra che ogni sera, nella propria oasi famigliare, scarica le tensioni e poi “risorge” per affrontare lo stress del giorno dopo nell’ambiente che gli dà le risorse per vivere.
Vi devo subito presentare l’elemento “chiave” di quell’avventuroso arrivo a Genova.
Giuan di caruggi, imbarcato sulla Nessy Friend con la qualifica di “giovanotto di coperta”, era la sagoma di bordo, ovvero il “giullare” di quei pochi momenti di relax che erano rimasti tra un programma e l’altro di RADIO CUCINA che annunciava solo casini…
Giuan nel suo regno
Giuan era una leggera da angiporto, una specie di saltimbanco, di scimmia ammaestrata, che prendeva tutti per il culo senza offendere nessuno, rispettava i graduati ma con loro scherzava sempre tra ironia e satira e non andava mai sopra le righe. Il suo pensiero era uno soltanto… “prima o poi ve lo metterò in quel in posto…”.
Aveva ragione! Il suo momento di gloria non tardò ad arrivare, l’home-voyage per i Porto Petroli di Multedo-Genova era stato annunciato giusto in tempo per fargli organizzare un “progetto di rapina ad hoc”.
In quegli anni il Giappone viveva il suo magic moment tecnologico ed aveva imposto sui mercati internazionali il primato di qualità e quantità di macchine fotografiche, walky-talkie, radio di ogni tipo, altoparlanti, binocoli e registratori. I marchi Minolta, Canon, Yashica, Fuji ed altri che non ricordo, erano sulla cresta dell’onda ed i lettori con i capelli grigi li ricorderanno per aver caratterizzato i mitici anni ’60, un decennio reso famoso per il boom economico che rappresentò il più importante rinnovamento, anche generazionale, del secolo scorso.
L’Estremo Oriente, tra cui le città-stato: Hong Kong e Singapore, aveva il monopolio della costruzione e della vendita di questi richiestissimi prodotti altamente sofisticati che si trovavano sparsi nelle vetrine di tutti i mercati del mondo. Tuttavia, a questo enorme “laboratorio” ufficiale, si associava un altro mercato parallelo che viveva sottobanco ed alimentava il contrabbando internazionale specialmente negli angiporti europei.
Tra i marittimi c’era una specie di malattia da competizione tra chi riusciva a farne incetta con il miglior rapporto prezzo/qualità, ma quegli apparati avevano il fascino della modernità orientale: antenne lunghe e tante minuscole manopole che miglioravano i suoni e le musiche secondo parametri a noi sconosciuti. Le “voci dall’Italia” giungevano chiare di notte sulle onde corte “e il naufragar (dello spirito) m’era dolce in questo mare”.
Anche il look era particolare: prevaleva il colore nero lucido con strisce metalliche lucenti che davano eleganza e mistero all’oggetto.
In Giappone i loro prezzi erano di gran lunga convenienti, circa un terzo del valore pattuito di contrabbando in Italia, insomma si trattava di un business molto ambito da tutti i marittimi in circolazione in quel periodo! Guadagnarsi un extra stipendio era il sogno che spesso faceva dimenticare le disavventure di bordo, la nostalgia e la lontananza dall’Italia.
Forse avrete già capito il senso del contendere: sei viaggi per il Giappone in quel periodo potevano valere una fortuna per i contrabbandieri di alto bordo, ma anche per i marittimi di un certo tipo…
Purtroppo l’ingenuità dei marittimi più abbelinati stava per scontrarsi con la strategia dell’astuto Giuan di caruggi!
Arrivammo a Genova nel tardo pomeriggio. I piloti del porto ci avvisarono che l’ormeggio al porto Petroli di Multedo si sarebbe liberato soltanto dopo qualche giorno e il Comandante fu invitato a dare fondo l’ancora garantendo l’ascolto continuo per eventuali istruzioni.
Il Comandante abitava a Genova-Sturla per cui decise di dare fondo in quella zona per poter salutare sua moglie con il fischio di bordo.
Non essendo la nave in “libera pratica” (sanitaria) era tassativamente proibito all’equipaggio trasferirsi a terra con qualsiasi mezzo si fosse presentato sottobordo.
“Fatta la legge trovato l’inganno” !
Giuan di caruggi conosceva il Codice della Navigazione più di tanti esperti ufficiali di bordo e trovò il modo e la maniera di “portare in porto…” il suo sogno!
Secondo la ricostruzione di alcuni testimoni di bordo, verso le due di notte un motoscafo o qualcosa del genere, si affiancò a luci spente dal lato di sottovento dov’era pronta una biscaglina pronta ad essere calata in mare al segnale pattuito.
In pochi minuti 20 valige piene di prodotti giapponesi, furono calate sulla lancia tramite due heaving-line, con la PROMESSA che sarebbero state occultate in un magazzino costiero nella vicina Sturla, nell’attesa di essere ritirate, previa compensa, dai proprietari che mai sarebbero passati da un varco doganale del porto di Genova per pagare le dovute tasse allo Stato italiano.
Il cliente più diffidente dell’equipaggio, all’ultimo momento ebbe qualche dubbio e chiese a Giuan di caruggi delle garanzie sull’intera operazione: costi e recupero della merce. Evidentemente non era tutto chiaro! Ma a quel punto venne fuori la prontezza di spirito e la genialità di Giuan il funambolo il quale, messo un po’ alle strette, dichiarò solennemente:
“Io sono la vostra garanzia. Seguirò la merce fino a destinazione. Sparirò dalla nave per qualche ora, vi lascio i miei documenti e i miei averi in consegna, ecco le chiavi della cabina e del mio armadietto. Se nel frattempo mi cercassero, voi non sapete nulla e non avete visto nulla! Rientrerò in tempo per fare la mia guardia in coperta. State tranquilli! Sistemerò io le vostre valige e al momento giusto festeggeremo il business nel miglior ristorante di via Pré!”
La merce lasciò la Nessy Friend scivolando via tra le acque amiche velate di tramontana e di tanto mistero!
A questo punto anche il lettore meno smaliziato avrà capito che quella notte Giuan di caruggi passò al comando di quel motoscafo-fantasma e sparì per sempre… chissà dove… chissà con chi… e di lui non si seppe più nulla, for ever!
A bordo, il giorno dopo, in tanti piansero rendendosi conto di non poter mai più rivendicare la loro merce di contrabbando… altri se la risero di nascosto ma con l’amaro in bocca per non aver sconsigliato con più veemenza quella pazza idea al loro compagno di bordo e di sventura.
Chi scrive ebbe un’altra storia: quella di sentirsi totalmente “abbelinato” per circa sette mesi! Poi, quando ormai si era convinto d’aver sbagliato tutto, improvvisamente, si vide consegnare presso le FFSS di Rapallo un gran bel pacco con tutto quello che aveva comprato e spedito da Yokohama seguendo il consiglio di un anziano giapponese in kimono che lo aveva intenerito con i suoi numerosi inchini di rispetto e per l’antica saggezza che emanava sotto i baffi e la barba bianca, lunga e appuntita.
Il pacco, imbarcato chissà su quale misterioso treno, attraversò tutta l’Asia imballato a regola d’arte, al punto che nulla fu danneggiato, neppure il servizio da tè, con le belle geishe in trasparenza sul fondo, che ancora oggi “sorridono” nel mio salotto buono…
In seguito si seppe che il Comandante cambiò velocemente Compagnia, forse trovò imbarco su una riedizione del Vascello Fantasma in compagnia dei suoi fedeli pirati… Il suo intimo motto era: Dopo di me il nulla! O forse “despues me Dios!”
Ma ne aveva anche un altro meno aulico e di più recente memoria:
“O con me o contro di me!”
Per ¾ dell’equipaggio sbarcante, quel diavolo di Comandante scrisse peste e corna, tra cui: “l’allievo di coperta non é navigabile”.
Quell’uomo mi aveva profondamente deluso: era un buon marinaio che conosceva tutti i segreti della nave… ma non era un conoscitore di uomini. Dote che in seguito ravvisai in Comandanti, in Direttori di Macchina e in tanti Ufficiali delle tre sezioni con i quali feci lunghissimi imbarchi. Di tutti loro conservo intatto il ricordo della loro umanità e qualità professionali che mi aiutarono a crescere!
Ma la domanda finale é questa: Quanti giovani allievi di coperta avranno rinunciato a battere le VIE DEL MARE per colpa sua?
Carlo GATTI
Rapallo, 25 Febbraio 2018
PERCHE’ È INDISPENSABILE UNA TORRE PILOTI
PERCHE’ È INDISPENSABILE UNA TORRE PILOTI
Quando una nave deve uscire da un bacino di carenaggio, galleggia al centro di una vasca e, per imbarcare il pilota, si utilizza una gabbia aperta, che viene sollevata da una gru per permettergli di raggiungere il Ponte di Comando.
Fino a quando la gabbia è a terra, con lo sguardo si abbraccia la vita del cantiere confinata tra gli edifici e gli ostacoli che la vista incontra.
A venti metri di altezza si intravedono il Molo Vecchio, la testata di Ponte Assereto, le gru della Sanità…
A quota quaranta "ci si affaccia alla finestra": i monti spariscono nell’acqua a Capo Mele, il palazzo della Nira nasconde gli yachts della marina; s’intuisce appena l'esistenza dell’imboccatura e, alle spalle, una fetta del Porto Antico.
A sessanta metri di altezza si apre un nuovo mondo e tutto appare sotto controllo: Punta Chiappa sullo sfondo a Levante, le navi che atterrano con la prua su Punta Vagno, i vapori alla fonda a sud della Diga, la Sanità e l’intero arco del Porto Antico, il canale di Sampierdarena e oltre, fino alle gru del Porto Contenitori VTE prossime all’imboccatura di ponente.
Si vedono le navi evoluire tra le testate dei pontili e le bettoline transitare da una banchina all’altra, mentre le cicatrici bianche che serpeggiano tra le calate fanno intuire a colpo d'occhio l'intensità e la direzione del vento, che per motivi orografici fa breccia e rimbalza con angolazioni diverse.
Dall'orientamento delle navi alla fonda si percepisce la direzione e la forza della corrente, e con uno sguardo si riesce a valutare la dinamica e il potenziale pericolo per una nave in uscita che andrebbe a incrociarne un’altra in entrata nel punto più stretto.
Da quell’altezza appare chiara l'importanza di un punto di vista che abbracci tutto il golfo di Genova.
Nonostante la strumentazione abbia assunto un ruolo determinante e abbia alzato il livello di sicurezza, mettendo a disposizione numerose informazioni estremamente importanti, è pur sempre fondamentale che questi imput vadano interpretati e utilizzati come ausilio alla formazione pratica costruita sull'esperienza.
Renzo PIANO: Il Progetto della Torre Piloti del Porto di Genova
I maggiori porti del mondo hanno reti anemometriche, correntometri, un'adeguata illuminazione delle banchine e un programma periodico di dragaggio con monitoraggio sistematico delle quote dei fondali; e ovviamente dispongono di una Torre di Controllo che, oltre a raccogliere i dati e a utilizzarli per la sicurezza della vita umana, delle strutture portuali e a salvaguardia dell'ambiente, permette all'uomo la visione diretta e l'utilizzo coerente, dopo le giuste valutazioni, di tutti gli ausili tecnologici e informatici di cui deve essere giustamente dotata.
Tutti i 25 chilometri di porto soffrono di un mancato adeguamento degli spazi, e ci si trova a gestire navi tre volte più grandi di quelle per cui è stato costruito il porto.
La posizione geografica, la direzione presa dallo sviluppo economico marittimo, le concrete possibilità che, con un’adeguata e oculata gestione delle risorse, potrebbero dar vita a uno scenario che vedrebbe Genova La Superba protagonista dello shipping in tutte le sue sfaccettature e, non ultima, l’ambizione che dovremmo avere quando si parla di Mare, di Lavoro e di Futuro, ricordando quello che siamo stati in passato, dovrebbero bastare a convincerci a guardare avanti; dovrebbero bastare a convincerci a guardare oltre; oltre alla burocrazia, oltre alle posizioni di partito, oltre ai cavilli amministrativi, drasticamente capaci di bloccare lo sviluppo di un intero paese.
I terminalisti stanno portando avanti ingenti investimenti per adeguare le strutture esistenti alle dimensioni delle nuove navi, il che vuol dire, tradotto in parole povere: quello che possono lo stanno facendo.
Gli Armatori, gli Agenti Marittimi e i portuali in genere, hanno condiviso con noi la difficile strada che ha messo la città in condizione, rispettando i parametri di sicurezza, di restare in gioco sulla piattaforma europea.
La Capitaneria ha saputo cavalcare i cambiamenti, restando arbitro e direttore di una partita complessa, giocata sul filo del rasoio.
Noi Piloti, in seguito al tragico evento del 2013, abbiamo trasferito la Stazione Operativa a Ponte Colombo che, oltre ai limiti già descritti, è dotata di una strumentazione insufficiente e permette una visione limitata a una piccola porzione del Porto Vecchio.
La posta in gioco, in termine di posti di lavoro e di affermazione di identità/risorsa economica per l’Italia e l’Europa, è molto alta.
Da sinistra: Amm. Vincenzo Melone - Arch. Renzo Piano - Dott. Luigi Merlo - C.P. Jhon Gatti.
Nell’attesa della costruzione della nuova Torre, il destino ci ha costretti a una revisione totale del sistema Porto/Piloti/Controllo. Un progetto partito dall’impulso deciso dell’Ammiraglio Melone e del Presidente Merlo, due persone dotate di grande senso pratico e di una lucida visione d’insieme.
Sono questi i motivi che ci devono spingere a cogliere l'opportunità che ci è stata offerta dall'Architetto Renzo Piano come una priorità, come la possibilità di far partire il cambiamento di cui tanto ha bisogno il porto di Genova, agendo sulla parola Sicurezza, seguita dalla parola Efficienza e chiusa dalla parola Professionalità.
Dobbiamo partire dalla nuova Torre di Controllo, biglietto da visita e strumento indispensabile per il Porto di Genova!
JOHN GATTI
Capo Pilota del Porto di Genova
Socio Fondatore dell'Associazione MARE NOSTRUM RAPALLO
Questo articolo é apparso il 17 marzo 2016 sul quotidiano SECOLO XIX di Genova.
Rapallo, 20 Marzo 2016
GIGANTISMO NAVALE - Un sogno che viene da lontano
“GIGANTISMO NAVALE”
Un sogno che viene da lontano ...
JAHRE VIKING
Ecco come si presenta la nave più grande del mondo! “L’opera viva”, cioé la parte immersa della nave s’aggira sui 30 metri d’altezza o giù di lì. È una superpetroliera che, ovviamente, non è in grado di navigare nella Manica e neppure nei canali di Suez e Panama. Nessun porto al mondo é in grado di ospitarla, la supernave può ormeggiare soltanto in certe rade provviste d’impianti particolari. Lo stesso problema si ripropone oggigiorno con le grandi navi porta container di 400 metri di lunghezza che continuano ad essere varate ignorando i limiti strutturali e logistici della portualità mondiale: “E ora dove la metto?” Pare sia questa la domanda che ricorre più frequentemente nelle calate dei nostri porti d’impianto medievale. Ma oggi ci occupiamo d’altro!
ll primato di ‘nave più grande al mondo’ lo detiene la super petroliera JAHRE VIKING che oggi non è più in circolazione. Questa nave nel corso degli anni ha cambiato diversi nomi: la sua costruzione è iniziata nel 1979 con il nome Knock Nevis, poi, prima ancora di esser stata ultimata, diventò Seawise Giant. Il nuovo proprietario la fece allungare e raggiunse le dimensioni che ancora oggi le garantiscono il primato: si parla di una lunghezza di 458 metri, larghezza di 69 metri e una portata lorda di 564.763 tonnellate. Dal 1986 al 1989 fu impiegata come nave magazzino nella guerra tra Iran e Iraq e in quegli anni fu pesantemente danneggiata dalle bombe. Nel 2010 venne demolita in India.
GREAT EASTERN
Andando a ritroso nel tempo, c’imbattiamo in un’altra nave che navigò fuori del suo tempo ... La Great Eastern fu costruita nel 1854 da Isambard Kingdom Brunel, uningegnere inglese specializzato nel settore dei trasporti, noto per aver collaborato alla realizzazione della galleria sotto il Tamigi. La G.E. era la nave più grande mai costruita al mondo. Lunga 211 mt. e con stazza superiore alle 30.000 t. mantenne tale primato per quasi cinquant'anni. Alta come un palazzo, era dotato di cinque fumaioli; poteva portare 4.000 persone (come una nave passeggeri della nostra epoca) ed era mossa da due gigantesche ruote a pale, un'elica e sei alberature per la navigazione a vela di sicurezza. Era inoltre dotata di un doppio fondo che si estendeva per tutta la lunghezza della chiglia. A causa delle sue dimensioni, subì molti incidenti di vario tipo. Il suo maggior contributo lo diede durante la posa del primo cavo telegrafico tra l'Europa e l'America, nel 1865. Il cavo era lungo 3.700 chilometri e fu arrotolato in tre stive della nave; fu steso sul fondale tra l'Irlanda e Terranova. Dopo la prima trasmissione transoceanica, l'evento fu celebrato come l'Ottava meraviglia del mondo. Il Great Eestern fu demolito nel 1888. A questo famoso bastimento s’ispirò Jules Verne per ambientare il suo celebre romanzo "Una città galleggiante", edito nel 1870.
LE NAVI DI NEMI
Tra sogno e realtà. La nostra curiosità ci porta ancora indietro di 2000 anni per immaginare due magnifiche navi che per pochi anni hanno ‘oziato’ alla fonda sul lago di Nemi, poi hanno dormito due millenni nel letto del vulcano, proprio come in certe favole per bambini, ed infine sono riapparse per essere distrutte dalle fiamme e dalla stupidità dell’uomo. Di loro non si sono mai trovate tracce scritte, ma solo testimonianze di pescatori locali che hanno alimentato per secoli il mito di un tesoro di proporzioni inaudite. La spoliazione di reperti archeologici continuò per secoli nell’attesa che sarebbe maturata l’idea della ricerca scientifica, quindi una forte volontà di recuperare una parte ancora nascosta della nostra storia nazionale. E, per fortuna, così fu!
Ricostruzione ideale d'una delle navi di Nemi, quella che, secondo un’interpretazione degli storici, l'imperatore Caligola costruì per i suoi svaghi personali, ma anche per sbalordire i suoi ospiti. Le navi di Nemi confermano la predilezione che ebbe Caligola per l’arte, non solo navale, del periodo ellenistico e pompeiano.
LA NAVE CHE TRASPORTO’ L’OBELISCO VATICANO DALL’EGITTO
Sicuramente il lettore avrà in mente l’obelisco di piazza San Pietro che viene inquadrato ogni domenica al momento dell’Angelus, raramente invece é focalizzata la storia del viaggio avventuroso dello splendido monolite dall’Egitto in Italia. Il tanto bistrattato Caligola lasciò dietro di sé molte brutte storie, ma come uomo di mare, o quanto meno di “genio navale”, detiene ancora oggi qualche primato imbattuto... Plinio ce lo conferma con le seguenti notizie (Nat. Hist. XVI, 40,201): “Un abete degno di particolare ammirazione fu usato sulla nave che trasportò, per ordine dell’imperatore Caligola, l’obelisco destinato al circo Vaticano. Nulla di più meraviglioso di questa nave fu senza dubbio visto dal mare: ebbe un carico di zavorra di 120 mila moggi di lenticchia (=1.050 tonnellate n.d.r.). Con la sua lunghezza si ricoprì quasi tutto lo spazio del molo sinistro del porto Ostiense.
Ivi infatti fu affondata dall’imperatore Claudio e sopra vi fu edificata una triplice torre (il celebre Faro di Ostia Antica) costruita con pietra di Pozzuoli...”.
Trasportare l'obelisco egiziano (25 metri d’altezza x 350 tonnellate di peso) a Roma fu un'autentica impresa navale. A bordo della nave pensarono di riempire la stiva con delle lenticchie utilizzate come imballaggio. L’obiettivo fu raggiunto grazie all’alto grado di marineria, ed al ‘sorprendente’ livello raggiunto dall’ingegneria navale romana che seppe costruire una nave lunga ben 130 metri e che fu utilizzata solo per quella missione. Infatti, una volta terminato il suo compito, la nave fu rimorchiata nel porto che l'imperatore Claudio stava costruendo ad Ostia, fu riempita di massi e affondata. Su questa solida base fu edificato il celebre faro di Ostia Antica!
Carlo GATTI
Rapallo, 30 Luglio 2015
U FUNTANN-A... era stato fuochista sul REX
U FUNTANN-A
.... era stato fuochista sul REX
Un ricordo del C.l.C. Nunzio Catena
Penso che non vi sia un marittimo della Soc. ITALNAVI che non abbia conosciuto "u FUNTANN-A" a Buenos Aires. Era vicino agli 80 quando l'ho conosciuto, e sono sicuro che é vissuto fino agli 85.
Il REX a Genova. Nel ricordo ormai sbiadito del comandante Nunzio Catena, U FUNTANN-A era alto, magro e molto somigliante alla persona che si trova a cavalcioni sulla pala dell'elica a sinistra della foto.
Era stato fuochista sul REX, poi si era fermato in Argentina, ma non aveva fatto fortuna.
Quando sento quella struggente canzone genovese "..ma se ghe penso.."
Allora penso a u Funtann-a. Quando lo conobbi, allora parlava un po’ di più, gli dicevamo:
"Dàgghe Funtann-a, torna a Zena con noî, no ti devi paga o bigetto, noî émmo l'isolamento, una cabinn-a tutta pe ti, non te daiâ fastidio niscîun.."
E lui rispondeva: "Mi no pòsso, mi sòn vægio, dove vàddo? mi no ò ciù niscîun, chi ò i figgi, i nevi chi àn bezeugno de mi." E gli occhi già stanchi, si inumidivano di lacrime.
A tutti i Comandanti dava del tu, perchè li aveva conosciuti da Allievi. Io gli volevo un bene matto... la mia cabina era a sua disposizione, e quando arrivavamo a Baires, forse era l’unica persona che desideravo incontrare ultimamente, date le sue condizioni. U Funtunn-a era abbastanza alto e robusto, ma conoscendo la sua storia, sembrava di vederlo ancora, dalla piega del suo corpo, intento con la pala di carbone davanti a quelle bocche infernali dei forni, sollecitato dal sadico caporale del REX.
Arrivava e rispondeva ai nostri saluti, quasi distrattamente, come se ci fossimo visti il giorno prima, per lui il tempo era come se non contasse, mentre la sua andatura era sempre più incerta, stanca, triste. Conosceva tutti, ma non ricordava più i nomi, la sua mente era lontana e, a stento, gli veniva in mente il nome della nave ed il grado che ricopriva.
Aveva una borsa di tela olona ritagliata da un pezzo d’incerata blu da boccaporto, stinta dal sale, dai colpi di mare e bruciata dal sole mordente dei tropici. Quell’articolo era così macilento da non potersi usare neanche come 1a incerata, (la peggiore, quella usata a contatto dei colpi di mare). Sarà stato un regalo di qualche nostromo, mentre la confezione è stata fatta da qualche robusto pennese con aghi da vela e guardamano.
Era molto semplice: un pezzo di tela, piegato in due, cucito ai lati, la parte superiore era avvolta e cucita intorno a due bastoncini, eccetto la parte centrale dove erano ricavate, due grosse asole per l'impugnatura. Tanti anni dopo, ho visto borse di forma e materiale identici, reclamizzate da famose ditte e non ho potuto fare a meno di ricordare U Funtann-a e pensare che, se avesse depositato il brevetto, almeno i suoi nipoti, sarebbero diventati ricchi !!
Arrivava al mattino verso le 10, lui rispondeva al saluto di chi lo incontrava, ma non andava a salutare neanche il Comandante, c'erano troppe scale da fare, s’informava solo se era quello del viaggio precedente. Venendo a conoscenza della presenza d’U Funtann-a, il Comandante sarebbe sceso lui stesso a salutarlo.
Di solito all'arrivo, lo vedevo spuntare in fondo al pontile, tiravo un sospiro di sollievo e gli andavo incontro...
- "Funtann-a... come và??!
- "Mi staggo ben! ben! Ti m’ae portòu ae ciappellette sciacché?"
Forse non mi guardava neanche, cercava la mia spalla per appoggiarci la mano e teneva lo sguardo un po’ basso, come se guardare lontano fosse inutile non avendo mai trovato nulla di buono, oppure per guardare le asperità del terreno che gli rendevano ancora più difficile il passo.
Arrivati a bordo, lo facevo accomodare sul mio divano, riprendeva un po’ il fiato, qualche volta accettava di bere qualcosa... il suo silenzio mi struggeva e spesso non sapevo cosa dire. Se avevo saltato un viaggio, mi chiedeva una giustificazione che suonava come un rimprovero e, dopo la mia spiegazione, mi diceva:
- "L’ho sentio dî da u Secundo Uffiziale do Cervinia". (La M/N Cervinia della stessa Compagnia di Navig.)
- “Adesso Fontann-a, riposati!”
Gli avrei dato del VOI, per rispetto, come si usava dalle mie parti in quel tempo, ed ancora di più, perchè in lui non vedevo più un uomo, ma una vittima sulla quale la natura matrigna aveva sempre infierito e quindi era più degno di rispetto, ma gli davo del TU per farlo sentire più vicino.
- “Adesso vado a dire al Cuoco che mangi dai Sottufficiali. Poi mi dici quello che ti serve. Per il resto non ti preoccupare, ci penso io, ma adesso ho da fare!"
E lui rispondeva:
- "Quande andae via?"
- "Tra tre o quattro giorni!" - Io esageravo sempre un po’.
Durante il pranzo, quand’era possibile, andavo da lui per farlo parlare un po’ con i suoi ‘colleghi più vicini’. Ma non sempre riuscivo nell'intento, poi lo riaccompagnavo in cabina, si sdraiava sul divano, cercavo in qualche maniera di parlare e quando riuscivo ad incrociare il suo sguardo, era come se mi pregasse di lasciarlo da solo.
Quando era ora di andare, nella sua capiente borsa, c'era un po’ di tutto: sigarette, whisky, caffè ed altre cose delle quali era vietata l'importazione. Purtroppo, il povero Funtann-a era conosciuto anche dai finanzieri: quando usciva gli facevano sempre delle storie, o per sequestrargli qualcosa o per rubargli metà del ‘carico’ prima di lasciarlo andare. A pensare che non fermavano neppure i camion che arrivavano sottobordo pieni di ... contrabbando.
Allora, ogni volta mi pregava così:
- "Amìa, quelli da Doganna me fan giâ e cuggie, accumpagname au varcu, ghé sempre un figgio de na gran bagascia che o me ferma tutte ae votte."
Io di solito lo precedevo per sistemare le cose con il finanziere, in modo che si girasse o si allontanasse addirittura quando passavamo noi.
La fermata del ‘collettivo’ era poco distante, ma chi è stato a Baires in quegli anni ricorderà che gli autobus strapieni, alle fermate rallentavano soltanto, la gente ormai saliva e scendeva in corsa, appesi alle maniglie e roba del genere. Quando sarebbe salito U Funtann-a su un autobus? E poi gli avrebbero rubato tutto. Allora gli chiamavo un taxi, con il quale mi mettevo d'accordo per accompagnarlo ed andare a riprenderlo all'indomani, finché eravamo in porto. Quella mattina, mentre lui scendeva, ho regolato il conto con il tassista per non ripetere la corsa nel pomeriggio, temevo che potesse intuire qualcosa. Comunque, prima di scendere da bordo, gli ho detto:
- "Funtann-a, noi dovremmo salpare domani sera, ma se partissimo prima, avviserò il tassista che verrà a dirtelo. Vedi questa busta, ci sono i miei saluti per te, adesso li mettiamo dentro la fodera della giacca. Vedi? Non farli vedere a nessuno. Appena arrivi a casa, nascondili da qualche parte, dove nessuno te li deve trovare. Magari mettili dentro un barattolo che infili sotto terra. Sono già cambiati... prendi quelli che ti servono! Non darli a nessuno mi raccomando!! Hai capito?”
- "Va ben, va ben!"
Prima di salire sul taxi, mi fece la sua ultima richiesta:
- "Non te scorda e ciappellette pe u gasu!”
- "Stai tranquillo Funtann-a!!"
Quando era seduto, ho chiuso la porta ed il suo ultimo saluto me lo fece così: aveva la mano destra sulla spalliera del sedile anteriore, sollevò solo pollice, l’indice e il medio, girando appena la testa verso di me.
Questo fu l'ultimo saluto con "u Funtann-a", io sapevo che sarei sbarcato all'arrivo a Genova, l' "ITALNAVI" non c'era più! Incertezza per noi, la fine della Compagnia do U Funtann-a. Questo è stato il saluto più struggente della mia vita. A quella età, credevo che le lacrime non le avessi (contrariamente a quanto mi accade ora da vecchio, che mi commuovo per molto poco), eppure, oltre ad un nodo al collo dal dolore indescrivibile, forse qualche lacrima uscì.
Buenos Aires. La M/n CESANA della Società ITALNAVI é la nave in seconda linea che si vede per intero. Gli incontri tra il comandante Nunzio Catena e U FUNTANN-A si svolgevano a bordo di questa nave da carico.
Tornando a bordo, immaginavo il prossimo arrivo del M/n Cesana a Buenos Aires, U Funtann-a che va sottobordo e vede tutti visi nuovi. Preso dallo sgomento, chiede a qualcuno :
"U ghé u Segondo de coverta? Comme belin o se ciammava quello con a barba...., u Cadenn-a!"
La paura di non trovarmi, forse gli aveva fatto ricordare anche il nome... forse una distratta risposta:
"E’ SBARCATO!".
Non posso immaginare quel vecchio, stanco, distrutto dall'ultimo suo dolore, dalla perdita della sua ultima speranza di quel giorno, magari seduto su una bitta..., aspettando che qualcuno si accorgesse di lui per aiutarlo. Immagino poi, tornare indietro, con quella sacca vuota, tanto da ripassare il varco questa volta senza paura!
Oppure, e glielo auguravo, la sua stanchezza sia stata tale, da non permettergli più di tornare in porto e d’immaginare una ‘SUA’ nave ad ogni arrivo della SESTRIERE: "Lì u ghé u Terso Uffiziale.....,"
CESANA: "Li u ghé u Segondo ... Comme belin o se ciammava quello con a barba..."
Non fa niente Funtann-a, non sforzarti.., basta che mi ricordi così!!
Ortona, 28.aprile 2013
VITTORIO G. ROSSI GIORNALISTA, SCRITTORE E UOMO DI MARE
VITTORIO G. ROSSI
GIORNALISTA, SCRITTORE E UOMO DI MARE
Caduto nell'oblio?
Vittorio G. Rossi nel 1965
Quest’anno ricorre il 120° anniversario della nascita dello scrittore ed il 40° della sua morte.
« Si può amare una nave come si ama una donna, anche di più. Certo, una nave non si ama tutti i giorni, tutt'altro: vengono giornate in cui si maledice lei e chi l'ha fatta. Ma neanche una donna amata si ama tutti i giorni.»
(Vittorio Giovanni Rossi, "Pelle d'uomo", 1943 )
Un grande filosofo ha scritto:
“Gli avvenimenti della nostra vita sono come le immagini del caleidoscopio nel quale ad ogni giro vediamo una cosa diversa, mentre in fondo abbiamo davanti agli occhi sempre la stessa.“
Noi crediamo che la vita di Vittorio G.Rossi, “giramondo innamorato del mare”, si presti ad essere sbirciata attraverso il tubo magico del caleidoscopio. Ed ora ci proviamo…
Vittorio Giovanni Rossi (Santa Margherita Ligure, 8 gennaio 1898 – Roma, 4 gennaio 1978) è stato un giornalista e scrittore italiano.
Nato da padre lombardo e madre ligure, dopo il diploma di capitano di lungo corso ottenuto al'Istituto tecnico Nautico di Camogli, venne ammesso all’Accademia navale di Livorno come allievo ufficiale di complemento. Subito dopo la Prima guerra mondiale fu inviato - a vent'anni – a Trieste col compito di riorganizzare la flotta abbandonata dalla Guardia di finanza austroungarica; promosso comandante e docente della scuola nautica da lui fondata per la Guardia di Finanza italiana in Istria, vi rimase otto anni. Nel 1925 firmò il Manifesto degli intellettuali fascisti.
Trascorse lunghe licenze viaggiando per tutto il mondo su navi mercantili e scrivendo instancabilmente.
È stato inviato speciale del Corriere della Sera ed Epoca, ma nel corso di quel viaggio raramente interrotto che fu la sua vita fu anche occasionalmente marinaio e timoniere, palombaro e pescatore, carovaniere e minatore. Nel 1944 gli fu assegnato il Premio Mussolini dall’Accademia d’Italia, ma Mussolini d'imperio lo cancellò per darlo all'antifascista Marino Moretti.
È stato anche il primo giornalista italiano non comunista ad entrare nella Russia sovietica, dopo la seconda guerra mondiale. Fu lo stesso Governo italiano dell'epoca a mediare per l'ottenimento del visto. Di questo viaggio è testimone il libro Soviet, del 1952.
È sepolto nel cimitero di Santa Margherita Ligure, dove ha sede anche il museo a lui dedicato, situato all'interno di Villa Durazzo-Centurione.
“Siamo nuovamente in guerra, una serie di conflitti diffusi che si richiamano alle religioni e alle civiltà e in questo pentolone i parlatori di mestiere hanno buon gioco.
C'è una differenza fondamentale tra la nostra e le altre religioni: la confidenza, come la chiamo io. Nelle altre religioni non c'è questo rapporto di quasi familiarità.
Te lo spiego.
Noi, quando assumiamo l'ostia sacra, il Corpo di Cristo, cioè Dio, stiamo generalmente dritti in piedi come se fosse pane.
Noi ci rivolgiamo a Dio, e lo chiamiamo Padre Nostro che sei nei cieli.
Nelle religioni che ho conosciuto non ho mai sentito chiamare Dio con tanta confidenza e dolcezza come Padre Nostro.
E questo Padre l'ho sentito tante volte in mare, nei momenti più difficili, e le decisioni le prendeva lui”.
Vittorio G. Rossi
( Da Colloqui con VGR di Decio Lucano )
I libri Oceano, Maestrale, Il granchio gioca con il mare, Il cane abbaia alla luna, La pelle dei marinai crude oil in Golfo Persico; il mio abbigliamento preferito era un cofanetto con i libri di Vittorio G.Rossi. ed altri sono stati i miei più cari compagni di viaggio sulle petroliere e in seguito sulle navi passeggeri. Sulle prime imbarcavo con il sacco da marinaio sapendo che sarei andato incontro alla reclusione tra quattro lamiere per oltre un anno in mezzo al mare e non dovevo indossare divise ed abiti eleganti per andare a caricare il crude oil in Golfo Persico; il mio abbigliamento preferito era un cofanetto con i libri di Vittorio G.Rossi.
Istituto Tecnico nautico Cristoforo Colombo - Camogli
Da sinistra: Vittorio Massone, Ernani Andreatta, Bruno Gazzale, Pro Schiaffino, Carlo Gatti, Mario Peccerini.
Lo conobbi a Camogli in visita al suo Vecchio Istituto Nautico di Camogli, era già anziano, ma capii subito che lui era un professore, non tanto di navigazione ed astronomia, ma dello spirito, della coscienza e della conoscenza del MARE che lui emanava come fosse il mare e noi gli studenti marinai…
Emanava esperienze “salate” che già mi portavano al largo verso il mio primo imbarco, tra gente con le ossa rotte dalla guerra che era ancora in guerra contro il mondo, uomini di mare accigliati, diffidenti, sospettosi in cerca di mine vaganti… ma era gente dal cuore tenero!
Erano le sue parole anche quando diceva: “ragazzi non vi preoccupate più di tanto, non siete voi a scegliere la carriera del mare, ma é il mare che sceglie i suoi “amanti” e poi li sposa per sempre! Non mancategli di rispetto. Temetelo ed amatelo!”
Avevo letto di recente il suo libro OCEANO
Oceano raccontava la navigazione del mercantile norvegese Galatea, partito da Bergen e diretto all'Avana, e vi cuciva intorno storie di marinai e di guerre, la Prima guerra mondiale, di pesca al merluzzo e di pesca alla balena, riflessioni sulla natura umana, descrizioni di paesaggi, con quello stile scabro che in parte gli era proprio e in parte gli veniva dalla frequentazione della letteratura realista anglo-americana. Il tutto era al servizio dell'entità sovrana e mobile che era l'Atlantico, mare freddo e scuro, affascinante e minaccioso su cui Vittorio G. Rossi, capitano di lungo corso, si muoveva con attenta naturalezza:
Mentre il Mediterraneo è un mare intensamente popolato, e quindi il suo attraversamento è una storia di porti, incontri, vita, l'Atlantico sta su quella nave che lo attraversa, o altrimenti è una realtà costiera, da un capo all'altro dell'immensa distesa di mare che la separa. L'Atlantico, insomma, è l'imbarcazione che lo naviga, ovvero gli uomini che vi stanno sopra, le loro reazioni, le loro paure, o gioie.
Grazie ad altri sappiamo tutto sull'Oceano, ma non cosa significhi navigarci dentro. Vittorio G. Rossi ci fa accomodare a bordo.
In seguito ebbi la fortuna d’imbarcare su tre navi passeggeri e tra le migliaia di libri di bordo, scritti in tutte le lingue, c’erano anche i romanzi “vissuti” di Vittorio G.Rossi e non conobbi mai la solitudine del marinaio.
Ancora oggi sfoglio i suoi libri con infinita nostalgia riscoprendo la sua intatta forza narrativa: asciutta, precisa, diretta e in essa scopro tanta poesia nascosta… lontana dalle frasi ad effetto.
Qualcuno ha scritto:
Il suo rammarico per chi non comprende la bellezza del mare, né il valore di coloro che, uomini veri, ne affrontano i pericoli, è palese nella maggior parte dei suoi scritti. E che questo, per certi versi, accada anche oggi, ci porta a condividere il suo rammarico.
Il giornalista scrittore Francesco Amendola é andato giù duro…:
La cultura italiana ha la memoria corta; lo sappiamo.
Hanno la memoria corta, sovente per invidia e meschina gelosia, la critica e il mondo degli intellettuali «affermati» (e progressisti, si capisce: i veri intellettuali sono tutti progressisti; o no?); e ha la memoria corta, per superficialità e conformismo, il pubblico, sempre smanioso di novità e sempre pronto ad applaudire qualche nuovo idolo, nell'ambito letterario così come in quello sportivo, musicale e dello spettacolo.
Tuttavia, vi è qualche cosa di più, e di peggio, nell'oblio in cui è stata relegata l'opera di Vittorio Giovanni Rossi; qualche cosa che oltrepassa l'ambito della semplice ingratitudine, e che sembra evocare altre ragioni e altri scenari; quasi una calcolata vendetta postuma.
Sarà perché Vittorio G. Rossi, i suoi libri, li vendeva a tiratura altissime, anche se non aveva frequentato i canonici studi letterari e non aveva mai avuto a che fare con l'ambiente accademico, tanto meno si era trovato nella necessità (si fa per dire) di leccare le scarpe ai soliti baroni del palazzo.
Sarà perché i signori critici non lo avevano mai veramente apprezzato, avevano sempre mantenuto, nei suoi confronti un atteggiamento sussiegoso e supercilioso: tanto è vero che, in tutta la sua lunga carriera di scrittore, una sola volta si erano scomodati a concedergli un importante riconoscimento letterario: ed era stato il Premio Viareggio, per il romanzo «Oceano»; e questo quasi all'inizio di essa, nel lontano 1938.
Già, nel 1938: vale a dire, ai tempi del Fascio. E allora - tanto vale dirlo subito - una terza possibile ragione di questo oblio, che somiglia maledettamente a un complotto, potrebbe avere a che fare con quella firma di Vittorio G. Rossi, messa lì nero su bianco e più che mai politicamente scorretta (almeno dopo il ribaltone del 1943…) in calce al Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto nel 1925 da Giovanni Gentile.
Vuoi vedere che abbiamo messo il dito sulla piaga giusta?
……………………..
Sta di fatto che si è trattato di una presenza decisamente atipica, nel panorama delle patrie lettere: uno scrittore che non viene fuori dal mondo dei libri e dell'università, ma dal mare: un capitano di lungo corso, uscito dall'Accademia Navale di Livorno, che ha passato tutta la sua vita sul mare e in lontani continenti; un uomo che, quando non navigava (ed è sua la frase che si può amare una nave esattamente come si ama una donna, e sia pure con momenti di stanchezza e di rifiuto), faceva il manovale o qualche altro strano mestiere «en plen air». Uno che - figuriamoci il dispetto dei nostri intellettuali, tutti topi da biblioteca: spalle strette e puzzetta sotto il naso - aveva la sfrontatezza di affermare che «bisogna scrivere con la propria pelle: cioè prima vivere, e poi scrivere».
Certo che aveva tutte le carte in regola per attirarsi l'eterna inimicizia di quella consorteria di eunuchi autoreferenziali che non perdonano a un «outsider», a un cane sciolto, tutto quel successo scandaloso, tutti quei libri venduti, tutto quel pubblico che andava pazzo per lui.
Ho riportato quasi interamente l’articolo di Francesco Amendola perché nella sua analisi tocca “nervi scoperti” che meritano attente riflessioni; tuttavia dopo aver riletto un ingiallito libro di V. G. Rossi: LA GUERRA DEI MARINAI edito da Bompiani nel 1941, quando il fascismo toccava l’apice del suo “rovinoso” successo, l’autore non dedica alcuna parola al regime. Mussolini non viene mai nominato. La politica non emerge in alcun modo, neppure di striscio…
La Marina Militare e quella Mercantile, si sa, erano orientate verso la monarchia, ma lo scrittore amava soprattutto il mare ed i suoi operosi marinai, al di sopra di ogni ideologia.
Ciò che invece affiora in ogni riga é lo stupore per l’abnegazione degli uomini di mare imbarcati sulle navi da guerra e sulle “carrette” mercantili.
Vittorio G.Rossi a pag.92 scrive:
“Quelli che fanno il Mare del Nord, mare dannato anche quando non c’é la guerra; nebbie, tempeste che strizzano il cuore come uno straccio, banchi e secche, e se c’é nebbia, sono ore tremende, paura di sentir d’attimo in attimo la prora dare nel banco, e col gran mare che fa laggiù, una nave incagliata é una nave persa, ondate paurose che schiodano la nave e la fanno a pezzi; nebbie e tempeste, e ora c’è la guerra, mare che la guerra ha fatto il più duro di tutti, mine dappertutto, mine a urto, mine magnetiche, mine in deriva; e i segnali della costa sono spenti, navigare a fiuto, ogni miglio rischiare
Cento volte di rimetterci la pelle; e poi ci sono i sommergibili e gli aerei, ci vuol poco a prendere nella nebbia, una bandiera per un’altra,
e un siluro fa presto a correre, una bomba, una spazzata di pallottole di mitragliera fa presto a piovere: e il “mercantile”, che ancora non é in guerra, “fa” il Mare del Nord, che é il mare più duro di tutti……
Un vero artista si vede dalla bocca; se la sua bocca ha pratica di masticare il ferro; nessuno può diventare un vero artista, se non ha provato a masticare il ferro…
La sua narrazione é un susseguirsi di fermo-immagini di un modo sconosciuto ai più, un film sempre attuale di una razza che sposa il mare e ne segue le sorti come un fatale destino che si perpetua da sempre: dagli Argonauti, a C. Colombo, dal Titanic all’Andrea Doria, fino a farci intravvedere il mare come una gigantesca tomba di famiglia dove tutto giace nelle profondità abissali in quel mondo di anime che solo il mare si é scelto.
Lo scrittore Vittorio G. Rossi conversa con Giuseppe Saragat
Colloquio immaginario con Vittorio G. Rossi
Se potessi incontrare lo scrittore di mare Vittorio G.Rossi gli direi:
Maestro, indipendentemente dalla bandiera, lingua, religione ed etnia, i marittimi provano gli stessi sentimenti di solidarietà e amicizia soprattutto quando – INSIEME – hanno superato grandi pericoli per la loro esistenza terrena.
Il mare unisce sempre, anche quando il destino umano corre sbandando sulla cresta di una gigantesca onda che divide la vita dalla morte. Il marittimo é sempre il più vicino a questa ineffabile frontiera che lui stesso ha scelto di sfidare tra un tramonto memorabile vicino a Dio e una tempesta di venti infernali. Il paradiso e l’inferno del marittimo si alternano e girano insieme sulla ruota del timone e della fortuna. Chi naviga lo sa e vive la sua religiosa solitudine specchiandosi nel mare blu dove vagano tanti spiriti che lo consolano sussurrandogli: “non sei solo!”
E lui mi risponderebbe:
Già! I vivi, i morti, i naviganti, gli spiriti, i gabbiani… tutti sotto lo stesso cielo che abbraccia sempre lo stesso mare! A volte per amore, a volte per morire insieme e poi risorgere.
Ma ora ritorniamo in questo contesto scolastico che mi riporta alla perduta gioventù… Tu hai letto il mio OCEANO e saprai che ci sono popoli che si svegliano ogni mattina con lo sguardo sull’oceano. Nel Nord Europa si usa andare a battere il mare molto presto, con qualsiasi tipo di nave, grande o piccola. Da quelle parti la mentalità marinara é un fattore antropico, figlio di un ambiente duro da affrontare e domare per via delle alte montagne che spingono i norvegesi ad avventurarsi verso l’Atlantico a cercare la sopravvivenza, un tempo solo per pescare, oggi anche per altri motivi legati alla ricerca del petrolio ed hai commerci marittimi di ogni tipo.
La Norvegia, per fare un semplice esempio, dispone oggi di una flotta di navi tra le maggiori al mondo ed ogni norvegese é consapevole d’avere nelle proprie vene sangue vikingo. Tutta la nazione ha, per questi motivi, una caratura marinara molto accentuata e, soprattutto, la Scuola Nautica é in linea con questo principio comportamentale, che impone all’allievo l’alternanza dello studio teorico nelle aule scolastiche con periodi d’imbarco sulle navi al fianco di marinai e ufficiali professionisti con i quali approfondire la loro preparazione.
Anche l’Italia ha una storia di “grandi navigatori medievali” ad alto livello marinaro, ma la mentalità che dilagò nei secoli successivi, tradì quel mondo delle scoperte dell’oltremare per non aver saputo gestire politicamente le nuove terre. Si può anche dire che abbiamo avuto dei grandi navigatori senza una politica alle spalle che sapesse mettere a frutto i loro sforzi ed il loro coraggio.
La nemesi storica… si ripete anche oggi! I migliori cervelli allevati in Italia scappano all’estero, a loro vengono preferiti i VOTI della mediocrità politica!
Questo distacco dal mare oggi é definito da una piccola cifra: soltanto il 5% degli Allievi Nautici del nostro Paese prende la Via del Mare per intraprendere la carriera da ufficiale.
Infatti, fin dalla tenera età, un giovane deve sapere a cosa va incontro attraverso esperienze progressive che lo fanno maturare, oppure lo fanno desistere dal continuare la vita di mare per la quale non é tagliato.
La Scuola Nautica del Nord Europa si é da tempo adattata al mondo globale del mare dove esistono poche regole da seguire, semplici ma ferree:
- Chi frequenta questa Scuola deve essere preparato a diventare un uomo di mare universale, globalizzato che si sposta in continuazione senza sosta, senza farsi problemi politici, religiosi e di ogni altro tipo.
- La lingua del mare é l’inglese, la Seaspeak. Questa lingua gli permette di navigare e lavorare senza problemi, ma la deve conoscere alla perfezione perché una cosa é certa: nella sua vita di marittimo parlerà di più la lingua inglese che quella di casa.
- Possiamo concludere con una osservazione di carattere generale:
- L’Italia non regge il confronto con la scienza museale marinara del mondo cosiddetto civile.
- Non solo il nostro Paese ha pochissimi Musei Navali, ma non riesce a conservare reperti e ricordi di navi famose che possano infiammare l’entusiasmo dei giovani.
- La cultura marinara dell’Italia é affidata agli ultimi Mohicani che dedicano tempo e denaro con un impegno personale che ha prodotto ricerche e “chicche storiche” ogni giorno, ma questi frutti, per quel che si vede, non sono destinate a dare germogli.
- Lo Stato, la TV e i mass-media in generale ignorano del tutto le nostre origini ed i fasti del passato di una antichissima civiltà marinara che si sviluppò lungo 8.000 km di costa e poi prese il largo verso gli Oceani.
- C’é ancora da sottolineare con amarezza il vuoto su cui “galleggiano” gli Istituti Nautici Italiani nei quali non si studia più la geografia, dove non si prende più in mano un sestante, dove nessuno ha ancora capito che la caratteristica principale di una scuola Nautica é la sua peculiarità internazionale, quindi l’uso di una sola lingua, quella del MARE, LA SEA-SPEAK !!!
- Io ero già in cielo quando ho sentito rimbombare l’ultima bestemmia contro il mare… l’abolizione del Ministero della Marina Mercantile avvenuto nel 1994. Ecco, io penso che l’inesorabile declino sia iniziato con la rinuncia a governare un mondo che solo chi ha navigato conosce i segreti per affrontarlo…
La ringrazio Maestro! Da lei ho capito tante cose, ma su tutte una : "Il Mare va temuto perché dietro quel fascino irresistibile che ci attrae, c'é un'immensa superbia che non perdona!
Joseph Conrad e Vittorio G.Rossi
Joseph Conrad
Figlio unico di Apollo Korzeniowski e della sua consorte Ewa Bobrowska, entrambi appartenenti a nobili famiglie polacche, Conrad nacque il 3 dicembre del 1857 a Berdyciv, in Podolia, attualmente sita in Ucraina, una regione parte del Regno di polonia fino al 1793 quando, con la seconda spartizione della polonia, venne annessa alla Russia zarista. Morì a Bishopsbourne il 3 agosto 1924.
Museo Marinaro di Camogli - Quadro di G. Roberto. Un quadro a tempera rappresenta la nave "Narcissus", di proprietà di un armatore Camogliese, sulla quale lo scrittore Polacco naturalizzato inglese, Joseph Conrad navigò come ufficiale e alla quale si ispirò per scrivere "The Nigger of the Narcissus". Successivamente lo scrittore passò al comando della “Otago”, che rimase famosa poichè fu l'unica unità ad essere comandata dallo scrittore-capitano.
In Joseph Conrad c’é la ricerca interiore dell’anima del marittimo del suo tempo, il quale si agita tra le tante difficoltà razziali, religiose e politiche. Lo scrittore ne analizza gli aspetti psichiatrici come un professionista che é presente a bordo pur essendo nella posizione privilegiata di Primo Ufficiale oppure Comandante del “NARCISSUS”.
Vittorio G. Rossi racconta il marinaio che va incontro al mare consapevole di essere un predestinato alla sofferenza, alla solitudine ad un matrimonio difficile ma inevitabile, un rapporto che può finire da un momento all’altro, ma che sa dare giorni alterni di felicità e dolore. Il marinaio ha una sola risorsa da sfruttare: entrare in empatia con il mare-oceano per imparare a cavalcarlo, a domarlo.
A mio avviso tra i due grandi scrittori esiste un fattore di complementarietà che li unisce nel percepire questa vecchia, anzi antica razza come la più matura per esercitare una sorta di convivenza che li rende anonimi come quei reclusi di terra che nessuno conosce e vuol conoscere. Chi può dire di conoscere un marittimo se non é stato con lui tra quattro lamiere battute dall’oceano? Chi può dire di conoscere la paura del mare se solo pochi compagni di viaggio gli sono testimoni avendo ancora negli occhi gli stessi terribili colpi di mare?
In Conrad c’é una specie di pudore nel descrivere la sofferenza del marittimo; in Vittorio G.Rossi c’é la gioia di sopportare il peso della CROCE, un rito sacrificale mistico, molto religioso: qualcuno lo deve pur fare anche per chi non conosce oppure crede di conoscere come la famiglia che lo aspetta sulla costa ma che poi l’onda di riflusso se lo riporta via, ogni volta diverso, che parla lingue diverse, che chiama cambusa la cucina di casa, che chiama corridoio il cortile, che chiama gabbiani tutti gli uccelli che vede, che chiama mozzo il figlio più piccolo e così via.
In Conrad c’é la visione aristocratica di un mare che domina la scena. In Vittorio G. Rossi il marinaio ha capito che può essere salvato soltanto dalla conoscenza, dalla tecnica, dalla capacità di rinnovarsi nello scontro col mare che non é il male, ma come lo stesso nome un po’ si assomiglia…
Crediamo di fare cose utile al lettore segnalando i libri di Vittorio G. Rossi, ormai non facilmente reperibili, pur essendo passati pochi anni da quando venivano stampati a decine di migliaia di copie, e tradotti in tutto il mondo.
«Le streghe di mare» Milano, Alpes, 1930. «Tassoni», Milano, Alpes, 1931. «Tropici», Milano, Bompiani, 1934. «Via degli Spagnoli», Milano, Bompiani, 1936. «Oceano», Milano, Bompiani, 1938. «Sabbia», Milano, Bompiani, 1940.» «La pelle dei marinai», Milano, Bompiani, 1941. «Cobra», Milano, Bompiani, 1941. «Pelle d'uomo», Milano, Bompiani, 1943. «Alga», Milano, Bompiani, 1945. «Preludio alla notte», Milano, Bompiani, 1948. «Soviet», Milano, Garzanti, 1952. «Fauna», Milano, Bompiani, 1953. «Il granchio gioca col mare», Milano, Mondadori, 1957. «Cristina e lo Spirito Santo», Milano, Mondadori, 1958. «Festa delle lanterne», Milano, Mondadori, 1960. «La Terra è un'arancia dolce», Milano, Mondadori, 1961. «Nudi o vestiti», Milano, Mondadori, 1963. «Miserere coi fichi», Milano, Mondadori, 1963. «Il silenzio di Cassiopea», Milano, Mondadori, 1965. «Però il mare è ancora quello», Milano, Mondadori, 1966. «Teschio e tibia», Milano, Mondadori, 1968. «L'orso sogna le pere», Milano, Mondadori, 1971. «Calme di luglio», Milano, Mondadori, 1973. «Il cane abbaia alla luna», Milano, Mondadori, 1975. «Maestrale», Milano, Mondadori, 1976. «Terra e acqua», Milano, Mursia, 1988.
Vittorio G. Rossi era amico dei marinai anche a tavola
San Rocco di Camogli
Le gallette del MARINAIO
Le lettere di un affezionato cliente, il celebre Vittorio G. Rossi
Qui le Gallette del Marinaio sono una vera istituzione, al punto da aver fatto il giro del mondo e da essere state apprezzate da personalità illustri come Vittorio G. Rossi che ha riservato allo storico negozio dei Maccarini numerose dediche e riconoscimenti scritti.
CARLO GATTI
Rapallo, Venerdì 16 febbraio 2018
MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA CHIAVARI
MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA CHIAVARI
ANTICA CASA GOTUZZO
Il Nonno era Veneto, di Segonzano in provincia di Trento, ma la madre, Gotuzzo Adele, discendente da costruttori di grandi velieri, aveva gli antenati originari di Portofino e Recco che si insediarono nel Rione Scogli di Chiavari ai primi dell’800. In tre generazioni, dal 1838 al 1935 il Cantiere Navale dei Gotuzzo ha costruito e varato, nel cantiere navale agli Scogli, oltre 120 velieri oceanici. I Gotuzzo erano strettamente imparentati con i Tappani, noti costruttori nell'epoca della costruzione in legno. Sia i Tappani che i Gotuzzo provenivano da Recco dove avevano anche impiantato un cantiere navale. Matteo Tappani, "u sciu Mattè" imparò l’arte del costruire proprio da quel Francesco Gotuzzo, detto “Mastro Checco” che quando morì nel 1865 aveva ben 9 velieri in costruzione nel rione Scogli. Non solo, Matteo Tappani sposò Giulia Gotuzzo, figlia di “Mastro Checco” e sorella di Luigi. Pertanto i due più grandi costruttori di Chiavari era parenti essendo cognati. Tra i Gotuzzo, i Tappani ed altri costruttori navali come i Briasco, i Brigneti, i Piceni Gessaga, i Copello, i Sanguineti, i Beraldo ecc. a Chiavari furono costruiti e varati altre 200 velieri oceanici.
Ernani Andreatta è nato a Chiavari nel 1935 e ha conseguito il grado di Sottotenente di Vascello della Marina Militare dopo aver frequentato l'Accademia Navale di Livorno. Passato poi alla Marina Mercantile, raggiunse il Comando di superpetroliere della Texaco Oil Co. a soli 29 anni. Terminò la sua carriera con il grado di Capitano Superiore di Lungo Corso.
Nel 1997 fonda il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta che prende il nome anche dal suo Co-fondatorre Franco Tommasino detto “Mario”. Sino al 2001 viene ospitato nei locali sottostrada dell’Antica Casa Gotuzzo a Chiavari. Dal 2001 sino al 2008 il Museo è stato ospitato presso gli uffici della Promoprovincia a Calvari, in Val Fontanabuona. Nel 2008, la Scuola Telecomunicazioni FFAA di Chiavari, consapevole della rilevanza storica e tradizionale del Museo Marinaro e allo scopo di preservarne e valorizzarne il patrimonio culturale decise di ospitarlo al suo interno assieme alla notevole biblioteca, principalmente di mare, che raccoglie oltre 6.000 volumi.
Proprio nel 2013 il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta ha avuto il riconoscimento dello (SMM) Stato Maggiore della Marina e nel completamento della pratica di acquisizione da parte del Ministero della Marina, sarà affiancato ai Musei Navali di Venezia e di La Spezia.
Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, accertato l'interesse culturale della raccolta ne ha proposto la tutela e la valorizzazione con modalità da concordare.
Ernani Andreatta fu in gioventù un nuotatore di buon livello conquistando tre campionati Italiani (ragazzi-allievi-juniores) nelle file della Chiavari Nuoto, nella quale ricoperse in seguito anche cariche di dirigente sino alla Vicepresidenza.
A 40 anni, dopo 11 anni di comando svolse, sempre fedele alla TEXACO Oil Co., incarichi ispettivi della durata di tre anni a Taiwan (Formosa), Singapore, Hong Kong. Concluse infine il suo proficuo rapporto di lavoro con un mandato di dirigente di sei mesi presso l’Ufficio-Armamento di Montecarlo.
Il Comandante Ernani Andreatta lasciò definitivamente il mare per iniziare la carriera di Imprenditore nel settore chimico navale che lo vide grande protagonista fino al 2001. Lasciò l’attività professionale, con la carica di Presidente e Amministratore Delegato nella UNISERVICE INTERNATIONAL: Multinazionale del settore chimico navale, da lui fondata, con uffici dislocati in tutto il mondo, con sede finanziaria a Ginevra e 747 porti di Assistenza Tecnica e Servizi alle navi di qualsiasi tonnellaggio.
In questi anni Ernani Andreatta acquistò grande esperienza nel settore dello Shipping partecipando ogni anno, con l'azienda di cui sopra, al SEATRADE SHOW di MIAMI, dove venne in contatto con il mondo delle crociere in grande crescita da molte decine di anni.
Andreatta è socio UNUCI (Ufficiali in Congedo), ANMI (Marinai d’Italia), Società Economica di Chiavari, Accademia dei Cultori di Storia Locale: “O Castello” e Società Capitani e Macchinisti Navali con sede a Camogli. E’ fondatore di altre Associazioni tra le quali il ROTARY CLUB Chiavari-Tigullio, del quale è stato presidente nel 91-92, Associazione Culturale "MARE NOSTRUM" di Rapallo, della Associazione Culturale "IL SESTANTE" e della simpatica Accademia dello Stoccafisso e del Baccalà della quale, orgogliosamente, si fregia di possedere la tessera n. 1. E' socio fondatore dell'Associazione "Amici del Mare e degli Scogli". Ha scritto libri sulla marineria Chiavarese e Ligure come "Chiavari Marinara dall'Epoca Eroica della Vela" e "Memorie dal Mare", un pesante volume di circa 6,5 Kg. I proventi di queste pubblicazioni (40 Milioni del tempo), alla fine degli anni '90, furono devoluti a Don Nando Negri, Fondatore del Villaggio del ragazzo. Andreatta é anche autore di Libri sportivi insieme ad altri due autori, Enrico Paini ed Andrea Ferro, come "Il Palio Marinaro del Tigullio". Da anni partecipa a conferenze, dibattiti e relazioni sempre su temi legati al mare. Ultimamente ha annoverato una vasta collezione di 4200 DVD storici e marinari. Di cui 1500 sono stati curati, montati diventandone di fatto il vero REGISTA.
“Nanni non intende mollare...!”
Questa é la frase che i suoi amici più stretti si lasciano scappare di nascosto... vergognandosi per non riuscire a tenergli il passo... Anche se gli anni non sono più “verdi”, Nanni sembra aver fatto quel celebre “patto con il diavolo...”. La sua irriducibile tenacia e passione per la storia e i valori marinari della Riviera, non accenna a placarsi e la sua verve di trascinatore implacabile contagia tutti, anche coloro, non più in tenera età, che vorrebbero finalmente dedicarsi alle passeggiate con i nipotini...
Nel 2012 dall'Associazione Culturale " o Leudo" di Sestri Levante gli è stato conferito il titolo di "Nonno dell'Anno". L’ANPAI, Associazione Nazionale Poeti e Artisti, gli ha conferito nel 2004 il premio “GENTE DI LIGURIA” con la seguente motivazione: "per l’impegno a favore della cultura, della valorizzazione, della tradizione e della storia della terra ligure".
L'ultima sua proposta culturale, insieme ad Enrico Paini, coautore, è stata quella di colmare un vuoto sulla vita e le imprese di quel grande Chiavarese che fu Enrico Millo. Il 15 Dicembre 2015 c.a. all'auditorium San Francesco di Chiavari è stato presentato il volume, "ENRICO MILLO la Vita e le Imprese", di 560 Pagine e centinaia di fotografie d'epoca. Il volume ha avuto il patrocinio del Comune di Chiavari e dello Stato Maggiore della Marina assieme alla Scuola Telecomunicazioni FF AA di Chiavari.
Come nacque il Museo che ci accingiamo a visitare?
A questo punto della ricostruzione storica, entra in scena il signor Franco “Mario” Tommasino, un caro amico di Nanni, tecnico raffinato della RAI di Genova, esperto costruttore di modelli navali radiocomandati.
Preso atto della volontà di Nanni di far riemergere “il passato imprenditoriale della sua famiglia”, ma soprattutto la grande storia della costruzione navale e armatoriale legata al mare il 7 Luglio 1997 viene fondato il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta.
Il materiale emerso da quei sottofondi dell’Antica Casa Gotuzzo e dalla Casa di Corso Buenos Aires, a quel tempo N. 31, costruita dal Comandante Ernani Andreatta Senior su terreni dei Gotuzzo, (ora non più della famiglia Gotuzzo/Andreatta) aveva conservato lo stesso profumo salmastro del mare e del Cantiere. Ogni angolo era rimasto intriso del suo odore di un tempo: pece, pitture, diluenti, derivanti del catrame usato dai calafati, seste di pini tagliati dai segantini, di sudore e vite vissute tra legni di querce sagomate dai maestri d’ascia, tra i cordami degli attrezzisti e pezzi di tela pronta per essere tagliata dai velai. C’era ancora tanto materiale pronto per riprendere a ricostruire navi d’altri tempi, magnifiche da vedersi, ma diventate ormai improponibili con l’avvento del motore e dello scafo in ferro. Putroppo, anche l’uomo nel frattempo era cambiato, non viveva più sulla spiaggia dove in gran segreto spiegava alle maestranze, con disegni improvvisati sulla sabbia, le “linee d’acqua” che subito dopo venivano cancellate con una pedata per non diffondere i segreti dell’arte di famiglia.
Ma il museo ha avuto anche straordinarie donazioni dai discendenti dei Maestri d’ascia, Calafati, Carpentieri ecc, che per molti anni avevano prestato la loro opera nei cantieri navali dei Gotuzzo che operarono dal 1838 al 1935, anno in cui il l’attività cantieristica, purtroppo, fu venduta a Mariano delle Piane, un imprenditore tessile di Novi ligure.
Tutto questo oggi é quasi inspiegabile se non fosse per questo “mondo sommerso” che riaffiora in modo direi “archeologico” per urlare finalmente il loro pezzo di storia al mondo distratto dai computer, dai loro programmi di costruzione già predisposti, che partono dal risultato finale per risalire all’impostazione della chiglia, senza neppure un calcolo aritmetico ...
Così iniziò l’opera di salvataggio di migliaia di testimonianze, piccole gemme di un universo legato al canto del cigno del mondo della vela; ultime pagine di un libro che le nuove generazioni devono leggere per comprendere quanto l’uomo moderno sia DEBITORE in fatto di MARINERIA verso i loro avi. Uomini veri, professionisti del mare non solo “oceanico”, ma soprattutto “costiero”, dove si aveva la capacità di CREARE con l’ingegno, la fantasia e tanta umiltà ricoperta di sudore.
Carlo GATTI
MISSIONE E SCOPI DEL MUSEO MARINARO
TOMMASINO-ANDREATTA
STORIA, TRADIZIONI E CULTURA MARINARA
Il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta come detto, viene fondato a Chiavari, nell’Antica Casa Gotuzzo in Piazza Gagliardo 19, il 7 Luglio 1997 da Franco “Mario” Tommasino, deceduto nel 1998, e da Ernani Andreatta. Il Museo nasce come iniziativa privata per il grande contributo di Franco Tommasino che dona al museo quasi 30 modelli navali e altri rari reperti nel campo della radio d’epoca Marconiana ma anche sull’onda del successo ottenuto con la pubblicazione dei libri “Chiavari Marinara dall’Epoca Eroica della Vela - Storia del Rione Scogli”, esaurito nonostante le 4600 copie di due edizioni 1993 e 97, e “Memorie dal Mare - L’immenso libro di Papà Lucerna”, edito nel 97 in 6700 copie del quale ne rimangono pochi esemplari, con la relativa video cassetta o DVD in lingua Italiana, Inglese, e Spagnolo. Attraverso queste pubblicazioni ed il Museo, viene operato uno straordinario “salvataggio storico” di tradizioni, di cultura e di lavoro che si sarebbe altrimenti perduto. Nel 2013, Ernani Andreatta assieme ad Enrico Paini e Andrea Ferro presentava il libro “IL PALIO MARINARO DEL TIGULLIO”. IL 15 Dicembre 2015, da Ernani Andreatta ed Enrico Paini, veniva presentato il libro "“ENRICO MILLO la Vita e le Imprese” che ha avuto anche la consulenza storica di Enzo Gaggero e Carlo Gatti con la presentazione del Sindaco di Chiavari, Ing. Roberto Levaggi, del Com.te Giuseppe Cannatà della Scuola Telecomunicazioni FF AA di Chiavari e del Presidente della Società Economica Roberto Napolitano. Il libro era patrocinato dal Comune di Chiavari e dallo Stato Maggiore della Marina.
Gli ultimi lavori di Ernani Andreatta sono sempre corredati di DVD che valorizzano ulteriormente l’opera presentata in cartaceo.
Il Tigullio ha una lunga e gloriosa storia marinara, che data sin dal Medioevo. In Chiavari e Lavagna sono stati costruiti e varati oltre 200 velieri oceanici, mentre Sestri Levante e Riva Trigoso erano più specializzati nella costruzione e armamento di leudi.
Il nucleo del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta è costituito quindi da modelli di navi a vela e modelli naviganti radiocomandati oltre che da apparecchi radioriceventi costruiti o raccolti da Franco Tommasino, da strumenti nautici antichi anche del 1700 e da preziosi utensili da lavoro. In questo museo trovano spazio anche gli attrezzi da pesca dato che il Rione Scogli all’inizio del secolo scorso diventò un centro importante del settore mutando la sua indentità da quello della costruzione navale a quello della pesca. Gli stessi pescatori degli Scogli hanno lasciato un patrimonio di tradizioni importantissimo anch’esso oggetto di salvataggio attraverso le opere sopra menzionate.
Molti reperti museali provengono da donazioni o lasciti di privati e da acquisti sul mercato antiquario, come l'importante collezione di rare conchiglie di mare e di terra, provenienti da tutto il mondo, che conta più di 3000 pezzi, tutti rigorosamente catalogati. Non ultimo l’importantissimo archivio storico fotografico e la biblioteca con oltre 4000 volumi per la maggior parte di argomento marinaro e una importante videoteca di filmati d’epoca.
Un altro importante salvataggio storico del Museo è quello effettuato da Amedeo Devoto, noto artista e progettista navale del Rione Scogli, dei piani di costruzione di molti grandi velieri costruiti sia a Chiavari nell’800, che a Riva Trigoso ai primi del 900: un incredibile patrimonio che lega al mare il Tigullio e Chiavari in particolare. Il Museo vanta su questo tema un ulteriore arricchimento dovuto all’acquisizione di importanti piani di costruzione, circa un centinaio, provenienti da tutto il mondo e che riguardano velieri e grandi imbarcazioni del 1800.
E Chiavari, come centro di costruzioni navali e armatoriale raggiunse il suo apice nell’Ottocento, grazie all’opera di costruttori come Matteo Tappani, tre generazioni di Gotuzzo, Francesco detto “Mastro Checco”, Luigi ed Eugenio, i Briasco, i Piceni Gessaga, i Milesi, i Brigneti, i Copello, i Sanguineti, i Beraldo e di armatori come i Dall’Orso, i Raffo, i Beraldo i Sanguineti, i Borzone, i Copello, i Bianchi, i Chiarella, i Rocca, Fratelli Ghio, i Gagliardo, i Roncagliolo, i Raggio Porcella, i Carniglia, i Milesi, i Cuneo, i Devoto, i Marana, i Casaretto e altri, che porteranno il nome di Chiavari in tutti i mari del mondo. Innumerevoli navi camogline e genovesi presero forma sugli scali del Golfo del Tigullio, a sottolineare la capacità e la tenacia dei costruttori locali che sapevano tener testa alla migliore concorrenza internazionale.
Non vanno dimenticati i maestri d’ascia e i calafati come i Tirone, Maccianti, i Risso, i Solari, I Bertuletti, i Della Pietà, i Moladuri, i Raffo, i Dall’orso, e tutte le maestranze che, con la loro operosa attività, hanno contribuito a costruire il patrimonio di valori di questa zona. Per conservare la memoria di queste vicende e degli uomini che ne furono protagonisti ci è sembrato utile dar vita ad un’esposizione permanente sulla marineria Chiavarese e del Tigullio.
Brevi note sui co-fondatori e collaboratori del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta.
Franco “Mario” Tommasino
Co-fondatore del Museo Marinaro (1915-1998)
Era nato a Chiavari nel cuore dello storico Rione Scogli. La maggior parte dei modelli navali e degli apparecchi radio-riceventi che costituiscono il Museo sono frutto del suo ingegno e del lavoro appassionato di tutta la sua esistenza.
La sua vita professionale:
Tecnico della Rai, sede Regionale di Genova. Di lui si racconta che negli ultimi mesi del 1945, salvò dalla vendetta nazista, a rischio della propria vita, le principali apparecchiature RADIO della Rai che furono in grado, di trasmettere il 25 Aprile, grazie a lui, i bollettini della LIBERAZIONE. Legatissimo al Rione Scogli, effettuò sempre a Chiavari le prove in mare dei suoi straordinari modelli galleggianti e naviganti che fanno ora parte del Museo Marinaro che porta anche il suo nome. La sua storia è ampiamente documentata in alcuni capitoli del volume "MEMORIE DA MARE” edito nel 1997 da Ernani Andreatta, come abbiamo già annotato.
Aldo Caterino
ha catalogato tutti i reperti del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta.
E’ nato a Genova nel 1965. Dopo la laurea in Storia Moderna, è diventato Assistente Scientifico del Museo Navale di Genova, ruolo che ricopre tutt’ora assieme alla carica di Direttore Editoriale presso una casa editrice genovese. In tali vesti ha contribuito alla realizzazione di importanti progetti, come l’allestimento del Padiglione del Mare e della Navigazione e delle mostre temporanee Dal Mediterraneo all’Atlantico, Capitani Coraggiosi, Genova e i velieri e Storie di Polene. Successivamente si è dedicato a varie attività editoriali e artistiche, lavorando per aziende prestigiose come Pineider, Nazareno Gabrielli e Franco Maria Ricci. Autore di articoli e saggi sulla storia della marineria, nutre una profonda passione per la cartografia antica e possiede una collezione di carte geografiche del continente americano. Tra le sue pubblicazioni: Le navigazioni transoceaniche nel Seicento, La via olandese per le Indie Orientali, La cartografia nautica portoghese nell’età delle scoperte, Il calcolo della longitudine e la nascita del cronometro da marina, La pittura di yachting.
Giancarlo Boaretto
addetto al restyling e alla conservazione dei reperti del Museo Marinaro.
E’ nato a Bosco Marengo (Alessandria) nel 1945 di professione palombaro ad alta profondità con un passato di navigante. Durante l’alluvione di Firenze il 4 Novembre 1966 poco più che ventenne, aiuta la popolazione a uscire dall’acqua e dal fango. E’ uno dei tanti “Angeli del Fango” che salvano quasi tutte le opere d’arte di Firenze. Poi una serie di corsi professionali per imparare ad andare sott’acqua, la sua passione, ed operare a profondità eccezionali dove la testa sembra scoppiare. Consegue molte abilitazioni e impara a lavorare nel regno dei pesci, a meno 20, a meno 50, a meno 300 metri! E’ la professione della sua vita ! Dopo alcune missioni su navi locali in Sardegna o in Grecia partecipa alla costruzione di piattaforme petrolifere come la gigantesca “Garaupa” della Petrobras Brasiliana che poggia sul fondo a 120 m. di profondità. Uno dei primi seri contratti di Boaretto è quello sull’Artic Seal”, una enorme nave appoggio, in giro per il Mare del Nord, Mar di Norvegia, Mar Glaciale Artico. In Scozia a Fort William ottiene così il brevetto di “Deep Diver” (alto fondalista). Poi “decolla” o meglio “sprofonda” sempre più negli abissi marini lavorando per la Esso e la Shell in tutto il mondo: Tailandia, Singapopre, Malaysia, Norvegia, Hong Kong, Mare di Barentz, Brasile, Borneo, Oceano Indiano, Mar Cinese, Stati Uniti ecc. Partecipa alla costruzione di piattaforme petrolifere, recupera pezzi di navi o aerei, installa condotte marine e costruisce cisterne in cemento prefabbricato, i cosidetti “Igloo” dove sopra vi poggiano le piattaforme petrolifere e fanno da primo deposito all’oro nero che sgorga dalle viscere della terra, ma sempre sott’acqua! Per anni, 21 giorni al mese, a turno, vive là sotto, tra fondali impossibili e camere iperbariche per la decompressione, dove il sangue si satura di azoto e bisogna ripristinare il bilanciamento dei vari componenti gassosi. L’ultimo suo impegno professionale è con la Barracuda Sub di Genova. Per hobby ha sempre fatto il modellista navale. Nel 1966, quarant’anni fa a Firenze era un “Angelo del Fango”, ora è l’”Angelo del Museo” dato che tutti i reperti sono stati da lui rimessi in ordine, riparati e ripuliti facendoli ritornare agli splendori di quando uscirono dalle mani straordinarie di Franco Tommaso.
Enrico Paini
Curatore, aggiunto, del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta
Nato a Lavagna il 21 novembre 1965, dal 1987 é "Ormezou" nel porto di Lavagna. Enrico é sposato con la signora Gabriella Campodonico ed padre di tre figli: Yannick, 13 anni - Andreas, 9 anni - Anna Stella 6 anni. Il merito di questo giovane uomo di cultura, é quello di trovare il tempo, nonostante gli innumerevoli ed inevitabile impegni famigliari, di dedicarsi anche al Museo Marinaro. Paini è dirigente e fondatore della A.S.D. COMPAGNIA REMIERA LAVAGNESE, società di Canottaggio a sedile fisso di Lavagna. Consigliere della ASSOCIAZIONE AMATORI PALIO DEL TIGULLIO e membro del collegio dei Probiviri. Autore, assieme a Ernani Andreatta e Andrea Ferro (del Secolo XIX), del libro sulla "Storia del Palio Marinaro del Tigullio" (2013) e del Libro presentato a Chiavari il 15 Dicembre 2015, “ENRICO MILLO la Vita e le Imprese” che ha riscosso uno straordinario successo di pubblico e critica. Collaboratore di Ernani Andreatta, per la realizzazione di DVD a tema storico e marinaro, per la ricerca storica e la realizzazione dei testi.
Informatizzazione del Museo
Tutti i reperti museali sono informatizzati, ivi compresa la biblioteca fornita di oltre 4000 volumi di argomento marinaro con le documentazioni storiche e le schede dei reperti che contengono tutte le informazioni tecniche relative. In pratica, la catalogazione di tutto il complesso museale è stata effettuata. La biblioteca, così come la vastissima videoteca del Museo Marinaro (DVD e video cassette come fotografie e documenti storici) hanno ancora sede nell’Antica Casa Gotuzzo in Piazza Gagliardo (Piazza dei Pescatori) - Chiavari. Molti dei reperti museali sono dotati del "QR CODE” per una immediata visione video della loro storia e origine.
MEMORIE DEL MARE
Scrive Aldo Caterino - in Memorie dal mare: l'immenso libro di Papà Lucerna, a cura di Ernani Andreatta - "I più importanti musei marittimi vennero creati all'inizio del Novecento per iniziativa di privati cittadini appassionati di mare e di storia locale, che misero a disposizione i materiali da essi raccolti nel tempo. Ciò non avvenne solo nelle grandi città marittime, centri di traffici e industrie, ma anche nei piccoli porti della costa, che nel periodo velico avevano magari armato ingenti flotte di bianchi velieri.
Il valore di tali musei non risiede tanto nella rarità o nella preziosità dei cimeli esposti, ma nella loro importanza come memorie storiche vive e palpitanti di un passato che non tornerà più.
Questo è anche il caso del Museo Marinaro "Tommasino - Andreatta", fondato il 7 luglio 1997. Frutto dell'impegno del comandante Ernani Andreatta, è oggi ospitato presso l'Antica Casa Gotuzzo, nel cuore stesso della storia marinara chiavarese.
Il Comandante Ernani Andreatta racconta: “Che cos'è? Ma c’era, il fax, molto tempo fa? Non c’era, però state a sentire qualcosa che molta gente non sa e così, poi, glielo potrete raccontare. In Francia, quasi un secolo fa, l’ingegnere Edouard Belin inventò un congegno che trasformava l’elettricità in segni di scrittura o di disegno. Così, in pace, e purtroppo in guerra, fu usato per trent'anni, e inviava i suoi messaggi per tutta la terra. Quel fax antico, come si chiamava? È il belinografo!
La foto mostra una delle prime Sale dei modelli della Scuola Telecomunicazioni di Chiavari Caperana
Istituita nel 2012 all'interno della Caserma "Giordano Leone" di Caperana (Chiavari), conserva apparecchiature e strumenti di comunicazione di tutte le epoche, con particolare attenzione a quelle utilizzate presso la Scuola dalla sua fondazione (1952) con lo scopo di tramandare le tradizioni e le memorie del Reparto: dagli strumenti utilizzati da Guglielmo Marconi nei suoi primi esperimenti di inizio '900, avvenuti proprio nel Golfo del Tigullio (chiamato appunto Golfo Marconi), al fonografo di Edison (1886) fino ai moderni apparati di telecomunicazione militare, passando attraverso le prime macchine cifranti, le radio campali dell'Esercito Italiano, le telescriventi e i sistemi satellitari.
Due sale sono dedicate ad approfondimenti particolari: la prima é dedicata all'Amm. Enrico Millo, ove è conservata la “sciabola d'onore” offerta all'eroe dalla sua città natale, Chiavari, in memoria dell'impresa dei Dardanelli insieme a cimeli appartenuti ad altri militari decorati; l'altra, intitolata ad Aldo Gastaldi "Bisagno", raccoglie calchi in gesso dell'artista Nicola Neonato, commemorativi delle vicende del partigiano genovese, in servizio presso la Caserma al momento dell'armistizio, e materiale originale del campo di prigionia di Calvari, tra cui le schede del personale detenuto nel periodo bellico e il diario del campo redatto dall'Aiutante Maggiore Ten. Filippo Zavatteri.
Nelle sale del Museo sono esposti numerosi “strumenti nautici” databili dal '500, una vasta collezione di modelli navali militari e mercantili, antichi e moderni, una ricchissima raccolta di immagini e di strumenti di lavoro originali in uso nei cantieri navali "Tappani - Gotuzzo" di Chiavari, attivi dalla metà dell'800 fino agli anni '30 del secolo scorso. Una sala di carattere etno-antropologico descrive, attraverso grandi riproduzioni pittoriche di foto originali, la vita e l'ambiente del rione Scogli di Chiavari, il vecchio borgo dei pescatori ove sorgeva il cantiere navale. Interessante é la riproduzione fedele della plancia di comando di una nave. Ci si immerge inoltre nella realtà della navigazione tramite un simulatore che ne riproduce le manovre e le sensazioni. Il tutto é corredato da numerosi video descrittivi degli oggetti e della storia che essi vogliono raccontare.
INAUGURAZIONE Nuova Sede del Museo Marinaro: TOMMASINO-ANDREATTA
Riportiamo da un quotidiano locale:
4 dicembre 2009. In occasione della Festa di Santa Barbara, alla Scuola Telecomunicazioni FF AA di Via Parma 34, verrà aperto al pubblico, dalle ore 14.30 alle ore 18.00, il rinnovato Museo Marinaro Tommasino-Andreatta, presentato in una veste completamente nuova, e con un notevole arricchimento di spazi e reperti. Dopo l’ampliamento e l’acquisizione di nuovi spazi, con l’esposizione delle opere di Amedeo Devoto, degli antichi velieri dell’Epoca Eroica della Vela, delle storiche navi Mercantili e Militari e di nuovi importanti reperti museali come un antico argano per Leudi, oltre la sala “multimediale” e i nuovi servizi di ricevimento, Chiavari ritrova il suo museo marinaro. Un avvenimento straordinariamente importante per i preziosi e unici reperti – modelli navali naviganti, strumenti, radio antiche ecc – collezionati nel corso degli anni dal Com.te Ernani Andreatta dopo la donazione da parte di Franco Tommasino, al tempo, tecnico della RAI di Genova, di modelli Navali Naviganti e radio dell’Epoca Marconiana. Una sala è stata intitolata a Guglielmo Marconi e tra le molte cose della sua epoca prendono posto un bellissimo modello dell’Elettra, e una cuffia per l’ascolto radio donata a Tommasino da Adelmo Landini che era il Radio Telegrafista della nave laboratorio di Marconi.
Il Museo Marinaro, integrandosi con quello della “Sala Storica delle Telecomunicazioni”, spostata in un edificio vicino al Museo Marinaro, acquista un’importante valenza per i suoi contenuti storici nel ricordo e nel rispetto del passato. Il Museo, fondato nel 1997 a Chiavari nel Rione Scogli, fu prima ospitato sino al 2001, nella casa paterna dei Gotuzzo, grandi costruttori navali, dell’epoca eroica della vela. In seguito il museo trovò, nel 2001, ospitalità nell’edificio della Promo Provincia Genova a Càlvari, in Fontanabuona e nel 2008, dopo oltre un anno di allestimenti e ampliamenti, ha stabilito la sua definitiva sede alla scuola Telecomunicazioni FF AA a Chiavari, grazie alla disponibilità del Past-Comandante, C.V. Giuseppe Bennardi. I Comandanti che si sono succeduti ogni due anni al Comando della Scuola Tlc hanno sempre cercato di mantenere e valorizzare questa rara collezione marinara. C.V. Francesco Scarpetta, C.V. Silvano Benedetti, C.V. Luigi Ciriello sino all’ attuale Comandante Giuseppe Cannatà.
il 4 Dicembre 2008, con taglio del nastro da parte della Signora Gabriella Andreatta in Westermann, figlia di Ernani, alla presenza di Sandro, figlio di Franco Tommasino e delle autorità religiose, amministrative e militari del Tigullio anche nelle persone del Vescovo di Chiavari Alberto Tanasini, l’ammiraglio Santarini proveniente da La Spezia, sindaci e assessori del Tigullio. Alfredo Provenzali, che fu grande amico di Franco Tommasino, lo commemorò essendo stato suo collega alla Rai nel dopoguerra. Erano presenti alla cerimonia molti dei suoi parenti provenienti, oltre che da Chiavari, anche da Voghera e da Roma.
Il manifesto realizzato in occasione dell'inaugurazione del Museo
ALBUM FOTOGRAFICO E SCHEDE
Modelli di navi militari a vela
• Vascello francese di terzo rango “Le Mirage”
• Vascello inglese di primo rango “Sovereign of the Seas”
Vascello francese di terzo rango
“Le Mirage”
Modello costruito a Genova nel 1970
Dimensioni: cm 88x38x80
Materiali:
legno, ottone e acciaio; su basamento di legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 001
Scala: 1:75
Scafo a ossatura e fasciame; tre alberi a vele quadre; trinchetto e maestra con trevi, gabbie e velacci; mezzana latina; bompresso con civada e controcivada; manovre e attrezzature complete; mancano le vele; due ancore per parte; polena a forma di donna; specchio di poppa decorato con lo stemma dei Borboni; tre fanali di coronamento rossi; una scialuppa sul ponte di coperta; una scala reale per parte. Costruita alla metà del Seicento, nel periodo di massimo splendore della marina francese, la nave apparteneva alla fase di transizione che segnò il passaggio dal grande e pesante galeone al pi funzionale e perfezionato vascello di linea. Le sue dimensioni erano: lunghezza m 55; larghezza m 12; pescaggio m 5,80; dislocamento tonn. 1.245. Il ponte di coperta, che si estendeva fino al castello di prua, era rivestito con tavole di pino e di teak, ed accuratamente calafatato, per assicurare una buona impermeabilità. Le tavole erano fissate ai bagli per mezzo di chiodi di ferro, la cui testa veniva ricoperta con un tappo di legno. Lo spessore delle tavole dei ponti era di cm 12,50 per la batteria inferiore, cm 10 per la batteria superiore e cm 7,50 per il terzo ponte, in proporzione al peso dei pezzi d’artiglieria. Il fasciame interno e il fasciame esterno avevano spessori differenti a seconda delle zone dello scafo, arrivando fino al massimo di un metro. L’armamento comprendeva: 28 cannoni da 32 libbre per la prima batteria; 24 cannoni da 24 libbre per la seconda batteria; 8 cannoni da 18 libbre e 18 da 9 libbre per la terza batteria. L’equipaggio era formato da 543 uomini. Il vascello era la nave ammiraglia della flotta del Mediterraneo.
I costruttori navali francesi erano apprezzati ovunque per la loro maestria e abilitˆ. Essi avevano saputo trarre profitto dalla lezione degli Olandesi, che all’inizio del XVII secolo avevano rivoluzionato le tecniche di costruzione navale introducendo una serie di importanti innovazioni, e ne avevano sviluppato le idee e le concezioni, grazie anche all’ottima organizzazione della ricerca scientifica applicata. Lo studio approfondito della forma della carena, della chiglia, delle estremitˆ, dei castelli e dell’alberatura costituiva l’orgoglio dei cantieri e degli arsenali francesi, che impiegavano manodopera altamente qualificata.
Scienziati e ingegneri famosi venivano incaricati di migliorare le caratteristiche delle navi, eseguendo complicati calcoli di stabilità e idrodinamica, per adattarle alle mutevoli esigenze della guerra e del commercio, mentre gli artisti pi affermati si dedicavano all’elaborazione di complicate decorazioni per le prue e per le poppe. Pierre Puget, ad esempio, uno dei migliori scultori europei del Seicento, lavorò a lungo presso l’Arsenale di Tolone, contribuendo all’abbellimento di numerose unità costruite sui suoi scali. Il preciso rilevamento delle coste, lo sviluppo di perfezionati strumenti nautici e idrografici, la redazione di carte aggiornate erano tutte attività promosse e gestite dallo Stato, che intendeva così avere a disposizione una documentazione completa ed esauriente sulle caratteristiche del territorio. Grazie all’impegno di uomini di governo come Richelieu e Mazzarino, la Francia si trasformò in pochi decenni nella principale potenza marittima del continente, capace di contendere il primato all’Inghilterra. Il culmine di questa evoluzione si ebbe sotto Luigi XIV, il cui Ministro delle Finanze Colbert, aveva molto a cuore lo sviluppo della marina, vista come il mezzo migliore per proiettare all’esterno le formidabili energie del paese. Egli mirava a estendere l’influenza francese su tutti i mari del globo, per garantire sicurezza e prosperità ai commerci e arricchire le casse del regno, secondo le teorie mercantilistiche allora in voga. A questo scopo diede notevole impulso alla ricerca scientifica, finanziò l’esplorazione delle terre e dei mari sconosciuti, fondò numerose colonie in Oriente e in Occidente, rivaleggiando con le altre potenze europee, istituì compagnie commerciali privilegiate con il monopolio dello sfruttamento delle aree tropicali e promosse lo sviluppo della produzione agricola per il mercato. Inoltre dotò la marina militare di basi sicure ed attrezzate, collocate nei punti strategici e capaci di offrire tutta l’assistenza necessaria alla flotta. Riformò il sistema di reclutamento degli equipaggi; creò scuole nautiche avanzate per l’addestramento degli ufficiali; permise anche ai borghesi di accedere alle cariche più elevate; diede impulso alla formazione di uno stato maggiore efficiente e preparato. In poche parole, fece della Francia la maggiore rivale dell’Inghilterra, dopo aver nettamente superato l’Olanda. L’armonia e l’eleganza dei vascelli costruiti negli arsenali di Tolone, Brest e
Rochefort erano tali da suscitare l’invidia delle altre potenze europee che cercavano di imitarne le linee, per trarre profitto dalle innovazioni applicate dai maestri d’ascia transalpini. Quando capitava di catturarne uno in battaglia, lo si riportava trionfalmente in patria, allo scopo di studiarne le caratteristiche e apportare miglioramenti alle nuove costruzioni. Se era in buono stato, lo si incorporava anche nella flotta come ambita preda di guerra. Le artiglierie dell’epoca non sparavano proiettili esplosivi, introdotti solo nell’Ottocento, ma palle piene di ferro, palle incatenate o frammenti a mitraglia, che erano in grado di sterminare l’equipaggio e di immobilizzare la nave in attesa dell’abbordaggio, ma non di affondarla direttamente, per cui l’uso di riciclare i bastimenti era abbastanza comune.
Vascello inglese di primo rango
“Sovereign of the Seas”
Modello costruito a Chiavari nel 1970
Dimensioni: cm 107x45x87
Materiali: legno, ottone e acciaio; su basamento di legno e plastica.
Donazione di Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 002
Scala: 1:100
Scafo a ossatura e fasciame; tre alberi a vele quadre; trinchetto e maestra con trevi, gabbie, velacci e contro; mezzana latina; bompresso con civada e controcivada; manovre e attrezzature complete; mancano le vele; polena a forma di re a cavallo; specchio di poppa ornato con lo stemma degli Stuart; un grande fanale di coronamento a poppa; timone decorato con testa di leone coronata.
Probabilmente non c’era nave più famosa che solcasse i mari europei nella seconda metà del Seicento. Progettata dal famoso ingegnere navale inglese Phineas Pett, su espresso desiderio del re Carlo I, e battezzata “Sovereing of the Seas”, fu varata nell’ottobre del 1637. Rispetto agli altri vascelli dell’epoca aveva una caratteristica particolare: tre ponti di batteria completi, invece di due, il che aveva permesso di aumentare il numero dei cannoni da 90 a 102. Era un bastimento di grande prestigio, che valeva 40.000 sterline dell’epoca: somma sufficiente a costruire sei unità da 40 cannoni. Il costo della decorazione ammontava a 7.000 sterline. Dopo un periodo di prova, Peter Pett, figlio del progettista, lo trasformò in un due ponti, per renderlo più stabile e maneggevole, e lo ribattezzò “Royal Sovereign”. I lavori di ricostruzione si svolsero fra il 1654 e il 1660 e comportarono innanzitutto il rafforzamento dei ponti, per distribuire meglio le artiglierie. I cannoni più pesanti vennero collocati nella batteria inferiore, per aumentare la stabilità dello scafo, la quale era sovente compromessa dalla penetrazione di acqua marina attraverso i portelli, quando venivano aperti per il combattimento. Era un difetto comune a molte unità inglesi, che tendevano a essere alte sull’acqua e a pescare troppo, il che impediva loro di penetrare nei bassi fondali, al contrario di quelle francesi e olandesi, più basse e più larghe, che godevano di maggiore stabilità. Le sue dimensioni erano: lunghezza m 71; larghezza m 14,75; pescaggio m 7,16; dislocamento tonn. 1.541 come “Sovereign of the Seas” e tonn. 1.637 come “Royal Sovereign”. L’armamento comprendeva: 24 cannoni da 42 libbre nella prima batteria; 20 cannoni da 24 libbre nella seconda; 22 cannoni da 18 libbre nella terza, o ponte di coperta; più vari pezzi minori da 9 e da 12 libbre. L’equipaggio era composto da 780 uomini. Il 10 giugno 1690, nella battaglia di Beachy Head, il “Royal Sovereign” alzava l’insegna dell’ammiraglio Arthur Herbert, conte di Torrington. La flotta francese era al comando dell’ammiraglio Tourville, uno dei migliori comandanti di mare di quel periodo. Con il passare delle ore il combattimento volse decisamente a favore dei transalpini, che appoggiavano le rivendicazioni dello spodestato re d’Inghilterra Giacomo II Stuart. Nello scontro il “Royal Sovereign” fu impegnato da varie unità nemiche, tra cui il “Content”, lo “Entreprenant” e lo “Apollon”, tutte da sessanta cannoni. Malgrado l’inferiorità dell’armamento, i vascelli francesi si difesero con tale accanimento da costringere l’ammiraglio inglese a rompere il contatto. Herbert fu giudicato colpevole della sconfitta, nonostante la sua appassionata difesa di fronte alla corte marziale, e non gli fu più affidato alcun comando. Il “Royal Sovereign” venne distrutto da un incendio nel 1696.
Modelli di navi mercantili a vela
• Nave-goletta italiana “Fidente”
• Goletta a palo italiana “Giovanni” (Ernani) a vele spiegate
• Nave a palo italiana “Gabriella” a vele spiegate
• Brigantino a palo italiano “Luigi” (“Ciuilli”)
• Nave danese “Jytte” a vele spiegate
• Nave-goletta italiana (o barco bestia) “Ernani III ” (Vittorio) a vele spiegate
• Brigantino a palo italiano “Maria Luisa” a vele spiegate
• Pareggia italiana “Marietto Solari”
• Brigantino a palo italiano “Rina Corte” con vele terzaruolate
• Tartana ligure del 1700 “Patrizia”
• Goletta Yacht a motore “Gloria”
Nave-goletta italiana di Lorenzo Carniglia
“Fidente”
Modello costruito a Chiavari nel 1965
Dimensioni: cm 65x22x43
Materiali:legno, ottone, corda e acciaio;
su basamento di
legno, in teca di vetro.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 003
Scala 1:70
Scafo in legno pieno; il modello presenta un errore nella velatura, perché è armato a brigantino a palo invece che a nave-golettacome il bastimento originale; castello a prua; cassero a poppa; tre tughe; due boccaporti; due scialuppe sul cielo della tuga prodiera; timoneria; verricello; campana; argano; due barili; due ancore; due torrette con le luci di via; sartie con griselle; polena a forma di uccello; opera viva di colore rosso; opera morta di colore bianco, con strisca azzurra orizzontale. La nave-goletta “Fidente”, di 392 tonnellate, fu varata il 14 giugno 1922 presso il cantiere Gotuzzo, per conto dell’armatore R. Garofalo, ultimo grande veliero in legno costruito nel Rione Scogli. Durante i primi anni di attività navigò al comando del capitano De Matteis, un vero lupo di mare. In seguito cambiò nome in “Basilio” e nel 1938 divenne la “Giuseppina”. All’inizio del 1942 fu requisita dalla Regia Marina e dotata di un motore Diesel marca Deutsche Werke A.G, per impiegarla nel trasporto di rifornimenti alle truppe italiane in Nord Africa. Il 12 febbraio dello stesso anno, mentre era diretta da Tripoli a Tunisi, fu attaccata da navi britanniche, a 15 miglia a Sud della boa di Kerkenah. Le poche armi di bordo e la fragilità dello scafo non le permisero di difendersi e, dopo mezz’ora di agonia sotto il fuoco nemico, affondò con un vasto incendio a bordo. Non si hanno notizie circa eventuali superstiti dell’equipaggio. L’autore del modello, dopo aver navigato per lunghi anni, divenne Nostromo del Porticciolo Duca degli Abruzzi a Genova. Nella foto anche il primo libro su Chiavari Marinara e sulla destra la riproduzione in ardesia dello stesso, opera dello scultore Danilo Giusti, donata dal quartiere Scogli a Ernani Andreatta.
Goletta a palo italiana
“Giovanni” (Ernani) a vele spiegate
Modello costruito in Italia nel secondo quarto del XX secolo
Dimensioni: cm 51x11x35
Materiali: legno, corda, stoffa e acciaio; su basamento di legno.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 004
Scala 1:120
Scafo a ossatura e fasciame; un albero a velatura mista (quadra e aurica), due alberi a vele auriche, più bompresso e fiocchi; castello a prua; cassero a poppa; due tughe; un boccaporto; due gru di capone; due ancore; una scialuppa sospesa a poppa; polena a forma di testa di guerriero con elmo; due barili; campana; verricello, argano; i boma delle vele auriche si possono issare per terzarolare o ammainare le vele; opera viva di colore verde; opera morta di colore bianco; specchio di poppa decorato con fregio e scudo araldico. La goletta, in inglese “schooner”, nacque sulle coste della Nuova Inghilterra, come evoluzione di precedenti imbarcazioni costiere olandesi. Grazie alla sua attrezzatura composta da due alberi a vele auriche più bompresso e fiocchi, era in grado di raggiungere velocità elevate anche con venti sfavorevoli e poteva muoversi agevolmente fra le insenature e le foci dei fiumi. Inoltre richiedeva un equipaggio più ridotto rispetto alle navi a vele quadre, perché le rande poteva essere manovrate direttamente dal ponte con l’ausilio di verricelli. Gli armatori americani la usavano soprattutto per il commercio con le Indie Occidentali, il contrabbando e la guerra di corsa. La Royal Navy ne acquistò alcuni esemplari per usarli nella lotta al al contrabbando e nel pattugliamento costiero. Durante la Guerra di Indipendenza, i ribelli la impiegarono largamente per mantenere i collegamenti fra i vari settori di operazioni e per contrastare l’arrivo dei rifornimenti alle truppe inglesi. Appresa la lezione, questi ultimi se ne servirono in età napoleonica per mantenere il blocco alle coste sottomesse dai Francesi e per pattugliare le rotte oceaniche. Nella goletta, l’albero di maestra ha la stessa altezza o è più alto dellalbero di trinchetto, al contrario del ketch o dello yawl. In passato, sopra le rande venivano issate anche delle controrande, o frecce, che avevano lo scopo di aumentare la superficie velica e di bilanciare il bastimento. Nel corso dell’Ottocento, la goletta si diffuse come veliero da trasporto per navigazioni di corto e medio raggio. La lunghezza dello scafo poteva variare fra i 15 e i 40 m e la forma non si discostava molto da quella delle navi coeve, anche se aveva linee più slanciate. Con il passare del tempo e l’evoluzione delle tecniche costruttive, la grande poppa quadra venne sostituita da una a specchio e a volta più piccola, che successivamente divenne tonda, mentre la prora larga venne rimpiazzata con una dritta o a clipper. L’attrezzatura a tre alberi a vele auriche non era molto comune. In genere si preferiva adottare una velatura mista, a vele quadre e auriche, per combinare i vantaggi che offrivano entrambi i tipi. Ma la manovra delle vele quadre richiedeva un equipaggio numeroso, con un considerevole aggravio dei costi, mentre il livello dei noli non garantiva sempre il giusto margine di guadagno, specie per il trasporto di merci a basso valore unitario. Per questo molti armatori preferivano accontentarsi delle modeste prestazioni offerte dalle pesanti golette a due alberi. Tuttavia la progressiva crescita delle dimensioni dei bastimenti imponeva un aumento proporzionale della superficie velica, per non compromettere troppo le qualità nautiche. Ma il problema non poteva essere risolto confezionando delle vele auriche enormi, che avrebbero creato problemi di governabilità. Inoltre il centro velico si sarebbe spostato troppo in alto, facendo perdere stabilità al bastgimento.
Allora prevalse la soluzione di ottenere un congruo aumento della superficie velica accrescendo il numero degli alberi. In molti esemplari vennero collocate da una a tre vele quadre, le “gabbiole”, al posto della controranda di trinchetto, che venne sostituita da uno strallo di controvelaccino. L’idea si rivelò così soddisfacente da indurre molti costruttori a realizzare golette sempre più grandi, a quattro, cinque, sei e addirittura sette alberi, come l’americana “Thomas W. Lawson” (costruita a Quincy, Massachusetts, nel 1902), che potevano trasportare carichi pesanti e raggiungere elevate velocità pur con un equipaggio ridotto. La manovra delle vele era facilitata dall’adozione di cavi d’acciaio al posto di quelli di canapa e dall’uso di verricelli a vapore al posto di quelli manuali. Furono gli ultimi grandi velieri a percorrere le lunghe rotte oceaniche a scopo commerciale, quando ormai le navi a motore dominavano su tutti i mari.
Nave a palo italiana
“Gabriella” a vele spiegate
Modello al galleggiamento costruito in Italia nel secondo
quarto del XX sec Collezione Ernani Andreatta
Dimensioni:cm 50x7x34
Materiali: legno, corda, stoffa e acciaio; su basamento di legno.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 005
Scala 1:150
Modello al galleggiamento; scafo in legno pieno; tre alberi a vele quadre e uno a vele auriche, più bompresso e fiocchi; vele di strallo; corto castello a prua; lungo cassero a poppa; due tughe; un boccaporto; due gru di capone; due ancore; una scialuppa; due argani; un verricello. Le navi a palo rappresentarono il canto del cigno della marina mercantile a vela, quella gloriosa “Ultima Vela” che ebbe come centri di armamento principali Aland in Svezia, Amburgo in Germania, Brest in Francia, Genova, Camogli, Sorrento e Trapani in Italia. Fra il 1902 e il 1904, grazie all’aumento dei noli per i traffici con l’America del Sud, il Sud-Est asiatico e l’Australia, e ai benefici che le leggi accordavano alle costruzioni nazionali, diversi armatori ordinarono ai cantieri liguri splendide e poderose unità, con scafo e alberature in ferro o in acciaio, per nulla inferiori ai celebrati bastimenti stranieri contemporanei. I piroscafi
dominavano ormai su tutte le rotte oceaniche, grazie alla sicurezza, puntualità e velocità del servizio che offrivano. Lo sviluppo delle macchine a vapore e delle caldaie aveva eliminato il loro principale difetto: la necessità di fare continuamente rifornimento di carbone, con gli alti costi che ciò comportava. Tuttavia esistevano ancora dei traffici marginali, con beni voluminosi a basso valore unitario, come il rame e i nitrati cileni, il guano peruviano, la lana e il grano australiani e il riso birmano, che non richiedevano tempi celeri di trasporto e puntualità di consegna, ma costi bassi e infrastrutture portuali ridotte. Era questo il regno delle maestose navi a palo, tre alberi a vele quadre e la mezzana a vele auriche (con randa e controranda), più bompresso e fiocchi, che tenevano alto il nome della marineria italiana. Esse battevano i mari oltre i capi (Horn e Buona Speranza), in mezzo alle tempeste e ai ghiacci antartici, condotte da pochi uomini coraggiosi e disperati, gli ultimi sopravvissuti di una razza in via d’estinzione. L’Italia arrivò a possedere una decina di unità del genere, di cui sette costruite nel nostro paese: “Edilio Raggio”, “Emanuele Accame”, “Erasmo”, “Regina Elena”, “Italia”, “Principessa Mafalda” e “Gabriele D’Alì”. Tre vennero acquistate all’estero: “Balmoral”, “Fratelli Beverino” e “Augustella”. Tutti i velieri di costruzione italiana furono realizzati in Liguria, soprattutto dai cantieri Ansaldo di Sestri Ponente e Odero di Sestri Ponente e della Foce, che avevano gli
impianti e le strutture necessari per produrre grandi scafi in metallo. Uno degli armatori più noti fu Pietro Milesi, di Genova, che ebbe al suo servizio il “Balmoral”, lo “Australia” e il “Regina Elena”, divenuto poi il famoso “Ponape” dell’armamento Eriksson. La fine di queste gloriose flotte di bianchi gabbiani venne con la Prima Guerra Mondiale, quando i sommergibili tedeschi fecero strage dei velieri mercantili, lenti e male armati, impiegati come unità ausiliarie. Negli Anni Venti e Trenta ci fu ancora qualche armatore nostalgico che tentò di perpetuare la tradizione, ma si trattava di un sogno destinato a svanire nel giro di qualche lustro, inesorabilmente superato dal progresso.
Brigantino a palo italiano
“Luigi” (“Ciuilli”)
Modello costruito in Italia nel secondo quarto del XX secolo
Dimensioni: cm 62x20x40
Materiali: legno, corda e acciaio; su basamento di legno.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 006
Scala: 1:100
Scafo a ossatura e fasciame; due alberi a vele quadre e uno a vele auriche; più bompresso; castello a prua; cassero a poppa; due tughe; una scialuppa; due gru di capone; opera viva di colore bianco; opera morta di colore verde; serpa, mascone e specchio di poppa decorati con volute vegetali di colore giallo. Il brigantino era un veliero leggero a due alberi, con attrezzatura mista a vele quadre e auriche, che permetteva di sfruttare i vantaggi di entrambi i tipi. Le prime erano più utili alle andature portanti, con i venti provenienti dai quadranti poppieri, e garantivano spinta e velocità, le seconde permettevano di sfruttare meglio i venti al traverso, e assicuravano agilità e maneggevolezza. Il brigantino era nato in nel tratto di mare compreso fra le coste dell’Inghilterra, della Francia e dei Paesi Bassi, quella sorta di “Mediterraneo del Nord” dove ebbero origine le principali innovazioni nautiche dell’età moderna. Le sue più dirette progenitrici erano quelle imbarcazioni olandesi tozze e panciute, armate con vele al terzo, che servivano al trasporto di merci e passeggeri da un porto all’altro, lungo le coste o i canali dell’entroterra. Nel Settecento venne utilizzato come unità veloce per il pattugliamento costiero, i servizi doganali, la lotta al contrabbando e il piccolo cabotaggio. Durante le guerre napoleoniche, gli Inglesi impiegarono con successo i brigantini per mantenere il blocco delle coste europee soggette al dominio francese e impedire i collegamenti marittimi fra una regione e l’altra dell’impero. Dopo la Restaurazione, questo tipo di nave si impose ovunque per la sua versatilità e robustezza, fino a diventare il mezzo più diffuseo per il commercio a corto e medio raggio in tutte le marinerie europee. Ne esistevano innumerevoli versioni con diverse combinazioni di velatura, a seconda delle necessità e della convenienza degli armatori. Un campionario
completo dei diversi modelli si può vedere nei santuari italiani e francesi, dove esistono decine di ex voto che li raffigurano. Il brigantino giocò un ruolo fondamentale nella ricostruzione delle marinerie mediterranee, alla ricerca di un tipo di natante economico e di facile costruzione, che permettesse di riprendere i traffici da lungo tempo interrotti, senza avere i costi esorbitanti delle navi a vapore. Lo scafo corto e basso sull’acqua e l’attrezzatura mista lo rendevano particolarmente agile e sicuro, facile da governare anche attraverso i passaggi più stretti, nell’estuario dei fiumi o in mare aperto. La sua caratteristica fondamentale era la presenza di una grande vela aurica trapezoidale, la cosiddetta “brigantina” (un termine che finì per estendersi a tutto il bastimento), una randa inferita alla maestra in sostituzione del trevo, che permetteva di stringere bene il vento senza gli incovenienti della vela latina e non richiedeva così tanti uomini addetti alle manovre come la vela quadra. In inglese era conosciuto come “brigantine” e in francese “brigantin”. Negli anni 1830 se ne diffuse una versione dotata di trevo anche all’albero di maestra, onde sfruttare meglio il vento in poppa e conferire maggior equilibrio al natante, ottenendo così spunti migliori alle andature portanti. Essa veniva chiamata “brig” in inglese, “brick” in francese, termine che passò poi nel gergo italiano, e “bricche” in genovese. Per facilitare le manovre, spesso la vela aurica era inferita a un secondo alberetto collegato posteriormente alla maestra e alto sino alla coffa, il “senale”, che diede il nome a un altro modello particolare di brigantino, lo “snow”. Nelle sue varie versioni, esso divenne lo strumento principale della rinascita delle marinerie italiane, che proprio in quel periodo si accingevano a riprendere le rotte oceaniche, dopo la lunga pausa delle guerre napoleoniche, alla
ricerca di nuovi sbocchi per le merci e la manodopera nostrane. Alcuni esemplari, invece di avere gli alberi formati da tre fusti sovrapposti in maniera sfalsata, li avevano in un sol pezzo, ossia a “pible”, e si chiamavano “polacche”. Lo scafo dei brigantini non differiva molto da quello dei tre alberi, se non per la lunghezza minore, che poteva andare dai 20 ai 40 m. Negli anni 1860, con l’aumento dei traffici, l’allungamento delle rotte e la necessità di trasportare carichi sempre più pesanti, si rese necessario aumentare considerevolmente le dimensioni dei velieri. L’unificazione del Paese infatti, aveva portato alla creazione di un vasto mercato nazionale, nel quale la richiesta di generi alimentari e di prodotti industriali si faceva ogni giorno più pressante. L’armamento a due alberi non era adatto a spingere natanti di grossa stazza, per cui il brick fu modificato con l’aggiunta di un terzo albero, il “palo”, dotato di una o due vele auriche, la randa e la controranda, che permetteva di percorrere agevolmente le lunghe rotte oceaniche senza i costi elevati dei tre alberi a vele quadre. Questo nuovo tipo fu chiamato “brigantino a palo” in italiano, con un termine non del tutto appropriato, “bark” in inglese, “trois-mats barque” in francese e “scippe” in genovese, un’evidente corruzione dell’inglese “ship”. Esso raggiunse una notevole diffusione fra il 1860 e il 1880, grazie alle eccellenti qualità nautiche e al buon equlibrio fra costi e ricavi. Una nave del genere poteva costare dalle 150 alle 200 mila lire dell’epoca, armamento compreso, e in quattro viaggi era in grado di ripagare le spese di costruzione, a patto che tutto filasse liscio. Da quel momento in poi le sue crociere avrebbero rappresentato un utile per l’armatore. Tenendo conto che ciascun viaggio durava in media un anno, che ogni campagna poteva rendere sulle 40-50 mila lire e che la vita media di un bastimento era di 15-20 anni, salvo incidenti, possiamo immaginare quale fosse la redditività delle imprese armatoriali. Questo spiega perché gli armatori liguri continuarono a costruire navi in legno a vela sino alla fine dell’Ottocento, specie quando il Parlamento votò una legge in favore della cantieristica nazionale che garantiva un contributo statale per ogni natante messo in mare dagli stabilimenti nazionali. Alcuni brigantini a palo avevano dimensioni ragguardevoli, come il “Lazzaro” del 1892, che stazzava 1.246 tonnellate ed era lungo 63 metri, o il “Precursore”, varato a Lavagna nel 1899, di ben 1.486 tonnellate. Centinaia di navi di questo tipo rappresentavano il nerbo della flotta mercantile italiana. Robusti, capienti e abbastanza veloci, potevano operare nei mari più lontani e battere con sicurezza le lunghe rotte oceaniche. Essi venivano costruiti un po’ in tutta la penisola, ovunque ci fossero un arenile adatto al varo, una manodopera capace e materiali a buon mercato, ma il centro principale era la Liguria, dove operavano cantieri di grandi dimensioni, come quello dei Fratelli Cadenaccio a Sestri Ponente, che ebbe sugli scali fino a venti unità contemporaneamente. Anche i velieri acquistati di seconda mano sul mercato inglese, in genere armati con tre alberi a vele quadre, venivano trasformati in brigantini a palo, allo scopo di risparmiare sui costi di gestione, secondo il costume nazionale. Lo stesso accadde al famoso clipper “Cutty Sark” quando venne acquistato da un armatore portoghese.
Nave danese
“Jytte” a vele spiegate
Modello al galleggiamento costruito in Danimarca nel primo
quarto del XX secolo
Dimensioni: cm 30x4,5x24
Materiale: legno, corda e acciaio; su basamento di legno
ricoperto di stucco
Collezione Ernani Andreatta
Scafo in legno pieno; tre alberi a vele quadre; bompresso con fiocchi; vele di strallo fra gli alberi; le vele sono in lamierino zincato e verniciato; castello a prua; cassero a poppa; tre tughe; due scialuppe; a poppa scritta con il nome della nave e il porto di armamento: Copenhagen; opera viva di colore verde; opera morta di colore bianco; basamento ricoperto di stucco colorato di azzurro e bianco per simulare il mare; il modello probabilmente faceva parte di un diorama, nel quale manca la calotta in vetro. Nel linguaggio comune il termine “nave” ha il significato generico di natante di grandi dimensioni. Quindi, in rapporto alla vita del mare, si rendono necessarie diverse specificazioni per distinguere i vari tipi di nave. Ma nel mondo della vela, il termine nave sta a indicare un bastimento con tre alberi a vele quadre, dei quali quello di mezzana, sovente senza trevo, porta anche una vela aurica, nonché vele di strallo tese fra gli alberi e fiocchi sul bompresso. Un armamento del genere fa riferimento alla situazione del secolo scorso, quando la nave a vela raggiunse l’apice della sua millenaria evoluzione. In passato, l’albero di mezzana aveva una vela latina al posto della randa e a prua vi erano due vele quadre, la civada e la contro-civada, poste una sopra e una sotto il bompresso, che svolgevano la stessa funzione dei fiocchi. I ritocchi e i miglioramenti apportati grazie alle sperimentazioni compiute sulle rotte oceaniche permisero di arrivare ad un modello perfezionato che sarebbe rimasto sostanzialmente immutato sino alla fine della vela mercantile. L’attrezzatura a nave era quella tipica dei velieri di lungo corso che battevano le rotte oceaniche trasportando merci di valore, come tè, lana e passeggeri. Inoltre era molto diffusa presso le marinerie atlantiche, ricche di uomini e di mezzi, mentre quelle mediterranee preferivano adottare modelli meno costosi. Fra i bastimenti più famosi occorre ricordare i velocissimi clipper inglesi e americani che in certi tratti potevano raggiungere le fantastiche velocità di 18-20, prestazioni di tutto rispetto per natanti a vela. Ciò spiega perché fino all’inizio del Novecento il vapore non riuscì a prendere completamente il sopravvento. L’alto prezzo del carbone, la necessità di avere basi attrezzate per il rifornimento lungo la rotta e le frequenti rotture delle macchine lasciavano ancora qualche margine agli armatori notalgici della vela. Ma con la Prima Guerra Mondiale tutte le illusioni scomparvero e gli ultimi velieri vennero mestamente posti in disarmo, quando non furono distrutti dai sommergibili.
Nave-goletta italiana (o barco bestia)
“Ernani III ” (Vittorio) a vele spiegate
Modello al galleggiamento costruito in Italia
nel primo quarto del XX secolo
Materiali: legno, carta, stoffa, corda e acciaio; su base di
legno e ottone, ricoperta di stucco.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 008
Scala1:150
Materiali:
Dimensioni: cm 40x9x26
Scafo in legno pieno; un albero a vele quadre e due alberi a vele auriche, più bompresso e fiocchi; vele di strallo tese fra gli alberi; le vele sono fatte di cartoncino; castello a prua; cassero a poppa; una tuga a centro-nave; due boccaporti; timoneria; una scialuppa sul cielo della tuga; due ancore; serpa con fregio a volute; opera viva di colore rosso; opera morta di colore bianco con striscia orizzontale blu; a prua una pilotina si sta avvicinando alla nave per condurla in porto; basamento di legno e ottone ricoperto di stucco, colorato di azzurro e bianco per simulare il mare; probabilmente faceva parte di un diorama, nel quale manca la copertura in vetro. La nave era il bastimento di maggior tonnellaggio presente nelle marinerie europee e americane nel corso dell’Ottocento. Il governo della sua complessa attrezzatura richiedeva un equipaggio numeroso e addestrato, in cui avevano un ruolo preminente i gabbieri, addetti alla manovra delle vele quadre. Quando il comandante dava ordine di spiegare o ridurre le vele, essi dovevano salire velocemente “a riva”, cioé sugli alberi, per mezzo delle scale di corda tese fra il sartiame, appoggiare i piedi sul “marciapiede”, un robusto cavo sotteso al pennone, e la pancia sullo stesso e poi sciogliere o terzarolare i gradi trapezi di tela bianca. Per ridurre il personale e quindi i costi di gestione, i costruttori italiani pensarono di sostituire le vele quadre con vele auriche, che potevano essere manovrate direttamente dal ponte e richiedevano un equipaggio meno numeroso e specializzato, lasciando solo il trinchetto con la vecchia configurazione. Da questo idea nacque nel 1840 la prima nave-goletta, la “Cavallo Marino”, di 300 tonnellate di stazza, armata da Giuseppe Dall’Orso di Chiavari. Questo tipo di attrezzatura era particolarmente adatto alle marinerie minori, che avevano penuria di capitali e di personale e che potevano contare su traffici meno redditizi. La nave-goletta si diffuse notevolmente in Italia, specie in Toscana e in Campania, ma anche all’estero, a esempio fra i velieri normanni usati per la pesca del merluzzo nei banchi di Terranova. Nel gergo ligure veniva chiamata “barco-bestia”, una corruzione del termine inglese “best-bark”, con riferimento alle sue eccellenti qualità nautiche. Le dimensioni variavano a seconda del tipo di traffico cui venivano destinate, ma in genere corrispondevano a quelle dei brigantini a palo.
Brigantino a palo italiano
“Maria Luisa” a vele spiegate
Modello al galleggiamento costruito in Italia nel primo quarto
del XX secolo
Dimensioni: cm 38x5,5x24
Materiali: legno, carta, corda e avorio;
su basamento di legno ricoperto di stucco.
Collezione Ernani Andreatta
Scafo in legno pieno; due alberi a vele quadre e uno a vele auriche, più bompresso e fiocchi; vele di strallo tese fra gli alberi; le vele sono fatte di cartoncino; castello a prua; cassero a poppa; due tughe sul ponte di coperta; opera morta di colore bianco con falsa batteria al livello del ponte di coperta; a prua, una pilotina a vapore sta guidando la nave verso il largo; basamento in legno ricoperto di stucco di verde per simulare il mare. Il modello probabilmente faceva parte di un diorama di cui è andata perduta la copertura in vetro.
Il diorama è un tipo di modello decorativo di carattere popolare che combina la tecnica del pittore di marina e quella del
modellista. La nave è posata su un’imitazione del mare e si distacca su un fondo con paesaggio dipinto. Il tutto è racchiuso entro una cornice di legno dorato, che serve per appenderlo, spesso ornata con bassorilievi in gesso. Quando è collocato in una teca, invece, diventa un elegante soprammobile. Normalmente la nave è presentata con tutte le vele spiegate, che possono essere di legno o di metallo. Come i ritratti di navi, molti di questi modelli portano il nome del marinaio o della persona cui sono stati offerti, il che esclude qualsiasi possibilità di identificazione del bastimento. In genere, a poppa sventola la bandiera del paese di armamento, il che permette una sia pur sommaria classificazione. Un tempo la costruzione di diorami era un passatempo tipico dei marinai in guardia franca, che dovevano trovare un sistema per ingannare la noia del servizio a bordo. Essi utilizzavano i poveri materiali che riuscivano a scroccare al carpentiere ma non per questo tralasciavano di riprodurre fedelmente la nave in tutti i suoi particolari. In seguito divenne una forma di artigianato diffusa presso i marinai in pensione, che vi si dedicavano una volta sbarcati. Non sempre i destinatati dei diorami erano parenti e amici. A volte si trattava di prodotti da vendere agli abitanti dei porti che si toccavano durante i viaggi, per arrotondare il magro salario. Per chi smetteva il servizio, invece, era un modo per attrarre curiosi e turisti a cui raccontare le storie dell’ultima vela.
Pareggia Italiana di Marietto Solari
“Marietto Solari” del 1900
Modello costruito a Chiavari nel 1960
Dimensioni: cm 112x26x67
Materiali: Legno, ferro, spago, stoffa
Collezione Giannina e Marina Solari
M.M.T.A. - Invent. n. 204
Scala: 1:25
La pareggia era attrezzata con due alberi a vele latine. La maestra, a calcese e inclinata verso prua, era situata al centro dello scafo e aveva le sartie mobili per poter eseguire la complessa operazione del cambiamento di bordo. A poppa si trovava un corto alberetto, la cui scotta agiva su un lungo buttafuori sporgente dallo scafo. A prua l’asta di fiocco portava una grande vela triangolare detta “polaccone”. Nelle statistiche le paregge figuravano sempre insieme ai bovi, per cui risulta impossibile stabilire la loro esatta consistenza numerica nell’Ottocento. All’inizio alcuni modelli presentavano strani ombrinali di forma quadrangolare lungo le fiancate, che fanno pensare più a portelli per i remi. Queste imbarcazioni erano particolarmente diffuse nelle zone di Sestri Levante e Riva Trigoso, dove venivano usate per il trasporto di merci generali, olio, vino e passeggeri (prima che venisse costruita la strada ferrata lungo la Riviera di Levante) e per la pesca. Per il trasporto di vino, nella stiva trovavano posto 8 grandi botti della capacità di 25-30 ettolitri ciascuna, servite da pompe per il carico e lo scarico. Le imbarcazioni adibite al trasporto di vino avevano anche un bolzone più accentuato, e spesso qualche botte veniva appesa lungo le fiancate. Erano legni di ottime qualità nautiche, capaci di reggere bene il mare anche in condizioni proibitive. Ecco le caratteristiche di due paregge degli ultimi decenni del secolo scorso. “Nuova Caterina Desiderata”: lunghezza m 19; larghezza m 5,25; puntale m 2,05. “Montallegro”: lunghezza m 15; larghezza m 4. La portata variava fra le 30 e le 40 tonnellate e la forma, pur richiamando quella del bovo, era più affinata.
Brigantino a palo italiano
“Rina Corte” con vele terzaruolate
Italia, terzo quarto XIX secolo.
Dimensioni: cm. 212x47x140
Materiali: legno, ferro, corda e stoffa,
su basamento di legno. Scala 1:20
Collezione Rina Corte Cattani
M.M.T.A. - Invent. n. 215
Di particolare interesse la polena a forma di sirena. Le figure di animali fantastici scolpite sulle prue dei drakkar e quelle riprodotte sulle navi da guerra o da trasporto mediterranee, furono certamente le antenate delle polene che, abbandonate per secoli, ricomparvero sulla scena nel XV secolo. La loro forma subì diverse modifiche nel corso del tempo, a causa dell’evoluzione della struttura della prua. Intorno al 1610, il tagliamare dei bastimenti si slanciava dritto e orizzontale come uno sperone, per cui sembrava naturale collocarvi dei motivi ornamentali in verticale, come statue equestri o in piedi. Era il caso, ad esempio, del vascello inglese “Prince Royal” (1613), sul quale un personaggio a cavallo affrontava impavido i flutti. Verso la fine del XVII secolo, il tagliamare cominciò a rialzarsi e allora la polena venne posta a coronare la parte alta della ruota di prua. Stando in piedi, con il corpo proteso in avanti e la testa inclinata all’indietro, il personaggio o l’animale simbolico che decorava la prua aveva un aspetto rigido, impettito e maestoso. Il leone fu il motivo preferito sulle unità inglesi sino alla fine del Settecento, quando apparvero dei gruppi scultore i più elaborati che sostenevano lateralmente lo stemma reale. Gli stessi scudi si ritroveranno, contornati da ricci e volute, sulle navi in ferro. La seconda metà del XIX secolo, quando nacquero i clipper, fu l’epoca d’oro della produzione di polene. La ruota di prora inclinata dei velieri di quel periodo si prestava a meraviglia per stimolare la fantasia degli scultori. Negli Stati Uniti, l’aquila con le ali spiegate era il motivo più diffuso per le polene delle unità da guerra, mentre i mercantili preferivano un soggetto che richiamasse il più possibile il nome del bastimento. Tale soluzione aveva anche uno scopo pratico: nei porti affollati, quando decine di prue simili tra loro si allineavano lungo le banchine e il tempo era nebbioso, i marinai, quasi tutti analfabeti e quindi incapaci di leggere il nome, avrebbero avuto difficoltà a riconoscere la loro nave, se non fosse stato per la caratteristica polena che la ornava, quasi una personificazione dello scafo stesso. Così il “Lightning” aveva la prua decorata con la figura di una giovane donna alata che aveva il braccio teso e stringeva in mano una minacciosa saetta. Più prosaicamente, dei dignitosi signori in rendigote rappresentavano gli armatori o i loro congiunti. Infine c’erano romantiche fanciulle, più o meno vestite, che offrivano generosamente il loro seno alle carezze della schiuma con un braccio proteso verso l’orizzonte e la gamba rivolta a poppa. Molte polene nordiche venivano dipinte completamente di bianco, come quella del “Cutty Sark”, e tutta la loro grazia era data dal movimento del corpo e dal drappeggio del vestito. Con questi scultori, gente del popolo che aveva la mano felice e sapeva cogliere le tendenze del mercato, grazie a una vena artistica di tipo naif, siamo lontani dai grandi maestri del passato, come Pierre Puget, William Savage o Gérard Christmas. Tuttavia, alcune loro opere sono di tale qualità da poter stare alla pari con i capolavori dei più celebrati scultori in legno. A Genova le botteghe erano concentrate soprattutto a Sampierdarena e a Sestri Ponente, dove si trovavano anche i principali cantieri navali. In Riviera un centro rinomato era Recco, che produceva polene per i costruttori di Chiavari e Riva Trigoso.
Tartana ligure del 1700
“Patrizia”
Modello realizzato a Chiavari nel 1995.
Dimensioni: cm. 64x15x70
Materiali: legno, ferro, corda e stoffa, su basamento di legno. Scala: 1.25
Donazione Carlo Rossi
La tartana era un battello da carico tipico del Mediterraneo occidentale, lungo da 15 a 20 metri, con la poppa a volta e la serpa molto sporgente. Tali caratteristiche la rendevano simile allo sciabecco, pur avendo scafo più largo e dimensioni più ridotte. Il ponte di coperta presentava una forte insellatura. L’attrezzatura comprendeva maestra e mezzana o maestra e trinchetto, tutti a vele latine. Verso la fine del XIX secolo, la sua struttura venne notevolmente semplificata: sparirono la lunga serpa e la poppa a volta e la velatura si ridusse a un solo albero, con l’aggiunta di un polaccone teso da una lunga asta di fiocco. Lo scafo aveva sezione maestra a U, stellatura ridotta, ginocchio tondo, fianchi leggermente inarcati sulla chiglia, poppa slanciata e insellatura più modesta, salvo che nei modelli spagnoli. La ruota di prua era convessa e a cascata; la poppa era aguzza con il dritto a cascata e lineare. L’attrezzatura aveva assunto un nuovo aspetto: l’albero, piuttosto alto e verticale, si trovava spostato leggermente in avanti rispetto al centro nave e portava una grande vela latina inferita su un’antenna molto inclinata. La vela di prua fissata al lungo bompresso contribuiva a dare slancio e velocità al bastimento. Alcune tartane avevano una freccia sopra la maestra e alzavano una vela di gabbia triangolare fra l’albero e l’asta della vela latina. I modelli più grandi alzavano talvolta una corta
mezzana latina molto spostata a poppa. Intorno al 1900, l’armamento della tartana divenne ancora più semplice: l’antenna della maestra venne fissata all’albero per formare una specie di pennone da vela a tarchia, come nel caicco. Con questa configurazione continuarono a svolgere la loro attività mercantil sino agli anni Cinquanta. Le ultime tartane erano spesso attrezzate con rande al posto delle vele latine e avevano un motore ausiliario. Molte di esse erano dotate di prua a clipper e avevano un’asta di buttafuori a fianco del bompresso, per poter armare un secondo fiocco.
Goletta Yacht a motore
“Gloria”
Modello realizzato a Genova nel 1975.
Dimensioni:cm. 64x14x79
Materiali: legno, ferro, corda, stoffa e ottone, su
basamento di legno.
Donazione Edvige Tosi e Margherita Vecchi
M.M.T.A. - Invent. n. 222
Scala: 1:30
L’imbarcazione è dotata di motore entrobordo ausiliario. Il modello fu eseguito dal marinaio di bordo e riproduce lo yacht appartenuto alla famiglia Vecchi, costruito nel cantiere di Gian Marco Traverso a Pegli.
Modelli di barche a vela
• Leudo italiano “Ernani I” (Antonio)
• Leudo italiano “Nanni Ceglie”
• Leudo italiano “Alessandro Nicolini”
• Leudo italiano “Rita” in secca sulla spiaggia
• Leudo vinacciere italiano “Podestà”
• Ketch da diporto italiano “Palma” a vele spiegate
• Monotipo italiano “Lin” (classe Dragone) a vele spiegate
• Ketch da regata italiano “Valentina”
• Gozzo ligure “Nico”
• Leudo Italiano “Giannina Solari”
Leudo italiano
“Ernani I” (Antonio)
Modello costruito a Chiavari intorno al 1975
cm 66x17x47.
legno, corda, plastica, acciaio e ottone; su
basamento di legno.
Collezione Ernani Andreatta
Scala: 1:50
Scafo a ossatura e fasciame; un albero con pennone parzialmente ammainato; bompresso; una tuga poppiera; due boccaporti con quartieri sollevabili; un’ancora; una pompa; sette barili sul ponte di coperta; timone a barra, mobile; opera viva di colore rosso; opera morta di colore bianco.
Un tipo di nave minore del Medioevo, denominata “liuto” o “lembo”, diede origine a tutta una serie di piccoli legni a vela latina per il trasporto costiero. L’attrezzatura comprendeva due alberi a vela latina, entrambi a calcese e inclinati verso prua, specie quello di trinchetto. Quando nel Settecento fu introdotto l’uso dei fiocchi, l’albero prodiero scomparve, lasciando il posto a un grande fiocco, il “polaccone”, disteso da una lunga asta che sporgeva oltre la ruota di prua, e nel contempo aumento l’inclinazione in avanti dell’albero di maestra. Tale trasformazione comportò anche la diminuzione del cavallino, che permise un aumento della velocità. Il leudo, con la tipica poppa a cuneo derivante dalle imbarcazioni medievali, e la prua, senza tagliamare, inclinata in avanti, si diffuse notevolmente nelle marinerie mediterranee durante l’Ottocento. Il suo pregio principale risiedeva nell’attrezzatura, semplice e maneggevole, talvolta ulteriormente ridotta con l’abolizione del grande fiocco. In questa configurazione veniva chiamato più propriamente “latino”. In caso di forte vento, la vela latina poteva essere sostituita con una vela quadra, di piccole dimensioni, denominata “trevo”. Alcuni leudi venivano adibiti al trasporto del vino lungo le coste della Liguria, della Toscana e della Provenza. I più grandi si spingevano fino in Campania, Sardegna e Catalogna. Le botti venivano caricate sia sul ponte sia sottocoperta. Gli esemplari destinati ai carichi secchi avevano una semplice stiva. Altri ancora venivano adibiti alla pesca. In genere, i tipi mercantili avevano un bolzone più accentuato rispetto a quelli da pesca. In via eccezionale, il leudo poteva anche armare da due a quattro remi, che servivano per virare di bordo o manovrare nei porti. La lunghezza era di 12-18 metri, la larghezza di 4-5 metri, il puntale di 1-2 metri e la stazza di 15-20 tonnellate.
Leudo italiano
“Nanni Ceglie”
Modello costruito a Chiavari intorno al 1970
Dimensioni: cm 45x10x34
Materiali:legno, corda e acciaio; su vaso di legno.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 011
Scala: 1:35
Scafo in legno scavato; un albero con vela latina; pennone mobile; bompresso; ancorotto a quattro marre; due boccaporti; una scialuppa sul cielo del boccaporto poppiero; timone a barra, mobile; opera viva di colore rosso; opera morta di colore bianco, con striscia orizzontale gialla al cintone; capodibanda di colore azzurro; ponte di coperta di colore arancione.
Leudo italiano
“Alessandro Nicolini”
Modello costruito a Chiavari intorno al 1970
Dimensioni: cm 28x8x21
Materiali: legno, corda e acciaio; su vaso di legno.
Collezione Ernani Andreatta
Scala: 1.100
M.M.T.A. - Invent. n.012
Scafo in legno scavato; un albero a vela latina; pennone mobile; bompresso; due boccaporti; una lancia sul cielo del boccaporto poppiero; timone a barra, mobile; opera viva di colore rosso; opera morta di colore bianco, con striscia gialla al cintone; capodibanda di colore azzurro; ponte di coperta di colore arancione.
Leudo italiano
“Rita” in secca sulla spiaggia
Modello costruito a Chiavari nel terzo quarto del XX secolo
Dimensioni: cm 56x14,5x40
Materiali: legno, corda e ottone; su basamento di legno
ricoperto di stucco.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 013
Scala: 1:60
Scafo in legno pieno; un albero a vela latina con pennone ammainato; bompresso; una tuga poppiera; due boccaporti; una lancia; una pompa per l’acqua; sei barili; un’ancora a due marre; un ancorotto a quattro marre; timone a barra, mobile; opera viva di colore rosso; opera morta di colore bianco; vaso di costruzione; basamento ricoperto di stucco per simulare la spiaggia.
Franco Tommasino
Leudo vinacciere italiano
“Podestà”
Modello galleggiante costruito a Chiavari nel 1970
Dimensioni: cm 143x36x90
Materiali: legno di cirmolo, stoffa, corda, ottone e
acciaio; su basamento di legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 014
Scala: 1:20
Scafo a ossatura e fasciame; un albero a vela latina; bompresso con fiocco; una tuga a poppa, con copertura sollevabile; due boccaporti con quartieri sollevabili; timone a barra, mobile; elica girevole; ancorotto a quattro marre; cucina; opera viva di colore rosso; opera morta di colore bianco, con striscia orizzontale verde; ponte di coperta di colore rosso.
Il modello riproduce un leudo costruito nel cantiere di Mario Gotuzzo, agli Scogli, nel 1934, dai maestri d’ascia Cicia, Menelicche e Maccianti, per conto dell’armatore Podestà di Recco. Fu il primo dotato di un motore ausiliario FIAT da 50 CV, costruito su licenza della Balinder. I leudi erano tipiche imbarcazioni a vela latina che servivano per il piccolo cabotaggio nel Mediterraneo. Collegavano il continente alle isole, Corsica, Sardegna, Elba ecc., trasportando i prodotti tipici di quelle zone come vino e formaggi. Svolgevano servizi settimanali e potevano anche trasportare dei passeggeri. Scomparvero dalla scena con l’avvento del turismo di massa e l’entrata in servizio dei traghetti negli anni Cinquanta. Oggi ne sopravvivono pochi esemplari, ridotti a imbarcazioni da diporto, o abbandonati su qualche spiaggia. Il costruttore del modello in un primo tempo lo aveva battezzato “Maria Fortunata”.
Luciano Devoto
Ketch da diporto italiano
“Palma” a vele spiegate
Modello costruito a Chiavari intorno al 1970
Dimensioni: cm 50x13x47
Materiali: legno, corda, stoffa, ottone e acciaio; su
basamento di legno.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 015
Scala:1:60
Scafo a ossatura e fasciame; due alberi; maestra con randa aurica e fiocco, mezzanella con randa Marconi; una tuga centrale; un’ancora; elica poppiera girevole; timone a barra, mobile. E’ un tipo di imbarcazione attrezzato con un albero e mezzo, cioè una maestra di altezza normale e una mezzana molto più piccola. Diversamente dallo yawl, la mezzana è situata entro la linea di galleggiamento della costruzione, ossia a proravia della losca. A parte un’eventuale gabbiola al trinchetto, entrambi gli alberi sono armati con vele di taglio, rande auriche o bermudiane, raramente con vele a tarchia. A prua sporge un corto bompresso con uno o due fiocchi.
Monotipo italiano
“Lin” (classe Dragone) a vele spiegate
Modello costruito a bordo della T/N panamense “Texaco
London” nel 1969
Dimensioni: cm 73x13x95
Materiali: legno, stoffa, corda, rame e ottone; su
basamento di legno.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 016
scala1:40
Scafo a ossatura e fasciame; attrezzatura a cutter; un albero con randa Marconi, fiocco e trinchettina; una tuga; due boccaporti; timone a barra, mobile. La classe “Dragone” ebbe origine da un concorso promosso nel 1929 dal Royal Goteborg Yacht Club, in Svezia, su progetto dal norvegese Johan Anker. Quando fu ammessa ai Giochi Olimpici del 1948, era già stata sperimentata dalla maggior parte delle nazioni veliche. Anche se in origine era prevista una piccola cabina, la classe venne usata esclusivamente per le regate. Fu esclusa dalle Olimpiadi nel 1972, in favore della classe “Soling”. L’armamento e le regole di classe si sono fortemente evoluti e oggi esistono flotte di Dragoni attive in tutto il mondo. La Dragon Gold Cup è un trofeo molto noto, che si disputa ogni anno in Scandinavia o in Scozia sin dal 1937, eccetto che nel periodo 1939-46.
Franco Tommasino
Ketch da regata italiano
“Valentina”
Modello navigante costruito a Genova nel 1970
Dimensioni: cm 217x34x238
Materiali: legno, alluminio, nylon; su basamento di legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 017
Scala: 1:10
Scafo a deriva fissa; due alberi con rande bermudiane, più fiocco a 7/8; tuga centrale; doppia timoneria nel pozzetto poppiero. Il radiocomando aziona timone, rande e fiocco. L’albero, che può ruotare liberamente, è inserito in una boccola al centro dello scafo. Si orienta da solo nella direzione migliore per prendere il vento. La manovra delle vele è regolata da un solo verricello. Nata come barca da regata classe A nel 1960, partecipò ai campionati italiani del 1970-71. Aveva scafo in legno, a ordinate e fasciame, e chiglia in piombo da 15 Kg. Oggi si chiama “Valentina” ed è armata a ketch, con due alberi e un grande Genoa. Questa imbarcazione è dotata del sistema “Balestrone”, sul quale sono fissati la randa e il fiocco.
Gozzo ligure
“Nico”
Modello costruito a Chiavari nel 1990
Dimensioni: cm 48x16x12
Materiali: legno compensato, ottone, corda e acciaio; su
basamento di legno.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 018
Scala 1:25
Scafo a ossatura e fasciame; timone a barra, mobile; due remi; due boe; una rete da pesca; due cassette; un ancorotto a quattro marre; opera viva di colore rosso; opera morta di colore legno naturale, con due striscie orizzontali bianche.
Marietto Solari
Leudo Italiano
“Giannina Solari”
Modello costruito a Chiavari nel 1965.
Dimensioni: cm 92x22x64
Materiali: legno, metallo, spag:o, stoffa
Collezione Giannina e Marina Solari
M.M.T.A. - Invent. n. 205
Scala: 1:24
Tipica imbarcazione di Riva Trigoso adibita al trasporto di vino in barili o di sabbia per le costruzioni.
Modelli navi in bottiglia
• Brigantino-goletta italiano “Isa” a vele spiegate, affiancato da una pilotina
• Brigantino a palo italiano “Bacci” a vele spiegate.
• Nave a palo italiana “Nini” a vele spiegate.
• Bovo ligure “Federico” a vele spiegate. Entro lampadina
Brigantino-goletta italiano
“Isa” a vele spiegate,
affiancato da una pilotina. In bottiglia
Modello costruito in Italia nel secondo quarto XX secolo
Dimensioni: bottiglia: lungh. cm 29; diam. cm 8,5
Materiali: legno, corda, cartoncino e stucco;
in bottiglia di vetro, su basamento di legno.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 019
Scala: 1:190
Il modello presenta un armamento a due alberi, con maestra quadra e mezzana aurica, bompresso, fiocchi e strallo; la pilotina, fatta di cartoncino, è attrezzata a sloop, con randa aurica, controranda e fiocco; sullo sfondo, paesaggio roccioso tipicamente ligure. Pare che la tradizione di realizzare modelli di navi in bottiglia risalga all’inizio dell’Ottocento, quando il colore del vetro dei contenitori divenne più chiaro, lasciando intravedere meglio il contenuto, il collo più largo e più corto, permettendo un più facile inserimento all’interno delle parti, e il corpo più regolare, adatto quindi ad accogliere le forme di una nave. La tecnica di costruzione si è conservata quasi immutata nel tempo e viene seguita ancora oggi dai modellisti per fabbricare ricordi in serie da vendere i turisti. Si inizia con il colare il mastice all’interno della bottiglia per simulare il mare, lo si modella con delle piccole spatole per imitare le onde e infine lo si colora di azzurro intenso. Poi si crea la scenetta del diorama: porto, molo, pontile, faro, case, alberi ecc., evitando di intasare troppo lo sfondo. Da ultimo viene il momento di posizionare la nave, spesso più di una. Sullo scafo è già stata collocata l’attrezzatura, ma gli alberi, muniti di sartie e stralli, sono fissati al ponte per mezzo di un pernetto e sono abbattuti nel senso della lunghezza. I pennoni sono tenuti accostati ad essi per mezzo degli amantigli. Il tutto è già dipinto con gli opportuni colori e viene introdotto nella bottiglia con la poppa in avanti. Si affonda lo scafo nel mastice ancora fresco con l’ausilio di una spatolina, si tirano le manovre degli alberi per raddrizzarli e li si fissa nella loro posizione con una puntina di colla. Poi si tendono i cavi con un filo di ferro uncinato, si incrociano i pennoni e si blocca il sartiame. Indi si mettono al loro posto le vele di carta, iniziando da quelle di poppa. Completate queste operazioni, si ritocca il mare con dei pennelli, disegnando due baffi di schiuma a prua e la scia a poppa, e si imbandiera la nave. Quando tutto è pronto e ben asciugato, si mette il tappo di sughero alla bottiglia e lo si sigilla con la ceralacca. In apparenza si tratta di operazioni abbastanza semplici, ma in realtà occorre una grande abilità per poter far combaciare tutte le piccole parti che compongono il diorama. L’arte di costruire navi in bottiglia era il passatempo dei marinai imbarcati sui velieri di lungo corso, che trasportavano merci di ogni genere da un capo all’altro della terra. Specie durante i lunghi viaggi oltre i capi, nelle ore di franchigia o in bonaccia, occorreva trovare qualcosa da fare per ingannare l’attesa, scaciare la noia e non lasciarsi prendere dallo sconforto, il nemico peggiore dei marinai. Ciascun membro dell’equipaggio coltivava un suo hobby particolare: c’era chi leggeva la Bibbia o altri libri edificanti, chi suonava o strimpellava uno strumento, chi dipingeva ritratti di navi o di persone, chi confezionava abiti o accessori d’abbigliamento, chi costruiva cassapanche o piccoli mobili, chi incideva ossi di balena o denti di capodoglio. I più abili realizzavano stupendi modelli, diorami e navi in bottiglia, usando i poveri materiali che recuperavano a bordo. Questi lavori artigianali, oltre a permettere un piccolo arrotondamento della paga, distoglievano la loro mente dal ricordo della casa e degli affetti lontani. In alcune vecchie fotografie della fine del secolo scorso, si vedono gruppi di marinai allineati sul ponte che mostrono orgogliosamente i loro manufatti. Ciò che contraddistingue la loro opera da quella degli artigiani di oggi è l’amore incondizionato che nutrivano per le navi e per il mare, nonostante i pericoli cui andavano incontro tutti i giorni. Sarà forse per questo motivo che le navi in bottiglia autentiche non hanno una vela, una tavola o una manovra fuori posto, pur nelle ridotte dimensioni dell’oggetto.
Brigantino a palo italiano
“Bacci” a vele spiegate.
In bottiglia
Modello costruito in Italia nell'ultimo quarto del XX secolo
Dimensioni: bottiglia: lungh. cm 36; diam. cm 11
Materiali: legno, corda, cartoncino e stucco; in bottiglia di vetro, su basamento di legno.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 020
Scala: 1:180
Il modello presenta un armamento con due alberi a vele quadre e uno a vele auriche, più bompresso, fiocchi e stralli; castello a prua; cassero a poppa; due tughe; due fanali di via; opera viva di colore rosso; opera morta di colore verde; sullo sfondo, un’isola vulcanica tropicale.
Nave a palo italiana
“Nini” a vele spiegate. In bottiglia
Modello costruito in Italia nel terzo quarto del XX secolo
Dimensioni: bottiglia: lungh. cm 30; diam. cm 8
Materiali: legno, corda, cartoncino e stucco;
in bottiglia di vetro, su basamento di legno.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 021
Scala: 1:260
Il modello presenta un armamento con tre alberi a vele quadre e uno a vele auriche, più bompresso, fiocchi e stralli; castello a prua; cassero a poppa; due tughe; un boccaporto; due scialuppe; opera viva a strisce verde, bianca e nera, con falsa batteria.
Bovo ligure
“Federico” a vele spiegate.
Entro lampadina
Modello costruito in Italia nel secondo quarto del XX secolo
Dimensioni: lampadina: lungh. cm 20; diam. cm 8
Materiali: legno, corda, cartoncino e stucco; in lampadina
di vetro e ottone, su basamento di legno
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 022
Scala: 1:160
Il modello presenta un armamento con due alberi a vele latine e polaccone. Il bovo era un legno da cabotaggio caratterizzato da una grande vela latina all’albero di maestra, verticale e non a calcese, e da un piccolo albero a poppa estrema, sempre a vela latina, la cui scotta agiva su un lungo buttafuori. Inoltre armava un grande fiocco, il “polaccone”, con relativa asta sporgente oltre la prua. Questi elementi fondamentali erano suscettibili di variazioni e di adattamenti, a seconda delle circostanze e dei pericoli per la navigazione. Poteva accadere, ad esempio, che venisse montata una gabbiola sull’albero principale, o due fiocchi al posto del polaccone, per resistere meglio alle tempeste. La poppa era a specchio, con notevole slancio, almeno nei modelli più antichi. La prua, inclinata in avanti, era munita di tagliamare. Seguendo l’evoluzione delle altre unità mercantili, negli ultimi esemplari la poppa divenne tonda. In rapporto al carico trasportato, lo scafo poteva assumere configurazioni particolari. I bovi da vino, ad esempio, che eseguivano il trasporto a mezzo di grandi botti poste nella stiva, avevano un bolzone molto accentuato. Questo tipo di natante era diffuso soprattutto nel Tirreno. La lunghezza poteva variare da 16 a 25 metri, la larghezza da 5 a 7 metri, il puntale da 2 a 3 metri e la stazza da 20 a 40 tonnellate.
Modelli di navi da guerra a motore
• Corazzata giapponese “Yamato”
• Sottomarino lanciamissili nucleare americano “Andrew Jackson”
• Portaerei americana “Enterprise”
• Incrociatore lanciamissili italiano “Vittorio Veneto”
• Fregata antisommergibili italiana “Lupo”
• Incrociatore portaeromobili italiano “Giuseppe Garibaldi”
• Motosilurante tedesca “Wiesel”
• Mas italiano lancia siluri della Marina Militare Italiana
• Yacht Guardiamarina “Marti”
Franco Tommasino
Corazzata giapponese
"Yamato"
Modello navigante costruito a Chiavari nel 1985
Dimensioni: cm 131x21x28
Materiali: plastica, ottone, rame e gomma; su basamento di plexiglass.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 031
Scala:1:200
Il motore elettrico aziona le quattro eliche, i timoni, i cannoni di grosso calibro e il radar. Tuga sollevabile per accedere al vano interno; quattro proiettori che illuminano i settori di tiro.
La “Yamato” e la gemella “Musashi” furono le uniche navi da battaglia costruite dal Giappone nel periodo fra le due guerre mondiali. Il programma ne prevedeva quattro, ma le ultime due furono trasformate in portaerei, di cui solo la “Shinano” venne completata, mentre l’altra fu cancellata. Esse rappresentavano l’esasperazione del concetto di “Super-Dreadnought”, con dislocamento, corazzatura, armamento e velocità superiori a quelli di tutte le avversarie, ma furono anche l’esempio lampante dell’inutilità di navi di questo tipo, perché vennero distrutte entrambe da bombe e siluri lanciati da aerei, senza che potessero opporre altra resistenza che non fosse la loro straordinaria capacità di incassare colpi. Infatti, per affondare la “Yamato” furono necessari 11 siluri e 23 bombe e per la “Musashi” 11 siluri e 20 bombe. L’unità capoclasse venne impostata nell’Arsenale di Kure il 4 novembre 1937, varata l’8 agosto 1940 e consegnata il 16 dicembre 1941. Le sue dimensioni erano: lunghezza m 263; larghezza m 38,9; immersione m 10,4; dislocamento tonn. 72.809. Era la più grande nave da guerra che fosse mai stata costruita. Aveva lo scafo a ponte continuo e una grande sovrastruttura a torre, contenente tutti i locali comando. Il fumaiolo era inclinato verso poppa e munito di plance laterali, alcune delle quali si collegavano con quelle del torrione. Anche l’albero poppiero era inclinato all’indietro ed aveva la parte inferiore a tripode. A poppa vi era un secondo torrione, più basso del primo. La corazzatura di murata non era verticale, ma inclinata di 20° verso l’interno. Nella sua parte inferiore penetrava nello scafo e veniva inglobata nella controcarena. Le piastre della cintura avevano uno spessore di 410 mm nella parte alta, che si riduceva a 200 mm nella parte più bassa e a 80 mm al livello della carena. I depositi delle munizioni erano protetti da una corazza spessa 250 mm nella parte bassa, che si ripiegava orizzontalmente passando sotto i locali con uno spessore di 76 mm nella parte centrale e 51 mm in quelle laterali di raccordo. Il ponte di coperta era corazzato con piastre da 35-50 mm, ma solo nella parti fuori ridotto. Il ponte di protezione aveva uno spessore di 230 mm al centro e 200 mm nelle parti inclinate laterali. Le torri principali erano protette da 650 mm di acciaio; le barbette da 560 mm e la torre comando da 500 mm. L’armamento comprendeva 9 pezzi da 460 mm, il più grosso calibro mai imbarcato su una nave, disposti in tre torri trinate: due a prora e una poppa. I 12 cannoni da 155 mm erano sistemati in quattro torri trinate, di cui una fungeva da terza torre soprelevata prodiera e un’altra da seconda torre soprelevata poppiera. Le altre due, sistemate in coperta ai lati del fumaiolo, vennero sbarcate nel 1943 per potenziare l’armamento antiaereo, che salì da 12 a 24 pezzi da 127 mm, collocati in 12 postazioni binate ai lati della sovrastruttura. Sia i cannoni da 155 mm, sia quelli da 127 mm potevano sparare con un alzo fino a 45°. Le mitragliere da 25 mm crebbero di numero sino ad arrivare a 150 nel 1945, quasi tutte sistemate nella zona centrale. Vi erano però anche 3 torrette a prora estrema e quattro a poppa estrema, come sulle navi americane. L’apparato motore era composto da quattro gruppi di turbine, alimentate da 12 caldaie, che azionavano quattro eliche, per una potenza di 150.000 CV e una velocità massima di 27 nodi.
I due timoni, uno più grande e uno più piccolo, erano posti entrambi nel piano di simmetria. Le cisterne potevano contenere fino a 6.300 tonnellate di nafta, per un’autonomia di 10.000 miglia a velocità di crociera. L’equipaggio era formato da 2.500 uomini. La “Yamato” divenne l’ammiraglia di Yamamoto, Capo di Stato Maggiore della Flotta Imperiale Giapponese. Nel dicembre del 1943 fu silurata dal sommergibile americano “Skate”, subendo lievi danni. Durante la battaglia di Samar, nell’ottobre del 1944, affondò una portaerei e tre cacciatorpediniere nemici. Il 7 aprile
1945 fu attaccata da velivoli partiti dalle portaerei americane e affondata con bombe e siluri.
Sottomarino lanciamissili nucleare americano
“Andrew Jackson”
Modello navigante costruito a Genova nel 1970
Dimensioni: cm 180x16x38
Materiali: vetroresina, cemento, piombo, alluminio; su
basamento di legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 032
Scala 1:70
Il modello pesa 30 Kg. Ha 5 litri di riserva d’aria e riserva di spinta. Quando naviga in superficie restano emerse una parte dello
scafo e la torretta. Può arrivare sino a 5 metri di profondità. Il radiocomando aziona il motore, i timoni di direzione e quelli di profondità. Questi ultimi si dispongono a emergere anche quando sta per raggiungere il limite di sicurezza.
“Quando decisi di realizzare un sottomarino, la costruzione di questi natanti era appena agli inizi. Prima tentai con il “Nautilus”, in scala 1:100, ma mi accorsi che in uno scafo lungo un metro non c’era abbastanza spazio per le macchine e le batterie, per cui lo abbandonai. Ripresi il tentativo con lo “Andrew Jackson”, raddoppiando la lunghezza, in modo da avere più spazio. Anche la stazza cambiò: se per immergere il “Nautilus” occorrevano 12 Kg di zavorra, per lo “Andrew Jackson” ce ne volevano 30. Lo realizzai in scala 1:70, con scafo in vetroresina, prua in legno e poppa in ottone. Saldate le tre parti e montata la torretta, iniziai le prove in acqua e fu proprio in tale occasione che mi accorsi della quantità di zavorra necessaria a farlo immergere. Calcolai che il volume era di 30 litri, ovvero circa 30 Kg. Per vederlo affiorare dovevo lasciare all’interno 5 litri d’aria. Finito lo scafo esterno, con assi portaelica e timoni, misi una zavorra di 12 Kg di piombo, cui aggiunsi del cemento fino ad arrivare a 20 Kg, altri 5 Kg per il motore, le batterie e i comandi e arrivai a 30 Kg. Nel corso della prima immersione, una bolla d’aria rimasta all’interno dello scafo si spostò a poppa, facendo capovolgere lo scafo, che si mise in posizione verticale con l’elica fuori dall’acqua. Per questo dovetti chiudere le aperture di poppa e di prua con del polistirolo e finalmente potei dare inizio alla prima uscita. Vedere in azione lo “Andrew Jackson” era un vero spettacolo! La costruzione di questo modello mi insegnò che l’acqua di
mare può avere densità diverse a seconda della zona. A Chiavari, alla foce dell’Entella è poco densa; media nel porto e alta presso gli Scogli. La zavorra deve essere cambiata a seconda del luogo di immersione”.
Il sottomarino “Andrew Jackson” (SSBN 619), terza unità della classe “Lafayette”, venne impostato nel cantiere navale di Mare Island il 26 aprile 1961, varato il 15 settembre 1962 e consegnato il 3 luglio 1963. Le sue caratteristiche sono: lunghezza m 129,5; larghezza m 10,1; altezza m 9,6; dislocamento a vuoto tonn. 6.650; dislocamento a pieno carico tonn. 7.250; dislocamento in immersione tonn. 8.250. L’apparato motore si basa su un reattore nucleare pressurizzato ad acqua, modello S5W, che alimenta delle turbine a vapore, per una potenza di 15.000 CV su un’elica. La velocità massima è di 20 nodi in superficie e 25 in immersione. L’equipaggio comprende 12 ufficiali e 129 tra sottufficiali e comuni. L’armamento missilistico è composto da 16 tubi per il lancio di missili balistici intercontinentali Poseidon C-3 SLBM o Trident C-4 SLBM. Inoltre vi sono quattro tubi lanciasiluri prodieri da 533 mm per ordigni Mk 65. La classe cui appartiene comprende in tutto 31 unità. Esse furono progettati per trasportare i missili Polaris, poi vennero modernizzate per accogliere i Poseidon. Gli ultimi dodici sottomarini della serie sono stati recentemente modificati per lanciare i Trident. Operano tutti nelle aree del Mediterraneo e dell’Atlantico. Per quanto riguarda il design, si tratta di una versione ingrandita e aggiornata della precedente classe “Ethan Allen”, con scafo a goccia, torretta sottile spostata verso prora e munita di timoni di profondità, tubi lanciamissili scaglionati in due file da otto a poppavia della stessa, e un’elica poppiera, in corrispondenza dei timoni di direzione. La particolare forma dello scafo, a parità di potenza sviluppata, permette di raggiungere una maggior velocità in immersione che non in superficie. Di solito le loro crociere durano una sessantina di giorni, con qualche sosta lungo il percorso per concedere un po’ di riposo agli equipaggi e rompere la monotonia delle lunghe navigazioni in immersione.
Portaerei americana
"Enterprise"
Modello navigante costruito a Genova nel 1965
Dimensioni: cm 142x36x35
Materiali: compensato, ottone, plastica, rame e gomma;
su basamento di legno e ottone.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 034
Scala 1:240
I motori elettrici azionano due eliche, due timoni, un radar, tre ascensori due catapulte, l’impianto luci e i segnali di via. Una parte del ponte di volo può essere sollevata per accedere al vano interno.
La “Enterprise” (CVAN 65) prima portaerei a propulsione nucleare della storia, fu costruita a Newport News, in Virginia, per conto della marina americana. Impostata il 4 febbraio 1958, fu varata il 24 settembre 1960 e consegnata il 25 novembre 1961. Le sue dimensioni sono: lunghezza m 341,30; larghezza m 40,50; immersione m 10,80; dislocamento tonn. 89.600. Al momento dell’entrata in servizio era la nave da guerra più grande del mondo, con le sue 12.000 tonnellate in più rispetto alla portaerei “Forrestal”. Per il suo costo di 451,3 milioni di dollari era anche la più costosa mai costruita. La U.S. Navy aveva iniziato lo studio di una portaerei a propulsione nucleare nel 1950, contemporaneamente a quello dei sottomarini. Quattro anni dopo fu realizzato un impianto pilota e nel 1958-59 entrarono in funzione i primi due reattori. Il progetto derivava da quello della “Forrestal”, salvo una diversa sistemazione degli elevatori e una forma particolare dell’isola. Il ponte di volo, più ampio rispetto alle unità precedenti, è costituito da una zona prodiera poco più larga dello scafo e da una centro-poppiera sensibilmente più larga, sostenuta da mensole laterali. Il ponte di volo angolato è delimitato da strisce pitturate nella zona centro-poppiera. L’isola, priva di fumaiolo e di notevoli dimensioni, ha una curiosa forma a cubo. Sulle sue facce sono applicati dei giganteschi pannelli, le antenne dei radar, fissi e non rotanti, per avere un maggior campo di azione. Sul cielo del cubo si trovano le plance, contenute in una sovrastruttura cilindrica, e un albero per altre antenne radar. Gli elevatori sono quattro, di cui tre sul lato destro, due a proravia e uno a poppavia dell’isola, e uno a sinistra, verso poppa. Essi hanno forma trapeizodale per accogliere gli aerei con le ali ripiegate. Vi sono quattro catapulte a vapore, due nella zona prodiera e due nella zona centro-poppiera, e quattro cavi di arresto tesi attraverso il ponte. All’inizio la nave non era dotata di armamento fisso e basava la sua difesa esclusivamente sulla componente aerea. Nel 1966, per respingere eventuali attacchi dal cielo, vennero installati tre lanciatori per missili Sea Sparrow antiaerei. Normalmente la nave imbarca una novantina di aerei: due squadriglie da caccia, due da bombardamento, una antisom, una da ricognizione, una da contromisure elettroniche e una da rifornimento, più alcuni elicotteri per i servizi generali.
Ma la configurazione può variare a seconda delle condizioni operative e delle necessità del momento. L’apparato motore è costituito da quattro gruppi di turbine, alimentate dal vapore generato da 32 scambiatori di calore, che ricevono energia da otto reattori nucleari, per una potenza di 280.000 CV e una velocità massima di 35 nodi. La prima sostituzione del nucleo venne effettuata dopo tre anni di funzionamento e 207.000 miglia percorse. La seconda ebbe luogo dopo altri quattro anni e un percorso di 300.000 miglia. L’equipaggio comprende 5.500 uomini, tra ufficiali, sottufficiali e comuni, una vera città galleggiante.
Fregata antisommergibili italiana
“Lupo”
Modello navigante costruito a Genova nel 1978
Dimensioni: cm 121x23x42
Materiali: vetroresina, compensato, ottone e plastica; su
basamento di plexiglass.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 042
Scala 1:100
Il motore elettrico aziona le due eliche, i due timoni e il radar di scoperta navale. Tuga sollevabile per accedere al vano interno; saracinesca dell’hangar sollevabile per ricoverarvi l’elicottero.
La fregata antisommergibili “Lupo”, costruita dai Cantieri Navali Riuniti di Riva Trigoso (GE), fu impostata l’11 ottobre 1974, varata il 29 luglio 1976 e consegnata il 12 settembre 1977. Le unità di questa classe, dotate di elevate caratteristiche e prestazioni in rapporto al costo e al dislocamento contenuti, hanno riscosso un notevole successo commerciale, specie presso le marine del Sud America, rinverdendo i fasti della cantieristica italiana. Le sue dimensioni sono: lunghezza m 113,50; larghezza m 12; immersione m 4; dislocamento a pieno carico tonn. 2.500. Lo scafo è a ponte continuo, con accentuata insellatura prodiera. La sovrastruttura centrale è divisa in tre parti: quella prodiera sostiene la plancia, quella mediana è sormontata dal largo fumaiolo e quella poppiera contiene l’aviorimessa. La poppa è a specchio, con ampie sfinestrature quadrangolari. Il ponte di volo è lungo m 24 e largo m 12. L’albero è a forma di tronco di piramide. Il fumaiolo è costituito da una gigantesca struttura parallelepipeda, con visiera parafumo rivolta verso poppa. L’armamento comprende otto lanciamissili superficie-superficie antinave Teseo, sistemati quattro per lato, due sul castello a fianco della plancia e due su plancette ai lati del fumaiolo. Per la difesa antiaerea dispone di un lanciamissili Sea Sparrow a otto celle, situato sul cielo dell’aviorimessa. Il cannone da 127/54 è collocato in una torre a
proravia della plancia. Le quattro mitragliere da 40 mm si trovano in due complessi binati ai lati dell’aviorimessa. L’armamento antisommergibili è costituito da due lanciasiluri trinati, sistemati in coperta, a poppavia della sovrastruttura, e da due elicotteri Agusta-Bell AB-212 ASW. L’aviorimessa, di tipo rientrabile, può contenere un solo apparecchio; l’altro rimane allo scoperto sul ponte di volo. L’apparato di propulsione è del tipo misto. Vi sono due motori Diesel, che servono per la navigazione di crociera e possono sviluppare una velocità massima di 21 nodi. Per le alte prestazioni, si scollegano i Diesel e si innestano due turbine a gas, permettendo di arrivare a 35 nodi. La potenza è di 50.000 CV per i Diesel, più 7.800 per le turbine. L’autonomia è di 4.350 miglia a 16 nodi. I timoni sono due, uguali e paralleli, posti dietro le eliche. Tutte le unità sono dotate di pinne stabilizzatrici.
L’equipaggio comprende 16 ufficiali e 169 tra sottufficiali e comuni. Quattordici unità dello stesso tipo vennero costruite nel periodo 1974-87 per le marine del Perù (4 esemplari), del Venezuela (6 esemplari) e dell’Iraq (4 esemplari). Queste ultime non furono mai consegnate al paese committente a causa dello scoppio della guerra con l’Iran e del conseguente embargo sull’esportazione di armamenti verso i paesi belligeranti. Dopo essere rimaste a lungo in disarmo a La Spezia, sono state acquistate dalla Marina Militare Italiana che le ha sottoposte a un radicale programma di trasformazione per adeguarle allo standard tecnico-operativo dell’arma, con interventi sui sistemi di comando, controllo e telecomunicazioni, e sui sensori di scoperta radar e acustici. Nonostante che il loro equipaggiamento non si discosti molto da quello delle unità precedenti, non sono state classificate come fregate, ma come pattugliatori di squadra, assimilabili quindi alle unità di minori dimensioni.
Incrociatore portaeromobili italiano
“Giuseppe Garibaldi”
Modello navigante costruito a Chiavari nel 1985
Dimensioni: cm 149x30x47
Materiali: compensato, ottone, plastica, rame e gomma.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 043
Scala 1:100
Motto: Obbedisco.
Il motore elettrico aziona le eliche, i timoni, gli ascensori, il radar e i lanciamissili.
L’incrociatore portaeromobili “Giuseppe Garibaldi” venne costruito nel Cantiere Navale di Monfalcone (TS) per conto della Marina Militare Italiana. Impostato il 20 febbraio 1978, fu varato il 4 giugno 1983 e consegnato il 30 settembre 1985. E’ un’unità concepita per servire come nave comando di task force e fornire un adeguato supporto a operazioni di controllo strategico, pattugliamento costiero, sbarco di truppe e operazioni di polizia marittima. Pur avendo un limitato dilocamento, permette l’utilizzo ottimale dei sistemi d’arma aeromobile e missilistico, in funzione antinave, antiaerea e antisom. Infatti può imbarcare elicotteri leggeri antisom ed elicotteri medi destinati al contrasto antinave o alla guerra elettronica. Inoltre ha le predisposizioni tecniche necessarie per accogliere aerei a decollo corto o verticale tipo Harrier II AV-8B PLUS, capaci di assicurare l’interdizione antiaerea e antinave a distanza superiore rispetto ai sistemi d’arma fissi. Unità estremamente versatile, è dotata dei più moderni equipaggiamenti attivi e passivi per l’autodifesa. Inoltre può fornire alloggio a reparti di incursori destinati a raggiungere il teatro di operazioni per mezzo di elicotteri da trasporto. Le sue dimensioni sono: lunghezza fuori tutto m 180,2; lunghezza ponte di volo m 173,8; larghezza massima al galleggiamento m 23,4; larghezza massima ponte di volo m 30,4; immersione m 6,7; dislocamento a pieno carico tonn. 13.370. All’estremità prodiera è stato realizzato uno “sky-jump” (non previsto nel progetto originale), una sorta di scivolo inclinato applicato per la prima volta sulle unità britanniche della classe “Invincible”, che serve a facilitare il decollo corto dei velivoli imbarcati. Lungo 28,5 m e con un angolo di uscita di 6,5°, permette loro di aumentare notevolmente il carico bellico, migliorandone le capacità operative. Per il trasferimento degli aeromobili dall’hangar al ponte di volo, sono disponibili due elevatori, ciascuno con una superficie di circa 180 mq e una portata massima di 15 tonnellate, sistemati rispettivamente a proravia e a poppavia dell’isola, in posizione tale da lasciare il ponte di volo sgombro per il decollo contemporaneo di sei elicotteri. L’interno dello scafo si eleva per sette livelli. Ai lati e alle estremità dell’hangar (che si sviluppa in altezza su due livelli e il cui cielo corrisponde al ponte di volo) si trova la maggior parte dei locali di vita dell’equipaggio e di controllo degli apparati. Al di sotto del ponte hangar lo spazio è prevalentemente occupato dall’apparato motore e dagli impianti ausiliari di bordo. Le sistemazioni relative al reparto di volo comprendono, oltre all’hangar (con una superficie di 1.700 mq, servito da un impianto di condizionamento e diviso in tre settori da due paratie tagliafiamme), una rete per l’erogazione del combustibile, un sistema di guida per l’appontaggio e tutte le attrezzature necessarie per effettuare a bordo la manutenzione delle macchine. La grande isola è situata sul lato destro del ponte di volo. Si sviluppa in altezza per sette ponti e contiene le plance comando e servizio volo e le plance comando e controllo della navigazione. Inoltre serve da supporto per le alberature, i radar e i sensori elettronici. Alle due estremità si trovano i lanciatori a otto celle per missili Albatros/Aspide, con i relativi depositi munizioni e sistemi per la ricarica. Il fumaiolo, piuttosto corto, è situato a poppavia dei due
alberi. L’apparato motore è composto da quattro turbine a gas FIAT/General Electric LM 2500, che sviluppano una potenza di 80.000 CV, per una velocità di 30 nodi e un’autonomia di 700 miglia a 20 nodi. Il propulsore è diviso in due parti, collocate in locali separati, protetti da paratie stagne. Questo accorgimento permette di avere una disponibilità residua di forza motrice anche in caso di falla estesa a tre compartimenti contigui. La nave è dotata di un sistema Prairie/Masker per l’insufflazione di aria attorno allo scafo e alle eliche, in modo da contribuire all’abbattimento della
segnatura acustica. Le eliche sono due, a cinque pale, a passo fisso e inversione del moto per mezzo di due giunti riduttori-invertitori Franco Tosi. L’armamento comprende 18 elicotteri Agusta-Sikorsky SH-3D o Agusta-Westland EH-101, oppure 16 cacciabombardieri V/STOL Mc Donnell-Douglas Harrier II AV-8B PLUS, oppure una combinazione fra questi due tipi di aeromobili. Per la difesa di punto ci sono otto lanciamissili antinave Teseo, due lanciatori a otto celle Albatros (con missili superficie/aria Aspide), tre sistemi antimissili/antiaerei Dardo, con torrette binate da 40/70, due lanciarazzi SCLAR da 105 mm e due lanciasiluri trinati Mk 32 per siluri leggeri. L’equipaggio è composto da 825 uomini, tra ufficiali, sottufficiali e comuni, di cui 230 del gruppo di volo.
Franco Tommasino
Motosilurante tedesca
“Wiesel”
Modello navigante costruito a Chiavari nel 1985
Dimensioni: cm 108x18x50
Materiali: compensato, plastica e ottone; su basamento di
plexiglass.
M.M.T.A. - Invent. n. 044
Scala 1:50
I motori elettrici azionano le eliche e i timoni. La motosilurante è un tipo di imbarcazione militare di limitato dislocamento (50-200 tonnellate), elevata velocità (40 nodi e oltre), limitata autonomia (1.000-1.500 miglia), buona tenuta al mare, armata con armi convenzionali a tiro rapido (cannoncini e mitragliatrici) e siluri di grosso calibro. E’ idonea per l’attacco al traffico avversario in bacini ristretti o passaggi obbligati, il sostegno a operazioni anfibie minori e il contrasto alle incursioni di unità similari. Le motosiluranti tedesche furono tra le migliori imbarcazioni leggere costruite durante la Seconda Guerra Mondiale. Avevano scafi ben studiati, motori potenti e armamento completo. Parteciparono con successo a numerose operazioni contro unità britanniche, specialmente nel Mediterraneo. La tradizione costruttiva si è mantenuta anche con le moderne motomissilistiche, le quali riscuotono un buon successo commerciale presso le marine minori.
Marietto Solari
lancia siluri della Marina Militare Italiana
Mas italiano
Modello di cantiere costruito a Chiavari nel 1946.
Dimensioni: cm 171x37x76
Materiali: legno di teak e metallo.
Collezione Giannina e Marina Solari
M.M.T.A. - Invent. n. 203
Scala: 1:17
Il natante è dotato di una mitragliera a prua e di due lanciasiluri laterali. Il modello riproduce un MAS costruito nel cantiere navale degli Scogli, simile allo R.D. 149. La sua realizzazione era iniziata nel periodo fascista, ma venne ultimato solo nel 1946, dopo la Liberazione. Marietto Solari, a rischio della sua incolumità, ne aveva ritardato il completamento, adducendo come motivazione la mancanza di alcuni pezzi per il motore.
La sigla MAS è un’abbreviazione di Motoscafo Anti Sommergibile. Unità piccole e velocissime, furono ideate, costruite e utilizzate con successo dalla Regia Marina Italiana durante la Prima Guerra Mondiale. Il loro dislocamento andava da 12 a 30 tonnellate, la loro velocità variava fra 18 e 30 nodi, e il loro armamento poteva comprendere un cannoncino, due mitragliere, due siluri e bombe antisommergibili. Ne furono costruiti circa trecento esemplari, destinati a un’infinità di compiti, in uno scacchiere come quello adriatico dove i bassi fondali e le coste frastagliate facilitavano l’impiego di natanti leggeri e veloci. Effettuare scorrerie lungo le coste istriane e dalmate, tendere agguati al traffico mercantile nemico, stanare e attaccare i sommergibili austriaci, vigilare le coste e i porti italiani, scortare i convogli di truppe e fungere da ricognitori per le unità maggiori furono i loro campi d’azione più importanti. Tra le imprese più significative dei MAS italiani vanno ricordati gli attacchi contro le unità nemiche rifugiatesi nel porto di Durazzo, l’assalto a due navi da battaglia ferme a Cortellazzo, il siluramento della “Wien”, ormeggiata nel porto di Trieste, la cosiddetta “beffa di Buccari”, cui prese parte anche Gabriele D’Annunzio, e il siluramento della corazzata austro-ungarica “Szent Istvan” (Santo Stefano) ad opera del tenente di vascello Luigi Rizzo. Con le tre lettere della sigla MAS il Poeta Vate coniò il motto latino dei veloci mezzi di combattimento: “Memento Audere Semper” (ricordati di osare sempre). Le caratteristiche fondamentali di questi motoscafi erano: minimo pescaggio, per consentire un passaggio sicuro anche in zone minate; mobilità, velocità e tonnellaggio ridotto, per potersi sottrarre facilmente alla reazione
nemica, rompendo il contatto, e tornare a farsi sotto solo quando la vigilanza si fosse allentata. All’epoca della Prima Guerra Mondiale, la costruzione dei MAS venne affidata soprattutto alla SVAN (Società Veneziana Automobili Nautiche), per cui la prima interpretazione della sigla MAS fu Motobarca Armata SVAN. Lo sviluppo dei mezzi e la loro rapida diffusione, portarono in seguito alla realizzazione di unità che raggiungevano le 100 tonnellate di stazza, i 50 nodi di velocità e avevano un potente armamento, designate Vedette Antisommergibili (VAS).
Modelli di navi mercantili a motore
• Piroscafo misto italiano “Adele Gotuzzo”
• Pontone italiano “Giulio Cesare”
• Battello a ruote svizzero “Ville de Zurich”
• Yacht a vapore italiano “Elettra”
• Turbonave italiana “Rex”
• Turbonave italiana “Conte di Savoia”
Piroscafo misto italiano
“Adele Gotuzzo”
Modello navigante costruito in Olanda nel 1904.
Dimensioni: cm 166x38x84
Materiali: acciaio, stagno, zinco, stoffa e corda; su basamento di legno.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 023
Scala 1:100
Scafo in metallo; attrezzatura a goletta a gabbiole; tuga centrale con alto fumaiolo, due maniche a vento, plancia all’aperto e due scialuppe; bompresso; polena dorata a forma di voluta vegetale; due ancore; due boccaporti; timoneria; verricello; opera viva di colore verde; opera morta di colore giallo; ponte di coperta di colore verde. Il modello è dotato di una macchina a vapore
bicilindrica a doppio effetto per la propulsione. Altre piccole macchine a vapore mettevano in funzione i bighi di carico, gli alberi, le vele, il verricello salpa-ancore e la timoneria. E’ stato rinvenuto casualmente presso un vecchio antiquario, malridotto e disalberato. Grazie all’opera di valenti restauratori, è stato riportato alle condizioni originali, conservando il più possibile quanto si trovava a bordo. Il motore è stato smontato e collocato all’esterno, per poter essere ammirato facilmente dal pubblico.
Edoardo Scotto e Franco Tommasino hanno restaurato lo scafo e le macchine; Guido Cerruti ha curato l’alberatura e le manovre.
Franco Tommasino
Pontone italiano
“Giulio Cesare”
Modello navigante costruito a Genova nel 1985
Dimensioni: cm 40x21x60
Materiali: legno, plastica e ottone; su basamento di
plexiglass.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 024
Scala 1:100
Un fumaiolo; quattro maniche a vento; tuga sollevabile per accedere al vano interno; una lancia di salvataggio sulla destra; la gru sostiene un motore elettrico. Costruito in Olanda nel 1904, prestò servizio nel porto di Genova per novant’anni. Fino alla sua radiazione, rimase il mezzo di sollevamento più potente in azione nel Mediterraneo. Poteva sollevare 150 tonn. a 30 m di altezza, con il paranco di forza, e 30 tonn. a 70 m, in punta. I verricelli che azionavano la gru erano a vapore. I più grandi transatlantici costruiti nei cantieri genovesi vennero completati con l’ausilio del “Giulio Cesare”, che collocò a bordo le caldaie, le macchine, gli alberi, i fumaioli e tutti gli altri pezzi di grandi dimensioni. Lo stesso dicasi per le corazzate, sulle quali posizionò le torrette dei calibri maggiori e minori, gli alberi e i fumaioli. Finita la Seconda Guerra Mondiale, liberò il porto di Genova dai relitti di navi che lo ostruivano e lo stesso fece dopo la grande mareggiata del 1955. Negli anni successivi venne impiegato per i soliti compiti, dando un notevole contributo
alla rinascita della cantieristica nazionale. Per conto dell’O.A.R.N. (Officina Allestimento e Riparazione Navi), contribuì a completare i transatlantici “Andrea Doria”, “Leonardo da Vinci” e “Michelangelo”. Nell’ultimo periodo venne utilizzato per l’imbarco e lo sbarco di carichi pesanti, come locomotori, vagoni, trasformatori, turbine ecc. All’inizio degli Anni Novanta fu demolito e venduto come ferrovecchio, perdendo ancora una volta l’occasione di conservare un cimelio importante della nostra storia marinara. Oggi se ne conserva ancora l’apparato motore, con la speranza di vederlo presto esposto in qualche museo marittimo.
Battello a ruote svizzero
“Ville de Zurich”
Modello navigante costruito a Chiavari nel 1980
Dimensioni: cm 119x31x33
Materiali: vetroresina, ottone, metallo pressofuso, plastica
e legno; su basamento di plexiglass.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 025
Scala: 1:50
Il modello è dotato di una macchina a vapore alternativa che muove le due ruote a pale laterali. Il timone è azionato da un motore elettrico. Opera viva di colore rosso; opera morta di colore bianco; fumaiolo al centro, con due maniche a vento ai lati; plancia di comando al centro, a proravia del fumaiolo; due scialuppe di salvataggio ai lati; verricello salpa-ancore manuale a prua; panche per la sosta dei passeggeri sul ponte di coperta e su quello di passeggiata.
Il battello, costruito nel 1910, era mosso da una macchina a vapore alternativa che azionava due ruote a pale laterali. Prestava servizio sul lago di Ginevra.
Franco Tommasino
Yacht a vapore italiano
“Elettra”
Modello galleggiante costruito a Genova nel 1974
Dimensioni: cm 155x24x76
Materiali: scafo in vetroresina, sovrastrutture in legno,
ottone, stoffa, corda; su basamento di legno
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 026
Scala: 1:50
(varata il 25 aprile 1904 nei cantieri Ramage & Fergusson di Londra con il nome di “ROVENSKA”)
Il radiocomando aziona i motori, i timoni, le luci, i segnali di via ecc.
Si sente anche la voce di Marconi che spiega come inventò la radio. Il modello è stato realizzato in quattro esemplari: uno per la marchesa Marconi di Roma; uno per il Museo della Radio di Torino; uno per lo Yacht Club Italiano di Genova e uno per il Museo Marinaro. Questo esemplare è stato presentato in diverse manifestazioni.
Lo yacht a vapore “Elettra” venne costruito come panfilo reale dal Cantiere Ramage & Ferguson di Leith, in Gran Bretagna, per conto dell’Arciduchessa Maria Teresa d’Austria. Battezzato “Rovenska”, fu varato il 25 aprile 1904. Aveva una lunghezza di 63,40 metri, una stazza di 632 tonnellate e una macchina a vapore da 1.000 CV. Durante la Prima Guerra Mondiale, la Imperial-Regia Marina Austro-Ungarica lo impiegò come nave-civetta. Catturato dagli Inglesi, fu incorporato nella Royal Navy.
Nel 1921 Guglielmo Marconi lo acquistò per la somma di 20.000 sterline dell’epoca, allo scopo di farne un laboratorio per i suoi esperimenti sulle onde radio. Venne iscritto al Compartimento Marittimo di Genova con la sigla IBDK. Lo yacht incrociava nel Golfo del Tigullio e mandava segnali radio alle stazioni riceventi a terra, situate a Santa Margherita e a Sestri Levante. Il 26 marzo 1930, dal porto di Genova accese le luci dell’esposizione mondiale di Sidney, in Australia. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu trasferito a Zara, con la speranza di sottrarlo alla distruzione ma, durante un bombardamento aereo, venne colpito da un siluro a prua e affondato. Il relitto venne prima saccheggiato dai Tedeschi e dagli Yugoslavi e poi recuperato e demolito.
Franco Tommasino
Turbonave italiana
“Rex”
Modello navigante costruito a Chiavari nel 1982
Dimensioni: cm 135x17x51
Materiali: vetroresina, compensato, ottone e plastica; su
basamento di legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 027
Scala: 1:200
Due motori elettrici azionano le quattro eliche, i timoni e le luci. I ponti sono tutti illuminati, compresi quelli di paseggiata. Il “Rex” venne costruito dal Cantiere Ansaldo di Sestri Ponente per conto della Navigazione Generale Italiana. Fu impostato il 27 aprile 1930, varato il 1° agosto 1931 e consegnato il 25 settembre 1932. Le sue dimensioni erano: lunghezza m 268, 20; larghezza m 31; altezza m 18,5; pescaggio m 10,07; stazza lorda tonn. 51.062. Sin dall’inizio, insieme con il gemello “Conte di Savoia”, costruito a Trieste per conto del Lloyd Sabaudo, era stato progettato per battere in velocità i migliori liners inglesi, francesi e tedeschi e conquistare il Nastro Azzurro, il trofeo destinato alla nave che avesse attraversato l’Atlantico nel minor tempo. Lo scopo era duplice: affermare il prestigio dell’Italia nel mondo, offrendo un esempio dei prodigi della tecnica realizzati dall’industria nazionale, e conquistare una fetta del mercato del trasporto passeggeri lungo la rotta più prestiosa e remunerativa, quella tra l’Europa e New York. Con il nuovo “Super Espresso”, come venne chiamata la nave, si sperava di attirare la ricca clientela nord-americana con un lussuoso esempio dello stile italiano, sottraendola ai tradizionali rivali della Cunard, della
Compagnie Générale Transatlantique e del Norddeutscher Lloyd. In tal modo si voleva pubblicizzare la cosiddetta “Rotta del Sole”, quella dal Mediterraneo agli Stati Uniti, in contrapposizione alla “Rotta del Nord”, che partiva dalla Manica, più breve ma caratterizzata da pioggia, freddo e nebbia. Il “Rex” era considerato uno dei più bei transatlantici degli Anni Trenta: aveva linee slanciate, alberi alti e sottili, due fumaioli corti ed ellittici, spostati a proravia e leggermente inclinati verso poppa, per offrire la minima resistenza all’aria. Lo scafo, del tipo a sovrastruttura completa, aveva dodici ponti, dei quali cinque continui da prora a poppa e quattro di passeggiata, e quattordici paratie trasversali che dividevano la nave in quindici compartimenti stagni. L’opera viva, risultato di lunghe esperienze nella vasca Froude, era una creazione originale dei progettisti Ansaldo: prora a bulbo, poppa ellittica, con ingrossamento al galleggiamento e timone tipo Oertz ad azione idrodinamica. Il tutto per garantire elevate prestazioni velocistiche e buoba stabilità in navigazione. L’apparato motore, costruito dallo Stabilimento Meccanico Ansaldo di Sampierdarena, comprendeva dodici caldaie a tubi d’acqua, di cui otto a doppia fronte, che alimentavano quattro gruppi di turbine Parsons-Curtiss, per una potenza di 136.000 CV su quattro assi. Le eliche quadripale di bronzo avevano un diametro di 4,74 m e un peso di 16 tonnellate ciascuna. La velocità massima era di 29,61 nodi. La nave poteva accogliere 370
passeggeri in prima classe, 378 in classe speciale, 410 in classe turistica e 866 in terza classe, per un totale di 2.032 viaggiatori. L’equipaggio comprendeva 59 ufficiali, 258 tra marinai, fuochisti e macchinisti, 90 cucinieri, 450 camerieri e uno stuolo di professionisti, tra cui 11 professori d’orchestra, due bagnini, 15 pompieri, un argentiere e 7 membri dello staff medico, per un totale di 870 persone, più alcuni impiegati statali per l’Ufficio Poste & Telegrafi. Durante la sua costruzione, la N.G.I. si fuse con il Lloyd Sabaudo di Torino e la Cosulich di Trieste, per formare la nuova compagnia Italia-Flotte Riunite, secondo il piano di ristrutturazione della marina mercantil voluto dal Governo per superare la crisi e battere la concorrenza straniera. Madrina del varo fu la regina Elena di Savoia. Per completare l’allestimento occorse più di un anno: basti pensare che per saldare tutte le lamiere del suo immenso scafo erano stati impiegati oltre sei milioni di chiodi. A bordo c’erano piscine, cinematografi, sale da ballo, saloni di ricevimento, giardino d’inverno, biblioteca e nurseries. Lo studio degli interni era stato affidato all’architetto Monti di Milano e la realizzazione alla Ditta Ducrot di Palermo. Su un numero dell’epoca della rivista “La Marina Italiana” si legge che per l’arredamento “... si è accoppiato il Settecento con il modernissimo, senza un contrasto, senza una stonatura, anzi
con un’armonia che non si può spiegare se non con il gusto dei decoratori e degli artisti”. Secondo alcuni commentatori stranieri, però, la nave non mostrava il lusso e lo sfarzo di altri prodotti della cantieristica italiana degli Anni Venti. Il motivo era che i progettisti avevano puntato tutto sulla potenza dei motori, il vero cuore del transatlantico, sacrificando un po’ le sistemazioni per i passeggeri. Comunque si trattava di sottigliezze, perché le cabine e i saloni del “Rex” erano degni di stare alla pari con quelli dei migliori concorrenti. Il viaggio inaugurale si svolse il 27 settembre 1932, con a bordo 278 passeggeri di prima classe, 378 di classe speciale, 410 di turistica e 806 di terza. Fu un vero trionfo. Erano giunte prenotazioni da ogni parte del mondo e la nave risultava al completo (per tutti gli anni in cui prestò servizio, il “Rex” viaggiò quasi sempre al completo, ma nonostante ciò i costi di gestione erano così alti che il suo bilancio fu sempre in passivo). La traversata che portò alla conquista del Nastro Azzurro iniziò da Gibilterra il 12 agosto 1933 e si concluse a New York, il mattino del 16 agosto, dopo aver percorso l’oceano in quattro giorni, 13 ore e 58 minuti, alla fantastica media di 28,92 nodi, con una punta di 29,61 nodi sulle ventiquattr’ore. Allo scoppio della guerra, la nave fu trasferita da Genova a Venezia, dove la si riteneva più al sicuro dalle incursioni aeree nemiche.
Durante il viaggio fu dirottata a Pola, una base meglio protetta. Ma nemmeno questa sarebbe stata la sua destinazione finale perché, il 15 agosto 1940, venne portato a Trieste con armamento ridotto. Il 9 settembre 1943, dopo aver occupato la città, i Tedeschi sequestrarono la nave e la svaligiarono. Il 3 maggio dell’anno successivo, la inquadrarono nella loro flotta e il 5 settembre la rimorchiarono a Capodistria. Quella stessa notte, però, un raid aereo inglese la colò a picco e i pochi resti vennero saccheggiati dalle popolazioni slave della costa.
Franco Tommasino
Turbonave italiana
“Conte di Savoia”
Modello al galleggiamento fabbricato a Genova; restaurato
nel 1984
Dimensioni: cm 122x16x40
Materiali: legno, ottone e argento; su basamento di legno
ricoperto di stucco per simulare le onde
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 028
Scala 1:200
Il modello venne acquistato presso un’agenzia di viaggi a Chiavari e restaurato completamente per riportarlo alle condizioni originali. La turbonave “Conte di Savoia” fu impostata nel cantiere San Marco di Trieste per conto del Lloyd Sabaudo il 4 ottobre 1930. Era la gemella del “Rex”, seppure con qualche leggera differenza. Mentre si trovava ancora sullo scalo di costruzione, la compagnia armatrice venne fusa con la Navigazione Generale Italiana, per formare la Società Italia. Varata il 1° agosto 1931, fu consegnata il 27 settembre 1932. Le sue dimensioni erano: lunghezza m 248,29; larghezza m 29,30; altezza di m 9,88; stazza lorda tonn. 48.502,18; dislocamento tonn. 40.604. Aveva scafo in acciaio; quattro eliche; due alberi; tre ponti completi (D, E, F); un ponte parziale (G); dodici paratie stagne trasversali; doppi fondi con una capacità di mc 1.436 di acqua e mc 2.634 di nafta; sovrastrutture complete: 1° ordine (C), 2° ordine (B); sovrastrutture incomplete: ponte A, dei saloni, di passeggiata e degli sport; impianto elettrico; radiotelegrafo; impianto di refrigerazione; pinne stabilizzatrici tipo Sperry; due stive per una capacità complessiva di mc 1.864. L’apparato motore, costruito dalla medesima ditta, era costituito da quattro turbine (tre turbine di marcia avanti e una turbina di marcia indietro per ogni motrice), alimentate da dieci caldaie a tubi d’acqua a combustibile liquido con tiraggio forzato, per una potenza di 130.000 CV per asse, una velocità di prova di nodi 29,43 e una velocità normale di
nodi 26,5. In tutto poteva trasportare 2.060 passeggeri di cui: 360 di prima classe; 778 di seconda classe; 922 di terza classe, in cameroni comuni. L’equipaggio era formato da 990 uomini. Effettuò il viaggio inaugurale in linea Genova-New York il 30 novembre 1932, al comando del capitano Antonio Lena. La nave divenne subito famosa presso la clientela internazionale, in particolare quella americana, per il lusso dei suoi interni, il servizio impeccabile e la regolarità delle traversate. Allo scoppio della guerra, fu posta in disarmo a Venezia. Colpita da un bombardamento aereo l’11 settembre 1943, rimase gravemente danneggiata e fu demolita.
Motonave italiana
“Neptunia”
Modello navigante costruito a bordo nel 1951
Dimensioni: cm 65x10x19
Materiali: lamierino zincato, verniciato a mano, ottone,
legno, rame; su basamento di legno.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 029
Scala: 1:300
Il modello, composto da scatole di sardine saldate, fu realizzato a bordo da un membro dell’equipaggio e donato al comandante Ernani Andreatta senior. Alla fine degli Anni Quaranta, passata la bufera della guerra, il “Lloyd Triestino” programmò la costruzione di sette motonavi miste, destinate a sostituire quelle più vecchie e a rinverdire i fasti della compagnia sulle linee tradizionali. Tre di esse, quelle di maggiore stazza, erano destinate alla rotta australiana, la più classica della società triestina e furono tutte impostate sugli scali del cantiere San Marco. Il primo scafo scese in mare il 21 maggio 1950 con il nome di “Australia”, seguito dalla “Oceania” il 30 luglio e dalla “Neptunia” il 1° ottobre dello stesso anno. Le tre unità vennero rapidamente completate e iniziarono il servizio commerciale rispettivamente nell’aprile, agosto e settembre 1951. Le loro dimensioni erano: lunghezza m 161; larghezza m 21,1; altezza m 8,1; stazza lorda 12.839 tonn. Le navi si elevavano per sei ponti sopra la chiglia (di cui tre estesi per tutta la lunghezza) e avevano lo scafo suddiviso in dieci compartimenti stagni. La prora aveva andamento arcuato e leggermente sporgente in
avanti, la poppa era a incrociatore. Il castello risultava ben evidente, mentre il blocco delle sovrastrutture era contenuto nelle dimensioni e raccolto nella zona centrale. A poppa si trovava una bassa tuga separata dal resto. L’albero di segnalazione a tripode e il fumaiolo con il profilo aerodinamico erano anch’essi collocati a centro nave. I settori estremi erano occupati dalle attrezzature per la movimentazione delle merci, con due bighi a prua e uno a poppa. Esteticamente gradevoli e ben proporzionate, le navi denunciavano a prima vista la loro vocazione mista, a causa delle limitatezza delle sovrastrutture e della presenza del castello. Le sistemazioni per i passeggeri, divisi in tre classi, erano di buon livello, con alloggi e locali sociali arredati secondo il gusto moderno e funzionali. Esse potevano trasportare fino a un massimo di 792 persone, con un equipaggio di 235 uomini. L’apparato motore consisteva in una coppia di Diesel lenti Sulzer-C.R.d.A. (Cantieri Riuniti dell’Adriatico) a due tempi e ad effetto semplice, per una potenza complessiva di circa 14.000 CV su due eliche e una velocità di servizio di 18 nodi. Dopo alcuni anni di servizio onorevole sulla lunga rotta intercontinentale, nel 1959 tutte le unità della classe “Australia” vennero mandate in cantiere per una serie di lavori di ammodernamento, riguardanti specialmente le infrastrutture per i passeggeri. Nell’occasione, le classi furono ridotte a due e vennero soppressi i pozzi di carico prodieri, prolungando i castelli fino a congiungerli con il blocco delle sovrastrutture (di conseguenza la stazza crebbe arrivando a 13.140 tonn). Così migliorate, le tre navi continuarono ad operare in linea australiana per altri quattro anni, fino al 1963 quando, con l’entrata in servizio delle più moderne e lussuose “Galileo Galilei” e “Guglielmo Marconi”, vennero trasferite in blocco alla consorella “Italia Società Anonima di Navigazione” e impiegate per il collegamenti con il Centro America e il Sud Pacifico. Con il passaggio di proprietà esse furono ribattezzate rispettivamente “Donizetti”, “Rossini” e “Verdi” e negli ambienti marittimi dell’epoca divennero note come la classe “Musicisti”. Per tredici anni consecutivi frequentarono regolarmente gli scali di Guayaquil, Callao e Valparaiso, incontrando sempre il favore della clientela che amava il loro tranquillo procedere. Ma la loro lunga carriera volgeva ormai al termine e nel 1977 furono demolite presso un cantiere spezzino.
Franco Tommasino
Nave recuperi italiana
“Artiglio”
Modello navigante costruito a Genova nel 1997
Dimensioni: cm 90x17x50
Materiali: vetroresina, plastica, ottone, acciaio, stoffa,
legno e corda; su basamento di legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 030
Scala: 1:100
Scafo in vetroresina con forte insellatura; tuga poppiera; alto fumaiolo sopra la tuga; un’elica a quattro pale; due scialuppe; due maniche a vento ai lati del fumaiolo; due alberi, quello prodiero munito di bighi per il carico, uno dei quali è dotato di benna e l’altro di tenaglia; due picchi a proravia della tuga, uno con scafandro e l’altro con campana; tre boe gialle; un boccaporto con la copertura sollevabile; opera viva di colore rosso; opera morta di colore nero con striscia bianca orizzontale; tuga di colore giallo; plancia di colore bianco; fumaiolo di colore nero con striscia tricolore; antenna bipolare per radiocomunicazioni tesa fra i due alberi. “In occasione dell’anniversario della memorabile impresa compiuta dalla nave recuperi “Artiglio”, che aveva coperto di fama e di gloria tutta la marina italiana, non potei ignorare il desiderio di realizzarne un modello. Nel 1934, in pieno Atlantico, aveva recuperato tutto il tesoro della Banca dell’India, che si trovava a bordo del piroscafo inglese “Egypt”, affondato in seguito a collisione. Da dieci anni quelle ricchezze giacevano sul fondo del mare, a 150 metri di profondità, e nessuno era riuscito a riportarle a galla. I palombari italiani, quasi tutti di Viareggio, ebbero successo e in sei mesi recuperarono ben 8 tonnellate d’oro, 70 d’argento, 50 casse di sterline e altri valori. L’impresa suscitò ammirazione in tutto il mondo, per la
temerarietà che avevano dimostrato quegli uomini, visto che normalmente non ci si spingeva oltre i 50 m. Essi erano muniti di speciali scafandri ad alta resistenza che permettevano di raggiungere elevate profondità. Il modello, completo di verricelli e di scafandri, è stato realizzato in due esemplari: uno per il Museo Navale Internazionale del Ponente Ligure, di Imperia, e l’altro per il Museo Marinaro. Un cimelio interessante è la scatola di metallo contenente un documentario del 1924, anno dell’affondamento della nave, recuperata insieme al tesoro e donata al Museo dal palombaro Alberto Gianni. Il piroscafo “Artiglio” era stato costruito a Glasgow nel 1906 con il nome di “Macbeth”. Poi era stato acquistato da un armatore italiano e ribattezzato “Ideale”. Infine, passato di proprietà della SORIMA, aveva assunto il nome con il quale è passato alla storia. Le sue dimensioni erano: lunghezza m 46,85; larghezza m 7,01; altezza m 3,4; stazza 283,73 tonn. L’apparato motore comprendeva una macchina a vapore a triplice espansione da 650 CV e alcune caldaie. Il bastimento aveva tutte le caratteristiche necessarie per soddisfare le esigenze dei suoi armatori: non troppo grande, molto manovriero, capace di compiere rapide evoluzioni sul suo asse, dotato di robusti bighi di forza per sollevare oggetti pesanti, munito di potenti verricelli di tonneggio per spostarsi rapidamente in tutti i sensi ed equipaggiato con i più moderni sistemi di comunicazione interna ed esterna, scafandri e posti di manovra. Un duro compito lo attendeva: localizzare i relitti delle navi affondate e recuperarne il carico. Nell’agosto del 1928 il
Governo Inglese interpellò la SORIMA per affidarle l’incarico di recuperare le riserve della Banca dell’India, contenute nelle stive del piroscafo “Egypt”, affondato in seguito a collisione. Nel 1923 avevano incaricato di tentare il recupero la ditta inglese P. Sanderberg & J. Swinburne la quale, utilizzando dei rimorchiatori svedesi, aveva iniziato le operazioni di rastrellamento per trovare il relitto, ma senza successo. Nel 1926 era stata la volta della ditta francese Union d’Entreprises Sous Marines, che non aveva avuto miglior fortuna. Alla fine di agosto del 1928, la Sanderberg & Swinburne stipulò un contratto con la SORIMA per individuare il piroscafo e recuperare il tesoro. La prima operazione da compiere era un’accurata ricerca negli archivi della Prefettura Marittima di Brest, per trovare qualche documento che indicasse la posizione corretta del relitto. Fu rinvenuta l’ultima trasmissione radio della nave, ma si pensò che avessero più valore i rilevamenti radiogoniometrici, data la confusione che regnava a bordo al momento dell’incidente. L’ispezione del fondo venne compiuta per mezzo di una rete a strascico, costituita da un cavo di acciaio trainato dallo “Artiglio” e dal “Rostro”. Ogni volta che il cavo incontrava qualcosa, i palombari si tuffavano per ispezionarlo, ma si trattava quasi sempre di scogli sommersi. Solo in un’occasione sembrò di aver trovato qualcosa, quando il cavo si spezzò, indicando la presenza di un oggetto tagliente. L’equipaggio lanciò immediatamente una boa per segnalare la posizione, ma a causa delle avverse condizioni atmosferiche, le navi dovettero abbandonare le ricerche e rientrare precipitosamente. Quando fu possibile ritornare sul posto, la boa era ormai scomparsa, per cui non si riuscì a ritrovare il punto. Durante la seconda campagna, il 30 agosto 1930 la SORIMA localizzò il relitto a 46°06’N 05°30’W. A quel punto iniziarono le operazioni di recupero: nella prima fase occorreva demolire con le mine i cinque ponti che sovrastavano la camera del tesoro. A metà settembre, i lavori dovettero essere interrotti per il sopraggiungere del cattivo tempo e rimandati all’anno successivo. Approfittando della sosta invernale, le due navi assunsero l’incarico di liberare il canale di Quiberon e l’isola di Honat dallo scafo del piroscafo “Florence”, affondato nel 1918, che rappresentava un serio pericolo per la navigazione. La nave, che trasportava centinaia di tonnellate di esplosivi destinate alle truppe americane di stanza sul fronte Occidentale, era colata a picco in seguito ad uno scoppio nelle stive prodiere. Per nulla intimoriti, i palombari dello “Artiglio” ricorsero alle mine per demolire lo scafo, facendo esplodere oltre tre tonnellate di dinamite in due mesi senza che avvenisse alcun incidente. Ma il pericolo era sempre in agguato. Il 7 dicembre si verificò la tragedia: l’ennesima mina fatta brillare provocò lo scoppio delle 200 tonnellate di esplosivo che si trovavano a bordo. Un cratere di qualche centinaio di metri si formò sulla superficie dell’acqua e inghiottì lo “Artiglio” con tutto il suo equipaggio. Dodici uomini coraggiosi perirono tragicamente. I superstiti vennero salvati miracolosamente dal “Rostro” che si trovava nelle vicinanze. Nel 1931 venne acquistato un secondo “Artiglio”, l’ex piroscafo francese “Mauritaine”, costruito a Nantes nel 1908, le cui dimensioni erano: lunghezza m 50,76; larghezza m 7,64; altezza m 4,19; stazza 385 tonnellate; macchina a vapore a triplice espansione da 450 CV. Esso avrebbe sostituito l’esemplare affondato e, grazie alle sue maggiori dimensioni, sarebbe stato più idoneo all’impiego in una zona infida e tempestosa come l’imboccatura del Canale della Manica. I lavori di recupero del tesoro dello “Egypt” durarono sei mesi. All’inizio sul ponte giunsero soltanto pezzi di seta, cartucce e banconote, lasciando tutti nel più nero sconforto. Ma il 22 giugno, alle ore 14, comparvero i primi lingotti d’oro. Prima di continuare, fu osservato un minuto di silenzio per ricordare i compagni morti che avevano permesso la realizzazione dell’impresa. Tutto il tesoro fu recuperato, consolidando la fama della società, che cominciò a ricevere richieste da tutto il mondo.
Scafo della turbonave italiana
“Michelangelo”
sullo scalo di costruzione.
Modello costruito a Genova nel 1964
Dimensioni: scafo: cm 143x18x27 - scalo: cm 270x32x18
Materiali: scafo: polistirolo coibentato, plastica.
scalo di costruzione: legno, ottone, acciaio.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 036
Scala: 1:200
Un motore elettrico permette di far scorrere la nave sull’invasatura. L’autore del modello ha riprodotto in scala anche le catened’acciaio che servivano a frenare lo slancio dello scafo una volta raggiunta l’acqua. Nella realtà pesavano 550 tonnellate. La “Michelangelo” e la gemella “Raffaello” furono gli ultimi transatlantici costruiti per la società “Italia di Navigazione”. Pur essendo eccellenti sotto il profilo tecnico, risentirono molto delle ragioni non propriamente “economiche” per le quali si eradeciso di realizzarli. Essi, infatti, erano stati concepiti per esigenze occupazionali e di prestigio, ossia per dare lavoro ai cantieri italiani che perdevano sempre più colpi nei confronti della concorrenza straniera, in un periodo i profonda crisi del trasporto marittimo di passeggeri, ormai soppiantato da quello aereo. A conferma di ciò, la loro vita operativa fu molto breve e terminò con un prevedibile dissesto finanziario. La costruzione di ciascuna nave costò 45 milioni di dollari dell’epoca, una cifra colossale, del tutto spropositata per chi riteneva che lo Stato non dovesse impegnarsi direttamente in operazioni economiche così costose e di scarso rendimento. La “Michelangelo” venne impostata l’8 settembre 1960, sullo scalo più grande del cantiere Ansaldo di Sestri Ponente, lo stesso che aveva accolto il “Rex”. Fu varata il 16 settembre 1962, con una solenne cerimonia alla presenza
delle più alte autorità dello Stato. La fase di allestimento si protrasse per oltre due anni. Durante le prove fece registrare la velocità massima di 29,65 nodi sulla base misurata di Portofino. Finalmente, nell’aprile del 1965 venne consegnata all’armatore. Le sue dimensioni erano: lunghezza m 275,8; larghezza m 30,1; pescaggio m 9,3; stazza lorda 45.911 tsl; stazza netta 24.572 tsl. La sua struttura si elevava per undici ponti sopra la chiglia, cinque dei quali sovrastanti il ponte di coperta, e realizzati facendo ampio uso di leghe leggere per contenere i pesi. Il progetto si distaccava nettamente dai canoni stilistici classici e suscitò animate discussioni. Alcuni sostenevano che i due transatlantici non fossero all’altezza dello “Stile Italiano”, così come era stato apprezzato nel mondo dopo l’entrata in servizio del “Cristoforo Colombo” e del “Leonardo da Vinci”. Altri approvavano la coraggiosa soluzione della struttura a traliccio che alleggeriva la massa dei due fumaioli. Gli squilibri maggiori venivano riscontrati nell’impostazione volumetrica che, nonostante l’evidente riferimento agli eleganti modelli dell’anteguerra, non risultava adeguatamente proporzionata. Le ragione di questa scelta erano molteplici. Da un lato erano il frutto dei numerosi ripensamenti avvenuti nella fase progettuale, anche in seguito all’applicazione di teorie innovative nel campo dell’architettura navale, che non erano state perfettamente maturate e collaudate. Dall’altro derivavano dall’evoluzione delle tecniche costruttive, che proprio in quegli anni videro il passaggio dallo scalo a piano inclinato al bacino a piano orizzontale allagabile.
Questa soluzione favoriva il recupero delle forme rettilinee nello scafo, a tutto vantaggio della prefabbricabilità delle parti. In sostanza ciò comportava l’abbandono del tradizionale “cavallino”, l’insellatura longitudinale che tanta grazia conferiva alle costruzioni navali. Le due gemelle subirono parzialmente l’influenza delle nuove teorie ed ebbero prua e poppa insellate e corpo centrale rettilineo. Il risultato non fu eccezionale e lasciò non pochi dubbi ai progettisti, tanto che nelle costruzioni successive si tornò alle linee precedenti. Le discussioni più aspre riguardarono i fumaioli, molto spostati a poppavia, e costituiti da tralicci che sostenevano e circondavano le condotte di scarico dei fumi. Al di sopra si trovavano due massicce piattaforme di colore nero con funzione di deflettori. La scelta, assai coraggiosa, derivava da attenti studi e da prove aerodinamiche eseguiti presso il Politecnico di Torino, e caratterizzava nettamente le navi, che risultavano immediatamente riconoscibili anche nei porti più affollati. Entrambe potevano trasportare 1775 passeggeri, di cui 535 in prima classe, 550 in classe cabina e 690 in turistica. L’equipaggio era composto da 720 persone. Tutte le cabine erano provviste di servizi igienici indipendenti e offrivano un elevato standard qualitativo, degno dei migliori alberghi italiani di quel periodo. Le sale pubbliche, una trentina in tutto, comprendevano sale da pranzo, saloni per le feste, verande, passeggiate, un cinema da 489 posti e ampi spazi all’aperto, distribuiti sui vari ponti. Sei piscine, fra grandi e piccole, due per ciascuna classe, invogliavano le attività all’aperto, consolidando l’immagine della “Rotta del Sole”, che normalmente prevedeva i seguenti scali:
Genova-Cannes-Napoli-Algesiras-New York. L’apparato motore, progettato e costruito dallo Stabilimento Meccanico Ansaldo di Sampierdarena, era costituito da due gruppi di turbine tipo Parsons (Alta Pressione e Bassa Pressione), i cui rotori trasmettevano il moto agli assi per mezzo di un riduttore a doppia azione. Il vapore che le alimentava era generato da quattro caldaie a tubi d’acqua tipo Ansaldo-Foster Wheeler, munite di surriscaldatori ed economizzatori, alla pressione di 56 Kg/cmq e alla temperatura di 490°C.
Franco Tommasino
Turbonave italiana
“Michelangelo”
Scala: 1:200
Materiali:Modello navigante costruito a Genova nel 1964
Dimensioni: cm 141x16x38
legno di cirmolo, balsa ricoperta di Vipla,
ottone, plastica, acciaio, stoffa; su base legno.
Il modello è dotato di motori elettrici. Il radio-comando, a quattro canali simultanei, aziona le macchine, la timoneria, i quattro stabilizzatori e il radar. Tuga sollevabile per accedere al vano interno. Un interruttore permette di accendere le luci di bordo. Ecco la storia del modello secondo le parole dell’autore: “Nel 1960, finite le Olimpiadi di Roma, durante le quali ero stato impegnato con la RAI per trasmettere le varie fasi dei giochi, ritornai al mio lavoro normale, che mi lasciava molto tempo libero. Allora si risvegliò in me un desiderio che covavo sin dall’infanzia. Volevo costruire un bel modello, tutto per me, navigante, radiocomandato, da poter varare ecc. Essendo nato in un cantiere, l’unico spettacolo che mi sarebbe piaciuto vedere era la nascita di una nave, la costruzione e il varo. Un giorno ebbi l’occasione di andare a intervistare nel Cantiere di Sestri Ponente l’ingegner Cristofori, mentre stavano progettando due nuovi transatlantici, che avrebbero preso i nomi di “Michelangelo” e “Raffaello”, e gli espressi il mio desiderio. Lui mi accontentò e
mi fece avere il trittico, cioè i disegni di quelle nuove costruzioni (sezione longitudinale, sezione trasversale e ponti, ndc.). Mi misi subito all’opera cominciando con il procurarmi un blocco di legno di cirmolo, fatto con alcune tavole incollate. Lavorando di scalpello e pialla, venne fuori il profilo dello scafo, molto bello. Ma che faticaccia per scavarlo! All’inizio usai una trivella, e poi lo scalpello per giorni e giorni, finché ridussi le pareti sottili come le fiancate di una nave. Feci le prove in acqua per saggiarne la galleggiabilità e i risultati furono soddisfacenti. Cominciai allora le sovrastrutture. Non tenendo conto che nella nave vera erano di alluminio, abbondai troppo nei pesi e mi accorsi che lo scafo non reggeva. Pesava 1.500 grammi, mentre il massimo consentito era di 900, per cui dovetti ridurlo fino a che non trovai la giusta stabilità. Il modello assomigliava alla nave vera. Ero soddisfatto del mio lavoro. Appena finito, l’Ansaldo me lo richiese per fare delle fotografie e apparve in televisione nel
documentario “Ultimo Varo”. Il modello fu portato a bordo della “Michelangelo” durante le prove e il viaggio inaugurale in America e in seguito ha partecipato a centinaia di mostre.
La “Michelangelo” partì per una crociera inaugurale nel Mediterraneo il 12 maggio 1965. Alla fine dell’anno dovettero essere sostituite le eliche, che provocavano fastidiose vibrazioni, e la sua velocità massima salì a 31 nodi. Nell’aprile del 1966, la nave fu investita da una violenta tempesta in pieno Atlantico, mentre era in navigazione verso gli Stati Uniti. Onde alte più di dieci metri la investirono di prua, tanto che fu costretta a mettersi alla cappa per alcune ore. Un maroso gigantesco, la cui altezza fu valutata intorno ai quindici metri, si abbattè sulle sovrastrutture con una tale forza da sfondare parte delle lamiere e causare danni rilevanti. Due passeggeri e un membro dell’equipaggio persero la vita in quell’occasione. Con il passare del tempo, la gestione dei due transatlantici si fece sempre più onerosa, a causa degli alti costi operativi, tanto che le perdite superavano i 700 dollari per passeggero trasportato. Per recuperare in parte questo deficit, durante la bassa stagione venivano impiegati per delle crociere nei Caraibi, con partenza da New York. In seguito alla crisi petrolifera del 1973, che portò a livelli insopportabili il costo del carburante, la compagnia armatrice decise di ridurre il servizio di linea a pochi viaggi all’anno. Nel 1975 cessò il sussidio governativo e le due navi furono poste in disarmo e lasciate affiancate nella baia di Portovenere. Iniziò così la ricerca di qualche potenziale acquirente che volesse farsi carico del loro mantenimento. Ci fu anche la proposta di utilizzarle come cliniche galleggianti per la cura e la ricerca sul cancro. L’unica offerta accettabile fu quella formulata dal Governo Iraniano, che intendeva usarle come caserme galleggianti per gli ufficiali di marina e alloggio per i tecnici stranieri impegnati nella realizzazione di infrastrutture portuali nel Golfo Persico. Il contratto di cessione venne stipulato nel dicembre 1976 e subito dopo iniziarono i lavori di trasformazione per adattarle alle nuove condizioni operative.
L’8 luglio 1977, le due unità salparono per l’ultima volta le ancore dal porto di Genova. Attraversati il Canale di Suez e il Mar Rosso, doppiarono la punta meridionale della Penisola Arabica e raggiunsero le rispettive destinazioni nel Golfo Persico: la “Michelangelo” a Bandar Abbas e la “Raffaello” a Bandar Busheir, ove furono consegnate personalmente allo Shah di Persia Reza Palhevi. Dopo l’avvento della Repubblica Islamica nel 1979, esse furono lasciate in stato di semi-abbandono, prive di manutenzione e senza protezione. Nel corso della guerra con l’Iraq furono gravemente danneggiate da attacchi missilistici. Probabilmente il relitto della “Raffaello” giace ancora su un basso fondale nel Golfo Persico. La “Michelangelo”, invece, essendo capace di galleggiare, nel 1986 venne ceduta a un demolitore pakistano che provvide a rimorchiarla fino a Karachi e a smantellarla completamente.
Franco Tommasino
Nave soccorso italiana
“Bruno Gregoretti”
Modello navigante costruito a Genova nel 1975
Dimensioni: cm 123x25x56
Materiali: plastica, compensato e ottone; su basamento di plexiglass.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 038
Scala: 1:22
I tre motori elettrici azionano le eliche, i timoni, le luci e l’impianto di ammaraggio del battello (dopo aver aperto il portellone di poppa). Tuga sollevabile per accedere al vano interno. Anche il battello di salvataggio è dotato di un motore elettrico per la propulsione. La nave soccorso “Gregoretti” venne costruita in Germania nel 1965 per compiere salvataggi in mare in ogni condizione di tempo. E’ inaffondabile e trasporta a poppa un battello di soccorso anch’esso inaffondabile. La Marina Militare Italiana acquistò due di queste unità. La capoclasse salvò 160 persone rimaste intrappolate su un’isola durante una tempesta.
Franco Tommasino
Nave traghetto norvegese
“Winston Churchill”
Modello navigante costruito a Genova nel 1973
Dimensioni: cm 143x25x55
Materiali: compensato, plastica e ottone; su basamento di
legno e ottone.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 040
Scala 1:100
I motori elettrici azionano le eliche, i timoni e i portelloni. Tuga sollevabile per accedere al vano interno. Nella stiva possono essere alloggiati tre treni. Dal portellone di poppa si accede al primo ponte, dove si trova il garage in cui vengono ricoverati le auto e i camion. Il comportamento in acqua corrisponde a quello della nave reale, senza rollio.
La motonave “Winston Churchill” fu costruita nel cantiere di Riva Trigoso (GE) per conto di un armatore norvegese.
Collega regolarmente Oslo e Copenhagen e trasporta treni e automobili. Lunghezza m 120; larghezza m 20.
Franco Tommasino
Nave da crociera norvegese
“Southward”
Modello navigante costruito a Chiavari nel 1975
Dimensioni: cm 116x21x37
Materiali: vetroresina, compensato, plastica, ottone, rame
e gomma; su basamento di plexiglass
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 039
Scala 1:130
I motori elettrici azionano le eliche, i timoni e le luci. Inoltre avviano una musichetta e le luci psichedeliche nella discoteca. Tuga centrale sollevabile per accedere al vano interno. La motonave “Southward” fu costruita nel cantiere di Riva Trigoso (GE) per conto dell’armatore Lauritz Klosters di Oslo.
Può ospitare 500 passeggeri in classe unica per viaggi della durata di due settimane. In genere viene impiegata per crociere nei Caraibi, il più importante mercato mondiale del settore. All’interno dello scafo si trovano le cabine. La cucina e la sala da pranzo sono in coperta. Sul primo ponte si trovano cinema e teatro; sul secondo piscina, bar e discoteca.
Franco Tommasino
Rimorchiatore d’altura italiano
“Ciclone”
Dimensioni: Modello navigante costruito a Chiavari 1980
cm 90x20x49
Materiali: vetroresina, legno, plastica, ottone, gomma e
rame; su basamento di legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 046
Scala: 1:50
I due motori elettrici azionano rispettivamente l’elica e il timone. Il modello può rimorchiare un canotto con dentro un bambino di dieci anni. La nave venne costruita dal Cantiere Campanella di Savona per la flotta dei Rimorchiatori Riuniti in servizio nel porto di Genova. Dimensioni: lunghezza m 45; larghezza m 5. Si tratta del rimorchiatore d’alto mare più potente del Mediterraneo, attrezzato per i soccorsi e dotato di moderni sistemi antincendio.
Marietto Solari
Rimorchiatore Italiano d’altura
“Silvia” - Genova
Modello navigante costruito a Chiavari nel 1970
Dimensioni: cm 113x30x77
Materiali: legno, acciaio e ottone.
Collezione Giannina e Marina Solari
M.M.T.A. - Invent. n. 206
Scala: 1:22
Il modello è dotato di motore elettrico con riduttore di giri. Il rimorchiatore è una nave di tipo particolare, generalmente a elica, di piccola stazza e dotata di un potente apparato motore, addetta al rimorchio di altri natanti. A seconda che il servizio venga svolto nei fiumi, in porto o in mare aperto, si hanno rimorchiatori fluviali, portuali e d’alto mare. I primi due modelli presentano caratteristiche simili, a parte il fatto che nei rimorchiatori fluviali l’albero e il fumaiolo sono abbattibili per poter passare sotto i ponti. L’ultimo invece ha uno scafo alto e robusto, destinato a sostenere il mare anche in condizioni avverse. I rimorchiatori sono muniti di un attacco ad arco, con un robusto paranco, al quale si fissa il gancio del cavo da rimorchio in modo tale che possa scorrere liberamente, consentendo perciò la massima libertà di evoluzione. Come mezzi di rimorchio si utilizzano cavi di nylon, canapa o manilla. La loro sezione deve essere tale da resistere allo sforzo di trazione, mentre la lunghezza dipende dal dislocamento del bastimento rimorchiato, dal raggio di evoluzione dello stesso e dalle condizioni del mare. In genere il cavo è corto per le operazioni nei porti, nei fiumi e nei canali, e aumenta fino a 150 m e oltre per i traini in alto mare. Quando si tratta di rimorchiare unità molto lunghe e di elevato dislocamento, operano più mezzi contemporaneamente. Per muovere una nave all’ancora, il rimorchiatore si pone a conveniente distanza a proravia. Dopo aver steso e sistemato i cavi, salpa per primo, avanza adagio e poi si ferma (in modo da vincere a poco a poco l’inerzia della nave ferma). Infine avanza nuovamente sino a a raggiungere il tutta forza. Particolari difficoltà presenta il rimorchio di una nave alla deriva al largo o con cattivo tempo. Per stabilire il collegamento, si usano razzi lanciasagole, oppure un galleggiante a rimorchio che vada a urtare contro il bordo della nave, in modo da poter essere recuperato e servire per stendere il cavo. Durante la navigazione con rimorchio, la velocità del rimorchiatore deve essere quanto più possibile uniforme e nelle accostate (che non devono superare i 10°) la nave rimorchiata deve governare in modo tale che la sua prora si allontani il meno possibile dal prolungamento dell’asse longitudinale del rimorchiatore. Quando il rimorchio viene eseguito da più battelli, quello di maggior potenza si pone il più vicino possibile al bastimento rimorchiato. Per lasciare il rimorchio, il rimorchiatore molla i cavi e il rimorchiato da fondo, oppure, se deve entrare in porto, viene assistito dai rimorchiatori portuali. Nelle manovre in porto si seguono vari procedimenti, a seconda delle circostanze. Per brevi percorsi e nave relativamente piccola si usa un solo rimorchiatore a prora. Con nave lunga e per evoluzioni in acque ristrette, si usano due rimorchiatori, uno a prora e l’altro a poppa, con la funzione di rettificare le accostate e facilitare i cambiamenti di rotta, oppure uno a prora e due a poppa.
“Gritta”
Dimensioni: cm 62x19x46
Materiali: legno, corda, stoffa, ottone e acciaio; su basamento di legno.
Donazione Mauro Costa
M.M.T.A. - Invent. n. 050
Scala 1:35
Scafo a ossatura e fasciame; tuga prodiera; bigo a centro nave; boccaporto poppiero, sollevabile per accedere al vano interno; timone a barra, mobile; elica girevole; parabordi; due reti da pesca; verricello; radar; fanale; luci di via; tre maniche a vento; opera viva di colore rosso; chiglia di colore nero; opera morta di colore grigio, con striscia nera orizzontale.
Motonave da carico italiana
“Spiga”
Modello costruito a Chiavari nel 1960.
Dimensioni: cm 105x15x40
Materiali: legno, corda, stoffa e acciaio.
Donazione Graziella Locco
M.M.T.A. - Invent. n. 143
Scala: 1:120
L’autore del modello fu imbarcato sulla nave come elettricista durante gli anni Cinquanta.
Scafo svuotato all’interno; casseretto a poppa; cassero centrale esteso sino alle murate; castello a prua; due bighi e un picco per il carico delle merci; quattro boccaporti per l’accesso alle stive, di cui uno a due portelloni; le gru possono essere azionate a mano per sollevare i portelloni; un’elica a quattro pale; fumaiolo corto sulla tuga centrale; opera viva di colore rosso; opera morta di colore nero; sovrastrutture di colore bianco; fumaiolo di colore rosso con bordo nero in alto; a poppa sventola la bandiera panamense; due scialuppe di salvataggio sul cielo della tuga centrale e due più piccole sul casseretto di poppa.
Franco Tommasino
Nave antincendio italiana
“Santa Barbara”
Materiali: Modello navigante costruito a Genova nel 1975
Dimensioni: cm 92x26x48
compensato, vetroresina, ottone, plastica; su
basamento di plexiglass.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 048
Scala: 1:20
I motori elettrici azionano le eliche, i timoni, il braccio mobile, gli idranti, e i proiettori. Tuga sollevabile per accedere al vano interno. La nave VF 208 venne costruita nel cantiere Campanella di Savona per conto dei Vigili del Fuoco e presta servizio nel porto di Genova. Lunga 20 metri, veloce e maneggevole, è dotata dei più moderni sistemi per spegnere incendi sulle navi. Ha un braccio telescopico che porta il getto oltre i 20 metri e altre bocche mobili per lancio o esaurimento.
Franco Tommasino
Nave trivella italiana
“Saipem II”
Modello costruito a Genova nel 1981
Dimensioni:
Materiali: cm: 138x29x79
compensato, vetroresina, plastica e ottone; su
basamento di legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 049
Scala 1:100
I motori elettrici azionano le eliche, i timoni, le gru, la trivella e le luci. La nave per ricerche petrolifere “Saipem II” fu costruita dall’Italcantieri di Trieste per conto della SAIPEM, società del gruppo ENI, nel 1972. Le sue dimensioni sono: lunghezza m 122,5; larghezza m 21,9; altezza m 12,2; immersione a pieno carico m 6,8. La nave può operare fino alla profondità di 2.000 piedi e può trivellare sino a 25.000 piedi. E’ dotata di un sistema di posizionamento dinamico, basato su eliche radiali e cicloidali, controllate da due computer identici. Un sistema convenzionale di ormeggio a otto ancore può essere utilizzato fino a 600 piedi di profondità. Entrambe le soluzioni hanno dato ottimi risultati nella prospezione dei giacimenti del Mare del Nord. L’equipaggio è composto da 98 persone.
Franco Tommasino
Hovercraft inglese
“Mario Tommasino”
Modello navigante costruito a Chiavari nel 1988
Dimensioni: cm 83x38x40
Materiali: compensato, vetroresina, polistirolo, nylon,
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 051
Scala 1:100
Il modello ha un motore a scoppio da 1 CV che aziona un’elica tripala rivolta verso il basso. Comprimendo l’aria sotto lo scafo, essa fa gonfiare il grembiule e sollevare il natante. Un’elica bipala, posta sul castello di poppa in mezzo ai due timoni, imprime la spinta in avanti. Il natante più muoversi sia in acqua sia a terra.
L’inglese Christopher Sydney Cockerell, dopo aver partecipato alla Seconda Guerra Mondiale come ingegnere radiotecnico, si dedicò alla progettazione di imbarcazioni ad alta velocità. Constatando come l’attrito con la superficie dell’acqua e la resistenza d’onda riducessero le prestazioni dei natanti, si chiese come risolvere il problema. Fra i suoi appunti egli annotava: “Se potessi fare della carena una superficie d’aria, l’attrito con l’acqua diventerebbe trascurabile”. Nel corso di vari esperimenti, collocò una scatoletta di cibo per gatti dentro una scatola di caffè e, con un tubo di aspirapolvere opportunamente adattato, soffiò dell’aria nell’intercapedine fra le due lattine. Misurando i risultati con una bilancia da cucina, scoprì che il getto d’aria forzato attraverso l’intercapedine, esercitava sul piatto della bilancia una pressione tre volte superiore a quella del getto d’aria emesso normalmente dall’aspirapolvere. Basandosi sullo stesso principio, progettò uno scafo sorretto da un cuscino d’aria, pompata verso il basso attraverso una serie di fessure, e lo brevettò nel 1955. La prima imbarcazione di dimensioni utili al trasporto di persone gli fu commissionata da una società inglese dell’Isola di Wight, che poi sarebbe divenuta la British Hovercraft Corporation. Chiamato SR.N1, l’hovercraft venne presentato per la prima volta al pubblico l’11 giugno 1959, destano enorme impressione. Con una stazza di 7 tonnellate, sembrava una zattera munita di fumaiolo, ma aveva un’agilità e una velocità sorprendenti. Le manovre che poteva eseguire erano veramente stupefacenti: anziché scivolare, si sollevò dalla rampa di cemento dello scalo di alaggio, si lanciò in mare, procedendo ad un’altezza di circa 20 cm dalla superficie, ruotò di 180° sul suo
asse e si spostò a marcia indietro. Quella stessa estate, munito di un motore ausiliario, raggiunse una velocità di ben 60 nodi. Il 25 luglio 1959, nel 50° anniversario del primo volo di Blériot attraverso la Manica, compì la prima traversata verso la Francia, pilotato dallo stesso Cockerell. Alla fine dell’anno, l’SR.N1 fu equipaggiato con il primo modello di “gonna” (una cintura di tessuto gommato alta 30 cm stesa intorno al fondo piatto dello scafo) che, trattenendo l’aria pompata dall’alto ed espulsa attraverso le fessure in basso, funzionava da economizzatore di energia, evitando le dispersioni, nonché da ammortizzatore e da sospensione, attutendo i sobbalzi troppo bruschi. Meno di due lustri dopo, il 31 luglio 1968, l’hovercraft N4, da 170 tonn., con 254 posti passeggeri e 30 posti auto, iniziò il regolare servizio di traghetto sulla Manica, fra Dover e Boulogne-sur-Mer. Negli hovercraft da trasporto, l’aumento di peso e di dimensioni non comporta una crescita proporzionale nei consumi di energia e di combustibile. Una versione modificata dell’N4, entrata in servizio nel 1978, era in grado di trasportare un carico maggiore del 70% rispetto alla versione normale, e cioè 424 passeggeri e 55 vetture, ad un costo superiore solo del 15%. Il tipo Mark III era munito di una gonna di forma leggermente rientrante, lunga 7 m, capace di assorbire onde alte fino a 4,5 m. Le caratteristiche anfibie dell’hovercraft ne fanno il mezzo adatto alla navigazione in zone paludose o su acque coperte da banchi di ghiaccio.
Gli N5 vennero utilizzati dai marines americani nel delta del Mekong, durante la guerra del Vietnam, inquadrati nella famosa “Riverine Force”, che aveva il compito di sostenere le operazioni terrestri e recuperare i piloti caduti in territorio nemico. La polizia di Hong Kong li utilizza per la lotta al contrabbando con la Cina, mentre l’Arabia Saudita li impiega nel pattugliamento delle acque costiere del Golfo Pesico. Gli aeroporti di San Francisco negli Stati Uniti, Vancouver in Canada e Auckland in Nuova Zelanda, circondati da acque basse o paludose, ne sono dotati per il servizio di salvataggio. Alcuni hovercraft sono ancora in servizio fra Hong Kong e Macau e fra la colonia inglese e le altre isole del delta del Fiume delle Perle, ma tendono sempre di più ad essere sostituiti dagli aliscafi, specialmente i grandi Jumbocat costruiti dalla Boeing, muniti di potenti idrogetti e molto confortevoli. In Canada si è constatato che l’hovercraft può fungere anche da rompighiaccio, se la lastra non è troppo spessa, grazie alla pressione dell’aria che viene espulsa verso il basso.
Franco Tommasino
Aliscafo passeggeri
“Beppino” - della classe russa “Kometa”
Modello navigante costruito a Chiavari nel 1985
Dimensioni:cm 125x43x40
Mteriali: alluminio, legno, rame, acciaio, ottone, bronzo,
plastica, fibra di vetro e polistirolo, base legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 033
Scala: 1:32.
Il modello rappresenta uno degli aliscafi passeggeri in servizio fra Piombino e l’Isola d’Elba. E’ dotato di un motore a scoppio da 1,2 CV e pesa circa 6 Kg. Il radiocomando aziona le eliche, i timoni, le luci e la sirena. Aumentando la velocità si solleva progressivamente sulle ali. Il primo aliscafo sovietico della classe “Kometa” fu costruito nel 1961 dai Cantieri di Leningrado (San Pietroburgo), sviluppando le concezioni dell’ingegnere tedesco von Schertel. Grazie alla linea elegante e all’economicità di esercizio, le unità di questo tipo ebbero larga diffusione nel mondo. Nel 1968-69 uscì la serie M, con modifiche ai motori, al radar e alle ali posteriori, oltre ad un miglioramento generale dell’abitabilità. La navigazione in condizioni di mare mosso è garantita sulle ali con onde fino a 2 metri di altezza e in dislocamento con onde fino a 3 metri. Dimensioni: lunghezza m 35,1; larghezza m 9,6; altezza m 6,9; dislocamento a vuoto 42 tonn.; dislocamento a pieno carico 57 tonn.; capienza 116 persone; equipaggio 5 uomini. La propulsione è fornita da due motori Diesel da 1.100 CV, per una velocità di 34 nodi. La navigazione ad alta velocità ha sempre comportato dei problemi e neppure l’introduzione dei motori a combustione interna è riuscita a risolverli. Un natante è tanto più veloce quanto più il suo scafo ha una forma adatta a vincere la resistenza dell’acqua, utilizzando il minimo della forza propulsiva. La resistenza dell’acqua all’avanzamento è la risultante di diverse resistenze parziali: quella derivante per l’attrito, quella provocata dalle onde suscitate dal passaggio dello scafo e quella causata dai vortici che si formano a poppa. Seppure in misura inferiore, anche l’aria ostacola l’avanzamento. Infine va aggiunta la cosiddetta “resistenza da propulsione”, causata dalle perturbazioni generate nell’acqua dalla rotazione delle eliche. Quindi, per guadagnare in velocità, occorrono scafi robusti e leggeri, di forme particolari, atti a sollevarsi sull’acqua, in modo da eliminare
in tutto o in parte la resistenza. In questo modo si ottiene la cosiddetta “navigazione planata”, diversa da quella immersa perché, grazie al sostentamento dinamico parziale, il natante può staccarsi dal sistema di onde che produce, lasciando l’onda lontana a poppa. A questo scopo vennero studiate delle carene speciali. Le prime erano di forma arrotondata, poi seguirono quelle con il profilo a “V” molto acuta a prua e ad angolo ottuso a poppa. In seguito furono realizzate carene con gradini trasversali (redan) che permettevano il sollevamento dello scafo, facendolo poggiare sullo spigolo del gradino. Infine vennero introdotti gli scafi a tre punti, costituiti da due elementi a forma di parallelepipedo, detti “scarponi”, posti lateralmente allo scafo a fondo piatto. Appoggiandosi sull’elica immersa e sugli spigoli degli scarponi -da cui il nome a tre punti- grazie all’aria che vi si incanalava, lo scafo aveva maggiori possibilità di sollevarsi. In base a tali esperienze, si pensò di munire le carene di piccole superfici d’appoggio, o pattini, opportunamente profilate, che consentissero allo scafo di rimanere emerso durante il moto. Chiamati “ali” per la loro somiglianza con le ali degli aerei, essi diedero il nome a un particolare tipo di scafo e di natante. L’aliscafo può avere l’ala che sfiora la superficie dell’acqua o l’ala immersa. La propulsione è fornita da eliche marine, aeree o da idrogetti. Quest’ultimo sistema consiste nel proiettare in senso contrario al moto una certa massa d’acqua, aspirata a prua e pompata verso
poppa a forte pressione, determinando una reazione che spinge in avanti l’imbarcazione. Alla fine del XIX secolo, con
l’introduzione del motore a combustione interna, si cominciò a costruire motoscafi veloci muniti di carene speciali. Ulteriori studi, compiuti nei primi anni del nostro secolo in base ai primi esperimenti aeronautici, portarono a realizzare delle imbarcazioni propulse da un’elica aerea e dotate di carena planante, chiamate idroplani. Fu un ingegnere italiano, Enrico Forlanini, famoso progettista di mezzi aerei, come l’elicottero e il dirigibile, a studiare e sperimentare per primo battelli ad alta velocità. Egli sviluppò l’idroplano con l’introduzione di alette sostentatrici che, a certe velocità, mantenevano emerso lo scafo durante la navigazione. Nacque così l’aliscafo. Tra il 1902 e il 1904, l’ing. Forlanini ne realizzò sette esemplari, con alette di forma diversa e propulsione a elica immersa o aerea, e li provò sul Lago Maggiore. Il suo idroplano N° 7, costruito nel 1904, dotato di un motore da 100 CV ed elica aerea, raggiunse la velocità di 82 Km/h. Nel 1914 ne vendette i brevetti ad Alexander Graham Bell, l’inventore del telefono. Questi costruì negli Stati Uniti un grande idroplano, pesante circa 5 tonnellate, dotato di un motore da 700 CV, che era in grado di raggiungere la spettacolare velocità di 112 Km/h. Nel 1927, la compagnia di navigazione tedesca Colonia-Dusseldorf ordinò il primo aliscafo per il trasporto di passeggeri sul Reno ad Hans von Schertel. Negli anni Cinquanta ci fu un rinnovato interesse per questo tipo di imbarcazioni. Negli Stati Uniti, la Lockheed realizzò una cannoniera ad ala immersa e la Boeing ne costruì una versione a idrogetto. Anche l’U.R.S.S. fabbricò grandi aliscafi, sia a scopi militari, sia per il trasporto di passeggeri. Nel 1954, i Cantieri Rodriguez di Messina vararono il primo aliscafo ad “ali portanti” del mondo, con una stazza di 27 tonn. e una capienza di 80 passeggeri. Nel 1982, ai vari modelli che prestavano servizio lungo le coste e sui laghi italiani, si aggiunse il “Superjumbo”, costruito dal medesimo cantiere, un vero gigante nel suo genere, con una capacità di trasporto di 250 passeggeri e un sistema elettronico di stabilizzazione controllato da un computer, per assicurare le migliori condizioni di comfort e di sicurezza ai viaggiatori.
Nave cisterna italiana
“Entella”
Modello galleggiante costruito a Genova nel 1963
Dimensioni: cm 107x15x20
Materiali: lamierino zincato e legno; su basamento di plexiglass.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 041
Scala: 1:200
Opera viva di colore rosso; opera morta di colore nero; sovrastrutture di colore bianco; fumaiolo di colore azzurro con strisce gialla, rossa e gialla; tuga centrale; fumaiolo poppiero; un’elica; un timone; è possibile aprire un boccaporto a prua e i portelloni di accesso alle cisterne.
Franco Tommasino
Nave antincendio tedesca
“Weser”
Modello navigante costruito a Genova nel 1976
Dimensioni: cm. 109x24x48
Materiali: vetroresina, plastica, compensato, rame e
gomma; su basamento di plexiglass.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 047
Scala 1:50
I motori elettrici azionano le eliche, i timoni, la gru, gli idranti e i proiettori. Tuga sollevabile per accedere al vano interno. La nave prestò servizio nel porto di Amburgo. Molto veloce, è dotata di tre bocche antincendio e di una sala di pronto soccorso per curare gli ustionati.
Modelli di barche a motore
• Offshore italiano “Marina Yachting”
• Offshore italiano “Franco Tommasino”
• Motoscafo d’altura italiano “Andrea” (tipo Pegasus III)
• Mezzo d’assalto italiano tipo “Maiale”
• Motoscafo d’altura italiano tipo Paraggina “Gino Solari”
• Motoscafo d’altura italiano “Erminia II”
• Motoscafo a celle solari tipo “Ansaldo”
• Motovedetta italiana della Guardia di Finanza
• Idrogetto a carena Hunt “Claudio Tommasino”
Franco Tommasino
Offshore italiano
“Marina Yachting”
Modello navigante costruito a Chiavari nel 1989
Dimensioni: cm 66x24x21
Materiali: compensato, plastica, rame, gomma; su
basamento di legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 052
scala1:10
Il modello è la copia fedele del motoscafo di Gianfranco Campolucci, vincitore dei Campionati Italiani ed Europei del 1987 Classe 3 - 2LT. Il motore elettrico è posto fuoribordo. Il termine inglese “offshore”, corrispondente all’italiano “altura”, indica un tipo di motoscafo da competizione capace di navigare ad alta velocità anche con mare mosso.
Franco Tommasino
Offshore italiano
“Franco Tommasino”
Modello navigante costruito a Genova nel 1970
Dimensioni: cm 123x40x25
compensato, vetroresina, plastica, ottone,
Materiali: acciaio, rame e gomma; su basamento di legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 053
Scala 1:35
Derivato dal modello del Campbell, è dotato di un motore a scoppio Olson Rice da 1 CV a 7.000 giri/min., che aziona l’elica e il timone, e può raggiungere la velocità di oltre 90 Km/h.
Franco Tommasino
Motoscafo d’altura italiano
“Andrea”
(tipo Pegasus III).
Modello navigante costruito a Genova nel 1988
Dimensioni: cm 122x26x42
Materiali: compensato, plastica, acciaio e ottone; su
basamento di legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 058
Scala: 1:20
I tre motori elettrici azionano le due eliche e il timone. Tuga sollevabile per accedere al vano interno.
Luigi Faggioni
Mezzo d'assalto italiano
“MAIALE”
Modello fabbricato in Italia nel 1970 circa
Dimensioni: cm 28x3x5,5
Materiali: plastica
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 045
Scala 1:35
La parte poppiera può essere asportata per caricare la batteria, che aziona l’elica poppiera. Due incursori sono a cavalcioni del mezzo. Il termine “maiale” entrò in uso durante la Seconda Guerra Mondiale per designare un mezzo d’assalto speciale, ideato e costruito per attaccare le navi in porto. Era costituito da un siluro lungo 6,70 metri, a cavalcioni del quale montavano due operatori, il pilota e il suo aiutante, muniti di apparecchi per la navigazione subacquea. Il siluro aveva una testata estraibile con circa 300 Kg di esplosivo. Il suo motore elettrico aveva un’autonomia di 10 miglia e permetteva di navigare sia in superficie, sia in immersione. Il mezzo veniva trasportato nelle vicinanze dell’obiettivo da una nave appoggio, come accadde nell’assalto a Gibilterra, o fissato sopra la coperta di un sommergibile, come accadde nel raid contro Alessandria d’Egitto.
Marietto Solari
Motoscafo d’altura italiano tipo Paraggina
“Gino Solari”
Modello di cantiere galleggiante costruito a Chiavari nel
1975 circa.
Dimensioni: cm 184x42x64
Materiali: legno di teak, legno tamburato, metallo, stoffa
e plexiglass.
Collezione Giannina e Marina Solari
M.M.T.A. - Invent. n. 202
Scala: 1:11
Apparteneva alla serie “Paraggina”, progettata e costruita da Gino Solari, figlio di Marietto, nel Cantiere Navale di Chiavari verso il 1970. Poteva raggiungere una velocità di 40 nodi.
Franco Tommasino
Motoscafo d’altura italiano
“Erminia II”
Modello navigante costruito a Chiavari nel 1975
Dimensioni cm 195x34x74
Materiali: vetroresina, legno, plastica, alluminio e ottone;
su basamento di legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 054
Scala: 1:10
Il natante fu costruito a Chiavari nel 1980, presso il cantiere navale di Mariano Dellepiane (ex Gotuzzo). Apparteneva alla serie Paraggina, progettata da Gino Solari, e poteva raggiungere una velocità di 40 nodi. Tuga sollevabile per accedere al vano interno. Gommone di servizio con motore fuoribordo sospeso a poppa. Il modello è dotato di un motore a scoppio da 1 CV. Il radiocomando controlla il motore, l’elica, la timoneria, il radar, le trombe e le luci. La plancia e il saloncino sono stati riprodotti fedelmente in base ai piani originali, con televisione, bar, tavoli, camere da letto ecc.
Franco Tommasino
Motoscafo a celle solari
tipo “Ansaldo”
Modello navigante costruito a Chiavari nel 1980
Materiali: Dimensioni: cm 71x25x14
vetroresina, plastica, ottone, vetro, gomma e
legno; su basamento di legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 055
Scala: 1:35
Pannello solare sollevabile per accedere al vano interno. Il modello ha dodici celle solari fotovoltaiche monocristalline, prodotte dall’Ansaldo di Genova, che assorbono calore dai raggi del sole e lo trasformano in energia elettrica, con una tensione di 9 Volt e un’intensità di 0,6 Amp. Esse alimentano due motori elettrici da 8 Volt e 0,4 Amp., che azionano due eliche da 45 giri/min. La corrente residua serve a caricare una batteria in tampone per il radiocomando.
Franco Tommasino
Motovedetta italiana della Guardia di Finanza
“V 208”
Modello navigante costruito a Genova nel 1990
Dimensioni: cm 105x26x49
Materiali: compensato, plastica e ottone; su basamento di legno.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 056
Scala 1:20
Tuga e basamento del gommone sollevabili per accedere al vano interno; il motore elettrico aziona le due eliche e i due timoni. Costruita dal cantiere Baglietto di Varazze, ha le seguenti caratteristiche: lunghezza m 20,1; larghezza m 5,2; immersione m 1,67; dislocamento tonn. 40; due motori Diesel CRM da 1350 CV; velocità massima 35 nodi; velocità di crociera 20 nodi; autonomia 600 miglia; scafo in legno; una mitragliatrice da 20 mm; equipaggio 9 uomini.
Franco Tommasino
Idrogetto a carena Hunt
“Claudio Tommasino”
Modello navigante costruito a Chiavari nel 1975
Dimensioni: cm 132x31x27
Materiali: legno, plastica, gomma, acciaio e ottone.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 057
Scala 1:35
Il modello monta un idrogetto Castoldi. L’idrogetto è un tipo di propulsore navale costituito da una presa dinamica, una pompa centrifuga assiale e un ugello, fisso oppure orientabile. La pompa, tramite la presa, aspira acqua dall’ambiente esterno e la espelle attraverso l’ugello, a una velocità molto maggiore rispetto a quella di avanzamento dello scafo, creando una spinta per la variazione della quantità di moto. Variando l’orientamento dell’ugello, si può cambiare anche la direzione del moto. Gli idrogetti vengono impiegati come propulsori degli aliscafi o delle imbarcazioni da diporto veloci. Per la loro sicurezza, possono essere usati vantaggiosamente in acque sporche e basse o in zone frequentate dai bagnanti. Il primo esperimento di navigazione in mare con il sistema descritto, seppure in forma embrionale, fu eseguito nel 1882 dalla nave a idromotore Fleischer.
Mezzi scafi
• Mezzo scafo di cantiere o Busca’ di grande veliero oceanico a 3 alberi brigantino a palo (1.200 t di stazza)
• Mezzo scafo del Brigantino a Palo “Fidente” (Cantieri Gotuzzo)
• Mezzo scafo di gozzo ligure con prora a cornigiotto
• Mezzo scafo di imbarcazione ligure a remi, a poppa quadra
• Mezzo scafo di imbarcazione ligure a remi, a poppa quadra
Mezzo scafo di cantiere o Busca’
di grande veliero oceanico a 3 alberi
brigantino a palo (1.200 t di stazza)
Liguria, primo quarto del secolo XIX
(c’è la scritta “Legno - epoca 1830 - 1840”)
Dimensioni: cm 100x13x18
Materiali: legno di pino verniciato.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 123
Scala 1:60
Sul pannello si trova la scritta: Legno epoca 1830-1840. Misure in pollici e piedi inglesi risultati tra le perpendicolari mt. 52,50 di lunghezza - mt. 12,50 di larghezza mt. 9,50 di puntale - Stazza 1.200 tonn.
Coefficenti di finezza, indice dei massimi. Nel XIX secolo, uno degli strumenti più importanti per la costruzione di una nave era il mezzo scafo. L’armatore e il costruttore stabilivano le dimensioni e le caratteristiche del futuro bastimento in base al catalogo delle opere realizzate precedentemente dal cantiere. L’archivio corrente della ditta era costituito dalla collezione dei mezzi modelli, che dimostravano con efficacia le capacità architettoniche e ingegneristiche dei maestri d’ascia. Nei cantieri civili di piccole e medie dimensioni, che lavoravano per armatori privati o società d’armamento, non si costruivano grandi modelli interi, sfarzosamente decorati e armati con cannoni di ottone in miniatura, ma ci accontentava di oggetti più semplici e meno costosi, che mettessero in luce soprattutto le linee d’acqua, il vero marchio di fabbrica di ogni costruttore. Linee filanti o panciute, prore dritte o arcuate, poppe tonde o quadre, cavallino accentuato o coperta quasi dritta: queste erano le caratteristiche fondamentali che dovevano risaltare da un modello. Una volta concordate le misure di massima, i falegnami del cantiere realizzavano un mezzo scafo di prova e lo sottoponevano al giudizio del committente. Se questi si dichiarava soddisfatto, i disegnatori lo prendevano in consegna e ne traevano il trittico in scala, ossia la sezione longitudinale, la sezione trasversale e la vista dall’alto. In caso contrario i falegnami apportavano tutte le modifiche necessarie a soddisfare le esigenze dell’acquirente, a forza di pialla e tela smeriglio. Solo alla fine si riportava il disegno a grandezza naturale sul pavimento della cosiddetta “sala a tracciare”, il vero cuore del cantiere, dove la nave prendeva forma prima di essere montata sullo scalo e dove venivano tagliate e sagomate le ordinate. Per i bastimenti più grandi, i mezzi scafi erano incollati su pannelli di legno lunghi da uno a due metri, a seconda delle loro dimensioni. Talvolta lo scafo poteva essere dipinto a vivaci colori, con l’opera viva, la linea di galleggiamento, la fiancata e le dotazioni (timone, assi, eliche ecc.). In altri casi era semplicemente verniciato in nero, in verde o a legno lucido. I mezzi modelli venivano costruiti con tavole di legno incollate una sopra l’altra, il cui spessore rappresentava esattamente, in scala, la misura di un metro o di una yarda. In quelli trattati a legno lucidato, si intercalavano tavole di mogano e tavole di abete, o di frassino, comunque legno scuro e legno chiaro, in modo da rendere più evidente l’andamento delle linee d’acqua da prua a poppa. Anche per il ponte non si lasciava molto spazio alla fantasia e ci si accontentava di una raffigurazione sommaria dell’argano, del castello, della cucina, della tuga a centro nave, della plancia e della timoneria sul cassero, dei vari boccaporti e delle maniche a vento. Gli alberi si riducevano a dei tronconi poco più alti del bordo. Il tutto era netto e preciso, fatto per poter prendere le misure con il compasso a punte fisse. L’unica concessione al lusso era rappresentata da una targa in ottone con su inciso il nome del bastimento, le sue principali caratteristiche, il nome del cantiere e le date dell’impostazione e del varo.
Mezzo scafo del Brigantino a Palo
“Fidente” (Cantieri Gotuzzo)
Chiavari, 1921
Dimensioni: cm. 106x14x15
Materiali: legno teak verniciato
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 124
Scala 1:42
Fu l’ultimo dei grandi velieri varato agli “Scogli”, nei cantieri Gotuzzo, nel 1922.
Mezzo scafo di gozzo ligure con prora a
cornigiotto
Chiavari, seconda metà del secolo XX
Dimensioni: cm 50x8x7
legno di mogano verniciato
Materiali: Donazione Nanni Ceglie
M.M.T.A. - Invent. n. 125
Scala: 1:20
Mezzo scafo di imbarcazione ligure a remi, a poppa quadra
Chiavari, seconda metà del secolo XX
Dimensioni: cm 45x8x6
Materiali: legno di mogano verniciato
Donazione Nanni Ceglie
M.M.T.A. - Invent. n. 126
Scala 1:12
Tipo di barca usata per la pesca dei polipi
Mezzo scafo di imbarcazione ligure a remi, a poppa quadra
Chiavari, seconda metà del secolo XX
Dimensioni: cm 34x7x7
Materiali: legno di mogano verniciato
Donazione Nanni Ceglie
M.M.T.A. - Invent. n. 127
Scala 1:18
Tipo di barca usata per la pesca dei polipi
Modelli di motori
• Macchina a vapore con pistone a doppio effetto, con eccentrico
• Macchina a vapore con cilindro oscillante
• Caldaia a vapore diretto con macchina a doppio effetto
• Caldaia a vapore
• Caldaia a vapore diretto con macchina bicilindrica a doppio effetto
Macchina a vapore con pistone
a doppio effetto, con eccentrico
Modello costruito in Italia nel 1910 circa
Dimensioni cm 10x14x26
Materiali: ottone e ferro, su basamento in piombo.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 128
Un apparato motore navale a vapore consiste di due parti distinte: un generatore di vapore (caldaia) nel quale si produce il fluido necessario ad alimentare la motrice, e una macchina vera e propria, in cui l’energia del vapore aziona i meccanismi atti a far girare la ruota a pale o l’elica. Nel periodo iniziale della propulsione a vapore, le caldaie, di forma parallelepipeda, erano fatte con lamiere di rame e avevano dei tiranti interni per rinforzarne la struttura. Presto si cominciò a usare il ferro come materiale da costruzione, ma l’aspetto e le caratteristiche rimasero gli stessi. Le macchine più diffuse erano quelle orizzontali, che dovevano essere collocate per madiere sulle navi, in modo che i cilindri risultassero perpendicolari all’asse dell’elica. Le macchine inglesi del tipo “a fodero”, assai diffuse, non avevano testa a croce ma uno stantuffo a semplice effetto, che veniva guidato da un fodero cilindrico e aveva la biella articolata in un perno nella testa dello stantuffo, come i pistoni degli attuali motori a benzina. Dato che le navi dell’epoca portavano una sola elica, il cui asse doveva essere montato in corrispondenza della chiglia, la corsa degli stantuffi delle macchine era piuttosto corta. Un altro tipo di macchina molto popolare negli anni 1860 era quello a cilindri oscillati, detto anche di Penn, nel quale l’asta dello stantuffo era direttamente collegata alla manovella dell’asse e tutto il cilindro oscillava in dipendenza del movimento di quest’ultima. Per aumentare la corsa degli stantuffi, nelle macchine orizzontali fu introdotto il tipo “a biella di ritorno”, nel quale l’asta dello stantuffo era munita di testa a croce e di pattino; la biella, tuttavia, invece di andare in prosecuzione dell’asta, ritornava verso il cilindro, in quanto l’albero a manovelle era sistemato fra il cilindro e il pattino della testa a croce. Le macchine a cilindri oscillanti e a biella di ritorno avevano i cilindri “a doppio effetto”, nei quali il vapore agiva su entrambe le facce e non su una sola come nelle macchine a fodero. Per condensare il vapore di scarico, dopo che questo aveva lavorato nei cilindri, si usava iniettarvi dell’acqua di mare (condensatore a miscuglio). Perciò le caldaie venivano alimentate con acqua salmastra, il che rendeva particolamente gravosa la loro manutenzione. Nel decennio 1860-70 si ebbero diversi perfezionamenti sia alle caldaie sia alle macchine. Dalle caldaie parallelepipede si passò a quelle cilindriche, che permettevano di generare vapore a pressioni più elevate. Il progresso più notevole, però, fu quello che portò all’adozione dei condensatori a superficie, con il conseguente abbandono dell’acqua di mare per l’alimentazione delle caldaie, che in tal modo non si riempivano più di incrostazioni di sale e non esigevano particolari operazioni di pulizia. Il condensatore a superficie è un involucro contenente un fascio di tubi percorsi internamente da acqua fredda e lambiti esternamente dal vapore di scarico che, a contatto dei tubi, si condensa e ridiventa acqua. La possibilità di generare vapore ad alta pressione portò all’adozione delle macchine a duplice espansione, dette in inglese “compound”, nelle quali il vapore lavorava prima in un cilindro ad alta pressione e poi in un cilindro a bassa pressione, migliorando il rendimento generale. Le macchine continuavano a essere del tipo orizzontale, anche se a due cilindri. Ma grazie all’adozione della doppia elica, fu possibile avere cilindri con biella normale, anziché con biella di ritorno, perché le motrici potevano essere collocate più lateralmente di quelle azionanti una sola elica. Le macchine verticali, cioè con i cilindri e gli stantuffi disposti verticalmente e sostenuti da un’apposita incastellatura, introdotte alla metà degli anni 1870, costituirono un’altra tappa nell’evoluzione della propulsione navale. In precedenza la loro adozione era stata ostacolata dalla notevole altezza, che comportava uno spreco di spazio in favore dei locali macchine e a discapito della capacità di carico. Nelle navi da guerra il problema era quello di mantenere le sale motori al di sotto del ponte di protezione corazzato. L’ostacolo potè essere superato solo con l’aumento delle dimensioni medie dei bastimenti. Le macchine verticali, dette anche a cilindri rovesciati, erano più bilanciate di quelle orizzontali, in quanto il movimento delle aste e degli stantuffi avveniva in direzione verticale, il che permetteva di ottenere maggiori velocità per questi organi in moto alternativo e quindi maggiori velocità di rotazione per l’asse dell’elica. Intorno al 1885, le caldaie cilindriche a tubi di fiamma cominciarono a essere sostituite da quelle a tubi d’acqua: nelle prime vi era un grande involucro pieno d’acqua, all’interno del quale venivano sistemati i tubi contenenti i focolari e i tubi attraverso i quali passavano i prodotti di combustione caldi, provocando così la vaporizzazione dell’acqua; nelle seconde, invece, c’era una grande camera di combustione dove bruciava il carbone e attraverso la quale passavano i tubi contenenti l’acqua, la quale così evaporava molto più rapidamente, in quanto assorbiva una maggiore quantità di calore. Fra i primi modelli di caldaie di questo tipo vi furono le francesi Belleville, che riscossero un buon successo commerciale anche all’estero. Altri modelli seguirono, fra cui quello prodotto dall’inglese Yarrow, che aveva tre collettori: uno alto centrale e due bassi laterali, in mezzo ai quali erano posti i fasci di tubi simmetrici che costituivano la copertura inclinata della camera di combustione. Vennero poi le Niclausse, sempre francesi, le Babcock & Wilcox, americane e le Ansaldo italiane. Le macchine, ormai tutte a duplice espansione, iniziarono ad avere tre cilindri, uno di alta e due di bassa pressione, oppure uno di alta, uno di media e uno di bassa pressione. I condensatori del tipo a superficie venivano collocati in un involucro tubolare orizzontale, a lato dei cilindri della macchina.
Macchina a vapore con cilindro oscillante
costruito in Italia nel 1900 circa.
Materiali: cm 14x12x17
Dimensioni: ottone, ferro
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 131
Caldaia a vapore diretto
con macchina a doppio effetto
Modello costruito in Olanda nel 1904.
Dimensioni: 48x19x45.
Materiali: ottone, ferro, rame e legno, su basamento in legno
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 130
Il rivestimento della caldaia è in legno santo. Proveniente dal modello del piroscafo misto “Adele Gotuzzo”, è stata smontata e collocata all’esterno per renderla visibile al pubblico. L’adozione delle caldaie a tubi d’acqua consentì di ottenere vapore a pressioni più elevate, per cui dalle macchine a duplice espansione si passò a quelle a triplice espansione, nelle quali il vapore lavorava in tre o quattro cilindri. Esse rappresentarono l’apice del perfezionamento raggiunto da questo tipo di motrice, intorno all’anno 1880. Il combustibile impiegato nelle caldaie era sempre il carbone. L’aria per la combustione veniva convogliata nei locali caldaie per mezzo di grandi maniche a vento, in
genere sistemate sulla sovrastruttura a centro nave, sulla verticale dei locali stessi. L’aria affluiva grazie al moto della nave e alla depressione originata dal tiraggio dei fumaioli. Se la combustione era alimentata con l’aria aspirata attraverso le maniche a vento in seguito alla depressione originata dal tiraggio del fumaiolo, si aveva il cosiddetto “tiraggio naturale”, che consentiva di bruciare solo un certo quantitativo di carbone. Per aumentare questo tiraggio, i fumaioli venivano costruiti molto alti, conferendo un aspetto caratteristico alle unità dell’epoca. Se invece di aspirare l’aria attraverso le maniche a vento per il solo effetto della depressione nei locali caldaie, si impiegavano anche degli aspiratori meccanici, ovvero delle ventole che la forzavano all’interno, si aveva il cosiddetto “tiraggio forzato”, grazie al quale le caldaie potevano bruciare molto più carbone e sviluppare maggiore potenza. Essa veniva utilizzata nei momenti di pericolo, per sfuggire una tempesta, per battere record di velocità o, nel caso delle navi da guerra, per prepararsi al combattimento. La combustione a carbone richiedeva molto lavoro manuale da parte del personale addetto alla condotta ed esigeva un enorme dispendio di manodopera nelle operazioni di rifornimento. Non è raro trovare suggestive fotografie in bianco e nero che ritraggono i caricatori di carbone mentre salgono faticosamente sulle passerelle con delle pesanti corbe di carbone sulle spalle e lo scaricano nei depositi. I fuochisti addetti all’alimentazione delle caldaie vivevano in un ambiente infernale, con temperature oscillanti fra i 40 e i 70° e un’aria resa caliginosa dalla polvere di minerale. Con un lavoro così massacrante, non stupisce che la loro vita media fosse alquanto bassa.
Anche i tecnici addetti alle macchine avevano un compito gravoso, a ogni corsa del cilindro dovevano mettere una goccia di olio negli ingranaggi, con il rischio di perdere una mano. Non tutte le nazioni disponevano di carbone in quantità sufficiente al loro fabbisogno e spesso dovevano importarlo, con un notevole aggravio nei costi di gestione. Inoltre, dato che vi erano differenti qualità di combustibile, se si voleva ottenere un buon rendimento dalle macchine occorreva affidarsi all’ottimo carbone gallese, conosciuto come “Cardiff” dal nome del porto nel quale veniva imbarcato. Solo l’Inghilterra e poche altre potenze marittime disponevano di basi attrezzate lungo le principali rotte oceaniche ed erano in grado di mantenere grandi depositi di combustibile, mentre le altre dovevano stipulare onerosi contratti di rifornimento. Un notevole passo in avanti fu compiuto con il passaggio dal combustibile solido a quello liquido, ossia dal carbone alla nafta. Il petrolio grezzo venne impiegato per la prima volta dai russi sulle navi del Mar Caspio e del fiume Volga, data la vicinanza di ricchi giacimenti, ma le altre marine continuarono a preferire il
carbone, per la sua notevole diffusione a livello mondiale. Restava il problema dell’imbarco e dello stivaggio a bordo. Come abbiamo visto, le operazioni di rifornimento erano lunghe e dispendiose, dovendo essere compiute tutte a mano. Inoltre le navi più piccole avevano carenza di spazio dove sistemare le carbonaie le quali, tra l’altro, non potevano mai essere riempite del tutto a causa della forma irregolare dei pezzi. Un combustibile liquido avrebbe facilitato enormemente il compito, perché avrebbe potuto essere caricato per mezzo di pompe e avrebbe permesso di colmare fino all’orlo i serbatoi. Il problema era particolarmente sentito nelle marine da guerra minori, che avevano un gran numero di torpediniere e di altri natanti di piccole dimensioni. La Regia Marina Italiana condusse una serie di esperimenti che nel 1890 consentirono di mettere a punto un bruciatore adatto allo scopo, ideato dall’Ingegnere Capo del Genio Navale Vittorio Cuniberti. Esso spruzzava la nafta in minutissime goccioline entro la camera di combustione, dove la temperatura veniva mantenuta a un livello tale da favorire l’accensione di questa nebbiolina. Questo tipo di bruciatore, studiato per le torpediniere, si diffuse anche sulle navi più grandi, mentre in diverse basi venivano approntati depositi di nafta. Le navi petroliere cominciavano ad assumere un ruolo determinante nelle flotte mercantili di tutto il mondo. Le caldaie a nafta producevano una quantità di vapore maggiore rispetto a quelle a carbone e la potenza sviluppata aumentava del 20-25%. Inoltre si poteva accelerare o rallentare la velocità in tempi più brevi, qualità della massima importanza per le navi da guerra. Per aumentare la velocità occorreva naturalmente mandare più vapore nei cilindri.
Nelle unità con caldaie a carbone non era possibile accendere o spegnere un certo numero di caldaie a ogni variazione di andatura, perciò alcune caldaie venivano tenute in regime di alimento con i fuochi molto bassi, che venivano attivati solo in caso di aumento di velocità e ridotti in caso di diminuzione. Con la combustione a nafta, invece, questa variazione nella produzione di vapore poteva essere ottenuta semplicemente con l’accensione o lo spegnimento di qualche bruciatore, dato che ogni caldaia ne aveva più di uno (da 3-5 per quelle più piccole fino a 13-15 per quelle più grandi). Nonostante gli indubbi vantaggi, i maggiori produttori di carbone erano restii ad abbracciare il nuovo sistema, perché temevano di perdere il vantaggio loro offerto dall’avere il quasi monopolio di un’importante risorsa strategica. All’inizio del Novecento, la macchina a vapore a triplice o a quadruplice espansione aveva raggiunto l’apice della sua evoluzione, quando l’introduzione della turbina provocò una nuova rivoluzione nel campo della propulsione navale.
Caldaia a vapore
Modello costruito in Italia nel 1920 circa
Dimensioni cm 19x7x17
Materiali: ottone, ferro
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 132
Le prime caldaie erano alquanto rudimentali, con la camera di combustione esterna e larghe zone della superficie di riscaldamento lisce. Data la loro debolezza strutturale, non potevano resistere alle alte pressioni. Con l’avanzare del progresso tecnologico, comparvero le caldaie a tubi di fiamma, che avevano la camera di combustione interna. I gas prodotti dalla combustione del carbone passavano attraverso i tubi contenuti nella camera e riscaldavano l’acqua nella quale erano immersi, che a sua volta si trasformava in vapore e veniva convogliata verso la macchina per azionare il pistone. L’aumento della superficie di riscaldamento migliorava il rendimento delle caldaie. Quelle a tubi di fiamma, altrimenti dette “caldaie scozzesi”, furono il tipo più diffuso nella marina mercantile sino all’inizio del Novecento. Successivamente vennero adottate le caldaie a tubi d’acqua, nelle quali era appunto l’acqua a circolare nei tubi, mentre i gas li avvolgevano e li riscaldavano dall’esterno. In tal modo la trasformazione in vapore avveniva più celermente, con notevoli vantaggi in termini di praticità d’uso e rendimento. Le caldaie a tubi d’acqua furono rese ancora più economiche con l’adozione del surriscaldatore, la ventilazione forzata (ossia l’insufflazione di aria ad alta pressione), gli economizzatori ecc.
Caldaia a vapore diretto con macchina
bicilindrica a doppio effetto
Olanda, 1904 (modello della caldaia del piroscafo misto
“Adele Gotuzzo”)
Dimensioni 25x8x22.
Materiali: ottone, ferro, rame - Basamento in legno
Isolam.ento caldaia in legno santo
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 133
Modelli di aeromobili e navi spaziali
• Dirigibile Hindenburg D-L2129
• Idrovolante Macchi Castoldi MC 72 - “Agello Macchi”
• Idrovolante italiano Savoia Marchetti S55X SMI 1933 “Italo Balbo”
• Idrovolante Dornier D-1929 DOX “Umberto Maddalena”
• Razzo a tre stadi “Saturno 5”
• L’uomo sulla luna
• Navetta spaziale americana “Moonraker”
Dirigibile Hindenburg D-L2129
Modello costruito in Italia nel 1980 circa
Dimensioni: cm 33x6x8
Materiali: plastica, su basamento di plastica
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 149
Piccoli oggetti in plastica ... per ricordare “grandi eventi”. Il dirigibile fu sperimentato per la prima volta in Francia nel 1852. L’Hindenburg, di costruzione tedesca, era lungo ben 245 metri. Nel 1937, nella fase di atterraggio a Lakehurst, nel New Jersey, USA, si incendiò e morirono ben 36 persone. Furono famosi anche i dirigibili tipo “Zeppelin” (tedeschi) e il “Norge”, italiano, con il quale Umberto Nobile compì nel 1926 la prima trasvolata del Polo Nord. La seconda trasvolata polare di Nobile, nel 1928, col dirigibile “Italia”, finì invece in una catastrofe. All’inizio dell’Ottocento il pallone aerostatico, o mongolfiera, aveva mostrato tutti i suoi limiti, dovuti soprattutto alla difficile governabilità. Si riusciva a controllarne la discesa, agendo sulla valvola del gas, o la salita, gettando della zavorra, ma era quasi impossibile dirigerne la rotta, a causa della mancanza di un qualsiasi propulsore. Gli ingegneri dell’epoca si applicarono alla soluzione del problema e finalmente, il 24 settembre 1852, il francese Henri Giffard riuscì a far volare un aerostato per 31,5 Km, partendo da Versailles. Il suo dirigibile, riempito di idrogeno, era lungo quasi 44 metri e spinto da un motore a vapore da 3 CV, che faceva girare un’elica lunga 3,35 metri. Tuttavia, un aeromobile di pratica utilizzazione fu costruito solamente all’inizio del XX secolo, grazie all’introduzione del motore a scoppio e delle leghe di alluminio. In quel periodo ci si rese anche conto che la capacità di sostentazione di un aerostato era direttamente proporzionale al volume di gas impiegato per riempire il suo involucro, per cui occorreva realizzare dirigibili sempre più grandi. Il celebre ingegnere navale francese S. Dupuy de Lome inserì nell’involucro il cosiddetto pallonetto, per compensare le variazioni di volume del gas causate dai cambiamenti di quota, al fine mantenere costante la forma del dirigibile. Il francese Renard ideò gli impennaggi per assicurarne la stabilità. Il tedesco Walfert nel 1897 applicò per la prima volta il motore a scoppio a un dirigibile. Nel 1900, un ufficiale tedesco, il conte Ferdinand von Zeppelin, dopo una lunga serie di studi ed esperimenti, completò un prototipo di dirigibile che battezzò con il suo stesso nome. Esso era costituito da un cilindro lungo 128 m, con un’ossatura in alluminio rivestita di cotone trattato con emaillite, una vernice speciale che assicurava tensione e resistenza all’involucro. La sua cubatura, suddivisa in 17 compartimenti stagni, era costituita da 12.000 mc di idrogeno. Due motori Daimler da 14 CV garantivano la necessaria spinta propulsiva. Dopo aver perfezionato il prototipo, fra il 1910 e il 1914 Zeppelin compì i primi viaggi commerciali in Germania. Durante la Prima Guerra Mondiale, i suoi dirigibili furono impiegati come ricognitori oltre le linee nemiche e per bombardare Londra, senza peraltro ottenere risultati di rilievo. Negli anni Trenta vennero di moda le crociere a bordo dei “più leggeri dell’aria”. Aerostati di gigantesche dimensioni, dotati di tutti i comfort, trasportavano poche dozzine di ricchi privilegiati da una metropoli all’altra dell’Europa e anche attraverso l’Atlantico. I nuovi modelli, sia tedeschi, sia americani, lunghi più di 200 m, erano chiamati “hotel volanti”, per il lusso e le comodità che offrivano a bordo. Ma l’aumento del traffico fece crescere anche il numero di incidenti, i più gravi dei quali impressionarono fortemente l’opinione pubblica, decretando la fine dell’era del dirigibile. Nel 1930, durante il viaggio inaugurale su una nuova rotta per l’India, il dirigibile inglese R 101 precipitò e fra le 48 vittime ci furono il suo progettista e il ministro inglese dell’aeronautica. Ma una tragedia ancora più sconvolgente si verificò pochi anni più tardi, nel 1937, quando il più grande e moderno dirigibile del mondo, il tedesco “Hindenburg”, si incendiò durante la fase di atterraggio a Lakehurst, nel New Jersey, Stati Uniti. Nello spaventoso rogo che ne seguì, provocato dall’enorme quantità di idrogeno con cui era stato riempito l’involucro, perirono 36 persone fra passeggeri e membri dell’equipaggio. Si sarebbe potuto usare l’elio, più innocuo, ma di difficile produzione, per cui risultava molto costoso. Inoltre, gli Americani ne detenevano il brevetto e, dato che lo consideravano un segreto militare, si erano ben guardati dal divulgarlo. Nella Seconda Guerra Mondiale, la marina americana disponeva di alcuni dirigibili da ricognizione, destinati alla caccia dei sommergibili tedeschi. Essi avevano il vantaggio di potersi appoggiare a strutture aeroportuali non molto attrezzate e di poter decollare in verticale, senza bisogno di pista di volo, ma con l’avvento degli elicotteri vennero superati anche in questo campo.
Idrovolante Macchi
Castoldi MC 72 - “Agello Macchi”
Modello costruito in Italia nel 1980 circa
Dimensioni: cm 13x13x7
Materiali: plastica, su basamento di plastica
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 150
Piccoli oggetti in plastica ... per ricordare “grandi eventi”.
Nel 1934 un aereo di questo tipo, costruito appositamente per partecipare alla Coppa Schneider, conquistò il primato di velocità (711,462 Km/h) per idrovolanti con motore a pistoni, un record tuttora imbattuto.
Idrovolante italiano
Savoia Marchetti S55X SMI 1933
“Italo Balbo”
Modello costruito in Italia nel 1980 circa.
Dimensioni: cm 24x33x8
Materiali: plastica, su basamento di plastica
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 151
Piccoli oggetti in plastica ... per ricordare “grandi eventi”. Nel 1933, dopo due anni di preparazione, 25 idrovolanti S55X, suddivisi in otto squadriglie da tre apparecchi ciascuna, più il velivolo del comandante Italo Balbo, compirono una spettacolare trasvolata atlantica da Orbetello a Chicago e New York, con ritorno al Lido di Roma, per un totale di 20.000 Km. L’impresa suscitò tanto scalpore negli Stati Uniti che una via di Chicago fu intitolata a Italo Balbo.
Idrovolante Dornier D-1929 DOX
“Umberto Maddalena”
Modello costruito in Italia nel 1980 circa
Dimensioni: cm 27x33x7
Materiali: plastica, su basamento di plastica
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 152
Piccoli oggetti in plastica ... per ricordare “grandi eventi”. Questo velivolo, di costruzione tedesca, fu importato in Italia nel 1929 e ribattezzato “Umberto Maddalena”. L’intenzione era di usarlo su una linea passeggeri per gli Stati Uniti. Dato che gli aerei del tempo non avevano un’autonomia sufficiente per poter attraversare direttamente l’Atlantico, ma dovevano effettuare frequenti scali di rifornimento, e visto che non c’erano molti aeroporti attrezzati lungo la rotta, si pensava che un idrovolante avrebbe potuto assolvere più facilmente a tale compito. Esso aveva una capacità di trasporto di 50 passeggeri. Dopo qualche prova, il progetto non ebbe seguito a causa del rumore assordante dei motori, dell’elevato consumo di carburante e della scarsa affidabilità in volo.
Razzo a tre stadi
“Saturno 5”
Modello costruito in Italia nel 1980 circa.
Materiali: plastica
Dimensioni: cm 112x21
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 153
L’uomo sulla luna
Modello costruito in Italia nel 1980 circa
Dimensioni: cm 34x26x5
Materiali: plastica
Donazione Franco Tommasino
Piccoli oggetti in plastica ... per ricordare “grandi eventi”. Il 21 luglio 1969, gli astronauti americani Neil Armstrong e Edwin Aldrin discesero la scaletta del modulo lunare LEM, mettendo per la prima volta piede sulla Luna. Un sogno coltivato dall’uomo per millenni si era finalmente avverato. Vi restarono due ore e mezza, raccogliendo 21 kg di rocce lunari e altri campioni geologici. Gli Americani avevano così recuperato lo svantaggio e superato i Russi nella corsa allo spazio, otto anni dopo la missione di Yuri Gagarin. Altre cinque missioni Apollo si recarono sulla Luna fra il 1969 e il 1972, anno in cui si concluse il programma di esplorazioni.
Navetta spaziale americana
“Moonraker”
Modello costruito in Italia nel 1980 circa
Dimensioni: cm 40x17x22
Materiali: plastica
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 155
Piccoli oggetti in plastica ... per ricordare “grandi eventi”. Le navette spaziali della serie “Columbia” sono state concepite per portare in orbita carichi pesanti, lanciare, riparare o recuperare satelliti e costruire stazioni orbitanti. L’idea era quella di realizzare dei veicoli spaziali capaci di rimanere in orbita per il tempo necessario a compiere le operazioni e poi tornare indietro con i propri mezzi. Per lanciarle nello spazio, vincendo la fortissima attrazione gravitazionale presente negli strati bassi dell’atmosfera, occorre sfruttare la spinta di due grandi motori laterali che bruciano un composto formato da idrogeno e ossigeno liquido. Una volta raggiunta l’orbita prescelta, i serbatoi del carburante e i motori vengono sganciati e la navetta è libera di muoversi con i suoi motori interni. Essa può atterrare direttamente su una pista preparata, avvicinandosi lentamente come un aliante. Il prototipo fu lanciato per la prima volta nel 1981, inaugurando l’era dei voli spaziali con andata e ritorno su un aeromobile pilotato dall’uomo. In futuro, le stazioni spaziali in orbita attorno alla terra e le basi sulla luna verrano mantenute in collegamento con i centri di comando per mezzo di navicelle come questa, che avranno il compito di trasportare i rifornimenti, i passeggeri e i pezzi di ricambio per le apparecchiature.
Oggetti
• Strumenti nautici e attrezzature di bordo
• Strumenti di calcolo
• Telegrafi, grammofoni, radio e radiocomandi
• Attrezzi da cantiere
• Attrezzi da pesca
• Supporti per archiviazione dati
J. HUGHES, LONDON.
Ottante di Hadley
Gran Bretagna, 1820 circa
Dimensioni: cm 36x29x8
Materiali: legno di ebano, avorio, ottone e vetro; in cassetta di legno e ottone
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 059
Strumento antenato del sestante. Serviva per misurare l’altezza degli astri dalla quale si calcolava la posizione della nave Telaio in ebano; alidada, portaspecchi, portavetri e mirino in ottone; lembo, verniero, placchetta del costruttore, manico dello stilo e placchetta per appunti in avorio; graduazione da 0 a 100°; mirino a due occhi con coprioculare; due specchi; tre vetri colorati. Cassetta di legno a forma di settore di cerchio, con coperchio munito di rialzo per contenere lo specchio dell’alidada. All’interno del coperchio della cassetta, targhetta in carta con il marchio del costruttore: J. Hughes, Real Manufacturer of SEXTANTS & QUADRANTS, COMPASSES, TELESCOPES & C. 16, Queen Str. Radcliffe Cross. LONDON. Sulla sinistra compare una figura di ufficiale intento a compiere misurazioni con un ottante.
Figlio del costruttore di strumenti James Hughes, di Shadwell, Londra, che aveva il proprio laboratorio al n° 16 di Queen Street, Limehouse, Londra, Joseph Hughes svolse il suo apprendisato nel 1800 presso William George Cook, un altro fabbricante di strumenti che aveva la bottega in Cork Street, Saint George in the East, Londra. Messosi in proprio, aprì un negozio al n° 16 di Queen Street, Ratcliffe, Londra, dove rimase dal 1818 al 1843, anno della sua morte. Era noto per la produzione di strumenti matematici, nautici, ottici e scientifici, e per la vendita di barometri.
L’ottante è uno strumento a riflessione utilizzato per misurare l’altezza sull’orizzonte di un astro di riferimento (il Sole o la Stella Polare), allo scopo di determinare la latitudine di un dato punto sulla superficie terrestre. Esso fu ideato quasicontemporaneamente, ma in maniera del tutto indipendente, dall’inglese John Hadley (1684-1744), che lo descrisse nel 1731, e dall’americano Thomas Godfrey (1704-1749). Generalmente è formato da un telaio, in ebano o altro legno resistente, a forma di settore di cerchio, graduato lungo il lembo inferiore, con un’apertura di circa 45° (un ottavo di angolo giro appunto), sul quale è imperniato un braccio mobile, l’alidada, munito di uno specchio. Sul telaio è fissato un altro specchio, parzialmente argentato. Con lo strumento è possibile traguardare direttamente l’orizzonte (attraverso la lastrina di vetro argentata) e, muovendo opportunamente l’alidada, far coincidere con esso il bordo del sole, visto per doppia riflessione sullo specchio mobile e su quello fisso. L’angolo formato dagli specchi (che nella posizione 0° dell’alidada sono paralleli) corrisponde al semi-angolo formato dall’astro e dall’orizzonte. Per questa ragione, la scala graduata ha delle suddivisioni doppie, in modo da fornire direttamente l’altezza cercata. L’ottante permetteva di misurare angoli fino a 90° e veniva utilizzato anche per compiere rilevamenti terrestri.
A.D.F. London
Sestante
Gran Bretagna, circa 1920
Dimensioni: cm 24x27x11
Materiali: ottone, argento, vetro ed ebano, in cassetta di mogano e ottone.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 060
Appartenuto a Ernani Andreatta senior. Questo tipo di sestante è stato usato sino agli anni ’50 circa. Serviva a determinare la posizione della nave mediante la misura dell’altezza. degli astri. Telaio, alidada, portavetri, portaspecchi e portacannocchiale in ottone; lembo e verniero in argento; impugnatura in ebano; due specchi; sette vetri colorati; due cannocchiali; vite micrometrica per la regolazione del verniero; microscopio per la lettura del verniero; graduazione da -5 a +160°; cassetta quadrata in mogano, con interno rivestito di panno; serratura con chiave; placca con il nome del proprietario sul coperchio. Marchio del rivenditore: buff & buff. mfg. company. quality in engineering instruments. boston. Il sestante, evoluzione dell’ottante, di cui ricalca la forma e il funzionamento, è uno strumento ottico a doppia a riflessione che serve a misurare l’angolo formato tra due astri o tra due punti a terra. In altre parole, permette di calcolare la latitudine di un luogo prendendo l’altezza sull’orizzonte del Sole o della Stella Polare. Ha un telaio a forma di settore di cerchio, con un’apertura di circa 60° (un sesto di angolo giro, da cui il nome) ed è capace di misurare angoli fino a 120°. Grazie alla maggiore ampiezza, ha una gamma più vasta di utilizzazioni rispetto all’ottante e permette di eseguire accurati rilevamenti idrografici o di determinare il punto nave per mezzo delle distanze lunari. Presentato dal capitano John Campbell della Royal Navy nel 1757, entrò nell’uso comune a partire dall’Ottocento.
BUFF & BUFF MFG Company Boston
Sestante
Primo quarto XX secolo
Dimensioni: cm 20x21x10
ottone, argento, vetro e legno; in cassetta di
Materiali:noce e ottone
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 061
Questo tipo di sestante è stato usato sino agli anni ’50 circa. Serviva a determinare la posizione della nave mediante la misura dell’altezza. degli astri. Apparteneva al Comandante Ernani Antonio Andreatta che lo usò, da primo ufficiale, sui grandi transatlantici del Lloyd Sabaudo. Telaio, alidada, portaspecchi, portavetri e portacannocchiale in ottone; lembo e verniero in argento; impugnatura in legno; due specchi, sette vetri colorati; tre cannocchiali; vite micrometrica per la regolazione del verniero; microscopio per la lettura del verniero; graduazione da -5 a + 160°; cassetta quadrata in noce, con interno rivestito in panno e serratura in ottone.
C. PLATH HAMBURG 44436
Sestante
Germania, 1963
Dimensioni: cm 24x26x15
Materiali: ottone, plastica, vetro e acciaio; in cassetta di plastica.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 062
Appartenuto a Ernani Andreatta junior. Serviva a determinare la posizione della nave mediante la misura dell’altezza. degli astri. Dotato di binocolo prismatico era molto in uso negli anni ’50/’70. È stato abbandonato con l’avvento della navigazione iperbolica e satellitare. Telaio, alidada, lembo, portaspecchi, portavetri e portacannocchiale in ottone; due specchi; sette vetri colorati; un cannocchiale prismatico beck kassel 6x30; vite micrometrica per la lettura del verniero; lampada per la visione notturna; graduazione da -5 a +125°; cassetta in plastica con serratura. Questo tipo di strumento era molto apprezzato dagli ufficiali negli anni Cinquanta e Sessanta per la sua robustezza e la precisione.
HAMILTON. LANCASTER PENNSYLVANIA - n. 6051 -
Cronometro marino da due giorni
Stati Uniti, 1941
Dimensioni cassetta: cm18,5x18,5x18,5.
Dimensioni: Diametro quadrante: cm12.
Materiali:ottone, vetro, acciaio e rubini; in cassetta di mogano e ottone
Collezione Ernani Andreatta
L’esatta conoscenza del tempo a bordo delle navi era molto importante ai fini della determinazione del punto nave. Quadrante in ottone argentato; lancette in acciaio brunito; quadrante della carica in alto; quadrante dei secondi in basso; ore in numeri arabi; cassa, sospensione cardanica, blocco di sicurezza e chiave per la carica in ottone; movimento in ottone e acciaio, con bariletto, conoide, bilanciere bimetallico munito di pesetti di regolazione, catena di trasmissione, 14 rubini; cassetta in mogano con vetro di lettura, cerniere e serratura. Prima della Seconda Guerra Mondiale, negli Stati Uniti si fabbricavano solo pochi cronometri marini all’anno. Il primo strumento di questo tipo prodotto in America era stato brevettato dal costruttore William Bond di Boston nel 1812, e realizzato in un numero limitato di esemplari. In genere, sia la marina militare, sia quella mercantile preferivano approvvigionarsi in Europa per le loro esigenze. Alcune ditte si facevano spedire le parti smontate dal Vecchio Continente e poi le assemblavano in loco, ma la maggior parte acquistava direttamente i prodotti finiti. Allo scoppio delle ostilità, la situazione cambiò: Gran Bretagna e Francia erano costrette a dedicare tutta la loro produzione alle esigenze interne e la Svizzera non poteva garantire regolari rifornimenti a causa del blocco commerciale imposto dalla Germania. Allora la Marina Americana, in previsione di un notevole aumento del fabbisogno, decise di organizzare una produzione interna di cronometri. Come modello di base fu scelto quello della ditta svizzera Ulysse Nardin, ma le esigenze di una maggior semplicità nella messa a punto e di una produzione a ritmo elevato e in grande quantità, resero indispensabili alcune modifiche. Le società che accettarono di impegnarsi in questo progetto furono la Hamilton Watch Co. e la Elgin Watch Co., ma solamente la prima riuscì a fabbricare uno strumento che, pur rispettando i criteri di regolarità e di efficienza richiesti, fosse congeniale alla logica della produzione di serie. Ciò fu possibile grazie all’adozione di tecniche costruttive particolari e di nuove leghe metalliche. I primi due cronometri furono consegnati all’Osservatorio della Marina per le prove ufficiali nel 1942. Poco dopo iniziò la produzione effettiva. Mediamente, in un mese venivano costruiti più cronometri che in tutto il resto del mondo prima della guerra. Ne furono consegnati ben 8.902 alla Marina Militare, 1.500 alla Commissione della Marina, 500 all’Esercito e all’Aviazione e 2.170 ad altre marine, in totale più di quanti la casa svizzera ne avesse prodotti in 75 anni di attività.
W. OTTWAY & Co. LTD. - EALING LONDON - N° 1487
Cannocchiale da marina a un allungo
Gran Bretagna, terzo quarto XIX secolo
Dimensioni: lunghezza massima cm 61; Ø obiettivo cm 3,2
Materiali: ottone, cristallo e cuoio
Collezione Arnani Andreatta
Tubi in ottone; esterno rivestito in cuoio; linguetta coprioculare; nome del rivenditore e.j. palmer. Probabilmente il costruttore era uno dei figli di John Ottway, attivo a Londra fra il 1826 e il 1870, fabbricante e rivenditore di strumenti ottici, nautici, matematici e meteorologici. L’idea del cannocchiale nacque nel XVI secolo, quando lo scienziato e letterato napoletano Giambattista della Porta (1535-1615), nel suo libro Della magia naturale, descrisse il modo per accoppiare due lenti e avvicinare gli oggetti lontani o ingrandire quelli più piccoli. Sebbene non si conosca con precisione il costruttore del primo cannocchiale, si sa che fu realizzato in Olanda, a quel tempo all’avanguardia nel campo delle scienze applicate. Alcuni ne attribuiscono la paternità a Jan Lippershey, un ottico nativo di Middelburg che nel 1608 chiese la concessione di un brevetto per un cannocchiale. Altri ritengono che fosse stato inventato da Zacharias Janssen o da Jacob Adrianssen. In ogni caso, la notizia di questo nuovo strumento giunse a Galileo
Galilei e questi, per “via di discorso”, ossia senza aver preso visione del modello originale ma solo con il ragionamento, costruì il suo cannocchiale, probabilmente nel 1610. Con questo strumento egli fece importanti osservazioni astronomiche, aprendo una nuova era nell’esplorazione dell’Universo. Fra le altre cose, dimostrò che la Terra non è al centro dei moti celesti, come pretendeva l’antica dottrina tolemaica, contribuendo così a suffragare la teoria copernicana. L’utilità del cannocchiale fu subito compresa in marina, dove la possibilità di vedere più lontano avrebbe permesso di cercare la salvezza in caso di tempesta o di attacco nemico. Nel XIX secolo, il cannocchiale di precisione venne montato sui fucili da caccia grossa, mentre su quelli da guerra fu applicato il cannocchiale di puntamento.
FUJI - HEIBO, n. 2250
Binocolo 15x80, a due oculari, brandeggiabile su piedistallo
Giappone, seconda metà del secolo XX
Dimensioni: cm 48x22x20
Materiali: cristallo, ottone, ferro.
Donazione Antonio Mancini
M.M.T.A. - Invent. n. 064
Il primo modello di binocolo fu realizzato dal frate cappuccino De Rheita nel 1643, unendo insieme due cannocchiali di cartone. I binocoli a prisma apparvero alla fine del XIX secolo. Il principio su cui si basano ha permesso di ridurre il loro ingombro, pur aumentando il campo visivo e l’ingrandimento, e per questo essi hanno a poco a poco detronizzato i cannocchiali di bordo e i binocoli ordinari. I marinai, tuttavia, a causa del loro innato conservatorismo che li porta a preferire sistemi e strumenti collaudati dalla lunga pratica piuttosto che affidarsi a nuovi ritrovati non ancora sufficientemente sperimentati, per lungo tempo hanno continuato a usare i cannocchiali, attratti dai forti ingrandimenti ottenibili con essi.
RICCARDO FERRO - GENOVA
Bussola a secco
Italia, ultimo quarto XIX secolo
Dimensioni: Diametro quadrante: cm 11
Dimensioni cassetta: cm 18x18x12.
Materiali: ottone, cartoncino, vetro e acciaio; in cassetta di mogano e ottone.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 067
Mortaio in ottone; rosa dei venti in cartoncino, con rombi in inglese; Nord indicato da una stella contenente un’ancora;
sospensione cardanica e blocco in ottone; cassetta in mogano, con cerniere e gancio di chiusura in ottone.
La ditta “Riccardo Ferro - Strumenti Nautici - Genova” venne fondata nel 1828 dal macchinista navale Riccardo Ferro e rimase sempre di proprietà della famiglia, per passare nel 1950 all’ingegner Sartorio, figlio di una Ferro. L’officina di produzione era situata nei fondi di Santa Maria di Castello e vi rimase sino al 1968, per essere poi trasferita nel Palazzo Celario, in Via del Campo n° 10. Il negozio era situato in Via San Lorenzo, all’angolo con la piazza omonima. Il retro veniva utilizzato come laboratorio per la fabbricazione e la riparazione degli strumenti. Nello stesso ambiente si trovava anche un salottino dove si incontravano per bere un tè gli ufficiali genovesi e stranieri in attesa di ricevere i loro strumenti. Era questa l’occasione per portare alla voce i saluti di qualche collega incontrato in navigazione o in porti lontani. Fra gli strumenti in vendita, c’erano: cronometri marini in cassetta, sestanti, barometri a mercurio o aneroidi, orologi di bordo, barometri e bussole. Inoltre si potevano acquistare carte nautiche, di produzione italiana e inglese, effemeridi, portolani e tutti gli strumenti da carteggio. Per quanto riguarda la produzione di strumenti: bussole a liquido su colonnina in legno di teak e ottone, con tutti gli accessori per la compensazione magnetica, telegrafi di macchina con trasmissione a catena e poi, a partire dal 1960, elettrica, apparati ottici a proiezione o riflessione e doppia visione, solcometri meccanici ed elettrici, indicatori elettrici dell’angolo di barra, dei giri dell’elica e dell’angolo di vento, manometri, vuotometri, anemometri, inclinometri, tachimetri e contagiri meccanici.
Bussola a liquido da rilevamento con sospensione cardanica
Russia, secondo quarto XX secolo
Dimensioni: Ø quadrante: cm 13. - cm 26x24x23
Materiali: ottone, vetro, acciaio e liquido.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 068
Scala cm 26x24x23
Apparteneva a un rimorchiatore russo. Mortaio, sospensione cardanica e cerchio azimutale in ottone; mirino; traguardo; due vetri colorati; N° 1505 sulla corona del mortaio. Questo strumento faceva parte della dotazione di un rimorchitore russo
SESTREL
Chiesuola con bussola a liquido per imbarcazione di salvataggio
Gran Bretagna, terzo quarto XX secolo
Dimensioni: cm 27x23x22
Materiali:ottone, vetro, acciaio e liquido.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 069
Mortaio e sospensione cardanica in ottone verniciato di grigio; chiesuola in ottone dorato; sul lato destro, lampada a olio per l’illuminazione notturna. Questo strumento faceva parte della dotazione di un rimorchiatore russo.
JOHN LILLEY & GILLIE LTD. NORTH SHIELD
Cerchio azimutale
Gran Bretagna, terzo quarto XX secolo
Dimensioni: cm 20x20x34
Materiali: ottone e plastica
Donazione Francesco Gioia
M.M.T.A. - Invent. n. 070
Strumento applicabile sulla corona di una bussola. Serviva a individuare l’errore della bussola magnetica di bordo, mediante il rilevamento del sole all’alba e al tramonto. In astronomia si chiama “azimuth” l’arco di orizzonte compreso tra il punto cardinale Nord e la verticale dell’astro. Il termine deriva dall’arabo “as-sumuth” che significa “le direzioni”. Il cerchio azimutale serve appunto a misurare tale arco. I primitivi apparati azimutali erano formati da due traguardi fissati sulla corona della bussola e aventi la possibilità di ruotare per tutto l’orizzonte. Uno di essi portava una sfinestratura verticale per appoggiarvi l’occhio. L’altro una sfinestratura più ampia divisa da un filo verticale. In tal modo era sufficiente traguardare l’oggetto e poi leggere sulla rosa dei venti sottostante i gradi, le quarte o le quartine corrispondenti. Inoltre, per facilitare la lettura, il traguardo con il filo era dotato di un indice. Questo sistema, benché fosse ottimo per i bersagli sul piano, si rivelava insufficiente per rilevare l’azimuth degli astri. A tale scopo venne allora costruito l’apparato azimutale, munito di specchi o prismi che permettevano di riportare sul piano gli astri della volta celeste.
Ortosferoscopio o starfinder Del Pino
Italia, 1953
Dimensioni: Diametro dischi cm 26
Materiali: plastica, acciaio e cartoncino; in scatola di plastica.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 071
Strumento utilissimo quando si navigava col sestante. Era un mezzo rapido e sicuro per riconoscere tutti gli astri osservabili sino alla quinta e sesta grandezza. Lo sferoscopio forniva ai naviganti un mezzo rapido e sicuro per riconoscere tutti gli astri osservabili fino alla quinta e alla sesta grandezza; forniva gli elementi necessari per le osservazioni astronomiche e la preparazione dei calcoli relativi, eliminando le operazioni preliminari e la consultazione delle tabelle; forniva una rapida e abbastanza corretta soluzione meccanica ai vari problemi di astronomia nautica. Il principio sul quale si basava era semplice. Immaginiamo che sulla sfera celeste sia tracciata la rete del sistema di riferimento altazimutale relativa alla latitudine dell’osservatore e che al piede di ogni verticale e su ciascun almucantarat sia segnato il valore dell’azimut e dell’altezza ad esso corrispondente. Una stella qualunque che, per effetto della rotazione apparente della sfera celeste, con il trascorrere del tempo descrive il parallelo corrispondente alla sua declinazione, si sposterà attraverso il reticolato altazimutale occupando su di esso posizioni successive, in modo che l’osservatore potrebbe leggere direttamente le coordinate corrispondenti, istante per istante, a quelle dell’astro. Lo sferoscopio permette di realizzare questo sovrapponendo due distinte rappresentazioni piane, una della sfera locale, graduata in almucantarat e verticali, e l’altra, trasparente, della sfera celeste. La sfera locale è fissa, mentre quella degli astri è girevole e consente così di seguire la variazione delle coordinate dell’astro nel tempo. L’orientamento della sfera celeste mobile rispetto a quella fissa dell’osservatore viene eseguito per mezzo dell’angolo orario di un astro prescelto, confrontato con apposite scale incise sull’armatura dello strumento, che permettono di ricostruire la posizione relativa delle due sfere per l’istante considerato. Tale operazione può essere eseguita con grande facilità utilizzando l’ora media, l’ora vera, l’ora siderea, l’angolo orario di un astro qualunque o la sua altezza. Lo strumento si compone di tre parti principali: Basi, Diagrammi e Planisferi Celesti trasparenti. Basi: si tratta di due dischi in plastica, uno per l’Emisfero Nord e l’altro per l’Emisfero Sud, del diametro di 26 cm, con al centro un perno munito di vite. Intorno a ciascun disco sono incise due graduazioni: una scala oraria che va da 0 a 24 a partire dal meridiano inferiore dell’osservatore, con suddivisioni di 5 min., sulla quale si leggono le ore civili corrispondenti ai vai fenomeni celesti; una scala in gradi che va da 0 a 360 a partire dal meridiano superiore dell’osservatore, con doppia numerazione, una verso l’interno, sulla quale si leggono l’ora siderea e gli angoli orari degli astri, e l’altra verso l’esterno, sulla quale si leggono le loro coascensioni rette. Sul perno centrale è fissato un filo che quando viene tesato definisce un meridiano della sfera celeste. Diagrammi: consistono in 30 cartoncini stampati su entrambe le facce, metà delle quali riportano le proiezioni stereografiche polari della rete dei verticali e degli almucantarat relativa all’emisfero celeste contenente il polo elevato, per le latitudini comprese fra 0 e 58°, mentre le altre 3O riportano le proiezioni relative all’emisfero celeste contenente il polo depresso. In tutti questi diagrammi, la circonferenza esterna rappresenta l’Equatore Celeste, al centro è situato il Polo Celeste, sulla parte superiore, che rappresenta la porzione del cielo visibile al disopra dell’orizzonte, è riportata la rete dei verticali e degli almucantarat, mentre la parte inferiore, che rappresenta la porzione invisibile, è stampata in nero. La linea che divide le due parti è l’Orizzonte Astronomico. Sulla parte nera di ciascun diagramma è stampato il numero che indica la latitudine dell’osservatore, seguito dalle lettere S o C, le quali indicano se il diagramma si riferisce all’emisfero che ha lo Stesso nome o quello che ha il nome Contrario alla latitudine dell’osservatore. Le due sfinestrature bianche servono a determinare il periodo della luce crepuscolare favorevole all’osservazione delle stelle (crepuscolo nautico). Sulla parte che rappresenta la porzione di cielo visibile, sono stampati in rosso i verticali e gli almucantarat, o circoli di uguale altezza, di cinque gradi in cinque gradi. Il diametro verticale rappresenta il meridiano dell’osservatore, o meridiano locale, sul quale è segnata la scala delle declinazioni degli astri. Nella serie dei 30 diagrammi S, gli azimut relativi ai diversi verticali sono indicati con due numeri supplementari, scritti al piede dei verticali stessi, a contatto dell’orizzonte o sull’orlo del disco. I numeri esterni rappresentano gli azimut quando l’osservatore si trova in latitudine Nord; quelli interni gli azimut quando l’osservatore si trova in latitudine Sud. Le altezze sono indicate dai numeri sul primo verticale, passante per i punti estremi dell’arco dell’orizzonte.
Il punto in cui convergono i verticali rappresenta lo zenit dell’osservatore. Nella serie dei 30 diagrammi C, i numeri scritti al piede dei verticali indicano: quelli in basso, gli azimut quando l’osservatore si trova in latitudine Nord e quelli in alto gli azimut quando si trova in latitudine Sud. Le altezze sono indicate dal numero situato sopra un verticale a destra. Planisferi celesti trasparenti: consistono in due dischi trasparenti che rappresentano le proiezioni stereografiche polari (nella stessa scala dei diagrammi) delle stelle di 1^, 2^e 3^ grandezza (circa 160) comprese negli emisferi Nord e Sud. Sull’orlo di ciascun disco è segnato l’Indice Equinoziale, o Punto Gamma, che indica il meridiano del punto equinoziale di Ariete, nonché una freccia rossa distanziata dal detto punto di 180°, che serve per la lettura delle ascensioni rette degli astri quando sono espresse in tempo, come si usa nelle Grandi Effemeridi Astronomiche.
Inoltre, affinché i meridiani delle stelle rappresentate nei planisferi possano venire ben identificati, lungo l’orlo del disco sono segnate tante piccole frecce che determinano ciascuna il meridiano della corrispondente stella. Quelle più lunghe si riferiscono alle stelle più distanti dalle frecce, quelle più corte alle stelle più vicine.
SAN GIORGIO GENOVA-SESTRI . MATR. N° 33136
Telegrafo di macchina
Italia, terzo quarto XX secolo.
Dimensioni: cm 36x24x135.
Materiali:ottone, vetro e plastica; su basamento di legno.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 007 Trasmettitore elettromeccanico per impartire gli ordini dal ponte di comando alla sala macchine.
Il telegrafo di macchina serve a trasmettere gli ordini dalla plancia alla sala macchine. Il primo modello, inventato dall’inglese Chadburns, era a funzionamento meccanico, con un sistema di trasmissione a catena comandato da entrambi i locali, cosicché le diverse voci di comando date dalla plancia potevano essere ripetute dalla sala macchine per confermare la ricezione. Il telegrafo elettrico, introdotto successivamente, funziona sullo stesso principio, ma la trasmissione è ad impulsi elettrici. Quando, per esempio, l’indice del telegrafo in plancia viene posto sulla voce FERMA, l’indice del telegrafo nel locale macchine si muove portandosi sulla stessa posizione. L’ufficiale di macchina risponde spostando il proprio indicatore e arrestandolo sul FERMA, per confermare il ricevimento dell’ordine. L’indice in plancia compie lo stesso movimento, attestando l’esecuzione del comando. Sulle navi a due eliche si trova un telegrafo per ogni motrice.
San Giorgio - Genova
Telegrafo di macchina o trasmettitore elettrico
matricola n. 33138
Italia, terzo quarto XX secolo.
Dimensioni: cm. 35x124
Materiali: bronzo e ghisa
Collezione Gianbattista ed Enrico Ravano
M.M.T.A. - Invent. n. 231
Trasmettitore elettromeccanico per impartire gli ordini dal ponte di comando alla sala macchine.
JOHN LILLEY & GILLIE. NORTH SHIELDS
Chiesuola con bussola a liquido
Gran Bretagna, secondo quarto XX secolo
Dimensioni: cm 60x36x124
Materiali: ottone, vetro, plastica e liquido; su basamento di legno.
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 073
Bussola con sospensione cardanica marca “F.Fuselli” di Genova (n.77136). Munita di cerchio azimutale per rilevamento.
Colonna cilindrica; chiesuola globulare, con calotta asportabile per accedere al vano interno; sul lato sinistro, lampada elettrica per l’illuminazione notturna; bussola con sospensione cardanica marca F. FUSELLI GENOVA N° 77136, munita di cerchio azimutale per rilevamento. Rosa dei venti a quadrante anulare in mica, stampata su entrambe le facce; doppia graduazione; galleggiante in ottone, sospeso su una punta di agata; due magneti in alluminio, nichel e cobalto (alnico), una lega che aveva un momento magnetico molto più elevato dell’acciaio, a parità di peso, e quindi permetteva all’ago di mantenersi più a lungo sulla posizione corretta; sotto il perno si trova una molla di sospensione che serve ad attutire le vibrazioni. I magneti sono contenuti in tubetti di ottone con le pareti sottili, per proteggerli dalle infiltrazioni del liquido in cui sono contenuti, il quale può essere formato da una soluzione di acqua distillata e alcool al 30%, per evitare il congelamento, oppure petrolio lampante (petrolio bianco bidistillato). Il galleggiante serve per alleggerire il peso del complesso magnetico. Diaframma di espansione in
tombaco (bronzo fosforoso); zavorra in piombo sotto l’anello della sospensione cardanica per mantenerla stabile; mortaio amagnetico; cerchio di sospensione cardanico, con pedini per l’appoggio sui supporti della sospensione elastica antivibrante, fissata sul tamburo della chiesuola, con cerchio terminale lavorato meccanicamente; le sfere poste ai lati della calotta, verde a destra e rossa a sinistra, in ghisa, scorrevoli lungo due apposite slitte, servono per la compensazione quadrantale, cioé per i mezzi venti (intercardinali) SW, SE, NW, NE, al fine di eliminare le deviazioni dovute alla massa metallica della nave. All’interno della colonna ci sono gli alloggiamenti per due serie di magneti longitudinali (posti secondo l’asse di simmetria della nave) e una
serie di magneti trasversali. Si tratta di barrette di acciaio magnetizzato lunghe 200 mm e con un diametro di 6/8 mm. Collocate una sopra l’altra in appositi fori a intervalli regolari, servono a compensare le deviazioni dovute alla posizione della nave nel campo magnetico terrestre. In mezzo alle barrette, si trova un cestello per la compensazione verticale, ossia per annullare gli
effetti dello spostamento del baricentro magnetico, fenomeno che si verifica quando la nave si inclina lateralmente. Esso è costituito da un tubo contenente dei magneti sospesi a catenelle, la cui lunghezza può essere variata a seconda delle necessità. Il cerchio azimutale serve per eseguire dei rilevamenti, fare il punto nave durante la navigazione a vista (basandosi su punti di riferimento notevoli) e correggere le deviazioni magnetiche. La lente serve al timoniere per poter leggere la rosa da lontano.
Livello a binocolo prismatico
Stati Uniti, 1941 - (n.7937)
Dimensioni: cm 13x13x21
Materiali: acciaio e vetro
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 138
Apparteneva al sistema ottico di puntamento di una nave da guerra americana del Secondo Conflitto Mondiale e serviva per fornire la linea di mira orizzontale. Schematicamente, è costituita da una livella fissata a una traversa, ruotante attorno a un perno verticale, che serve per individuare la linea dell’orizzonte. La linea di mira è fatta in modo tale da risultare parallela alla livella.
Corno da nebbia a stantuffo
Olanda, ultimo quarto XX secolo
Dimensioni: cm. 20x9x57
Materiali: ottone, ferro, rame e legno
Donazione Massimo Burzi
M.M.T.A. - Invent. n. 158
Questo strumento serviva a segnalare la presenza del veliero nei banchi di nebbia, in modo da evitare collisioni con altri natanti. In genere, il marinaio addetto alla sua manovra, prendeva posizione a prora estrema, per essere maggiormente udibile a distanza.
Corno da nebbia a stantuffo
mancante di tromba
Gran Bretagna primo quarto XX secolo
Dimensioni: cm. 15x52x10
Materiali: ottone, ferro, rame e legno
Donazione Ernesto Borghi
Questo strumento serviva a segnalare la presenza del veliero nei banchi di nebbia, in modo da evitare collisioni con altri natanti. In genere, il marinaio addetto alla sua manovra, prendeva posizione a prora estrema, per essere maggiormente udibile a distanza.
Leslie Tyfon, Leslie Co. Lyndhurst N.J. - USA
Tromba di corno da nebbia di nave a vapore
USA - secondo quarto del XX secolo
Dimensioni: cm. 34x66
Materiali: bronzo
Collezione Gianbattista ed Enrico Ravano
M.M.T.A. - Invent. n. 233
Costruito dalla Leslie Tyfon, Leslie Co. Lyndhurst N.J. - USA - Matricola EE67-20346-567 - A20015611. Tromba amplificatrice dei fischi a vapore di segnalazione delle navi. È usata ancora oggi in caso di nebbia o per indicare il lato di accostata ad altre navi durante la navigazione in acque ristrette.
Pannello di Bozzelli doppi e semplici, divarie dimensioni e pastecche per cavi di manovra
Italia, Primo quarto XX secolo
Dimensioni: pannello cm. 50x50
Materiali: legno, ferro e corda
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 159
I bozzelli servono per cambiare la direzione di movimento dei cavi e per formare dei paranchi. Ogni bozzello si compone di una cassa, in legno o in ferro, con due facce interne parallele che formano un incavo, nel quale si muove la puleggia, una ruota scanalata sopra la quale si avvolge il cavo. La cassa è generalmente in legno di olmo. Le due facce laterali sono dette maschette. Nel caso che il bozzello abbia due o più pulegge, fra di esse sono applicate delle tramezze. Le maschette e le tramezze sono mantenute a debita distanza per mezzo di tacchi interposti alle loro estremità. I tacchi portano una scanalatura nella parte dove passa il cavo, sono collegati alle maschette tramite incastri a coda di rondine e vengono fissati con ribattini di ferro, ribaditi sopra rosette di rame. Le maschette hanno una scanalatura longitudinale all’estremità di ciascuna faccia, per accogliere lo stroppo del cavo. Quando lo stroppo è doppio vi sono due scanalature parallele. Le pulegge sono in legno santo, oppure in bronzo, per resistere meglio alle grandi sollecitazioni cui sono sottoposte. Nella parte interna viene inserito un dado di bronzo con un foro in mezzo per il passaggio del perno, in modo che non si logori con l’uso. Anticamente le casse dei bozzelli erano fatte in un solo pezzo, per garantire maggiore robustezza e durata.
Campana di bordo
della M/n polacca “Sechura”
Polonia, 1955
Materiali: Bronzo ottonato
Dimensioni: cm. 35x35x36 (senza battacchio)
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 160
Sul frontale si trovano impressi il nome della nave e l’anno di realizzazione. La campana di bordo è posizionata a prora estrema e ha diverse funzioni. In caso di nebbia, con il bastimento alla fonda, deve essere suonata ogni due minuti, per segnalarne la presenza. In fase di ancoraggio, ogni rintocco indica al ponte di comando le lunghezze di catena che sono state filate in mare. Quando si salpa, mediante un rapido tocco, serve a segnalare che l’ancora è libera, cioè ha lasciato il fondo, per cui il comandante può azionare le macchine e partire.
Sea Emergency Devices Co. - New York
Correttore di rotta
Acme Course Corrector
con custodia in legno
U.S.A. - New York, 1940
Dimensioni: Ø cm 26
Materiali: acciaio, in custodia di legno.
Collezione Giovanni Schiaffino
Pannello con 3 parallele da carteggio
Dimensioni: cm. 20x50
Collezione Ernani Andreatta
Dimensioni delle parallele cm 46x10 cm. 32x5 cm. 15x3
usate per carteggiare a bordo alle navi
Elica a tre pale da yacht
Italia, anni ’60
Dimensioni: cm 44 x 14
Materiali: lega di bronzo
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 187
Ruota di Timone
Taiwan, 1990 circa
Dimensioni: diametro cm 110
Materiali:legno, ottone
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 188
Copia di ruota di timone “made in Taiwan”
Ruota di timone a sei
razze su colonnina
con basamento in legno
USA - secondo quarto del XX secolo
Dimensioni: Ø ruota timone cm. 92. colonnina cm. 30x100
Materiali: legno, bronzo ottonato
Collezione Gianbattista ed Enrico Ravano
M.M.T.A. - Invent. n. 232
Guardamano per cucire le vele
Italia, primi del ’900
Dimensioni: cm 12x7
Materiali: tela olona e ferro
Donazione Elio Costanzo
M.M.T.A. - Invent. n. 218
Apparteneva al nostromo Andrea Schiaffino.
Veniva indossato per proteggere la mano durante la cucitura delle vele. Con la parte metallica veniva spinto l’ago per bucare la tela.
Quadro con nodi marinari di vario genere
Italia, 1970
Dimensioni: pannello cm. 86x67
Materiali: corda su pannello di legno
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 161
I “nodi da marinaio” hanno la caratteristica specifica di poter essere sciolti facilmente in caso di bisogno. Sulle navi circola il detto: “poca cima, poco marinaio”. Un vero marinaio, infatti, lascia una lunghezza di cima sufficiente affinché il nodo, venendo in tensione, non abbia la possibilità di sciogliersi accidentalmente. Nel linguaggio marinaresco, a bordo della nave vi è una sola corda, quella che serve a suonare la campana. Tutte le altre si chiamano cime o, quando sono di grandi dimensioni, cavi. Inoltre prendono nomi specifici a seconda dell’uso e della collocazione: sagola (per le bandiere), gherlino, gomena ecc.
Porta di una cabina del veliero
“Ascensione”
Dimensioni:cm. 160x47x4
Materiali:legno di quercia, ferro
Donazione Mariano Topazio
M.M.T.A. - Invent. n. 162
Il veliero Ascensione navigò per ben 48 anni sulle rotte di tutti gli Oceani. I Beraldo lo avevano acquistato a Montevideo nel 1896, mentre, disalberato, aveva appoggiato in quel porto. Nel 1906 vi moriva a bordo il Comandante Eugenio Tappani, fratello di Francesco che fu Podestà di Chiavari, come descritto nel cap. 7 del libro su “Chiavari marinara” pubblicato nel 1993. La nave Ascensione finì i suoi giorni in demolizione a Sestri Levante nel 1922. Con parte del suo legname fu arredato un Bar a Sestri Levante stesso.
Porta in legno di cabina del veliero Ascensione di 1700 tonn. appartenuto agli armatori Beraldo di Recco. La famiglia Beraldo era originaria di Recco. Le prime notizie risalgono al primo ventennio dell’Ottocento, quando un certo Padron Beraldo risultava proprietario di un pinco chiamato “Cortixella” (nome di una frazione sulle alture di Recco). Si trattava di un barco cosiddetto “romanino”, ossia di quelli che verso il 1810 trasportavano merci di valore da Genova a Roma, risalendo il Tevere e rimanendo all’ormeggio sino a che non avevano esaurito tutti i prodotti. La vera fortuna del casato ebbe inizio con il capitano Giuseppe Beraldo, nato nel 1853, che, insieme ai suoi quattro fratelli, tre dei quali erano capitani come lui, dopo aver fatto esperienza su tutti i mari del mondo, alla fine dell’Ottocento decise di costituire la società “Fratelli Beraldo”. Essa disponeva di quattro bastimenti a vela: il brigantino “Gio. Batta Beraldo”, di 167 tonnellate, costruito a Chiavari nel 1891, il brigantino a palo “Maddalena Beraldo”, di 141 tonnellate, anch’esso costruito a Chiavari nel 1891, il brigantino “Trinità” e la nave “Ascensione”, di 1.861 tonnellate, con scafo in ferro, costruita a Liverpool nel 1874 come “Mistley Hall”. Il capitano Beraldo l’aveva acquistata a Montevideo nel 1896, quando si era rifugiata in quel porto dopo essere stata disalberata da una tempesta. Molti ritenevano che non avrebbe potuto più navigare ma il capitano Beraldo, eseguite alcune riparazioni provvisorie, la caricò di grano e la portò a Genova, dove provvide a farla riattrezzare completamente. Essa continuò a navigare ininterrotamente per molti anni. Nel 1906 vi morì a bordo il comandante Eugenio Tappani, fratello di Francesco, noto ingegnere navale che divenne anche podestà di Chiavari. La nave fu demolita a Sestri Levante nel 1922 dove, con parte del suo legname venne arredato un bar.
Lanciasagole
Norvegia, secondo quarto XX secolo
Dimensioni: Lunghezza cm. 98
Materiali: legno e acciaio
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 164
Faceva parte della dotazione di tutte le navi e veniva conservato in un’apposita cassa a poppa. In caso di emergenza (avaria) serviva a dare o a prendere una cavo da rimorchio. Prima si sparava un sottile gherlino (circa 5/6 mm di diametro) per mezzo del fucile lanciasagole. Quando questo veniva recuperato a bordo dell’altro natante, vi si attaccava una gomena (circa 2/3 cm di diametro), che a sua volta veniva issata, attaccandovi poi il vero e proprio cavo da rimorchio.
Shermuly (Supreme N° 1) - Throwing Rocket
Lanciasagole di emergenza - corredato di razzo
Gran Bretagna, 1945
Dimensioni: lanciasagole: cm 50x6 - razzo: cm 23x5.
Materiali: acciaio, ottone, legno
Donazione Giovanni Schiaffino
M.M.T.A. - Invent. n. 211
No. 2 pistole lanciarazzi
Italia, 1950 circa
Dimensioni: cm. 33x4
Materiali: lega metallica e ottone
Collezione Ernani Andreatta
Erano in dotazione alle lance di salvataggio negli anni 1950 e servivano a sparare razzi di diverso colore per chiedere soccorso. Gli stessi segnali sono presenti ancora oggi a bordo delle navi o delle lance di salvataggio, ma vengono lanciati per mezzo di cilindri contenitori, che sostituiscono la pistola e si gettano via dopo l’uso.
Testa di “Heaving line”
per le operazioni di ormeggio
Italia, 1995.
Dimensioni: cm 10x34 - Ø 12
Materiali: corda
Donazione Massimo Burzi
M.M.T.A. - Invent. n. 207
Viene collegato alla sagola da lanciare a bordo delle navi affinchè possano inviare sulla banchina il cavo di ormeggio.
Modelli di ancora tipo “Ansaldo”
senza ceppo e con marre mobili
Italia, 1960 circa.
Dimensioni cm. 8x15 e 8x17
Materiali: lega ottone
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 182
Uno dei rari tipi di ancore per grandi navi ideato in Italia
Ancora tipo “Ammiragliato”
a ceppo mobile e marre fisse
Italia, secondo quarto XX secolo
Dimensioni: 64 x 100
Materiali: acciaio fucinato
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 190
È il modello più antico di ancora, usato a partire dal Medioevo sino alla metà del XIX secolo. Oggi si trova solo su qualche veliero scuola. Anticamente il ceppo era di legno e fisso. L’Ammiragliato Britannico, da cui prese il nome, fu il primo a dotarla di ceppo mobile, più comodo per sistemarla a bordo. Questo tipo di ancora è ottima su fondo sabbioso e fangoso, buona su fondo roccioso.
Ancora tipo “Ammiragliato”
a ceppo mobile e marre fisse
Italia, terzo quarto XX secolo
Dimensioni:33x12
Materiali: acciaio
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 191
Le dimensioni delle ancore variano ovviamente a seconda del tipo e della stazza delle navi, tuttavia le proporzioni tra le misure “significative” restano costanti. Altre ancore a ceppo mobile sono la “Martin” a ceppo fisso e marre snodate che ruotano di 40° sul fuso e la “Trotman” simile alla precedente.
Fanale di via di yacht
Italia, terzo quarto XX secolo
Dimensioni: 14x12x21
Materiali: ottone, vetro
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 183
Oblò da nave
Italia, 1950 circa.
Dimensioni: diametro cm 40
Materiali: ottone, vetro
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 185
Da quando esiste il metallo come elemento di costruzione navale, l’oblò ha sempre rappresentato la classica “finestra” delle cabine.
Termocoppia per il rilevamento della
temperatura a distanza
Italia, 1920
Dimensioni: cm 11x16x50
Materiali: ottone, ferro, rame.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 129
Reinmeyer
Prolunghe di strumentazione per la messa a
punto delle turbine di bordo
Germania, 1955 circa
Dimensioni: cm. 25x13x4
Materiali: lega metallo, ferro
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 193
Prolunghe di strumentazione per la messa a punto delle turbine di bordo in scatola di legno con chiave.
Scatola di Compassi con accessori
Italia - 1950
Dimensioni: cm 16x10
Materiali: ottone e acciaio, in scatola di legno
Donazione Marco Strucchi
M.M.T.A. - Invent. n. 213
Frammento dello scafo del sommergibile
italiano “Giacinto Pollino”
Italia - 1916
Dimensioni: cm 5x9
Materiali: acciaio
Donazione Marziano Tasso
M.M.T.A. - Invent. n. 214
Parte del sistema ottico di puntamento
dell’incrociatore “San Giorgio”
Italia, costruito a Sestri Ponente nel 1940
Dimensioni: cm 16x4x9
Materiali: acciaio, vetro
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 139
Parte del sistema ottico di puntamento di
nave da guerra giapponese
Giappone, 1943
Dimensioni: cm 8x8x23
Materiali: acciaio, vetro
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 140
Spoletta con elica
per testata di bomba di aereo
Italia, 1940 circa
Dimensioni: cm 19x19x7
Materiali: acciaio
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 141
Carl Zeiss, n.360222
Livello per regolazione
delle turbine a vapore di bordo
Germania, secondo quarto XX secolo
Dimensioni: cm 13x9x10
Materiali: lega metallica, acciaio, vetro e bachelite
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 142
Contagiri meccanico per motori elettrici
Italia, 1930
Dimensioni: cm 11x5
Materiali: acciaio
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 144
L’esemplare è dotato di scatola e accessori. La scala dei giri va da 0 a 10.000 RPM.
The L.S.Starret Co. - Athol, Mass, USA
Termometro montato su rubini
USA, 1950 - Dial test Indicator n 196B
Dimensioni: cm 3,5x8
Materiali: acciaio e vetro
Collezione Ernani Andreatta
Contagiri meccanico per motori elettrici. Montato su rubini. Scala giri da 0 a 10.000 RPM. Dotato di scatola e accessori.
Contagiri meccanico per motori elettrici
USA, 1950 - (Dr E.Horn)
Dimensioni: cm 14x7
Materili: acciaio, vetro, alluminio e gomma
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 146
L’esemplare è dotato di scatola e accessori. Ha due scale di lettura che vanno rispettivamente da 0 a 3.000 e da 0 a 7.500 RPM.
James G. Biddle Co. Plymouth Meeting
Contagiri meccanico per motori elettrici
USA 1955 - Pa 19462, (Hand Tachometer n.592091)
Dimensioni: cm 15x8
Materiali: acciaio, vetro, gomma e bachelite
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 147
Distanziometro Marina
La Spezia - 1935 circa
Donazione Maria Marchese Gibelli
M.M.T.A. - Invent. n. 234
Appartenuto al Comandante Nicola Marchese, nato a Chiavari il 2/4/1899 e deceduto il 22/5/1986.
Questo strumento misurava la distanza che intercorre tra un osservatore e un oggetto di nota altezza. Era utile per mantenersi in formazione o per ancorarsi a determinata distanza rispetto ad un altra nave. Esso consisteva in una lente di grande curvatura fissata ad una scala circolare di distanza graduata fino a 4000 Yards (1 Yard = 3 Piedi inglesi = 0,914 mt.). La distanza dell’osservatore dall’oggetto è indicata sulla scala circolare dal punto di incrocio dell’indice con la graduazione corrispondente all’altezza dell’oggetto osservato.
Strumenti di calcolo
• Calcolatrice tascabile “Cervello d’acciaio” S.G.
• Calcolatrice da tavolo
• Regolo calcolatore da tavolo per studio tecnico (dotato di astuccio)
• Regolo calcolatore tascabile
• Calibro di precisione con contatore in decimi di millimetro
con custodia in legno
Calcolatrice tascabile “Cervello d’acciaio” S.G.
Italia, 1950
Dimensioni: cm 15x7
Materiali: acciaio.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 134
E’ dotata di astuccio e libretto d’istruzioni. Può eseguire le quattro operazioni (addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione) fino al numero 99.999.999.
“Artieselskab - Original Odhner - Gotheborg”
Calcolatrice da tavolo
Esegue le 4 operazioni
Svezia, 1950 - Palae 8333 - KBHVN,V
Dimensioni: cm 36x15x12
Materiali: acciaio
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n.135
Modello in dotazione a banche e uffici durante gli anni 1950-60. Esegue le 4 operazioni.
Albert Nestler A-G Lahr i/B
Regolo calcolatore da tavolo
per studio tecnico (dotato di astuccio)
Germania - D.R.G.M. DR Patent - System Rietz n 23R
Dimensioni: cm 29x4
Materiali: plastica
Donazione Franco Tommasino M.M.T.A.
Invent. n. 136
Lo strumento è dotato di astuccio. Veniva utilizzato negli studi tecnici e di progettazione.
Regolo calcolatore tascabile
Germania, 1950 circa
Dimensioni: cm 12x2,5
Materiali: plastica
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 137
Calibro di precisione
con contatore in decimi di millimetro con custodia in legno
Italia - 1930
Dimensioni: cm 23,5x10
Materiali: acciaio e vetro, in custodia di legno
Donazione Marco Strucchi
M.M.T.A. - Invent. n. 212
È un oggetto interessante, con un caratteristico contatore a orologio in decimi di millimetri per le misure di precisione.
Telegrafi, grammofoni, radio e radiocomandi
• Telegrafo “Morse” ricevente e trasmittente
• Trasmettitore “Belinographe” tipo Amateur
• Fonografo “Edison”
• Grammofono a manovella “La Voce del Padrone” a 78 giri
• Grammofono a manovella (manca la tromba di amplificazione)
• Registratore a filo metallico “Webster Chicago”
• Registratore a cartucce “Bell”
• Mangiadischi “Philips”
• Radioricevitore a “Galena” con cuffia di ascolto
• Radioricevitore a reazione e due valvole
• Radioricevitore a tre valvole a onde medie
• Altoparlante a tromba “Brown”
• Radioricevitore a otto valvole a neutrodina
• Radioricevitore a sei valvole a neutrodina con antenna a telaio
• Radioricevitore a tre valvole a onde medie costruito da Mario Tommasino
• Radioricevitore “Radiola 33 - RCA”
• Radioricevitore a quattro valvole “Ansaldo-Lorenz” S.A
• Radioricevitore modello “City”
• Radioricevitore Marelli modello “Coribante”
• Radioricevitore Magnadyne modello “Balilla”
• Radioricevitore Marelli a cinque valvole a onde medie e corte
• Radioricevitore Marelli tipo “Fido - il compagno inseparabile”
• Radioricevitore a onde medie, corte e lunghe con giradischi a 78 g
• Microfono “Fono Vaam”
• Cuffia “Brown” (adoperata dal marconista dell’Elettra)
• Pannello di controllo per valvole termoioniche
• Pannello completo di controllo per elettrotecnico
• Radiocomandi ad impulsi e scappamento
• Cinepresa “Paillard
Telegrafo “Morse”
ricevente e trasmittente
Italia, 1890
Dimensioni: cm 28x20x28
Materiali:rame avvolto su ferro dolce, ottone
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 094
Fu utilizzato sino agli anni 1960 circa dalle Ferrovie e dai Telegrafi dello Stato. I messaggi venivano battuti con il tasto ad una velocità di circa 10 parole al minuto. Con questo apparecchio si potevano trasmettere fino a dieci parole al minuto e il messaggio veniva ricevuto sotto forma di segni tracciati da una punta scrivente su un nastro di carta, detto “zona”. I segni dovevano poi essere decifrati e trascritti a mano. Le lettere dell’alfabeto erano indicate da combinazioni di segnali brevi e lunghi (punti e linee). Congegni simili vennero utilizzati sino alla fine degli anni 1960 dai Telegrafi di Stato e dalle Ferrovie. Un meccanismo a molla trascinava il nastro di carta. Due elettrocalamite ricevevano gli impulsi elettrici e azionavano la penna, che tracciava i punti e le linee. Il tasto di trasmissione era un semplice interruttore che, muovendosi, apriva e chiudeva un circuito. Se rimaneva abbassato per lungo tempo, il segnale era più lungo e il ricevitore tracciava una linea; se rimaneva abbassato solo un istante, l’impulso era breve e il ricevitore tracciava un punto. Nel 1873 re Guglielmo IV d’Inghilterra concesse un brevetto per un telegrafo elettrico a William Fothergill Cooke, un fabbricante di modelli anatomici, e al fisico Charles Wheatstone. Questo telegrafo aveva cinque fili collegati a cinque aghi, che venivano deviati a due a due, in modo che ogni coppia indicasse un segnale sul quadrante. L’anno successivo, Samuel Morse registrò presso l’Ufficio Brevetti americano la descrizione di un telegrafo a un solo filo. Nel 1851 venne posato un cavo sottomarino che, attraverso il Canale della Manica, collegava Dover, in Inghilterra, con Cap Griz Nez, in Francia. Questo cavo era stato isolato con della guttaperca, una sostanza simile alla gomma ricavata da una pianta tropicale, e quindi era stato rivestito di canapa e di ferro galvanizzato. Fu l’inizio della rete telegrafica internazionale, che in pochi decenni avrebbe collegato tutti gli angoli del globo. Navi speciali vennero attrezzate per la posa dei cavi sui fondali oceanici. Una delle più famose fu la “Great Eastern”, il colosso progettato e costruito da Isambard K; Brunel, che si era rivelata un fallimento come nave-passeggeri ma ebbe grande successo nel nuovo ruolo. Nel 1855, l’americano David Hughes inventò un telegrafo scrivente, grazie al quale l’operatore poteva trasmettere i messaggi battendoli su una tastiera, in cui ogni tasto rappresentava una lettera. La macchina trasformava automaticamente le lettere in segnali elettrici e, all’altro capo della linea, un’altra macchina ricevente stampava il messaggio in chiaro. La trasmissione di telegrammi su linee sprovviste dell’apparecchiatura di Hughes divenne più rapida dopo il 1858, quando Wheatstone brevettò un sistema a nastro perforato. Gli operatori perforavano su un nastro i messaggi in alfabeto Morse, poi il nastro veniva fatto passare in un apparecchio trasmittente alla velocità di 75-100 parole al minuto. All’altro capo, una punta scrivente tracciava i segnali su un nastro di carta. Il primo sistema di telegrafia bi-direzionale, che permetteva di trasmettere contemporaneamente i messaggi nelle due opposte direzioni, venne brevettato dall’americano J. B. Stearns nel 1872. Quello stesso anno, il francese Jean-Maurice-Emile Baudot presentò un sistema di telegrafia multipla, nel quale si potevano trasmettere due o più messaggi sulla stessa linea e nella stessa direzione. Il primo servizio telegrafico per abbonati venne istituito a Berlino, in Germania, nel 1903. Una centrale gestita dall’amministrazione postale tedesca era collegata con un centinaio di aziende, ciascuna delle quali disponeva di una macchina trasmittente e ricevente, una specie di combinazione di un trasmettitore Baudot con una stampante Hughes. La macchina sulla quale si digitava il messaggio veniva collegata manualmente dalla centrale con quella del destinatario. Il telegrafo raggiunse l’apice della sua popolarità come mezzo di comunicazione alla fine del XIX secolo, poi cominciò lentamente a declinare a causa dell’introduzione di nuovi sistemi e di nuove apparecchiature, come la radio e il telefono.
Trasmettitore “Belinographe”
tipo Amateur
Italia, 1910
Dimensioni: cm 38x25x22
Materiali: Mobiletto in metallo e legno di mogano.
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 095
Rinvenuto fra i cimeli di un Ufficiale del Regio Esercito Italiano che partecipò alla guerra di Libia nel 1911-’12. Poteva
trasmettere messaggi e telefoto. In pratica era l’antenato del moderno fax. Questo apparecchio fu rinvenuto tra i cimeli di un ufficiale del Regio Esercito Italiano che partecipò alla guerra di Libia del 1911-12. Poteva trasmettere messaggi e telefoto, in pratica era l’antenato del moderno fax. Il mobiletto è dotato di coperchio e di chiusura per il trasporto.
L’invenzione risale al 1907, quando l’ingegnere francese Edouard Belin brevettò un sistema meccanico grazie al quale si poteva variare l’intensità della corrente in base a quella dell’immagine da trasmettere. Presentò così il suo primo “fototelegrafo” il quale, successivamente modificato, divenne il “telestereografo” Belin del 1922. I Francesi utilizzarono l’ultimo tipo di apparecchio Belin, il “Belinographe” modello 1928, per trasmettere le impronte digitali dei malviventi. Il “Belinografo” traduce in variazioni di corrente elettrica le variazioni di intensità del bianco, del grigio e del nero. Belin trovò il sistema di esplorare con un congegno elettromagnetico le fotografie, i disegni, i documenti scritti ecc. e di tradurli in impulsi elettrici, in modo da poterli inviare a chilometri di distanza per mezzo delle reti telegrafiche. Il ricevitore, simile al trasmettitore, captava i segnali e e li ricomponeva, ottenendo la riproduzione del messaggio o della fotografia.
Fonografo “Edison”
Italia, 1865
Dimensioni: cm 29x19x60
Materiali: Mobiletto in legno di mogano e metallo
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 096
Thomas Alva Edison fu l’uomo che inventò il domani. Nella sua vita, lunga ed eccezionalmente cretiva, brevettò circa 1.300 invenzioni, fra cui la lampadina elettrica e il fonografo. Egli fu tra i pionieri del cinema in America.
L’invenzione del fonografo è del 1877. Notare che l’apparecchio è anche dotato di quattro rocchetti di cera dove è incisa la musica. Il mobiletto è munito di una chiave per il caricamento della molla del congegno di ascolto. L’apparecchio dispone di quattro rocchetti a cera, uno dei quali riporta incisa la “Marcia Turca”.
Sin dai tempi più antichi, l’uomo ha accarezzato il sogno di riprodurre i suoni e la voce umana. Dobbiamo a un grande erudito dell’Ottocento, l’inglese Thomas Young, studioso di fisica, medicina e altre discipline, la messa a punto delle basi teoriche che permisero in seguito l’invenzione del fonografo. Egli, infatti, fu il primo a rappresentare graficamente le vibrazioni provenienti da una fonte sonora. Il suo strumento misurava il numero e l’ampiezza delle vibrazioni e provvedeva poi a tracciare una linea ondulata su un cilindro rotante per mezzo di uno stilo. Nel 1857 un altro studioso, Leon Scott de Martinville, riprese le sue ricerche, dando finalmente la spinta decisiva. Questi, partendo dall’anatomia dell’orecchio umano, realizzò uno strumento consistente in una specie di grande corno che portava alla fine una sottile membrana grande quanto una moneta, la quale era collegata a un sistema di leve che trasmetteva le sue vibrazioni a una punta. Essa, strisciando su un cilindro rivestito di carta cosparsa di nerofumo, registrava le vibrazioni sonore grazie al movimento rotatorio del cilindro, che veniva azionato a mano per mezzo di una manopola. Era nato il “fonoautografo”, ma si trattava solo di una trascrizione grafica del suono e non di una riproduzione udibile. Leon Scott, come ogni precursore che si rispetti, morì povero e abbandonato a Parigi nell’aprile 1874. Ma la via era stata ormai tracciata. Due anni dopo, Thomas Alva Edison costruì il primo “fonografo”, che rispecchiava nelle linee generali l’apparecchio di Scott, con la novità di riuscire a riprodurre un suono finalmente udibile grazie a due modifiche sostanziali: la carta nerofumo era stata sostituita con un foglio di stagnola e la punta di registrazione veniva azionata direttamente dalla membrana. Terminata la registrazione, il cilindro veniva riportato nella posizione primitiva e la punta, ripercorrendo il solco, trasmetteva alla membrana una serie di vibrazioni che riproducevano, seppure in modo approssimato, il suono originale. Da quel momento, la tecnica di registrazione e diffusione del suono si sviluppò freneticamente. Nel 1897 Emile Berliner perfezionò l’apparecchio, utilizzando per la prima volta un disco di zinco ricoperto da uno strato di cera, mettendo così da parte il vecchio cilindro e inaugurando l’era del disco.
Grammofono a manovella “La Voce del Padrone” a 78 giri
Italia, 1925
Dimensioni: cm 50x38x62
Materiali: Mobiletto in legno laccato e metallo
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 097
L’apparecchio è dotato di un’elegante tromba di amplificazione e di un congegno di caricamento a manovella. Le puntine dovevano essere cambiate dopo ogni disco.
Grammofono a manovella
(manca la tromba di amplificazione)
Italia, 1928
Dimensioni: cm 35x35x30
Materiali: Mobiletto in legno di rovere e metallo
Collezione Ernani Andreatta
Il mobiletto è finemente intagliato e decorato.Registratore a filo metallico.
“Webster Chicago”
Stati Uniti, 1946
Dimensioni cm 31x46x61
Materiali: metallo
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 099
Rappresenta uno dei primi tentativi per la riproduzione del suono mediante la registrazione su un filo metallico opportunamente magnetizzato. E’ l’antenato degli odierni registratori a nastro.
Registratore a cartucce “Bell”
Stati Uniti, 1950
Dimensioni: cm 28x15x27
Materiali: metallo
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 100
Tra i primi registratori a nastro, antecedenti degli attuali registratori a cassette. Il suono viene riprodotto mediante la registrazione su un nastro magnetizzato.
Mangiadischi “Philips”
Italia, 1970
Dimensioni: cm 30x33x12
Materiali: Mobiletto in plastica e metallo
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 101
Molto diffuso negli anni 1970, era in grado di suonare tutti i dischi a 45 giri.
Radioricevitore a “Galena”
con cuffia di ascolto
Italia, 1925
Dimensioni: cm 9x15x15
Materiali: Mobiletto in legno
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 104
La “Galena” è un minerale che si poteva trovare nelle miniere di carbone, in Sardegna. I segnali radio, per le speciali
caratteristiche di questo minerale, si potevano ricevere, seppure solo in cuffia, senza energia elettrica. La manopola di controllo si trova sul frontale. Le trasmissioni radio potevano essere ascoltate solo in cuffia. Il tipo di radioricevitore più semplice era quello con “rivelatore” a cristallo di galena (PbS), un solfuro di piombo, o a “carborundum” (SiC), il classico abrasivo delle mole, oppure a zincite (ZnO). Si trattava di materiali semiconduttori che avevano il potere di lasciare scorrere la corrente elettrica in una sola direzione. Ciò permetteva di rettificare le deboli correnti a radiofrequenza, captate dall’antenna, così da rivelare il segnale (voce o suono) e renderlo udibile in una cuffia telefonica. Per antonomasia, i piccoli ricevitori utilizzanti il rivelatore a galena e con spiralina di contatto (detta “il baffo di gatto”), venivano chiamati “a galena”. Le apparecchiature di questo tipo permettevano l’ascolto unicamente in cuffia, salvo il caso in cui la stazione trasmittente fosse potente e vicina.
Radioricevitore a reazione e due valvole
Italia, 1920
Dimensioni: cm 26x23x24
Materiali: Mobiletto in legno di noce
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 103
Apparecchio dotato di tre manopole di controllo. Veniva usato per compiere esperimenti di trasmissione. Un apparecchio simile era installato sul dirigibile “Norge” durante la trasvolata artica compiuta da Umberto Nobile.
Radioricevitore a tre valvole a onde medie
Italia, 1925
Dimensioni: cm 41x19x21.
Materiali: Mobiletto: bachelite e metallo
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 107
Apparecchio dotato di cinque manopole di controllo. Funzionava a corrente continua. Circuiti reattivi con bobine a nido d’ape.
Constructions Radioelectriques Less Jannin , Paris
Radioricevitore modello “City”
Francia, 1925
Dimensioni: cm 53x27x21
Materiali: Mobiletto in legno di mogano
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 106
Apparecchio dotato di cinque manopole di controllo. Per accedere al vano interno ci sono due sportelli: uno sul coperchio e uno sul frontale. I circuiti elettrici, con valvole speciali a basso consumo e dispositivo per il controllo delle tensioni, sono mascherati da un elegante mobiletto. Fu una delle prime radio di lusso poste in commercio.
Radioricevitore a tre valvole a onde medie
costruito da Mario Tommasino
Italia, 1926
Dimensioni: cm 40x24x20.
Materiali: Mobiletto: bachelite e metallo
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 112
Apparecchio dotato di cinque manopole di controllo.
Altoparlante a tromba“Brown”
Gran Bretagna, 1925
Dimensioni: cm 31x34x57
Materiali: Supporto in legno di faggio; tromba in metallo
e bachelite
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 108
Il meccanismo dello “spillo”, ad eccitazione elettromagnetica, è contenuto all’interno del mobiletto. Sul retro si trova la
regolazione della tonalità. In quegli anni gli altoparlanti non venivano incorporati nell’apparecchio radio, a causa delle loro ingombranti dimensioni, ma realizzati in unità esterne autonome. Dai primi altoparlanti a tromba, modellati a collo di cigno o a manica a vento e derivati direttamente dalla cuffia telefonica, si passò a quelli a cono con grande membrana, capaci di riprodurre più fedelmente i suoni. Erano il preludio a quelli elettrodinamici che sarebbero entrati nell’uso generale.
Radioricevitore a otto valvole a neutrodina
Gran Bretagna, 1927
Dimensioni: cm 76x29x27
Materiale del mobiletto: legno di castagno
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 111
Radioricevitore a sei valvole a neutrodina
con antenna a telaio
Gran Bretagna, 1926
Dimensioni: cm 52x24x109
Materiali: Mobiletto in mogano con intersi in ebano
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 110
Apparecchiatura dotata di quattro manopole di controllo e della tipica antenna a telaio, che era divenuta il simbolo stesso della radio.
Radio Corporation of America Loudspeaker
Radioricevitore “Radiola 33 - RCA”
Stati Uniti, 1928 - model 100 A serial n. 1103166EE
Dimensioni: cm 39x19x28
Materiali: Mobiletto in antimonio
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 113
È dotato di altoparlante separato “RCA” (Radio Corporation of American). Schema: circuito ad amplificazione diretta con sintonia a comando unico mediante accordo di tre stadi amplificatori in AF, con tre condensatori, variabili ad aria e coassiali. Gamma d’onda OM. Sette tubi elettronici a zoccolatura americana tipo RCA. Mobiletto in ferro verniciato del peso complessivo di 25 Kg. Coperchio sollevabile per accedere ai circuiti interni. Uno dei primi modelli importati dagli Stati Uniti, funzionava a corrente alternata e aveva due comandi sul frontale, uno per il volume e l’altro per la sintonia, oltre al pulsante di accensione.
Radioricevitore a quattro valvole “Ansaldo-Lorenz” S.A.
Italia, 1930
Dimensioni: cm 20x45x20
Materiali: Mobiletto in metallo
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 114
Le apparecchiature di questo tipo venivano fabbricate nello Stabilimento Elettrotecnico di Genova-Cornigliano, prima che la produzione venisse trasferita a Milano. Dotato di altoparlante separato “Radiolavox” con telaio in metallo.
Radioricevitore Marelli modello “Coribante”.
Italia, 1930
Dimensioni: cm 40,5x21x23,5
Materiali: Mobiletto in mogano con intarsi in acero
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 115
Fu la prima radio a sei valvole con altoparlante incorporato costruita in Italia. Schema: circuito ad amplificazione diretta con sintonia a comando unico mediante accordo di tre stadi amplificatori in AF, con condensatore variabile ad aria a tre sezioni coassiali. Condensatore di compensazione posto all’interno del circuito d’antenna. Gamma di ricezione OM. Cinque tubi elettronici a zoccolatura americana. Scala di sintonia numerica. Alimentazione a corrente alternata. Due manopole di regolazione, rispettivamente per volume e sintonia. Il mobiletto a scrigno, in mogano lucidato, porta sul frontale una sottile cornice a intarsio che circoscrive un fregio in bachelite, con un motivo stellare in corrispondenza dell’altoparlante. Al di sopra dei comandi laterali, ci sono due mascherine a forma di scudo che comprendono rispettivamente il visualizzatore di scala (illuminato dall’interno) e il motto “Il meglio in radio”, che costituiva la sigla pubblicitaria della Società Anonima Radiomarelli.
Con la concessione del servizio radiofonico nazionale all’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (EIAR), approvata con decreto legge il 17 novembre 1927, la radiofonia in Italia assunse il carattere (che manterrà a lungo) di un servizio pubblico affidato a una società di azionisti sotto il controllo diretto dello Stato. Quattro membri del Consiglio di Amministrazione dell’EIAR erano infatti di nomina governativa, mentre presso il Ministero delle Comunicazioni era istituito un Comitato Superiore di Vigilanza, composto di 16 membri nominati dal Capo del Governo. Lo Stato si riservava così il diritto di intervenire sulla natura e sui contenuti dei programmi, di sospendere o di limitare l’esercizio delle stazioni per ragioni militari o di ordine pubblico, di prendere possesso degli impianti o di assumere direttamente il servizio, riscattando la concessione con preavviso di un anno. Il pagamento del canone EIAR era obbligatorio per i possessori di ricevitori e per tutti i pubblici esercizi. La società concessionaria, da parte sua, corrispondeva allo Stato un canone annuo pari al 3,5% del suo fatturato lordo.
Radioricevitore Magnadyne modello “Balilla”.
Italia, 1935 - No. 01165E
Dimensioni: cm 32x21x34
Materiali: Mobiletto: abete impiallacciato con fascio
littorio in metallo sul frontale
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 116
Radioricevitore Marelli
a cinque valvole a onde medie e corte
Italia, 1946
Dimensioni: cm 38x20x22
Materiali: Mobiletto in legno di noce e palissandro
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 117
Apparecchio dotato di quattro manopole di controllo e circuito supereterodina.
Radioricevitore Marelli
tipo “Fido - il compagno inseparabile”
Italia, 1948
Dimensioni: cm 21x12x13
Materiali: Mobiletto in bachelite
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 118
Apparecchio dotato di due manopole di controllo. Date le sue ridotte dimensioni, poteva essere trasportato ovunque, anche se non era ancora alimentato a corrente di rete.
Radioricevitore a onde medie, corte e
lunghe con giradischi a 78 giri
Italia, 1939
Dimensioni: cm 61x40x92
Materiali: Mobiletto in legno e radica
Donazione Maria Luisa Bacigalupo
M.M.T.A. - Invent. n. 105
Tipica radio completa degli anni ’40 con giradischi a puntina che doveva essere cambiata ogni disco. Società anonima “La voce del Padrone” - Columbia Marconiphone – Milano - Modello 1562.
Microfono “Fono Vaam”
Italia, 1935
Dimensioni: cm 14x14x27
Materiali: bachelite e metallo
Donazione Famiglia Tabaroni
M.M.T.A. - Invent. n. 102
È dotato di interruttore per l’accensione e di spia rossa per il funzionamento. Apparteneva all’impianto di amplificazione del Teatro Verdi di Chiavari, e rimase in funzione fino alla sua demolizione negli anni 1960.
Cuffia “Brown”
(adoperata dal marconista dell’Elettra)
Gran Bretagna, 1925
Dimensioni: cm 20x10x18
Materiali: metallo, bachelite
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 109
Questa cuffia, in uso presso la stazione radiotelegrafica dello yacht “Elettra”, la nave a bordo della quale Guglielmo Marconi condusse i suoi più importanti esperimenti, fu donata a Mario Tommasino da Adelmo Landini, operatore radio di bordo.
Pannello di controllo per valvole termoioniche
Italia, 1930
Dimensioni: cm 24x15x12
Materiali: mogano, bachelite, ottone
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 119
Provavalvole portatile usato da Franco Tommasino
Pannello completo di controllo
per elettrotecnico
Italia, secondo quarto XX secolo
Dimensioni: cm 129x76x21
Materiali: Basi degli strumenti in legno teak e mogano
Donazione Famiglia Canepa
M.M.T.A. - Invent. n. 120
Provavalvole universale SIPIE per valvole americane ed europee, con ricerca dei dati per le valvole nuove o non riportate nella tabella. Apparteneva a Giovanni Bettini.
Franco Tommasino
Radiocomandi ad impulsi e scappamento
Italia, dal 1950 al 1990.
Dimensioni: varie
Materiali: vari
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 156
Con questi radiocomandi Mario Tommasino ha eseguito le prove in acqua dei modelli navali da lui costruiti.
Cinepresa “Paillard”
Francia, 1946
Dimensioni: cm. 20x20x20
Materiali: vetro, acciaio, bachelite e lega metallica
Donazione Mario Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 157
Con questa cinepresa Mario Tommasino realizzava i servizi filmati da inviare alla sede RAI di Milano. Quando fu necessario aggiungere il commento sonoro alle immagini, installò sui registratori una speciale testina da lui ideata, per consentire di montare subito le riprese. Infine modificò la cinepresa per adattarvela.
Attrezzi di cantiere
• Pannello Utensili appartenuti a Francesco Bertuletti
• Pannello Utensili appartenuti a Francesco Bertuletti
• Pannello Utensili appartenuti a Francesco Bertuletti
• Cassa porta utensili appartenuta a Francesco Bertuletti
• Pannello Utensili appartenuti a Ambrogio, Bruno e Marco Maccianti
• Pannello utensili del cantiere navale Gotuzzo
• Pannello utensili del cantiere navale Gotuzzo
• Pannello utensili appertenuti a Vittorio Tommasino
• Pannello utensili appertenuti a Vittorio Tommasino
• Pannello utensili appertenuti a Vittorio Tommasino
• Pannello utensili appartenuti a Stefano, Luigi e Angelo Risso
• Pannello utensili appartenuti a Giuseppe Tirone
• Piccoli utensili di vario uso
•Pannello utensili appartenuti a Augusto e Giulio Moladuri
• Cassa utensili appartenuta a Augusto e Giulio Moladuri
• Pannello utensili appartenuti a Davide Solari
• Pannello utensili appartenuti a Mario e Gino Solari
• Pannello utensili appartenuti a Mario e Gino Solari
• Pannello utensili appartenuti a Mario e Gino Solari
• Pannello utensili appartenuti a Michele Sanguineti
• Pannello utensili appartenuti a Ernesto Borghi
• Pannello utensili appartenuti a Michele Dall'Orso
• Pannello utensili appartenuti a Giuseppe Raffo
• Pannello utensili appartenuti a Giuseppe Attilio Dall'Orso
• Pannello utensili appartenuti a Sabatino Puri
• Utensile smussa angoli
• Martello “timbro” appartenuto a Eugenio Gotuzzo
• Sega a due mani “Serön”
• Oggetti Appartenuti a Giovanni Tirone
• Oggetti appartenuti agli ascendenti della famiglia Benini
Pannello Utensili
Italia, prima metà XX secolo
Dimensioni: cm 80 x 80
Materiali: legno e acciaio, su pannello di legno
Donazione famiglia Bertuletti
M.M.T.A. - Invent. n. 166
Appartenuti a Francesco Bertuletti detto “Pein” Valente e apprezzato maestro d’ascia, Francesco Bertuletti (Chiavari 1902-1982) iniziò la sua attività lavorativa presso il cantiere navale Gotuzzo di Chiavari, dove prestò la sua opera per circa dieci anni, riparando e costruendo golette, leudi, rivanetti, motoscafi e lance. In seguito passò alle dipendenze del cantiere navale di Riva Trigoso, in qualità di capo tecnico. Nel 1936 fu mandato con una squadra di operai a Massaua, in Eritrea, per costruire dei depositi sotterranei per la nafta. Nel 1940, dopo il siluramento delle navi italiane a Taranto da parte degli aerei inglesi, si recò nella base navale per tamponare le falle delle unità colpite e consentire di riportarle a galla. Quindi ritornò a Genova per continuare i lavori di riparazione della corazzata “Duilio”, che nel frattempo era stata rimorchiata in bacino di carenaggio. Dopo l’8 settembre 1943, seguendo le disposizioni dei Cantieri Navali Riuniti, con i suoi operai contribuì a mettere in salvo alcuni importanti macchinari, trasferendoli nell’entroterra chiavarese a bordo di autocarri, per evitare che fossero requisiti dai Tedeschi. Volendo celebrare i suoi 43 anni di lavoro, il cantiere navale di Riva Trigoso lo insignì della Medaglia d’Oro al Merito.
Pannello Utensili
Italia, prima metà XX secolo.
Dimensioni: cm 80 x 80
Materiali: legno e acciaio, su pannello di legno
Donazione famiglia Bertuletti
M.M.T.A. - Invent. n. 167
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti al maestro d’ascia Francesco Bertuletti detto “Pein”
Pannello Utensili
Italia, prima metà XX secolo.
Dimensioni: cm 80 x 80
Materiali: legno e acciaio, su pannello di legno
Donazione famiglia Bertuletti
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti al maestro d’ascia Francesco Bertuletti detto “Pein"
Cassa porta utensili
Italia, prima metà XX secolo
Dimensioni: cm 76x36x30
Materiali: legno e acciaio, in cassa di legno
Donazione famiglia Bertuletti
M.M.T.A. - Invent. n. 169
Cassa contenente attrezzi da lavoro appartenuti al maestro d’ascia Francesco Bertuletti detto “Pein”
Pannello Utensili
Italia, prima metà XX secolo
Dimensioni: cm 48x100
Materiali: legno e acciaio, su pannello di legno
Donazione Famiglia Maccianti
M.M.T.A. - Invent. n. 170
Appartenuti a Ambrogio Maccianti detto “Gigio”, Bruno Maccianti e Marco Maccianti detto “Marchin”.
Ambrogio Maccianti (Chiavari 23 giugno 1902-16 maggio 1993), di origine toscana, cominciò a lavorare nel cantiere Gotuzzo a soli otto anni. Sin da giovane, mostrò capacità non comuni che lo fecero apprezzare, prima in Italia e poi all’estero, come uno dei più valenti costruttori di barche in legno. Egli tramandò la sua arte al figlio Erminio, che continuò l’opera del padre. Dal capannone dei Maccianti, situato in fondo a Corso Buenos Aires, uscivano dei veri capolavori, gozzi e barche di ogni tipo che suscitavano l’ammirazione dei compratori. Il legno, inteso come materiale da costruzione, per i Maccianti non aveva segreti. L’armonia delle linee, la robustezza della costruzione e la perfezione del prodotto, erano di altissimo livello e difficilmente ripetibili. Marco Maccianti, fratello di “Gigio”, cominciò a lavorare in tenera età presso i cantieri Piceni e Tappani come calafato e verniciatore. Appassionato suonatore di chitarra, che era sicuramente la sua vera vocazione, aveva uno speciale strumento a nove corde con i bassi volanti.
Pannello utensili
Italia, prima metà XX secolo
Dimensioni: cm 100 x 120
Materiali: legno e acciaio, su pannello di legno
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 171
Pannello con attrezzi da lavoro del cantiere navale Gotuzzo - Rione Scogli – Chiavari.
La struttura immobiliare del cantiere fu costruita nel 1904 da Luigi Gotuzzo e demolita negli anni Settanta, quando la famiglia ne aveva ormai ceduto la proprietà. In precedenza, nel 1939, era stata demolita la caratteristica casa, situata in Piazza Gagliardo, dove si trovavano l’Ostaia do Tacchetti e il relativo orto.
Pannello utensili
Italia, prima metà XX secolo
Materiali: Dimensioni: cm 100 x 120
legno e acciaio, su pannello di legno
Donazione Palma Andreatta in Pinasco
M.M.T.A. - Invent. n. 172
Pannello con attrezzi da lavoro del cantiere navale Gotuzzo. - Rione Scogli – Chiavari Eugenio Gotuzzo, detto “Mario” (Chiavari 1883-1935), fu l’erede e continuatore del padre Luigi. In quel periodo era in atto una vera rivoluzione nel campo delle costruzioni navali. Il metallo stava sostituendo il legno e il motore prendeva il posto della vela. L’ultimo grande veliero realizzato agli Scogli fu la nave-goletta “Fidente”, varata nel 1922. Nel 1935 il cantiere fu venduto a Mariano delle Piane di Novi Ligure. Eugenio morì il 21 novembre 1935, a pochi mesi dalla cessione. L’epoca dei Gotuzzo come costruttori di velieri era giunta al capolinea.
Pannello utensili
Italia, prima metà XX secolo.
Dimensioni: cm. 100 x 60
Materiali: legno e acciaio, su pannello di legno
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 173
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti al maestro d’ascia Vittorio Tommasino detto “Cicìa”. Chiavari 1887-1967.
Oltre a lavorare presso il cantiere Gotuzzo, Vittorio Tommasino si dedicò spesso alla manutenzione dello “Elettra”, il famoso yacht di Guglielmo Marconi.
Pannello utensili
Italia, prima metà XX secolo
Dimensioni: cm. 100 x 60
Materiali: legno e acciaio, su pannello di legno
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 174
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti al maestro d’ascia Vittorio Tommasino detto “Cicìa”
Pannello utensili
Italia, prima metà XX secolo
Dimensioni: cm. 100 x 60
Materiali: legno e acciaio, su pannello di legno
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. - Invent. n. 175
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti al maestro d’ascia Vittorio Tommasino detto “Cicìa”.
Pannello utensili
Italia, prima metà XX secolo
Dimensioni: cm. 48 x 100
Materiali: legno e acciaio, su pannello di legno
Donazione famiglie Tirone e Baldassarri
M.M.T.A. - Invent. n. 177
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti al maestro d’ascia Giuseppe Tirone detto “Pippo do Ninn-a”.
Alla fine del XIX secolo, a Chiavari si mise in luce un giovane maestro d’ascia, Giuseppe Tirone, che mostrava eccellenti capacità nell’analisi della qualità del legno, con particolare riguardo al tempo di stagionatura. Egli sapeva sfruttare il materiale nel miglior modo possibile, seguendone il cosiddetto “gaibo”, cioé la forma originaria del pezzo, e adattandolo alle diverse parti dello scafo da costruire. Per decenni prestò la sua opera nel cantiere navale Gotuzzo, poi si mise in proprio e continuò a costruire gozzi e imbarcazioni a vela minori.
Piccoli utensili di vario uso
Italia, prima metà XX secolo
Dimensioni: cm. 40 x 40
Materiali: legno e acciaio, su pannello di legno
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 178
Pannello con piccoli attrezzi da cantiere di vario tipo
Pannello utensili
Italia, prima metà XX secolo.
Dimensioni: cm 50 x 60
Materiali: legno e acciaio su pannello di legno
Donazione famiglia Moladuri
M.M.T.A. - Invent. n. 179
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti ai calafati Augusto Moladuri detto “Chello” e Giulio Moladuri detto “Terremoto”. I Moladuri erano originari di Virle Treponti (Brescia). Augusto Moladuri (10 ottobre 1884-16 gennaio 1966) cominciò a svolgere la sua attività come calafato presso il cantiere Gotuzzo, dove rimase sino al 1913. in seguito lavorò al cantiere di Riva Trigoso, al Consorzio Autonomo del Porto di Genova, ad Ancona, ad Andora, nella Riviera di Ponente, nei cantieri di Sampierdarena, all’Ansaldo di Sestri, nel cantiere Frassinetti di Camogli e nel cantiere Alfio di Santa Margherita.
Cassa utensili
Italia, prima metà XX secolo.
Dimensioni: 23 x 19 x 48
Materiali: legno e acciaio, in cassa di legno
Donazione famiglia Moladuri
M.M.T.A. - Invent. n. 180
Cassa contenente attrezzi da lavoro appartenuti ai calafati Augusto Moladuri detto “Chello” e Giulio Moladuri detto “Terremoto”. Giulio Moladuri, detto “Terremoto” per la sua bonaria irruenza, nacque a Chiavari il 29 agosto 1922. Allievo del padre Augusto, lavorò anch’egli nel cantiere degli Scogli, che nel 1935 era passato dai Gotuzzo a Mariano Delle Piane. Poi si trasferì a Riva Trigoso, Santa Margerita, Andora, Camogli, Sampierdarena, Ansaldo di Sestri Ponente, Sestri Levante e infine nuovamente Chiavari.
Pannello utensili
Italia, prima metà XX secolo
Dimensioni: cm 80x40
Materiali: legno e acciaio
Donazione Gibatta Solari “l’Americano”
M.M.T.A. - Invent. n. 197
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti al maestro d’ascia Francesco Davide Solari detto “Il Cinquanta”.
Francesco Davide Solari prestò la sua opera di maestro d’ascia nelle prime decadi del Novecento sia presso il cantiere Gotuzzo, sia presso il cantiere Tappani. Era noto per la grande precisione dei suoi giudizi sulla qualità del legno. I cantieri genovesi e del Ponente ligure ricorsero frequentemente alla sua esperienza. I figli Andrea detto “Luigi” e Luigi detto “Gigio” continuarono la sua opera di costruttore di barche in legno. Alla scuola di questa famiglia, detti “i Cinquanta” si formarono diversi apprendisti che, imparata l’arte di lavorare il legno, divennero poi apprezzati maestri d’ascia.
Pannello utensili e strumenti
Italia, secondo e terzo quarto XX secolo
Dimensioni: cm 80x60
Materiali: legno e ferro, su pannello di legno
Donazione Giannina e Marina Solari
M.M.T.A. - Invent. n. 199
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti ai maestri d’ascia Mario Solari detto “Marietto” e Gino Solari.
Mario Solari (Chiavari 1904-1987) a sedici anni lavorava già nel cantiere di Eugenio Gotuzzo, dimostrando subito notevoli capacità, tanto che più tardi ne divenne il Direttore Tecnico. Dopo il passaggio di proprietà a Mariano Delle Piane, la Regia Marina ordinò una serie di motoscafi velocissimi che, dotati di un motore “Carraro” da 300 CV, alimentato ad alcool, sviluppavano una velocità di 46 nodi. Durante la guerra “Marietto” rimase sempre al suo posto sino al varo, nel 1946, di un dragamine per la Marina Militare, la cui costruzione era iniziata negli anni precedenti. Alla fine del conflitto, il Conti Trossi entrò come socio nel cantiere e Mario ebbe una parte importante nella costruzione di 250 motoscafi equipaggiati con motori FIAT della “Topolino”, marinizati dalla Cattaneo. Quindi si dedicò alla costruzione dei motoscafi della serie “Utility”, lunghi quattro metri e mezzo con fasciame a clinker in mogano e ad altri tipi di imbarcazioni. Dopo il ritiro dall’attività, l’eredità tecnica passò al figlio Gino (Chiavari 1936-1997). Questi, nella sua lunga carriera, ha firmato circa 500 progetti di imbarcazioni da diporto: dalla “Paraggina” del 1959, costruita in 35 esemplari, al “Riviera”, lungo 18 metri, avversario dello “Ischia” di Baglietto, e costruito in 50 esemplari, al “Supercorvetta”, di cui furono realizzati circa 30 esemplari. Inoltre si è dedicato a modelli fuori serie o monotipo. Nel 1968, quando il cantiere fu rilevato dall’industriale milanese Gualtiero Divisi, Gino Solari fu nominato Direttore Generale. Nel 1974 si ritirò dall’azienda, un anno prima che questa chiudesse. Da allora ha continuato a progettare barche per conto di altri costruttori.
Pannello utensili
Italia, secondo e terzo quarto XX secolo
Dimensioni: cm 80x60
Materiali: legno e ferro, su pannello di legno
Donazione Giannina e Marina Solari
M.M.T.A. - Invent. n. 200
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti ai maestri d’ascia Mario Solari detto “Marietto” e Gino Solari.
Pannello utensili
Italia, secondo e terzo quarto XX secolo
Dimensioni: cm 80x80
Materiali: legno e ferro, su pannello di legno
Donazione Giannina e Marina Solari
M.M.T.A. - Invent. n. 201
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti ai maestri d’ascia Mario Solari detto “Marietto” e Gino Solari.
Pannello utensili
Italia, secondo e terzo quarto XX secolo
Dimensioni: cm 80x60
Materiali: legno e ferro, su pannello di legno
Donazione Michele Sanguineti
M.M.T.A. - Invent. n. 209
Pannello utensili
Italia, terzo quarto XX secolo.
Dimensioni: cm 40x120
Materiali: legno e ferro, su pannello di legno
Donazione Ernesto Borghi “Cocco”
M.M.T.A. - Invent. n. 216
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti a Ernesto Borghi detto “Cocco”.
Pannello utensili
Italia, prima metà XX secolo
Dimensioni: cm 40x50
Materiali: ferro e legno, su pannello di legno
Donazione famiglia Magnelli
M.M.T.A. - Invent. n. 220
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti a Michele Dall’Orso.
Pannello utensili
Italia, prima metà XX secolo
Dimensioni: cm 40x50
Materiali: ferro e legno, su pannello di legno
Donazione Biondi - Sanguineti
M.M.T.A. - Invent. n. 198
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti al maestro d’ascia Giuseppe Raffo detto “Giose”.
Giuseppe Raffo era molto apprezzato come maestro d’ascia. Eugenio Gotuzzo lo scelse anche per guidare il personale che lavorava nel cantiere. In pratica aveva il potere di decidere sulle assunzioni. Ma il direttore non mancava mai di esprimere il suo parere, sebbene non amasse molto immischiarsi in tali faccende. Così, dall’alto della scala che portava al piano superiore del cantiere, gridava spesso al Raffo: “Se i son Toscani, no ne pigià (Se sono Toscani, non ne prendere)”. Il suo comportamento era frutto della prevenzione della gente degli Scogli per i forestieri, tuttavia non si può dimenticare che molte delle famiglie che vennero a stabilirsi nel quartiere erano proprio di origine toscana.
Pannello utensili
Italia, prima metà XX secolo
Dimensioni: cm 40x30
Materiali: ferro e legno, su pannello di legno
Donazione Famiglia Dall’Orso
M.M.T.A. - Invent. n. 224
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti al maestro d’ascia Giuseppe Attilio Dall’Orso detto “Taicin”.
“Taicin” Dall’Orso (Chiavari 17 marzo 1892-4 febbraio 1965) era molto conosciuto agli Scogli per la sua abilità di maestro d’ascia. Un documento datato 27 settembre 1921 rilasciato dall’Ufficio Circondariale Marittimo del Porto di Oneglia lo abilitava a costruire barche fino alla portata di 50 tonnellate. Questa autorizzazione era importante ai fini della certificazione dei natanti da lui costruiti, oppure soltanto visionati durante la costruzione. Come molti maestri d’ascia chiavaresi del suo tempo, fu allievo dei Gotuzzo, imparando al meglio la difficile arte di lavorare bene il legno. In seguito si recò a lavorare ad Andora, nella Riviera di Ponente. Nel 1922, in seguito alla crisi del cantiere, prese la via del mare imbarcandosi come carpentiere su piroscafi che navigavano in linea africana, fra il Congo e l’Inghilterra. Nel 1946, nei pressi dei bagni “Tirrenia” a Chiavari, costrì lo “Altair I”, un cutter a motore da 26 tonnellate. Dopo la guerra prestò la sua opera anche nel cantiere di Riva Trigoso. “Taicin” Dall’Orso (Chiavari 17 marzo 1892-4 febbraio 1965) era molto conosciuto agli Scogli per la sua abilità di maestro d’ascia. Un documento datato 27 settembre 1921 rilasciato dall’Ufficio Circondariale Marittimo del Porto di Oneglia lo abilitava a costruire barche fino alla portata di 50 tonnellate. Questa autorizzazione era importante ai fini della certificazione dei natanti da lui costruiti, oppure soltanto visionati durante la costruzione. Come molti maestri d’ascia chiavaresi del suo tempo, fu allievo dei Gotuzzo, imparando al meglio la difficile arte di lavorare bene il legno. In seguito si recò a lavorare ad Andora, nella Riviera
di Ponente. Nel 1922, in seguito alla crisi del cantiere, prese la via del mare imbarcandosi come carpentiere su piroscafi che navigavano in linea africana, fra il Congo e l’Inghilterra. Nel 1946, nei pressi dei bagni “Tirrenia” a Chiavari, costrì lo “Altair I”, un cutter a motore da 26 tonnellate. Dopo la guerra prestò la sua opera anche nel cantiere di Riva Trigoso.
Pannello utensili
Italia, prima metà XX secolo
Dimensioni: cm 40x50
Materiali: ferro e legno, su pannello di legno
Donazione Famiglia Puri
M.M.T.A. - Invent. n. 225
Pannello con attrezzi da lavoro appartenuti al calafato Sabatino Puri detto “Sabin”. Castel San Nicolò (Arezzo) 16 ottobre 1895-Chiavari 7 novembre 1979. La famiglia si trasferì a Chiavari quando Sabatino aveva solo cinque anni. A nove anni lavorava già come guardiafuni alle gallerie di Sant’Anna, sull’Aurelia, fra Cavi di Lavagna e Sestri Levante. Doveva controllare le corde che tenevano legati gli operai impegnati nella pulizia della collina dai massi e dalle pietre pericolanti. Poi andò a lavorare in ferrovia come addetto alla palificazione, ma perse il posto per aver rifiutato di iscriversi al Partito Nazionale Fascista. Negli anni 1937-38 trovò impiego temporaneo come bagnino alla Colonia Fara. In seguito cominciò a operare come calafato presso un piccolo cantiere di Riva Trigoso. Era particolarmente abile nell’impermeabilizzazione del ponte di coperta. Nel biennio 1943-44 fu anche alle dipendenze dei Tedeschi dai quali, ogni tanto, riceveva in regalo un prezioso sacco di farina o di grano. Si recava al lavoro in bicicletta, percorrendo tutto il tratto fra Chiavari e Riva.
Utensile smussa angoli
Italia, prima metà XX secolo
Dimensioni: cm 30x4
Materiali: legno e ferro
Donazione Tassinari
M.M.T.A. - Invent. n. 223
Veniva usato per arrotondare gli spigoli vivi, impugnandolo con le due mani.
Martello “timbro”
appartenuto a Eugenio Gotuzzo
Italia, 1920
Dimensioni: 33x12
Materiali: legno, ferro
Donazione Caterina e Maria Colomba Cantero
M.M.T.A. - Invent. n. 192
Questo martello, con le iniziali EG in rilievo, serviva ad Eugenio Gotuzzo per firmare le tavole che entravano nel suo cantiere. Bastava un colpo secco per marchiare qualsiasi tipo di legno.
Sega a due mani “Serön”
Italia, 1920
Dimensioni: cm. 146x28
Materiali: legno, ferro
Donazione Maria Luisa Bacigalupo
M.M.T.A. - Invent. n. 196
Tipica sega a due mani per il taglio di tronchi, anche di grosse dimensioni.
Serviva per tagliare gli alberi di alto fusto dai quali si ricavano le tavole per il fasciame. Veniva adoperata da due boscaioli, molto robusti, che eseguivano movimenti lenti e cadenzati, in modo da portare via più legno possibile a ogni passata. La lama era protetta da un fodero per evitare che perdesse il filo.
Oggetti Appartenuti a Giovanni Tirone
Materiali: Legno, ferro, ottone, vetro
Donazione : Maria Tirone
M.M.T.A. - Invent. n. 237
No. 2 Oblò (diam.cm 38) con vetro e galletti
No. 1 maniglia di avviamento motore Diesel (cm 22x26) della barca da pesca di Giovanni Tirone
No. 1 distanziatore in ferro (cm 20x20)- No. 1 retino (“salaio”) mancante della rete (cm 145x53)
No. 1 puleggia in metallo rotonda (diam.cm15)
No. 1 picozzo senza manico (cm.21x13,5)
No. 1 scaletta per salire da mare a bordo
No. 3 scalini (cm.104x29)
Oggetti appartenuti agli ascendenti della famiglia Benini
Materiali: Legno, ferro, corda
Donazione Italo Benini
M.M.T.A. - Invent. n. 238
No. 1 bozzello cm. 6,5 x 3 -
No. 1 bozzello cm. 23 x 10 -
No. 1 Bozzello cm. 53 x 19 -
No. 1 picchetta cm. 25 x 11
Attrezzi da pesca
• Lampada a petrolio per una “Lampara”
completa di rubinetteria e 3 lampadine
• Arpione per balene
• Fiocina (fuxina) per pesci e polipi
• Coppia di fiocine (fuxine) per pesci e polipi
• Galleggiante per palamiti o reti da pesca
“Sirio” - C. 6000
Lampada a petrolio per una “Lampara”,
completa di rubinetteria e 3 lampadine
Genova, prima metà del XX secolo
Materiali: Dimensioni: cm 60x60x91
lamierino smaltato (blu all’esterno, bianco all’interno) e vetro
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 122
Dato l’alto costo delle batterie e le difficoltà per ricaricarle, le lampade a petrolio furono usate per molto tempo anche nel secondo dopoguerra. Il petrolio veniva polverizzato per mezzo di una pompa a mano nelle calze delle lampadine.
Arpione per balene
Norvegia, secondo quarto XX secolo.
Dimensioni Lunghezza cm. 74
Materiali: acciaio
Collezione Ernani Andreatta
M.M.T.A. - Invent. n. 163
Dim. pannello cm. 100 x 60
Arpione autentico usato a bordo delle baleniere
Fiocina (fuxina) per pesci e polipi
Italia, 1940 circa
Dimensioni: 44x14
Materiali: lega di bronzo
Donazione famiglie Tirone e Baldassarri
M.M.T.A. - Invent. n. 186
Apparteneva a Juanin Tirone che, sin dagli anni Quaranta, armava gozzi da pesca nel Rione Scogli.
Coppia di fiocine (fuxine) per pesci e polipi
Chiavari, 1940 circa
Dimensioni: cm 14x28 e 16x33
Materiali: acciaio
Donazione Ernesto Borghi
M.M.T.A. - Invent. n. 217
Appartenevano a Ernesto Borghi, detto “Cocco”, ed erano usate per la pesca di pesci e polipi.
Le fiocine erano il complemento di un’attrezzatura composta anche di polpiere (arpette) secchio con il fondo in vetro (bougio), per vedere sott’acqua, e lancetta a remi con poppa quadrata. Le fiocine erano munite di asta in legno che poteva raggiungere una lunghezza di 4 o 5 metri, per colpire a distanza.
Galleggiante per palamiti o reti da pesca
Ø cm 12,5
Materiali: Vetro e retina di spago
Donazione Carmen Righetti
M.M.T.A. - Invent. n. 235
Supporti per archiviazione dati
• Floppy disch Digital
• Floppy disch da 5”
• Floppy disch VAX
• Floppy disch da 3,5”
Floppy disch Digital
1980
Capacità 2.000 Kb. Prezzo nel 1984 lire 200.000
Alcuni prezzi del 1982: pane lit/Kg 1.500 - paga netta di un operaio lit/g 22.000* (*) intendiamo la paga netta quella di un operaio che si mette in tasca, e lavora 220 giorni all’anno e guadagna con 13ª, ferie e liquidazione 4.400.000 lire all’anno.
Floppy disch da 5”
1982
Questi dischetti sono comparsi sul mercato quando sono iniziate le produzioni di personal computer Pc. Capacità 500 Kb. Prezzo nel 1982 lire 23.000 - nel 1990 lire 3.500 Alcuni prezzi del 1982: pane lit/Kg 1.500 - paga netta di un operaio lit/g 22.000* (*) intendiamo la paga netta quella di un operaio che si mette in tasca, e lavora 220 giorni all’anno e guadagna con 13ª, ferie e liquidazione 4.400.000 lire all’anno.
Floppy disch VAX
1988
Capacità 2.000 Kb. Prezzo nel 1988 lire 50.000 Alcuni prezzi del 1988: pane lit/Kg 2.000 - paga netta di un operaio lit/g 30.000* (*) intendiamo la paga netta quella di un operaio che si mette in tasca, e lavora 220 giorni all’anno e guadagna con 13ª, ferie e liquidazione 6.600.000 lire all’anno.
Floppy disch da 3,5”
1988
Questi dischetti sono comparsi sul mercato quando sono iniziate le produzioni di personal computer con grandi memorie fisse, oltre 1.000.000 di byte.
Capacità 1,4 Mb. Prezzo nel 1988 lire 15.000 - nel 1997 lire 1.200 Alcuni prezzi del 1988: pane lit/Kg 2.000 - paga netta di un operaio lit/g 30.000* (*) intendiamo la paga netta quella di un operaio che si mette in tasca, e lavora 220 giorni all’anno e guadagna con 13ª, ferie e liquidazione 6.600.000 lire all’anno.
I bastimenti costruiti dai Gotuzzo agli Scogli di Chiavari
Elenchiamo di seguito i bastimenti costruiti in Chiavari dalla famiglia Gotuzzo.I nomi dei capitani sono quelli che risultavano a bordo al momento del rilievo sui Libri Registri e, naturalmente soggetti a mutamenti, malgrado fosse uso comune sui bastimenti del tempo rimanere imbarcati per molti anni; sono nomi in gran parte chiavaresi e, nella totalità liguri, benché cominciassero ad affacciarsi in questo settore i primi marittimi meridionali. È consolante però che moltissimi bastimenti, costruiti da chiavaresi, gestiti da chiavaresi, fossero armati con capitani e marinai chiavaresi e della Riviera. Di alcuni bastimenti non siamo riusciti a raccogliere tutte le caratteristiche non sempre riportate sui libri registri.
Tipo Nome Armatore Anno-Stazza Capitano
- BUONA FAM-----DALL’ORSO F----1838---08--- Dall'Orso.
B.P. CONCORDIA----DALL’ORSO F.----1840---260---Dall'Orso
- ARCHIMEDE---- RAFFO E. --------1842---312---Troia
- WASHINGTON- MUSANTE D.-----1842---202---Musante D..
B.P. BUON GIUSEPPE-DALL’ORSO M.-1847---320---Mazzini
B. LAURA- --------BERTOLOTTO L.-1848--- 197---Chiesa F.
B. S. MICHELE ------DALL’ORSO F.---1849----220---Dall'Orso.
B. MARIA STELLA-PALLOTTI P.---- 1850-----50----Fattorini G..
B. MONTEVIDEO---LAVAGNA GB.-- 1851---238----Lavagna G.b.
B. VITTORIA------SAN MICHELE L.-1851---193---San Michele
B.P. GIUSEPPE------CHICHIZOLA-----1853---181---Benno P.
B. GIOVANNINO---LOMBARDO F.--- 1853--186----Scarinci
B.G. ROSA------------SANGUINETI F.--1855---69----Ravenna
B. MARIA TERESA--RAZETO F.-------1856- 204----Razeto
B.P. MASSINISSA-----DALL’ORSO F.---1857--340----Dall'orso N.
B.G. CARLOTTA-------DALL’ORSO F.---1857----73----Dall'orso l.
B.P. SPARTACO-------RAFFO CASARETO-1858--444-Maglione
B. AGIDE-----------DALL’ORSO F.-----1858---250--Dall'orso.
B. SATURNINA-----DALL’ORSO F.-----1859---392--Dall'orso.
B.P. LIVIETTA-------- DALL’ORSO F.-----1859----98--Bottaro
B. DUE FRATELLI----MORTOLA A.----- 1860--346--Olivari G.B.
B.P. FIDO--------------BOZZO A.--------1861--365-- Bozzo A.
B.G. SAN GIOVANNI---BORZONE G.-----1861---89---Borzone B.
B.P. FANNY-------------BRACCO M.-------1862---75---Vassallo F.
B.P. LIBERO------------DALL’ORSO F.----1864- 470---Mazzino T.
B.P. MARIA BORZONE- BORZONE P.-----1864--438-- Schiaffino
B.P. GIULIA P.-----------PARIS L.---------1865--401--Paris L.
B.G. ASSOCIAZIONE---DALL’ORSO L.---1865--578---Selasco
B.P. CHIAVARI----------Raffo Casareto -1865--572---Dodero N.
B.P. ITALIA LIBERA-----LAVARELLO-----1867--895---Gardella
B.G. SAN GIOVANNi---- BORZONE G.---1861--- 89---Borzone.
B.P. FRUGONI DEVOTO-SANGUINETI F.1869---503---Gallo.
B.G. ENEA---------------QUESTA G.B.---1869--105---Descalzo
B.P. MARIA LUISA------SCHIAFFINO G.-1870-703---Schiaffino
B.P. STEFANO-----------SANGUINETI F.-1870-314---Sanguineti
B.P. AGOSTINO B.------BADARACCO----1870-651---Badaracci S.
B.P. CAROLINA---------DALL’ORSO D.---1870-578---Mazzini T.
B.G. ANGELA MADRE---ABBO F.----------1870--70---Saglietto S.
B.P. LUIGIA MADRE-----DALL’ORSO F.--- 1871-593--Cassinelli
B.P. TRE SORELLE S.----SOLDI T.---------1871--622--SOLDI
B.P. GIUSEPPE----------SANGUINETI F.--1872--557--Sanguineti
B.P. INDIPENDENZA----DALL’ORSO D.---1872--598--Gavino
B.G. MARIA--------------MARANA G.-----1873--682--Marana G.
B.P. ALBATROS----------S. ARM ORNEN-1874--895--Cederbere C.
B.G. ANGELA MADRE---COPELLO F.-----1874---69---Copello M.
B.P. RINNOVATO------ DALL’ORSO B.-- 1874--712--Dall'orso.
B.P. FORTUNA----------DALL’ORSO F.----1874-1042--Chiama D.
B.P. RICORDO--------- DALL’ORSO M.---1875--948--Gherardi
B.P. STEFANO PADRE--SANGUINETI F.--1875--554--Elice V.
B.G. ANGIOLA MADRE-COPELLO F.------1875---69--Copello M.
B.P. ANGELA------------SANGUINETI F.--1876--871--Sivori
B.P. LINDA--------------COPELLO F.------1877--100--Copello F.
B.P. ATALANTA-------SANGUINETI F.-1878-342--Questa G.
B.P. MARIA-----------S.SANGUINETI-1878-220--Bonsignori
B.G. ISAURE------------MATTAT -------- 1878--232--Maré Nantes
B.P. TERESA C.----------COPELLO L.----- 1878--400--Copello L.
B.P. LA MARIA---------- SANGUINETI F.--1879--269--Sanguineti
- ANNA RIVAROLA--- RIVAROLA G.----1880--273--Rivarola G.
B.P. CECILIA MADRE----VALLE S.--------1881--627--Schiaffino G.
B.P. AFFEZIONE---------DALL’ORSO M.--1884-1.019-Stagno P.
B.G. MARIA COPELLO-- COPELLO F.-----1885---319--Copello E.
B.G. PAPA’ G.------------STAGNARO------1885----81--Biaggini
B. GIAN BATTISTA P.-GHIO F.LLI-------1888----77--Ghio T.
B.G. LIGURIA ----------DALL’ORSO MA.--1889---112--Sanguineti L.
Bovo A. LETIZIA......... STAGNARO.........1889-----49..Toso
B.P. NEMESI------------SCHIAFFINO B.---1889--1.060-Repetto G.B.
B.G. ASSUNTA IN CIELO GHIO T.----------1891----154--Casoni
B.P. FRANCESCO -------SANGUINETI F.----1891--1.083-Mazzini
B.G. MARIA LUIGIA---- STAGNARO C.-----1891----134-Stagnaro E.
B.P. COLOMBO--------- DALL’ORSO MA.---1891-----921-Lagomarsino
B.G. ROSA-------------- SANGUINETI F.---1893-----399-Canepa
B.G. FEDE-------------- CAPURRO L.-------1895-----128-Bevilacqua
N.G. DUE SORELLE B.--BENVENUTO A.----1900--1.445--Benvenuto
N.G. SULTANA--------- MONGIARDINO G.-1901----155--Malfatti A.
B.P. ROMA-------------- MASSA F.-----------1902----568--MASSA F.
B.P. BEATRICE---------- BENVENUTO A.----1902--1.489--Chiappella
B.G. GUGLIELMO AUGUSTA-PASSAGLIA----1902----187--PassagliaV.
B.G. DEA----------------- ARDOINO F.-------1903----160--Rossi V.
B.G. FELICINA----------- TORRE P.----------1903----164-Delcarlo P.
N.G. LUISA-------------- BENVENUTO A.----1904--1.648-Masiello A.
N.G. GIOVANNINO------ LEPORINI----------1905----323--Malfatti
B.G. GIUSEPPE PADRE-- LEPORINI F.G.......1905----285--Tomei S.
B.G. CARLO---------------FABRICATTO------1906----234--Faggioni
- APOLLONIA ---------S.ITALIANA NAV.-1908----206--Bacigalupo
- MARCO POLO------ REGIA MARINA----1908----221 --------
- SUD---------------- ROSINI EUG------1908-----22 ----
N.G. ANDREA PADRE--- ASTE M. ----------1910--- 184---Baghino
M.V. ROMOLO------------ SCHIAPPACASSE -1910------7------------
GO. UNIONE IT. CEMENTI- SANGUINETI----1913----222--Sanguineti
B.G. CAMPOFRANCO------ GUADAGNINI----1914----201-----------
B.G. URANIA-------------- ARDOINO F.------1914----377---Rossi V.
B.G. GIGINO-------------- MAGRINI L-------1914----200-----------
B.G. COMERCIO DE ESQUINA-BONGIORNO-1915---178---Gariglio
N.G. UTILE -------------- SANGUINETI------1915---304---Guidi A.
B.G. TRICOLORE--------- PIRRO S.----------1918---266---Padrini A.
B.G. GAETANO------------ ESPERIA----------1919---137 ------------
B.G. MONTALDO---------- DI GAETANO M.--1919----135--Cassissa A.
RIM. ALCIONE------------ ODERO N.---------1919-----11--S. Salva
RIM. AIRONE------------- NERI TITO---------1919-----11 ------------
M/N. BUSTO ARSIZIO---- SA. LIG. PIEM.----1920--1.046--Odero N.
B.G. OTTAVIA------------- TOMEI L.-----------1921---259--Partiti G.
N.G. FIDENTE------------ GAROFALO R.------1922----392--De Matheis
GO. SS. VERGINE BONARIA MORETTO S.----1923----108--Moretto G.
M.B. PESCA G.Padre----- BIANCHI ANTONIO-1926----29-----------
BARCA CARNIGLIA -.---------------------------1928-----------Carniglia
BARCA GOVERNATORE SOMALIA -------------1930-------- Governo It.
LEUDO PODESTA’ ------------------------------1931----46------------
JAWL ALCIONE --------------------------------1933--------------------
Legenda
I bastimenti costruiti dai Gotuzzo agli Scogli - III
B.P. = Brigantino a palo;
B. = Brigantino;
B.G. = Brigantino goletta;
N.G. = Nave goletta;
M.V. = Motoveliero
GO. = Goletta;
RIM. = Rimorchiatore;
M/N = Motonave
Le costruzioni dei Gotuzzo a Lavagna
Prima che quest’opera fosse terminata siamo venuti in possesso, per nostra fortuna, dì un documento eccezionale ed inconfutabile datato Febbraio 1894 che elenca le costruzioni navali nei Cantieri di Chiavari e Lavagna dal 1 Gennaio 1884 al 31 Dicembre 1893. La preziosa pubblicazione ci è stata fornita da Pietro Berti, storico appassionato e valente ricercatore. Da questa pubblicazione, edita dal Comune dì Sestri Levante, abbiamo desunto le costruzioni eseguite da Luigi Gotuzzo a Lavagna che vanno naturalmente aggiunte alla produzione di Chiavari.
Tipo--Nome------------------Armatore-----------------------Portata T.
B.P. -- GIULIA MARIA MADRE----GHIO STEFANO---------------949
Leudo TRE FRATELLI -------------GHIO F.LLI FU DOM.-----------46
Leudo AIUTO IN DIO--------------ZOLEZZI DOMENICO FU M. --53
Bovo MADRE ROSA---------------CHIAPPE ANTONIO FU L. -----43
Pareg. NUOVA ANTONIETTA------STAGNARO G.B. FU A. --------92
Leudo ZEFFIRO AGENO-----------SCIACCALUGA BOERO --------23
Leudo S. GIUSEPPE---------------SCIACCALUGA P. e G.----------23
Leudo GIOVANNI GUSTAVO------GHIO AGOSTINO DI G.-------- 11
Leudo MIO PADRE ---------------ANTONIO OLIVIERI F.LLI FU A.-48
Leudo NUOVO SAN GIACOMO----DIGHERO ROSA FU G.----------11
Leudo CONFIDENZA IN DIO------ZOLEZZI STEFANO FU D.-------77
Leudo ORLANDO NUOVO---------ZOLEZZI ANTONIO FU A.-------37
Leudo GIOVANNI PADRE----------CASTAGNOLA GIOVANNI FU L.--37
Come si può notare tutte le imbarcazioni sono di modeste dimensioni e nella quasi totalità leudi ad eccezione del GIULIA MARIA MADRE; infatti i Gotuzzo, forse per mancanza di spazio ai cantieri degli Scogli, hanno prodotto un gran numero di costruzioni a Lavagna; un numero abbastanza alto, tenendo anche conto che il documento in nostro possesso riporta la produzione di soli nove anni dal 1884 al 1893. In seconda ipotesi è possibile che i Gotuzzo abbiano “prestato” il nome di costruttore a qualche maestro d’ascia che non aveva le necessarie autorizzazioni a costruire in proprio.
Legenda
B.P. = Brigantino a palo;
B. = Brigantino;
B.G. = Brigantino goletta;
N.G. = Nave goletta;
M.V. = Motoveliero
GO. = Goletta;
RIM. = Rimorchiatore;
M/N = Motonave
I bastimenti costruiti dai Tappani
Anche per il Costruttore Matteo Tappani elenchiamo i bastimenti costruiti nei cantieri di Chiavari secondo l’anno in cui è avvenuto il varo. Anche per questi valgono le avvertenze riportate per il Gotuzzo.
Tipo Nome –Armatore-----Anno---Stazza-Capitano
B.P. ELISA ------VASSALLO V.-----1861----- 621 --- VASSALLO V.
B.P. VENEZIA----RAFFO S.-------- 1866 ---- 642 --- PRAELI L.
N.G. IGNAZIO---LAVARELLO G. --1866 –--- 475 --- FERRO A.
N.G. VIRGINIA- SCHIAFFINO A.--1867------498----- SCHIAFFINO
B.P. FENICE ----RAGGIO M. ------1867------593-----SOLARI L.
B.P. ERASMO--- RAFFO E.-------- 1867----- -568---- CALVO T.
B.P. PETRONILLA-VICINI G.-------1867------576---- VICINI L.
- PORTOFINO --GUERELLO E.-----1867------498-----MARCIANI G.
B.P. APPENNINO-CHIARELLA F.---1868------673-----RAVENNA A.
B.P. G.B. D’ASTE -D’ASTE G.B.--- 1868------624 --- CAFFARENA C.
B.P. LUIGIA---- SANGUINETI F.— 1868------496 ----SANGUINETI
B.P. SOLLECITO-RAFFO S.------- 1868------ 554---- FRUGONE C.
B.P. G.PADRE --DALL’ORSO F.--- 1868------673---- ZOLESI D.
B.P. A.COSTA---COSTA G. ------- 1868-------622---- DACCONE G.
B.P. IRIDE---CHIARELLA F.--------1869-------617 ----ROSSI P.
B.P. TIMOLEONE-DALL’ORSO F.—-1869-------614-----CAUSI
B.P. TRIDENTE-GAGLIARDO C.--- 1869-------554---- PERASSO
B.P. ANTONIO-RAFFO E.---------- 1869-------640-----CANEPA G.B.
B.P. CARLO FRUGONI-FRUGONI—1870-------643-----FRUGONI G.F.
B.P. ENRICO -----------RAFFO E---1870-------407----CANEPA F.
B.P. UNIONE RAGGIO – PORCELLA-1870----- 582---SOLARI M.
B.P. PELLICANO-------- RAFFO S.—1870----- 902--- MAGLIONE F.
B.P. SANTA GIULIA-----VASSALLO-1870----- 621----VASSALLO V
B.P. BEPPINO R.-------- REPETTO—1872----- 593----CAFFARENA F.
B.P. INDIA --------------RAFFO S.-- 1872-----802----BANCALARI A.
B.P. FRANCESCA SCOGLI-DALL’ORSO-1873--646----BARBIERI A.
B.P. EST ----------------BANCA SCONTO-1874-952--DALL’ORSO
B.P. ORION -------------AMSINELD---1874----895---ODE W.H.
B.P. FRATELLI SCARSELLA-SCARSELLA-1874- 869---SCARSELLA
B.P. SUPERBO RECCHESE-FERRO-----1875----901---FIGARI C.
B.P. LUIGIA RAFFO----- RAFFO-------1875-----972--BULASCO E.
B.P. RISSE770 C.------- CICHERO----1875-----889--GOTUSSO G.
B.P. M. TAPPANI-------- CICHERO S. 1875-----889---RITTORE T.
B.P. STELLA B.---------- BERTELL-----1876-----861--BONSIGNORE
B.P. SECONDO B.----- BADARACCO---1876----809 - BADARACCO
B.P. CONCORDIA------- SCERNI------ 1877- 1.079 - CELLE C.
B.P. FAMIGLIA LOPRESTI------------- 1880 --- 286 - ALIOTA
GO. IRMA--------------- DALL’ORSO 1882 ---- 97 - DALL’ORSO N.
B.G. GIULIA------------ ANSALDO---- 1883--- 104 - ANSALDO
B.P. MARIA RAFFO----- RAFFO------- 1883- 1.309 - CALVO T.
LEUDO- GIULIO-------- BREGANTE-- 1886 -----13 - -------------
BOVO-N.CATERINA D.- BREGANTE - 1887 -----31 - BREGANTE B.
B.G. ARDITA COPELLO-COPELLO M. -1889----- 84 - MAFFEI M.
B.G. ARDITA MASSA-- MASSA F.----- 1889 -----88- MASSA L.
B.P. OROMASO-------- VALLE S. ------1890--- 742- SCHIAFFINO
N.G. PARANA’---------- MULTEDO G.. 1891---- 649 -MULTEDO G.
N.G. LILLY G.---------- BERTOLOTTO- 1891--- 547 -OLIVARI G.
B.G. ANGELO PADRE-- CINOLLO G.---1891---- 83 - CINOLLO A.
B.G. GIOBATTA BERALDO BERALDO G.1891—-141- BERALDO E.
N.G. SANTA MARINELLA -------------- 1891 --- 667 ----------------
B.G. ANGELA C.--------COPELLO M.---1891--- 105 -LIZZA C.
B.P. M.D.GUARDIA---- SCHIAFFINO---1897 ---170 -SCHIAFFINO
B.G. DORIDE---------- COPELLO M.---1902 ----179 -TOMEI S.
B.G. ROSARIO--------SCARFOGLIERO 1902--- 188 - MAFFEI
B.G. NEREO---------- COPELLO M.----1905--- 285 -TOMEI S.
Legenda
B.P. = Brigantino a palo;
B. = Brigantino;
B.G. = Brigantino goletta;
N.G. = Nave goletta;
M.V. = Motoveliero
GO. = Goletta;
RIM.= Rimorchiatore;
M/N = Motonave
I due costruttori Gotuzzo e Tappani erano diventati parenti avendo il Tappani sposato Giulia, sorella di Luigi Gotuzzo. Siamo venuti in possesso di un interessantissimo documento che può essere
considerato il testamento storico e morale di “Mastro Checco” Gotuzzo. Il documento è importante perché, oltre a dimostrare inequivocabilmente che nel 1865 ben 9 velieri erano in costruzione
nel cantiere omonimo, dimostra anche che Matteo Tappani, avendo sposato una figlia di Francesco Gotuzzo, “imparò il mestiere” proprio nel cantiere del suocero.
Infatti, la “direzione lavori e l’opera prestata dal “Scio Mattè” viene compensata con i 2/5 dei costi e ricavi delle 9 navi in costruzione.
Trascriviamo (alla pagina seguente) l’atto letteralmente:
Un atto del 25 aprile 1866
“L’anno milleottocentosessantasei lì venticinque di aprile in Chiavari. Per la presente scrittura privata fatta in doppio originale viene convenuto e stabilito quanto segue fra Vittoria Gagliardi fu Nicolò vedova del Cav. Francesco Gotuzzo, Luigi Gotuzzo fu detto Francesco e Matteo Tappani di Francesco abitanti alle Saline, in senso dell’ultima volontà manifestata dal ridetto fu Francesco Gotuzzo prima di sua morte e col concorso dei sottoscritti.
1°- I predetti madre e figlio Gotuzzo promettono e si obbligano di dare e pagare al Tappani loro rispettivo genero e cognato la somma di Lire nuove duemila in compenso dell’opera da esso prestata nella direzione dei lavori ed assistenza pel compimento ed ultimazione dei bastimenti lasciati in costruzione dal fu Francesco Gotuzzo.
2°- Convengono e stabiliscono poi di continuare a costruire bastimenti nel comune interesse e gli utili come le perdite che ne verranno a risultare, verranno fra loro divisi come segue, cioè tre quinti verranno percepiti dalla madre e figlio Gotuzzo e gli altri due quinti da Tappani; il ricavo della legna da ardere che somministra tra la costruzione dei bastimenti verrà fra loro diviso sulla basi anzidette, e questa convenzione comprende i bastimenti Venezia già ultimato e varato, Vicini, Raggio Schiaffino, Raffo, Chiarella, Devoto Costa e D’aste che tuttavia sono nel Cantiere, degli utili dei quali come dei danni che ne risultassero spetteranno tre quinti alla famiglia Gotuzzo e due quinti al Tappani siccome sopra detto.
Nota: i bastimenti di cui sono riportati gli armatori erano rispettivamente:
BP. Petronilla, BP. Fenice, NG. Virginia, BP. Erasmo, BR Apennino, BR Sollecito, BR Antonietta Costa, BR Giambattista D’aste.
3°- Dovendo il Tappani concorrere fino a concorrenza di due quinti nelle spese, e per quanto occorre provvedere per la costruzione dei bastimenti e che è a carico del costruttore, dichiarano le
parti che esistono nel Cantiere ad uso dei bastimenti in costruzione gli oggetti infradescritti propri della famiglia Gotuzzo e che hanno d’accordo valutato come segue:
I--N.ro centocinquanta puntelli alla ragione di lire sei cadauno:-------------------------------------Lire 900
II---- N.ro venti puntelli in m3 15 in ragione di
lire qaranta al metro:-----------------------Lire 600
III---Tanti tacchi per: ----------------------Lire 250
IV---Tanteforme per------------------------Lire 100
V---- Un paio vasi vecchi:------------------Lire 500
VI---Dodici mazze di ferro, sei baglie,
quattro argani e venticinque
cavalletti in complessivo:-------------------Lire 300
VII- M3 sette legno di cerro vecchio:-----Lire 300
VIII- 15 cordami di rovere---------------Lire 225
IX---Quattro pezzi di cavi usati per alzare poppe
e prore:--------------------------------------Lire 50
Totale:-------------------------------LIRE:3.225 tremiladuecentoventicinque.
Quali oggetti resteranno d’ora innanzi comuni alle parti eparteciperà in essi il Tappani per due quinti, pagando come si obbliga alla famiglia Gotuzzo due quinti della somma anzidetta di Lire 3.225. Dichiarano inoltre che esistono pure nel cantiere come sopra centoquarantatrè puntelli, altri trenta circa che restano ancora ad aversi misurare ed altri cinquanta circa rimasti dei bastimenti costrutti nonché un paio di vasi nuovi; quali oggetti tutti già appartengono per due quinti al Tappani e per gli altri tre quinti alla famiglia Gotuzzo.
4° Il Tappani ed il Luigi Gotuzzo dovranno d’accordo dirigere ed assistere la costruzione dei bastimenti in modo che la stessa proceda regolarmente e con soddisfazione dei committenti come chiuderanno d’accordo i contratti relativi e d’accordo formeranno i modelli dei bastimenti a costruire.
5° La presente convenzione è stabilita per anni sei e partirà da questo giorno e sarà pienamente mantenuta ed eseguita nel caso che tanto il Tappani, come il Gotuzzo venissero a conseguire la patente dì costruttore.
6° Infine i conti fra le parti saranno aggiustati e stabiliti in ordine ad ogni e singolo bastimento che verrà ultimato e di ciascuno aggiustamento di conti se ne farà conservare su di un registro in doppio.
Firmato: Vittoria Ved. Gotuzzo, Luigi Gotuzzo, Matteo Tappani, Erasmo Raffo, Sebastiano Raffo, Francesco Raffo
Abbiamo riportato questo atto per diversi motivi:
- si ha la conferma che a Chiavari si costruivano nove bastimenti contemporaneamente;
- ambedue i costruttori utilizzavano il cantiere degli Scogli.
I costruttori eseguivano prima d’iniziare la costruzione, dei modelli di cantiere, ed aver obbligato due maestri del tempo a costruirli assieme è stata sicuramente un’opera geniale.
Commovente poi la raccomandazione ai due costruttori da parte del vecchio Gotuzzo, che certamente li conosceva bene, di collaborare almeno per sei anni a costruire bastimenti di qualità.
I bastimenti costruiti dai Briasco, dai Brigneti, dai Piceni Gessaga, dai Beraldo, dai Copello e da altri ignoti
Diversi bastimenti risultano costruiti a Chiavari, ma nella quasi totalità, senza alcun riferimento al nome dei costruttori. Eccone l’elenco, sempre secondo l’anno del varo:
Tipo Nome ----------Armatore---- Anno----Stazza-----Capitano
B. EMILIA---------MORTEO C---1854-----204-------PARODI G.B.
B. GIACOMO------LAPORTA-----1855------99-------ARENA
B. GIUSEPPE------VICARI-------1855-----199-------SPATO’
B. PROVVIDENZA-OLIVARI L.---1855-----299-------BOZZO F.
B. S.GIO BATTISTA SCHIAFFINO—1856----228-------MARINI R.
B.G. ELENA----------MACCIONA---1856------50-------NARDELLI
- S. NICOLO’--------ANSALDO----1858-----307-------ANSALDO
B.G. S. GIOVANNI---ARPE N.----- 1861------75------ ARPE G.
- AFFEZIONE---- DALL’ORSO- 1865 ------74 ------SCALA G.
- TIRRENO------ SANGUINETI-1865-----534------ ARIMONDO
B.P. CORSO(1)----- SCHIAFFINO-1866---- 468------ SCHIAFFINO
B.P. ADRIATICO---- DALL’ORSO—1868---- 633------ RAFFO F.
G.P. DIANA--------- BOLLO F. ----1870---- 435------ BOLLO
GO. PROTEO(2)------QUEIROLO---1871------ 94------ TORTELLO G.
- JUPITER---------------------- 1874---- 875 -------AMBURGHESI
- OPHIX------------------------ 1874 ----787------- NORVEGESI
- VIVERNER-------------------- 1874---- 939------- AMBURGHESI
B. LAZZARO ANNA-MAGGIOLO 1878---- 368 -------MAGGIOLO L.
B.G. PAOLINA------- SERRA N. ---1880------84------- SERRA
BOVOGEMMA PREZIOSA-ZOLEZZI 1886 -----87------- ZOLEZZI
GO. –N. CATERINA---BREGANTE-- 1887 ----30 --------------------
CT. PIETRINA M.---COSTANTINO--1887---- 36 --------------------
B.G. EMILIA C.(5)----GARRE’ F.-----1914--- 246 --------PASAGLIA C.
N.G. VERBANUS (3)-AVUTO--------1919--- 261 --------------------
G.P. MAD.BERALDO(4)-BERALDO—1920----445 -------------------
NG. LUIGI POZZI(3)POZZI--------1921---- 476------- -RIDI V.
CT. PAOLO USAI ---USAI R. ------1931------32-------------------
(1) Costruttore: Briasco A.
(2) Costruttore: Brigneti
(3) Costruttore: Piceni Gessaga
(4) Costruttore: Beraldo F.
(5) Costruttore: Copello M.
Legenda
B.P. = Brigantino a palo;
B. = Brigantino;
B.G. = Brigantino goletta;
N.G. = Nave goletta;
M.V. = Motoveliero
GO. = Goletta;
RIM. = Rimorchiatore;
M/N = Motonave
I bastimenti costruiti dai Briasco, dai Brigneti, dai Piceni Gessaga, dai Beraldo, dai Copello e da altri ignoti
Tutti questi costruttori che, come già detto, costruivano saltuariamente nei terreni di Chiavari ove si trovavano i cantieri a cielo aperto, erano altrettanto bravi nel far scendere in mare legni di notevole tonnellaggio.
A parte i Gotuzzo i quali avevano un proprio terreno e un proprio Cantiere, tutti gli altri costruivano in località diverse che, dalle ricerche effettuate, si possono così individuare:
- davanti all’attuale stazione di Chiavari lato mare: in quel punto furono costruiti parecchi velieri, prova ne sia che esiste una magnifica fotografia datata 1882 con ben due navi pronte al varo. Probabilmente erano velieri ordinati al Tappani.
- nei terreni di levante della Trattoria Angiolina ove si trovava il Cantiere degli armatori Copello denominato "del Rissun", ubicato tra piazza Leonardi e piazza Milano;
- un altro terreno dove si costruiva era localizzato al posto dell’attuale piazza Milano, una volta chiamata Piazza Becchi;
- un altro terreno ancora era situato nel lato ponente della famosa palazzina 27 che era anche conosciuta come “Casa del Diavolo”;
- infine esisteva un cantiere anche nel terreno attualmente chiamato “Foresta”, nel quale ebbe luogo la costruzione del “Maddalena Beraldo”.
Prima che la piazza Gagliardo diventasse parte integrante della sistemazione urbana della città , si poteva costruire anche sulla piazza stessa che per lungo tempo fu usata dai Gotuzzo, da Matteo
Tappani e da altri costruttori. Di quanto affermato se ne ha prova dalla Mappa “Piano dell’abitato denominato Scogli o dei Gagliardi” del 1866 dove la superficie del cantiere appare disegnata proprio nell’attuale Piazza Gagliardo.
Le dimensioni dei più grandi velieri varati a Chiavari
Il MARIA RAFFO (di 1.309 Tonn.) varato nel 1883 da Matteo Tappani, misurava ben 65 metri di lunghezza ed é stata la nave più lunga costruita agli Scogli. I Cantieri Gotuzzo costruirono dei velieri di notevoli dimensioni oltre che per la lunghezza anche per la larghezza, come quelli ordinati dall’armatore Benvenuto. Il bastimento più lungo varato dai Gotuzzo é stato il BEATRICE, di
mt. 64,00, mentre quello più grande é stato il LUISA di 1.648 Tonn. di stazza, più di 3.000 Tonn. di portata. Misurava in larghezza mt. 13,40 contro gli 11,50 del MARIA RAFFO.
Riportiamo qui di seguito l’elenco dei velieri più grandi, con le loro relative misure, varati nei due maggiori cantieri navali degli Scogli.
Nota: La lunghezza di un bastimento a vela veniva misurata in coperta, pertanto erano esclusi sia il bompresso che altre strutture “fuoritutto”.
CANTIERI GOTUZZO
Tipo Nome nave -Anno Varo-Stazza--Lungh---Largh-Puntale
B.P. AFFEZIONE ----- 1884---1.019---56.20--10,85--7,48
M/N BUSTO ARSIZIO-1920---1.046---61,85--10,00--5,33
B.P. NEMESI-----------1889---1.060---54,20--10,00--7,05
B.P. FRANCESCO------1891---1.083---58,62--11,16--7,13
N.G. DUE SORELLE B-1900---1.445---60,80--13,08--7,93
B.P. BEATRICE--------1902----1.489---64,00--13,40--7,77
B.P. LUISA-------------1904---1.648---63,86--13,35--7,55
CANTIERI TAPPANI
Tipo Nome nave---AnnoVaro-Stazza—Lungh—Largh-Puntale
B.P. LUIGIA RAFFO---1875----972-----55,60--10,20-7,80
B.P. CONCORDIA---- 1877---1.079-----54,00--10,69-7,40
B.P. MARIA RAFFO---1883--- 1.309-----65,00--11,50-7,65
Legenda
B.P. = Brigantino a palo;
B. = Brigantino;
B.G. = Brigantino goletta;
N.G. = Nave goletta;
M.V. = Motoveliero
GO. = Goletta;
RIM. = Rimorchiatore;
M/N = Motonave
I bastimenti costruiti a Lavagna
(in ordine di anno di varo)
Tipo Nome----------Costruttore-------- Armatore-------Stazza----Anno Varo
TRB MADONNA DEL CARMINE-----------Albrizio---------------71----1851
B.P. SOLARI BRIGNARDELLO ------------Solari Brignardello 660----1864
B.P. GIULIA A..----------------------------Repetto Fu G.----- 496----1865
B.P. LAVAGNA-------D.Briasco.-----------V.Benvenuto D.S. -641----1865
B.P. BISMARCK------Borzone ------------T. Ravano fu E.-----629---1865
B.P. PAMPERITA---------------------------B.Repetto-----------369---1866
B.P. SADOWA--------D.Briasco ----------G.B. Solari ----------683--1866
B.P. DANIELE------------------------------D. Delle Piane------704---1866
B.P. NUOVA GEMMA G. Saccomano------P.Schiaffino---------399---1868
B.P. PAPA GIUSEPPE REPETTO (1) G. Briasco B.Repetto-----649---1868
B.P. LAVAGNA II (poi C.ROCCA)-D.Briasco-Giulio Piaggio-------64---1868
B.P. ENTELLA G.Saccomano--------------B.Roncagliolo-------659---1868
B.P. NINA----Pasquinucci---------------- B. Repetto-----------649---1868
B.P. GIUSEPPE REPETTO(poi SBRIGATI(2)
---------------D. Briasco----------- Caneva, Pereno -----------652---1868
B.P. BENEDETTA CAIROLI (poi ANDREINA) ---------------------------------
-----------------Carbone-----------Andrea Pertusio------------516---1869
3 Alb BIANCA BORZONE----------------A. Borzone----------- 676----1869
B.P. CATERINA BIANCHI---G.Brignole-G.Bianchi -------------561----1869
B.P. GIOBATTA REPETTO---Carbone---G.B.Repetto-----------558---1869
B.P. LEGNANO-F.Rolla-------------------G.Schiappacasse-----356----1869
B.P. LUCCHINA CICHEROSaccomanno-Andrea Cichero-------506----1869
B.P. MARINA ROCCA--------------------Rocca------------------718---1869
B.P. MARINA ROCCA D.Briasco ------- Gerolamo Rocca-------681---1869
Bovo N. SIGNORA DI MONTALLEGRO --------------------------------------
--------------------G.Brignole------Muscas e Piredda-----------24---1869
B.P. TERESA ROCCA---D.Briasco-------Frat. Rocca----------- 643---1869
B.P. ANGELO CAVALLO-----------------A.Cavallo---------------505---1870
B.P. BATTISTINA-------C F.Rolla-------Craviotto---------------440---1870
B.P. GIULIO R.--------------------------Ravenna----------------547---1870
B.P. ELENA CORDANO (3) G.Brignole G.B.Schiaffino----------515--1870
B.P. LUIGIA ROCCA----D.Briasco------G.Rocca----------------603----1870
B.P. GIOVANNI D. (poi AVO G.) (4)
---------------------G.Brignole---------Francesco Razeto----- 544---1870
B.P. PROSPERO SCHIAFFINO---------- Pro Schiaffino ----------------1870
B.P. LICETI PADRE (poi RIVIERE)----- Frat. Liceti------------ 495---1871
B.P. ROMA CAPITALE (poi MARIA ACCAME e quindi FLORIDA)
(5) --------------- D.Rolla -------------F.Schiappacasse-------703---1871
Altre imbarcazioni costruite a Lavagna tra il 1.1.1884 e il 31.12.1893
Nome-------------Costruttore------Armatore --------Stazza
AIUTO DI DIO-------L. N. Gotuzzo---Zolezzi Domenico---11
ANGELA G.---------Brignole---Codda Giuseppe e Angelo-31
ANTONIO PRIMO ---A.Borzone--Bo Giuseppe di Fortunato-17
ARMIDA A. ------- A.Borzone -----Borzone Andrea-------9
BATTISTA --------B.Calamaro-----Toso G.B.-----------26
BIANCA MADRE----S. Borzone-----Castagnola Lorenzo---10
CONFIDENZA IN DIO--L. N. Gotuzzo-Zolezzi Stefano -----14
DOMENICA PRIMA----A. Borzone --Castagnola Domernico-14
DUE FRATELLI-------A. Borzone---Stagnaro Efisio-Nicola-13
DUE FRATELLI C-----B.A. Calamaro-Castagnola Giovanni -15
DUE FRATELLI ROMA-S. Borzone----Bregante Giov. ------18
DUE FRATELLI Z-----B. Calamaro---Zolezzi Marco-------16
FILOMENA PRIMA----D. Brignole---Stagnaro Nicolò------30
GIOVANNI GUSTAVO-L. N. Gotuzzo-Ghio Agostino --------9
GIOVANNI PADRE----L. N. Gotuzzo-Castagnola Giovanni--18
GIULIA MARIA MADRE-L. N. Gotuzzo-Ghio Stefano ------949
GIUSTINA E LUIGI B.--Calamaro-----Lena Giustina -------16
IDEA--------------A. Borzone---Maria Ghio fu Lorenzo-19
LASCIA DIRE--------S. P. Borzone -Massa Lazzaro-------10
LE DUE MARIE-------S.P. Borzone--M.Lena M. Dentone-- 10
MADRE DI DIO------B. Calamaro---Carniglia Agostino---11
MADRE ANNA MARIA-B. Calamaro--Carniglia Gius.Enrico--33
MADRE ROSA-------L. N. Gotuzzo-Chiappe Antonio-----19
MALVINA PRIMA-----A. Borzone---Canepa Tomaso------15
MARIA ISABELLA-----S.P. Borzone -Anna Maria Stagnaro---9
MARIA MADRE BELLA STELLA-A. Borzone-Dasso Domenico-14
MIA MADRE BENEDETTA- A. Borzone-Agostino Brusco-----15
MIO PADRE ANTONIO-L. N. Gotuzzo-Olivieri Fratelli fu A---12
MONTALLEGRO------L. Figallo fu N.-Raffellini G.B -------18
NUOVA ANTONIETTA-L. N. Gotuzzo--Stagnaro G.B. ------26
NUOVA CAROLINA---L. Figallo------Stagnaro Vittorio----18
NUOVA MARGHERITA-- A. Borzone--Grisso G------------15
NUOVO BRILLANTE-----A. Borzone--Bregante Francesco---19
NUOVO NICOLÒ-------A. Borzone --Cesati Attilio-B.------15
NUOVO SAN GIACOMO- L. N. Gotuzzo-Dighero Rosa ------11
NUOVO SESTRI--------G.B. Brignole--Bo Paola e Graziana- 14
ORLANDO NUOVO-----L. N. Gotuzzo- Zolezzi Antonio ----14
PADRE DOMENICO-----A. Borzone---Dasso Domenico ----13
PAGHERAI------------A. Borzone---Chiappe Agostino----14
ROSA PRIMA----------S. Borzone---Zolezzi Maria --------18
ROSA T. -------------A. Borzone --Toso P. Antonio ------16
SAN ERASMO---------B. Calamaro--Muzio Domenico -----17
SAN GIUSEPPE---------L. N. Gotuzzo-Sciaccaluga Pietro ---15
SPARVERO DI LAURIA-- F. Dall’Orso --E.E.Carniglia----------8
SAN DOMENICO S.-----B.A. Calamaro-Bregnante Domenico -18
SAN NICOLÒ----------B. Calamaro--Muzio Domenico-----10
TOMASO RICORNO-----B.A. Calamaro-Lena Tomaso -------22
TRE FRATELLI---------L. N. Gotuzzo--Ghio fratelli --------43
TRE FRATELLI P-------B.Calamaro ----Gando Agostino -----7
VINCENZO PRIMO-----A. Borzone-----Carniglia Vincenzo--16
VITTORIA PRIMA------S. Borzone -----Zolezzi G.B. -------16
VOLONTÀ DI DIO-----B. Calamaro-----Gando Pietro ------11
ZEFFIRO------L. N. Gotuzzo-- Ageno, Sciaccaluga, Boero, Celle ----15
Infine, presentiamo i collaboratori STORICI del
MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA
CHIAVARI
In alto, da sinistra a destra:
Ernani ANDREATTA, Giancarlo BOARETTO, Paola FERRARIS,
Simonetta PETTAZZI, Francesca PERRI, Enrico PAINI,
Francesco ULIVI, Francesco MATERNO, Carlo GATTI,
Luciano CATTARUZZA, Mario MURA, Luigi SENAREGA,
Paolo SERRAVALLE.
A cura del webmaster
CARLO GATTI
22 febbraio 2016
IL MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA (CHIAVARI)
PASSA ALLA
MARINA MILITARE ITALIANA
COMUNICATO STAMPA
SALA STORICA DELLA SCUOLA TELECOMUNICAZIONI FF AA. DI CHIAVARI
ATTO DI DONAZIONE DI ERNANI ANDREATTA E FIGLIA GABRIELLA
Giovedi 10 Dicembre 2020 ore 16.00
Alle 16.00, di Giovedi 10 Dicembre c.a., presso il noto studio notarile del Dott. Alberto CECCHINI in Chiavari, si è concluso l’atto di donazione del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari allo Stato Maggiore della Marina.
La parte donante era costituita dal Comandante Ernani Andreatta, fondatore e curatore del museo stesso, e dalla figlia Gabriella in Westermann che per alcuni numerosi reperti ne era proprietaria. Il Capitano di Vascello Nicola Chiacchietta, per una importante parte di reperti, ha firmato la donazione per la scuola Telecomunicazioni FF AA di Chiavari, mentre il Capitano di Vascello Leonardo Merlini ha firmato la donazione per conto del Museo Tecnico Navale di La Spezia. In questo secondo elenco sono contemplati preziosi cimeli di epoca Marconiana come le radio degli anni ‘20 e ‘30 e altri reperti originali appartenuti alla nave laboratorio “Elettra” di Guglielmo Marconi. Detti beni, viene specificato nell’atto di donazione, rimarranno però collocati nella sezione "MUSEO MARINARO TOMMASINO - ANDREATTA" presso la Scuola Telecomunicazioni FF.AA. di Chiavari ma potranno essere impiegati, a insindacabile giudizio della Marina Militare, in altre sedi per scopi culturali e di promozione della storia marittima e navale. Non escluso, aggiunge Andreatta anche l’importante “Cantiere della Memoria” di La Spezia semprechè questo ne faccia richiesta alla Marina Militare.
Dopo essere passati attraverso varie commissioni, in quanto il valore storico e scientifico dei reperti doveva essere valutato dallo Stato Maggiore della Marina prima dell’acquisizione, la donazione ha seguito un lunghissimo iter di quasi 10 anni ma solo nel 2020 ha subito una insperata “accelerazione” per le varie autorizzazioni grazie all’impegno del C.V. Nicola Chiacchietta Comandante della Scuola TLC e del Capitano di Fregata Marco Rainoldi, Direttore della Sala Storica della Scuola. La donazione ha potuto aver luogo anche per l’impegno dell’Ammiraglio di Squadra Alberto Bianchi che al tempo del suo incarico di Comandante delle Scuole della Marina Militare diede per primo il suo benestare che ha potuto concretizzarsi soltanto con le importanti autorizzazioni concesse dall’Ammiraglio di Divisione Giorgio LAZIO Comandante in Capo di Marina Nord che ha sede a La Spezia.
Hanno contribuito alla concessione della donazione anche il Capo di Stato Maggiore Amm. Isp. Davide Gabrielli.
Altre autorizzazioni sono pervenute dall’Ufficio di Consulenza Legale del Comando Marittimo Nord nella persona del Consulente Legale C.V. Giuseppe Sfacteria, dove il Capitano di Corvetta Ludovica Sarcina era il responsabile incaricato della trattazione della pratica.
Il definitivo atto di donazione è stato quindi autorizzato dallo Stato Maggiore della Marina Militare considerando appunto l’interesse della Marina Militare ad accettare la menzionata donazione, tenuto conto del “valore culturale e storico” della stessa. Sono oltre 800 mq. di importantissimi reperti e cimeli che proiettano Chiavari in un posto di grande rilievo culturale di mare assieme al Museo Tecnico Navale di La Spezia ed al Museo Storico Navale di Venezia. Attualmente questi musei sono tutti chiusi in attesa che l’imminente vaccino ci porti fuori dalla pandemia del Covid 19.
I due Testimoni richiesti all’atto di donazione non potevano che essere Giancarlo BOARETTO e la sua gentile Consorte Paola FERRARIS che sono stati fondamentali per la conservazione del Museo Marinaro. Vorrei ricordare che il Museo Marinaro era entrato alla Scuola TLC di Chiavari in forma temporanea nel 2008 autorizzato Capitano di Vascello Giuseppe Bennardi Comandante pro tempore della Scuola a quella data. Il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta, è stato fondato a Chiavari nel Rione Scogli il 7 Luglio 1997. Era stato originato da una cospicua donazione di Franco “Mario” Tommasino co-fondatore del Museo che però purtroppo è mancato un anno dopo nel 1998. Si sono aggiunti così molti preziosi utensili dei Maestri d’ascia e Calafati dei Cantieri Gotuzzo che si sono presto sommati a numerose donazioni dei nipoti delle maestranze che avevano lavorato nei Cantieri degli Scogli. La sua prima sede è stato proprio nell’antica Casa Gotuzzo, costruita nel lontano 1652, dove aveva occupato tutti i fondi disponibili. Nel 2001 il Museo veniva trasferito a San Colombano Certenoli nella balconata dell’Expò Fontanabuona a Calvari su richiesta dell’allora presidente dell’expò Dott. Angelo Barreca. Nel 2008 veniva ulteriormente trasferito alla Scuola Telecomunicazioni FF AA per lungimirante concessione, come detto, del Comandante Pro Tempore di allora C.V. Giuseppe Bennardi. Nel 2013 subiva un altro trasloco interno alla Scuola TLC che gli destinava più idonei e congrui locali e spazi.
Il 13 Ottobre 2014 La Sala Storica ed il Museo Marinaro subivano la disastrosa alluvione che invadeva con acqua e fango, per una altezza di 60 cm di altezza tutte le sale museali. Per fortuna tutti i preziosi cimeli e reperti erano a circa 90 cm e pertanto la marea d’acqua e fango non ha distrutto fisicamente nulla. Ma le pulizie e le manutenzioni sono durate circa 6 mesi.
Con tre traslochi e una alluvione ho avuto uno straordinario aiuto da alcuni volontari che voglio qui nominare. In primo luogo i summenzionati Giancarlo BOARETTO e consorte Paola FERRARIS quindi nel tempo Enrico Paini, Francesca Perri, i giovani Francesco Ulivi e Francesco Materno, e i radio amatori Mario Mura, Paolo Serravalle e Luigi Senarega. Non ultima mia moglie Simonetta Pettazzi che ancora adesso, quando libera da impegni, continua a collaborare nei definitivi inventari dei reperti e nelle pulizie delle sale Museali. Ultimamente la Scuola TLC ha stipulato un accordo di collaborazione con l’associazione Culturale il SESTANTE sia con il Past Presidente Enzo Gaggero, uno dei più grandi esperti d’Italia di cieli stellati, e il Nuovo Presidente Sergio Falcone coadiuvato dai soci Piergiorgio Ricotti, Debora Ottone, Domenico Canepa, Sandro Arpe e Mauro Pecorari.
Ho anche il piacere di ringraziare il Notaio Alberto CECCHINI per essere riuscito a districarsi nella impervia navigazione attraverso le istituzioni della Marina Militare dove ha naturalmente trovato un grande aiuto, come “piloti”, da parte dei Com.te Chiacchietta e Rainoldi. La sintesi dell’atto di donazione è stata da tutti molto apprezzata nonostante all’inizio ci fosse “molta nebbia all’orizzonte” come si dice in termini marinari!
In tutti questi anni ho molto apprezzato il sostegno e non solo dell’Associazione Culturale “Mare Nostrum” di Rapallo in particolar modo dal suo storico presidente Comandante Carlo Gatti e dal compianto scrittore e giornalista Emilio Carta. Da molti anni la storia del Museo Marinaro può essere immediatamente visionata nel sito www.marenostrumrapalo.it cliccando sull’icona a tendina sempre presente nel sito. Così come essendo socio UNUCI (UNIONE NAZIONALE UFFICIALI IN CONGEDO D’ITALIA) di Chiavari e socio ANMI (ASSOCIAZIONE NAZIONALE MARINAI D’ITALIA) di Santa Margherita Ligure e Rapallo dove ho tanti “vecchi” amici come l’ex AUCD sommergibilista Luciano Cattaruzza e ne ho conosciuto e apprezzato molti altri nuovi perché tutti legati alla cultura di mare
Ma, se la storia Marinara di Chiavari è stata riportata alla luce, posso orgogliosamente affermare che soltanto per l’impegno e la disponibilità della Marina Militare ha potuto concretizzarsi grazie alla messa a disposizione dei locali della Scuola Telecomunicazioni FF. AA. di Chiavari. Voglio qui ringraziare tutti i Comandanti pro tempore della Scuola non ultimo quello che ha concluso, concretamente, questo lungo itinerario e cioè il C.V. Nicola CHIACCHIETTA. Una speciale menzione di ringraziamento al C.F. Marco Rainoldi per avermi sempre aiutato, con professionalità e pazienza, nella donazione conclusa in questi giorni. Non voglio dimenticare il Comandante Silvano Benedetti che aveva iniziato la pratica di donazione nel lontano 2011 e conclusa solo ieri, i passati aiutanti Maggiori come Luigi Pansa e Vito Casano così come i Marescialli Giovanni Maresca, Maurizio Venuto e Antimo Sternativo. Amedeo Devoto un genio del Rione Scogli ha avuto un posto preminente anche nel diorama del Rione Scogli costruito con il validissimo aiuto di Giancarlo Boaretto, così come lo ha avuto Stefano Risso detto “Nitti” anche lui un genio degli Scogli ormai scomparso.
Purtroppo, carenti se non assenti sono stati i contributi e gli aiuti da certe istituzioni civili di Chiavari. Ma voglio qui ricordare che il Comune di Chiavari con l’attuale Sindaco Marco di Capua ha intitolato a “LUNGOMARE DEI GOTUZZO” - Costruttori Navali, la passeggiata dove sino al 1935 sono stati varati tanti grandi velieri proprio dai tre GOTUZZO, FRANCESCO detto Mastro Checco, dal Figlio LUIGI e dal Nipote EUGENIO detto “Mario”. Un grande ricordo molto apprezzato da tutti che ha fatto dimenticare le costruzioni denominate in seguito “la Montecarlo degli Scogli” per la loro “esuberanza architettonica”.
Il Museo Marinaro è stata una mia fatica che ho condotto con il solo aiuto di pochi volontari pensando che con la volontà si può arrivare a tutto. E così è stato, ringraziando ancora coloro i quali hanno partecipato volontariamente a questa impresa più che decennale e che certo non termina qui.
PRO SCHIAFFINO, presidente onorario e grande storico del Museo Marinaro di Camogli ha spesso affermato: "Chiavari aveva molto di più di Camogli perché aveva anche importantissimi Armatori e Cantieri Navali che Camogli non aveva per questioni di spiaggia”. Ma Chiavari, continuava Schiaffino, è la prima di tutte le cittadine della riviera, anche di Camogli, ma a Chiavari non l’avete mai capito !
Mi spiace constatarlo, ma a Chiavari manca completamente la cultura del mare e certe istituzione civili non hanno mai capito l’immensa storia di lavoro e di fatica che per secoli è stata protagonista costruendo e varando centinaia di grandi e maestosi velieri oceanici attraverso i suoi Cantieri navali, dei Gotuzzo, dei Tappani e dei Beraldo e all’operato di grandi armatori, come i Dall’Orso che sono arrivati a possedere oltre 50 velieri che andavano in tutto il mondo a commerciare e a trasportare merce.
Un ultimo grande pensiero ai “miei” Pescatori degli Scogli che ho conosciuto tutti nel dopoguerra e che ho fatto conoscere attraverso il volume di “Chiavari Marinara- Storia del Rione Scogli”. Così, dopo l’epoca della grande navigazione a vela in cui Piazza Gagliardo era soprannominata “CIASSA DI BARCHI”, il suo nome popolare di “PIAZZA DEI PESCATORI” è giustamente diventato un simbolo di questa epopea che anche nei Pescatori è stata grande come “quell’epoca eroica della vela” purtroppo spesso dimenticata. Ma basta visitare il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta, che ora fa parte integrante anzi è di proprietà della Sala Storica della Scuola Telecomunicazioni FF.AA. per rendersi conto di quanto affermo. GRAZIE MARINA MILITARE!
Grazie per l’attenzione.
S.T. di Vascello e Comandante di Marina Mercantile
Ernani Andreatta
Allegate fotografie dell’atto di donazione.
COMMENTO
La lettura del RAPPORTO sul passaggio delMUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA alla MARINA MILITARE ITALIANA, ci offre l’occasione di ONORARE un grande Campione: il Comandante Ernani Andreatta (foto sopra), il quale ha speso gran parte della sua vita per “conoscere il mare e amarlo profondamente”.
Ma la sua grande sfida é stata quella di traferire i suoi SENTIMENTI MARINARI a tutti noi, amici della sua infanzia che, a quel mondo di velieri e di navi ci siamo dedicati, prima da giovani e poi da adulti seguendo la sua scia luminosa che ancora oggi ci attrae come la cometa in questi giorni di festa.
Tuttavia, la sua sfida é andata oltre! Con le numerose battaglie vinte e perse, tra delusioni sofferte ma anche gratificanti é riuscito a creare un interesse intorno ai suoi reperti marinari che dal basso é salito prima lentamente, e poi vertiginosamente verso i piani alti della cultura navale italiana.
Oggi, come leggiamo nel rapporto, il nostro Nanni é felice, e noi con lui, per aver raggiunto il suo massimo obiettivo: il salvataggio di importantissimi reperti navali che saranno custoditi nelle mani della nostra Marina Militare, la quale sarà sempre VIGILE su quella storia di uomini e navi anche quando noi ce ne saremo andati a navigare tra le nuvole…
In questo “passaggio di consegne”, non solo generazionale, il testimone porta con sé sentimenti antichi e moderni che affondano le radici in due parole che si assomigliano: mare e amore, due valori che nel “duro” Nanni appaiono poco, ma noi sappiamo quanto siano presenti in ogni suo atto compiuto i tutti questi anni.
Nanni, noi ti ringraziamo per le parole che hai dedicato nel RAPPORTO a Mare Nostrum Rapallo, al suo sito che conserva i risultati del tuo immane lavoro e che oggi, con le sue 55.000 visite, é testimone del suo VALORE, del tuo VALORE!
Carlo GATTI
COME VIVEVANO I "RAPITI"
COME VIVEVANO I "RAPITI"
E’ opportuno, prima di riprendere il discorso, puntualizzare che la differenza fra <pirata> e <corsaro> è stata definita, e universalmente accettata, nel volume edito in Olanda nel 1678 intitolato <<Buccaneers of America>>. Entrambi erano esperti e coraggiosi uomini di mare ma i Corsari, mercenari, agivano di volta in volta per conto di una potenza marittima che, in cambio di protezione ( da qui la ‘lettera o patente di corsa’ = autorizzazione) pretendeva parte del bottino. Naturalmente dovevano agire solo contro le navi delle flotte indicate da chi li aveva ingaggiati: a seconda di chi, di volta in volta li assoldava, colpivano gli obiettivi loro indicati. Se catturati erano “coperti” perché considerati, a tutti gli effetti, prigionieri di guerra e come tali protetti e giudicati. Naturalmente queste “ruberie ufficiali” venivano sempre mascherate da pretesti politici o religiosi, mentre altro non erano che rapine per ridimensionare la potenza dell’avversario.
I Pirati invece erano quelli che oggi chiameremmo “cani sciolti”: depredavano autonomamente chi volevano e dove potevano ma, se catturati, non essendo protetti come i primi, venivano sommariamente e, a volte barbaramente, giustiziati. Quanti sono finiti appesi ai pennoni.
Torniamo a noi. Gli abitanti rapiti dai villaggi costieri venivano, lo abbiamo visto, esibiti il più a lungo possibile in zone limitrofe a dove era avvenuta la cattura, per facilitare di raggiungerli per tentare di riscattarli; ma, a lungo andare, gli “invenduti” venivano portati ai mercati di schiavi del Nord Africa. Da quel momento la loro vita cambiava, ma non la speranza di poter, in qualche modo, divincolarsi dalle catene. E’ chiaro che i pirati preferivano venderli sul posto perché riscuotevano più soldi che non sul mercato Africano che, come oggi la Borsa, fluttuava a seconda della quantità e qualità offerta, Per poterli vendere ad un prezzo concorrenziale, tenevano conto che cessava la spesa di doverli mantenere e il costo per sorvegliarli. La quotazione variava se da qualche parte dell’Africa era in atto una morïa per peste o epidemie varie: la paura di perdere il materiarle umano che possedevano, faceva si che i loro Padroni li svendessero” sotto costo” a chiunque. Erano quelli i momenti di più bassa quotazione non remunerativa. Di contro più erano efficienti le flotte dei vari Stati Europei nel contrastare i pirati e maggiormente salivano le quotazioni degli schiavi offerti. Anche questo era un vero e proprio investimento finanziario, su cui molti puntavano per guadagnare dei soldi.
Una volta comprati gli schiavi, erano selezionati per età e prestanza fisica; venivano poi raccolti o “ internati” in “bagni” come si chiamavano quelle costruzioni che colà li contenevano. Ben presto vi installarono pure delle taverne gestite da schiavi e addirittura vi edificarono delle cappelle per permettere ai prigionieri cristiani di assistere alle Messe, celebrate da sacerdoti a loro volta schiavi. Sia gli uni che gli altri, per poter “esercitare”, dovevano cointeressare i padroni.
Il numero degli uomini era di gran lunga superiore a quello delle donne. Queste ultime trovavano impiego nelle case e utilizzate come domestiche o a produrre stoffe, mentre le più avvenenti, finivano nell’harem del Sultano o dei vari ricchi e potenti. Invece gli uomini venivano impiegati a lavorare la terra, nel campo delle costruzioni edili o stradali o navali e comunque a svolgere i lavori più faticosi mentre, ai più sfortunati ma più robusti, toccavano i remi. A volte succedeva che i prigionieri fossero talmente in gamba di essere di aiuto ai loro Padroni che, in compenso, potevano liberarli e/o associarli a loro.
A quell’epoca i Mussulmani erano rispettosi delle religioni altrui, tanto che, pur essendo anticristiani per ragioni politiche, concedevano agli schiavi di santificare le loro feste assistiti da sacerdoti fatti schiavi che però potevano esercitare, in quei momenti, la loro funzione. Lo abbiamo visto: era sufficiente dividessero con i Padroni quanto riscuotevano in elemosine. A chi era impegnato nei cantieri navali o a riassettare le strade, capitava di incontrare loro concittadini che colà commerciavano e ai quali raccontavano le loro disavventure chiedendo di portare notizie e perorazioni ai loro cari e, se liguri, pure alla Repubblica di Genova che, nel frattempo, aveva istituito un apposito Magistrato che avrebbe dovuto coordinare i riscatti. La maggior parte di queste liberazioni avveniva tramite il Governatore di Tabarca che aveva accesso ai maggiorenti Berberi. Certo utilizzare quei canali comportava tempi lunghi perché la burocrazia, già allora, imponeva passaggi obbligati e scartoffie per non versare soldi a chi non ne aveva diritto. Meglio quindi utilizzare le strade offerte dai vari Ordini religiosi che, per la tolleranza di cui sopra, potevano essere ascoltati dagli Ottomani. Famoso era il Padre Dan, dell’Ordine trinitario ma esistevano anche “trafficanti” laici; in genere erano ebrei livornesi con accesso ovunque, grazie alla loro capacità di essere aperti al commercio con tutti e di godere della protezione delle < Costituzioni Livornine> volute da Ferdinando I°.
Mercato delle schiave
Si calcola che si trovassero in Algeri più di 25.000 schiavi, a Tunisi circa 10.000 e a Tripoli alcune centinaia. Questi pare siano stati gli anni migliori: da li in poi andranno calando.
Già all’epoca va rilevato che il Mediterraneo veniva attraversato per fuggire dall’Africa e raggiungere le coste d’Europa. Mi riferisco a chi, schiavo ma ottimo marinaio, tentava la fuga: da Tunisi si puntava alla Sicilia, da Algeri alle Baleari. Ovviamente ci fu chi si organizzò per lucrare su queste fughe. Come non cambia il mondo!!! In questi casi però la Repubblica non le favoriva perché rischiavano di compromettere trattative in corso e poi lei, su quelle, non poteva lucrare.
Dal momento della loro liberazione però ai disgraziati non era così facile inserirsi di nuovo nel tessuto dal quale, anni prima, erano stati strappati. La lunga assenza di contatti trasformava pure i parenti che si erano dati pace e rifatti una vita o cambiato sito. Molti di loro, o per più approfondita conoscenza della religione mussulmana o per convenienza, abbracciavano la fede dei loro Padroni, divenendo liberi di commerciare e vivere alla pari di un qualunque altro mussulmano. Non così da noi: la cattolica Repubblica non accoglieva i “rinnegati” anzi, di essi diffidava. Qualcuno che tentò di riabbracciare la vecchia fede abiurata, se la passò brutta perché i “Padri della Redenzione” , all’uopo incaricati, non volevano ammettere che in così tanti avessero abbracciato la fede mussulmana. Altri invece sostenevano che, per il fatto di esser fuggiti per ritornare cristiani, potessero essere perdonati e riammessi. In realtà furono cosi tanti i rinnegati che in Algeri, Tunisi e Tripoli se ne contarono dai 6 agli 8000. Molti di loro fecero una carriera luminosa: Morato divenne capo della flotta tunisina, sino a divenire Bey ( Capo dello Stato), Morat Agà e Mustafa Rais ( nomi nuovi di vecchi cristiani) divennero personaggi influenti a Douz “la Porta”, i calabresi ribattezzatisi Sidi Mustafà e Hossein Kapodan furono nominati ministri a Tunisi e a Tripoli, Occhialì, rinnegato calabrese nominato Capitan Pascià e un tal Sinia Pascià, alias Scipione Cicala da Genova, addirittura gli successe.
La storia si ripete: ancor oggi, attraverso loro Cooperative e facendosi scudo con nomi cristiani ( ad esempio: Comunione e Liberazione) si è scoperto continuino a lucrare sui migranti. Lo Stato riconosce ad esse 900 € al mese per ogni assistito, e quelli, i disgraziati, non vedono un euro.
E noi paghiamo !!!
GARGANTUA RICETTA DEI CORSARI
DAMASCADO : stufato di carne
INGREDIENTI: burro o olio, noce moscata, coriandolo, pepe rosa, chiodi di garofano, cannella, un pezzo a commensale di carne del collo del maiale,due albicocche secche a testa,capperi sotto sale,rum bianco.
ESECUZIONE: marinare per una notte i pezzi di carne con tre quarti di ogni spezia, le albicocche e spruzzando di rum. Scaldare il burro o l’olio in una padella, unirvi le restanti spezie e i capperi per salare. Unirvi la carne e le albicocche, rosolando per bene su fuoco vivo. Irrorare di rum e servire subito a che non si asciughi.
Renzo BAGNASCO
Foto del webmaster Carlo GATTI
Rapallo; 12 Giugno 2015
IL CLIPPER MARLBOROUGH-UN MISTERO IRRISOLTO
Clipper MARLBOROUGH
E' PASSATO UN SECOLO DAL PRESUNTO RITROVAMENTO
Era scomparso da 23 anni....
Il clipper Marlborough
Il Marlborough (nella foto) fu un grande clipper da carico, costruito in ferro dal famoso Cantiere scozzese Robert Duncan – Port Glasgow che lo varò nel 1876 per l’armatore J.Leslie, che più tardi lo vendette alla Albion Company.
Ecco le sue caratteristiche:
Dislocamento: 1.124 tons – Lunghezza: 69 mt. – Larghezza: 11 mt. Pescaggio: 6.58 mt
Nave a tre alberi con bompresso e vele quadre – Equipag.: 29
Dal 1876 al 1883, durante i viaggi per Lyttelton e Dunedin (versante sud-orientale della Nuova Zelanda) il veliero fu comandato dal capitano Anderson che fece anche alcuni veloci rientri in Inghilterra. Si ricorda in particolare quello del 1880, quando impiegò soltanto 71 giorni da Lyttelton a Lizard in Cornovaglia.
Per tutti gli anni ’80 concluse felicemente 14 viaggi d’andata con immigrati, (sempre sulla tratta Inghilterra – Nuova Zelanda) ritornando quasi sempre alla base con le stive piene di lana e carne congelata. Il Marlborough scomparve nel 1890 quando era al comando del capitano Herd che imbarcò all’ultimo momento per quel maledetto viaggio da Littelton a Londra, scomparendo senza lasciare tracce.
La cartina mostra la rotta compiuta dal Marlborough nei suoi viaggi dall’Inghilterra alla Nuova Zelanda via Capo di Buona Speranza, ed il ritorno via Capo Horn proveniente dall’Oceano Pacifico.
Ma cosa successe?
L’11 gennaio 1890, il Marlborough lasciò Lyttelton (N.Z.) diretto a Londra con il solito carico di carne congelata e lana, con un equipaggio di 29 uomini e 1 passeggero. Il clipper fu visto per l’ultima volta il 13 gennaio 1890 al largo della Nuova Zelanda, dopodiché, non se ne seppe più niente.
La lunga attesa della nave e del suo equipaggio fu dedicata in parte alla sua ricerca lungo la rotta presunta del viaggio, ma anche all’inchiesta promossa dalle Autorità del Commonwealth sulle condizioni della nave al momento della partenza. Ne risultò che il carico era stato stivato a regola d’arte e che la nave era partita in perfetto assetto di navigazione.
Il famigerato Capo Horn
Dopo alcuni mesi il Lloyd di Londra dichiarò la nave “dispersa”, mentre la convinzione generale fu che la nave fosse entrata in collisione con uno dei tanti iceberg che si aggirano nei pressi di Capo Horn e che fosse quindi affondata in quel terribile cimitero di navi, dove un veliero su tre si perdeva nei Furious Fifties (40° ruggenti, 50° urlanti...) di latitudine. La tesi fu supportata dal comando del postale a vapore inglese RMS Rimutaka, il quale riferì agli inquirenti che proprio in quel periodo erano stati avvistati grandi formazioni di ghiaccio tra Chatam Island e Capo Horn.
Era il 1913 e il ricordo di quel meraviglioso clipper non si era ancora del tutto perso, specialmente negli ambienti navali europei, quando, il mistero del Marlborough riesplose improvvisamente alla notizia diffusa via radio dal piroscafo inglese Johnson che dichiarò d’aver localizzato il clipper di Glasgow, poco a nord di Capo Horn. La scarna descrizione era quella di un vascello che aveva un aspetto spettrale, incolore, marcescente. I pochi brandelli di vele stracciate, appese ai pennoni, ricordavano i corpi di tanti marinai giustiziati. Nessuna voce umana aveva risposto ai ripetuti fischi emessi del Johnson. Il veliero era senza equipaggio.
Erano passati ben 23 anni ed il mistero del clipper Marlborough ritornò alla ribalta come un’autentica ‘replica’ del Vascello Fantasma di wagneriana memoria, la cui ‘prima’ era andata in onda nel 1843, 70 prima.
Punta Arenas
Il capitano del piroscafo Johnson si trovava al largo delle baie rocciose vicino a Punta Arenas, c’era molto vento e cercava di avvicinarsi a terra in cerca di ridosso. Le insenature erano profonde e la navigazione era pericolosa per la presenza di rocce frastagliate presenti ovunque. Era una serata inquietante e selvaggia con il sole rosso ormai vicino al tramonto. Doppiata una punta rocciosa, da bordo videro una nave a vela con brandelli di vele che fluttuavano nel vento alla distanza di circa un miglio. Il comandante fece segnalare la propria presenza e salutò il vascello in panne senza avere risposta: nessun essere vivente sembrava esserci a bordo. Con i binocoli inforcati, gli ufficiali videro soltanto gli alberi e i pennoni ricoperti di lepego verde con segni evidenti di abbandono e degrado. La nave si trovava come incastrata tra le rocce, era dentro una specie di culla naturale che la proteggeva dalle furie di Capo Horn.
Lo Stretto di Magellano e Capo Horn
L’unico inquietante lamento proveniva dai rintocchi metallici dei bozzelli e delle redance penzole che sbattevano ad ogni rollata contro le manovre dormienti del clipper e producevano suoni sinistri, simili a miagolii disumani. Si avvicinarono e videro che sulla poppa era ancora leggibile il nome della nave: Marlborough - Glasgow, scomparsa 23 anni prima nei pressi di capo Horn. Il comandante fece ammainare una scialuppa e ordinò al 1° ufficiale di condurre un’ispezione a bordo del relitto con una squadra di marinai esperti.
Rapportino del 1° ufficiale: "Finalmente giungemmo sottovento alla fiancata del clipper. Non c'era alcun segno di vita a bordo. Salimmo a bordo e quando fummo in coperta, tutto scricchiolava e sembrava sbriciolarsi sotto i nostri piedi. Ciò che apparve ai nostri occhi era mostruoso. Sotto la ruota del timone giaceva lo scheletro di un uomo. Camminando con cautela sui ponti in decomposizione, c’imbattemmo in altri tre scheletri. Tra la cucina e la riposteria trovammo i resti di dieci corpi e altri sei li vedemmo ancora sdraiati negli alloggi. Uno soltanto si trovava sul ponte di comando e dalla vecchia uniforme indossata, sembrava lo scheletro del Capitano. La muffa era posata ovunque e profumava i libri d’umidità rendendo illeggibili lettere e documenti presenti nella cabina del Capitano Tutti indossavano ancora i resti delle loro uniformi. Anche il giornale di bordo su cui era appoggiata una spada arruginita, era ammuffito e risultava illeggibile”.
Grazie al telegrafo senza fili inaugurato da Marconi, le notizie viaggiavano ormai nell’etere alla velocità della luce, e il giorno dopo titoli giganteschi campeggiavano sulle più importanti testate dei quotidiani di tutto il mondo. Il tono era questo:
“Il relitto galleggiante del clipper inglese Marlborough, scomparso 23 anni fa nelle acque di Capo Horn, ricompare all'improvviso con un equipaggio di scheletri vestiti con vecchie divise. Il Marlborough fa rivivere la leggenda di un'altra nave-fantasma....”.” Capo Horn restituisce le sue prede...”
E così via....
Ancora oggi, dopo 100 anni esatti dal ritrovamento del Marlborough noi, comuni mortali, ci poniamo le stesse domande che molti si facevano allora, ma le risposte appaiono sempre dubbiose e velate dallo stesso mistero.
- Com’é possibile che le acque tempestose di Capo Horn possano restituire i resti di un vascello ancora galleggiante dopo 23 anni ?
- Com’é possibile che nessuna altra nave avesse avvistato quel grande clipper prima del P.fo Johnson, quando tutto il traffico navale tra i due Oceani maggiori passava per Capo Horn?
- O forse la nave era stata avvistata, ma non era stata abbordata per paura del contagio di malattie come la peste, il colera, la febbre gialla, all’epoca frequenti e virulente?
- Che ruolo potrebbe aver giocato invece la superstizione? Quando tutti sapevano che l’incontro con un ‘cimitero galleggiante’ era sempre un presagio di sfortuna?
- Perché non esiste una testimonianza fotografica di quel ritrovamento quando l’invenzione della fotografia aveva già mezzo secolo di storia?
- Fu ricuperato il relitto? Dove si trova ora?
* Nota: Il racconto di un vecchio ‘vascello fantasma’, manovrato da scheletri, che corre i mari senza meta arrecando ‘malasorte’ a chiunque lo incontri, é uno dei segreti che i vecchi marinai lasciano in eredità ai giovani su quei bordi ancora impregnati di autentica marineria che affonda le sue secolari radici nel mondo della vela.
E’ difficile dare oggi delle risposte razionali influenzati, come siamo, dalla tecnologia che pare aver tagliato i ponti con il passato e sorride di tutto ciò che non proviene dai ‘ragionamenti’ del computer e della scienza. Eppure, un secolo fa i velieri non finivano sugli scogli così facilmente, come succede ancora oggi a certe supernavi ed il caso del Marlborough sembra mettercela proprio tutta per dimostrarlo...
Tuttavia, facendo qualche passo indietro tra le pagine ingiallite della vela, quando la velocità di un clipper era quella consentita dal vento e dal moto ondoso, ci si rende conto che la vita a bordo degli ultimi velieri era ancora intrisa di grandi difficoltà. I marinai erano spesso alle prese con cibi ammuffiti che si contendevano con i topi e i ‘caccaracci’.
* Nota: I caccaracci sono gli scarafaggi sovente presenti a bordo nelle cucine e nei locali caldi e umidi dove scarseggia la pulizia.
Quando finiva l’acqua piovana non rimaneva che bere quella inquinata e maleodorante. L’equipaggio viveva in spazi ristretti, sporchi, umidi nel caldo torrido, oppure ghiacciati nel freddo polare dei mari del sud ed erano quasi sempre bagnati in una specie di salamoia che penetrava in profondità provocando artrosi e artriti in tutte le articolazioni. Gli unici rimedi erano i salassi, le purghe e qualche pomata... per i fatti più gravi non rimaneva che la cerimonia a cielo aperto del seppellimento in mare del cadavere.
Di questa storia non rimane che rivedere alcuni punti controversi:
L La zona intorno a Capo Horn è soggetta a forti tempeste e correnti da Ovest verso Est. La navigazione é sempre minacciata dalla presenza di iceberg che si staccano dalla calotta antartica posizionandosi come ostacoli assai difficili da aggirare senza finire in secca da un lato, oppure troppo in fuori dall’altro, dove i venti sono urlanti, ruggenti e pronti a fare a pezzi tutte le navi che sfidano la loro potenza. Tutto ciò accadeva un secolo fa; oggi, le navi sono robuste, veloci ed hanno in dotazione il radar e molti altri ausili alla navigazione. Inoltre, oggi non é neppure più necessario doppiare Capo Horn per scalare i porti del Cile e del Perù, per cui la nostra mentalità marinara é molto distante da quella problematica che ci appare così lontana. Detto questo, é molto difficile immaginare che un clipper di 1.200 tonnellate possa aver vagato in balia delle correnti, ‘invecchiato’ si, ma incolume dopo 20 anni di slalom tra le banchise, gli iceberg, i bassi fondali, le scogliere e le barriere semisommerse.
Come si é detto, la rotta di Capo Horn era l’unico passaggio navigabile da un oceano all’altro ed il flusso di velieri nei due sensi era consistente, programmato e cadenzato. A noi sembra addirittura impossibile che nessuno abbia mai avvistato il vascello fantasma prima del Johnson in quei 23 anni di vagabondaggio alla deriva. Aggiungiamo, inoltre, che la zona attorno a Capo Horn era all’epoca ritenuta il centro di ricerca di naufraghi e navi più animato e turbolento al mondo a causa dell’elevato numero di disastri marittimi.
Si ricorda infine che nel 1890, un cospicuo numero di ricercatori d’oro si era anche insediato proprio nei dintorni di Punta Arenas, dove fu avvistato il clipper, ma nessuno lo vide mai.
Vorremmo concludere questa storia che ha fatto discutere milioni di persone con la famosa frase di un noto politico italiano:
“A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”
Nell’agosto del 1914, pochi mesi dopo l’avvistamento del Marlborough, fu inaugurato il Canale di Panama che permetteva, in 5 ore di navigazione, di aggirare il Sud America. Occorreva forse una ‘storia orrida e fantastica’ come quella del ritrovamento del clipper, per segnare una svolta definitiva nella storia dei traffici marittimi, una sorta di manifesto pubblicitario che disegnasse i confini tra la rotta della morte (Capo Horn) e quelle della speranza (Canale di Panama). Occorreva un attestato che certificasse la sicurezza e la rapidità dei viaggi degli emigranti e del turismo dei nuovi ricchi. Qualche mente raffinata dello Shipping britannico di cento anni fa pensò che un’idea forte e un po’ bizzarra era in grado di sconfiggere la millenaria superstizione che delineava l’epopea della vela. La rivoluzione industriale era in piena evoluzione e la tecnica pubblicitaria doveva, in qualche modo, promuovere la conquista del New World americano con i nuovi mezzi della tecnica navale, ossia il motore al posto della vela. Il Canale di Panama doveva cancellare per sempre l’idea che il veliero fosse sinonimo di sofferenza umana e morte per naufragio e che la nave a vapore e a motore si proponesse come il “simbolo della rinascita dei Trasporti Navali alla conquista di nuovi orizzonti”.
C Carlo GATTI
Rapallo, 19 febbraio 2013
TORRE MARCONI - SESTRI LEVANTE
TORRE MARCONI
SESTRI LEVANTE
Il 15 giugno 1927 Guglielmo Marconi sposò Maria Cristina Bezzi-Scali. La loro figlia fu chiamata Maria Elettra Elena Anna. Anche il panfilo che ospitò molte ricerche in varie parti del mondo si chiamò Elettra.
Gli esperimenti effettuati nel golfo del Tigullio avevano come postazione a terra una TORRE, posta sulla penisola di Sestri Levante, che successivamente prese il nome di TORRE MARCONI, mentre nelle carte ufficiali della Marina italiana il golfo del Tigullio assunse il nome di: GOLFO MARCONI.
La nave laboratorio ELETTRA a Sestri Levante
Dipinto di Amedeo Devoto
Guglielmo Marconi nella sua postazione sull’ELETTRA
Sestri Levante – Baia del Silenzio
La freccia indica la posizione della TORRE MARCONI
Nominativo di chiamata
IY1TTM
Non molti sanno che al culmine della penisola di Sestri Levante esiste la Torre Marconi dalla quale lo scienziato italiano portò a termine la parte tecnologicamente più avanzata dei suoi esperimenti.
Sentiero che porta alla Torre Marconi
Sulla penisola, immediatamente fuori le mura, un breve percorso conduce alla “Torre Marconi”, compresa attualmente nel Parco del Gran Hotel dei Castelli – edifici costruiti per volere dell’industriale piemontese Riccardo Gualino e situata sul punto della penisola di massima visuale: nelle giornate limpide la vista abbraccia buona parte della costa ligure di ponente, oltre al tratto di mare verso punta Manara. Le torri costituivano certamente un elemento fondamentale di avvistamento e di segnalazione in rapporto alla fortezza.
Il manufatto, di sezione circolare, ha un’altezza di circa 10 metri su tre piani, ed è interamente in mattoni. Nell’impossibilità di stabilire il periodo dell’originaria edificazione, si può in ogni caso ipotizzare che ricalchi una o più precedenti fondazioni: le carte e le stampe antiche indicano, infatti, un mastio al di sopra del sentiero, proprio nel punto dove oggi sorge la torre; si può anche pensare che in questa parte del promontorio esistesse più di un punto di osservazione: in un luogo più elevato della penisola, nei pressi della torre, sono visibili i resti di un altro manufatto di epoca imprecisata, una torricella costruita con grosse pietre regolari e rovinata nella parte sud per un crollo: forse di antica origine, probabilmente utilizzata come “batteria” in tempi più recenti; apparati di questo genere sono indicati, nelle carte del settecento, in svariati punti dell’isola.
Dopo secoli di abbandono la Torre è stata nuovamente utilizzata nel corso del Novecento, grazie alla sua posizione strategica sul mare; Riccardo Gualino, proprietario dagli anni venti di parte della penisola, amico di Guglielmo Marconi, lo invitò ai Castelli e gli mise a disposizione la torre, dove lo scienziato condusse numerosi esperimenti tra il 1932 e il 1934.
Il 30 luglio 1934, alla presenza di tecnici, ufficiali della Marina Italiana e Inglese e di numerosi rappresentanti della stampa, Marconi coronò con successo i suoi esperimenti sulla possibilità di utilizzare le microonde per ottenere un sistema di radiotelegrafia da applicarsi alle navi in condizioni di scarsa visibilità o nulla: salpata da Santa Margherita, la nave Elettra si diresse verso Sestri Levante, sul cui promontorio era stato installato il radiofaro; a circa 800 metri da questo si trovavano disposte due boe distanziate tra loro di 100 metri, tra le quali l’Elettra passò con precisione, guidata unicamente dai segnali emessi dal radiofaro.
Dal 1971 la Torre è custodita dai radioamatori della sezione A.R.I. (Associazione Italiana Radioamatori) di Sestri Levante (IY1 e’ il nominativo speciale assegnato alla torre), grazie ai quali perdura l’originaria funzione di trasmissione, “avvistamento” e segnalazione della costruzione. Nel seminterrato ci sono due piccoli magazzinetti, al pianterreno c’è un piccolo salotto e sulle pareti sono appese diverse fotografie di Guglielmo Marconi e del panfilo “Elettra”; una scala a chiocciola porta al piano superiore dove c’è la sala radio. Si può accedere al tetto a terrazza attraverso una botola.
Per questo motivo la storica “Torre Marconi” rappresenta da sempre la sede ideale dei radioamatori di Sestri Levante e di tutto il Golfo del Tigullio; non a caso sulle carte nautiche dell’Istituto Idrografico della Marina tale golfo é riportato con il nominativo: Golfo Marconi per gli studi svolti dallo scienziato nella Riviera di Levante. Dai tempi di Guglielmo Marconi il nominativo di chiamata della stazione radio, presente all’interno della Torre, é il seguente: IY1TTM ed é conosciuto in tutto il mondo.
Bibliografia:
-Albertella L., Fortificazioni, edifici ecclesiastici, borghi nella Liguria di Levante nel Medioevo: comune di Sestri Levante, tesi inedita, Università degli Studi di Genova, Facoltà di Lettere e Filosofia, anno accademico 1986/1987, relatore Prof.ssa Colette Bozzo Dufour, pp. 127-130.
-La torre Marconi, a cura della sezione A.R.I. di Sestri Levante (Associazione Radioamatori Italiani, www.radiomar.net)
TORRE MARCONI
La tromba delle scale della Torre Marconi che é accessibile da una botola sul tetto della Torre stessa.
Torre Marconi a Sestri Levante vista dalla Baia del Silenzio
Guglielmo Marconi
(Bologna 25 aprile 1874 – Roma 20 luglio 1937)
1932-Santa Margherita Ligure. Guglielmo Marconi con la moglie, marchesa Maria Cristina Bezzi-Scali (Roma, 2 aprile 1900 – Roma, 15 luglio 1994) seconda moglie dello scienziato e madre di Elettra.
1906 - Una Stazione Radio MARCONI, Capo Cod, Massachusetts, Stati Uniti di Marconi
Antenna Marconi
Il giovane MARCONI
Museo Marinaro Tommasino Andreatta Chiavari
Cuffia “Brown”
(adoperata dal marconista dell’Elettra)
Gran Bretagna, 1925
Dimensioni: cm 20x10x18
Materiali: metallo, bachelite
Donazione Franco Tommasino
M.M.T.A. – Invent. n. 109
Questa cuffia, in uso presso la stazione radiotelegrafica dello yacht “Elettra”, la nave a bordo della quale Guglielmo Marconi condusse i suoi più importanti esperimenti, fu donata a Mario Tommasino da Adelmo Landini, operatore radio di bordo.
Al centro della foto la Signora Elettra Marconi a braccetto del Comandante Ernani Andreatta, Curatore del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari. La foto é stata scattata nel giardino che circonda la Torre Marconi.
Elettra Marconi, in visita al Museo Marinaro Tommasino-Andreatta, ammira la perfezione del modello della nave laboratorio ELETTRA che porta il suo nome. Di questo eccezionale “modello” ne esiste soltanto un’altra copia presso la sede della RAI di Torino.
Da sinistra: Guglielmo Giovannelli Marconi figlio di Elettra, Franco Tommasino detto “Mario” (autore del modello) co-fondatore del Museo marinaro, Elettra Marconi e la signora Erminia Gueglio, moglie di Franco Tommasino.
La foto é stata scattata nel salone della Caserma di Caperana-Chiavari. Da sinistra, la signora Elettra Marconi, il Capitano di Vascello Vincenzo Rinaldi, Comandante della Scuola TLC, il Comandante Ernani Andreatta, il radioamatore Giuliano Corradi amico di Elettra Marconi, il Maggiore Gigi Pansa Aiutante del Comando.
Una bella immagine dell’ELETTRA nelle nostre acque
Guglielmo Marconi nella Stazione Radio della nave laboratorio ELETTRA
Guglielmo Marconi con padre Alfani all’inaugurazione della stazione di radiotelegrafica dell’Osservatorio Ximeniano di Firenze
I RADIOAMATORI EREDI DI GUGLIELMO MARCONI
OGGI NELLA TORRE CHE PORTA IL SUO NOME
IY1TTM – TORRE MARCONI – Interni
Montallegro - Rapallo
Scultura in rilievo della ELETTRA di G.Marconi su una parte di CARENA della nave stessa.
L’opera si trova a Villa Durazzo – Santa Margherita Ligure, teatro di molti esperimenti di Marconi in rada, in navigazione nel Tigullio e in porto a Santa Margherita Ligure.
ALCUNE ANTENNE POSIZIONATE DAI RADIOAMATORI SULLA TORRE MARCONI
SESTRI LEVANTE
BIOGRAFIA DI GUGLIELMO MARCONI
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Radio radianti
Premio Nobel per la fisica nel 1909, Guglielmo Marconi nasce il 25 aprile 1874. Trascorre l’infanzia a Pontecchio, Villa Griffone, cittadina vicino a Bologna, dove sviluppa le prime curiosità scientifiche e matura la sua grande scoperta, l’invenzione della radio. E’ proprio qui infatti che lo scienziato lancia da una finestra, tramite l’invenzione di un’antenna trasmittente, il primo segnale di telegrafia senza fili, nell’anno 1895, attraverso quella che diverrà poi “la collina della radio”.
Marconi dedicherà tutta la sua vita allo sviluppo e perfezionamento delle radiocomunicazioni. Studia privatamente; ha vent’anni quando muore il fisico tedesco Heinrich Rudolf Hertz: dalla lettura delle sue esperienze Marconi prenderà ispirazione per quei lavori sulle onde elettromagnetiche che l’occuperanno per tutta la vita.
Forte delle sue scoperte e galvanizzato dalle prospettive (anche commerciali) che potevano aprirsi, nel 1897 fonda in Inghilterra la “Marconi’s wireless Telegraph Companie”, non prima di aver depositato, a soli ventidue anni, il suo primo brevetto. I benefici della sua invenzione si fanno subito apprezzare da tutti; vi è un caso in particolare che lo dimostra in modo clamoroso: il primo salvataggio, a mezzo appello radio, che avvenne in quegli anni di una nave perduta sulla Manica.
Nel 1901 vengono trasmessi i primi segnali telegrafici senza fili tra Poldhu (Cornovaglia) e l’isola di Terranova (America settentrionale). La stazione trasmittente della potenza di 25 kW posta a Poldhu Cove in Cornovaglia, come antenna dispone di un insieme di fili sospesi a ventaglio fra due alberi a 45 metri d’altezza, mentre la stazione ricevente, posta a St. Johns di Terranova, è composta solo da un aquilone che porta un’antenna di 120 metri.
Il 12 dicembre 1901 per mezzo di una cuffia e di un coherer vengono ricevuti i primi SOS attraverso l’Atlantico. Così Marconi, non ancora trentenne, è carico di gloria e il suo nome già famoso. Queste sono state le prime trasmissioni transatlantiche.
Nel 1902, onorato e celebrato in ogni dove, Marconi compie alcune esperienze sulla Regia nave Carlo Alberto, provando inoltre la possibilità dei radiocollegamenti tra le navi e con la terra.
Pochi anni dopo, i 706 superstiti del noto disastro del TITANIC devono la salvezza alla radio e anche per questo l’Inghilterra insignisce Marconi del titolo di Sir, mentre l’Italia lo fa Senatore (1914) e Marchese (1929).
Nel 1914, sempre più ossessionato dal desiderio di allargare le potenzialità degli strumenti partoriti dal suo genio, perfeziona i primi apparecchi radiotelefonici. Inizia poi lo studio dei sistemi a fascio a onde corte, che gli permettono ulteriori passi in avanti oltre alla possibilità di proseguire quegli esperimenti che non si stancava mai di compiere. In questo periodo si interessa anche al problema dei radio-echi.
Nel 1930 viene nominato presidente della Real Accademia d’Italia. Nello stesso anno inizia a studiare le microonde, preludio all’invenzione del radar.
Guglielmo Marconi muore a Roma all’età di 63 anni, il 20 luglio 1937, dopo essere stato nominato dottore honoris causa dalle università di Bologna, di Oxford, di Cambridge, e di altre università italiane, senza dimenticare che all’Università di Roma è stato professore di radiocomunicazioni.
La scienza è incapace di dare la spiegazione della vita; solo la fede ci può fornire il senso dell’esistenza: sono contento di essere cristiano.
Guglielmo Marconi
Su questo sito di MARE NOSTRUM RAPALLO, nella sezione Storia Navale, pag.5 – Trovate l’articolo:
QUANTE VITE SALVO’ GUGLIELMO MARCONI…– 14.115 visite circa in data odierna.
A cura di
Carlo GATTI
Rapallo, 9 Febbraio 2018