PROPULSORI VOITH SCHNEIDER
PROPULSORI VOITH SCHNEIDER
Il propulsore Voith Schneider noto anche come unità cicloidale è uno speciale sistema di propulsione marina. È altamente manovrabile, in grado di cambiare la direzione della sua spinta quasi istantaneamente. È ampiamente utilizzato su rimorchiatori e traghetti.
Funzionamento
Principio di funzionamento del propulsore Voith Schneider
Nel fondo del rimorchiatore è presente un piatto circolare, in grado di ruotare attorno ad un asse verticale, dal quale sporgono una serie circolare di pale verticali di forma appropriata. Ogni pala può ruotare a sua volta attorno ad un asse verticale. Un ingranaggio interno cambia l'angolo di attacco delle pale in sincronia con la rotazione del piatto, in modo che ogni pala possa fornire la spinta in qualsiasi direzione. L'angolo di attacco di tutte le pale viene cambiato in modo sincronizzato, in modo tale che la spinta propulsiva di ciascuna pala vada a sommarsi a quella delle altre pale così da rendere massima la spinta stessa in una precisa direzione
Il Propulsore Voith Schneider (VSP) combina la propulsione ed il timone in una unica unità. Questa unica soluzione di propulsione è stata sviluppata più di 85 anni fa dall’ Ingegnere austriaco Ernst Schneider. Oggi i Propulsori Voith Schneider sono usati in tutto il mondo ovunque sia richiesta la precisione, la sicurezza e l’efficienza della manovra
Da specialista di sistemi di propulsione la Voith offre una vasta gamma di opzioni di controllo del sistema i cui comandi possono essere trasmessi sia meccanicamente che elettronicamente. Ciascun sistema viene adattato alle caratteristiche dell’impianto di propulsione e alle condizioni operative, garantendo sempre un ottimo controllo ed efficiente operatività della nave
Sistema di controllo elettronico
Per i propulsori Voith Schneider e per quelli radiali, la Voith offre un sistema di controllo elettronico che consiste in un insieme hardware e software con una vasta gamma di funzioni di controllo e interfaccia standardizzati. Comandi veloci ed un esatto controllo del sistema di propulsione, diagnostica remota via internet sono solo una parte dei vantaggi di questo sistema.
Sistema di controllo Meccanico
Assolutamente affidabile, semplice da usarsi e facile da manutenzionare, caratteristiche che hanno fatto il sistema meccanico di controllo dei Voith un punto fermo per decenni. Esso è principalmente usato in quelle installazioni con minima distanza tra il ponte di comando ed il propulsore, come nel casa dei Voith Water Tractors. Addizionali componenti elettronici, ad esempio l’autopilota, possono essere integrati a mezzo di attuatori. In aggiunta vari componenti optional, servomotori ausiliari, sono disponibili per aumentare la facilità di manovra.
Longevità dei propulsori VOITH
Durante il mio lavoro nel cantiere di Valencia mi era stato mostrato un nuovo rimorchiatore sul quale erano montati due propulsori Voith prelevati da un altro rimorchiatore costruito 30 anni prima e mandato alla demolizione. I due propulsori erano ancora perfettamente funzionanti e hanno avuto solo bisogno un normale intervento manutenzione con sostituzione di alcuni componenti di usura.
Pino SORIO
ALBUM FOTOGRAFICO
Prima fabbrica VOITH
Ernst Schneider
Varo UHU prina nave con propulsori VOITH
Rimorchiatore con sistema VOITH
VSPREAL
VPS Spaccato
VOITH SCHENEIDER animation
VPS Forces
Costruzione
Blocco Prora
Allineamento blocchi sullo scalo
Posizionamento Blocco Poppa
Posizionamento Blocco Prora
Costruzione
Costruzione
Montaggio Macchina alesatrice per basamento
Lavorazione finale basamento
Montaggio Pale
Montaggio Pale
Montaggio Pale
Montaggio Pale
Particolare Pala
Inserimento VOITH
Particolare inferiore Pala
Vista Pale dopo montaggio
Insieme Pale
Parte Superiore VOITH
Spaccato Rimorchiatore
Vista Inferiore
Simulatore
Controllo meccanico
Console Comando VOITH
Manovratrice specializzata
Prove di Velocità
La Partenza
Segnaliamo due FILMATI interessanti che illustrano la notevole capacità manovriera del sistema:
- Outstanding Maneuverability of a Voith Water Tractor (VWT)
(2’16”)
- How a Voith Schneider or Cycloidal Drive Propulsion System Works (57’’)
PINO SORIO
Rapallo, 27 gennaio 2016
CORSARI BARBARESCHI
CORSARI BARBARESCHI
Tutto quello di cui non si parla mai
Dei pirati sappiamo ormai quasi tutto, molto anche infarcito da leggende romanzate. In realtà i “corsari barbareschi”, quelli che imperversavano anche da noi, erano degli abili marinai e ardimentosi predatori mussulmani, nord-africani e ottomani con frammisti anche qualche italiano rinnegato, che svolgeva a proprio vantaggio questa attività di brigantaggio, magari camuffando il proprio vero nome con improbabili nomignoli berberi.
Le basi di appartenenza di questi pirati erano Tunisi, Tripoli, Algeri, Salé, porti localizzati in quella che allora noi europei chiamavamo <Barberia>, storpiando il nome dei Berberi, i veri abitanti dei luoghi.
Poi, per quanto ci riguarda, visto il successo, i pirati si organizzarono creandosi rifugi negli anfratti della rocciosa costa Ligure che permetteva di rimanere nascosti, fare cambusa ed essere però anche pronti a scattare per depredare le ricche e lente navi che costeggiavano per raggiungere Genova e, in mancanza di quelle, assalire i Borghi costieri. I secoli in cui imperversarono furono, soprattutto il XVI e il XVII. Anche allora la religione era un pretesto infervorante.
Tutto nacque dalla potente flotta ottomana che dominò, per un certo periodo, il Mare Mediterraneo, forte anche del fatto che gli Stati europei non furono capaci di farle fronte comune. Quando lo fecero, gli Ottomani si acchetarono e quella flotta, intenta anche a sanarsi le ferite finalmente subite, non veleggiò nel Mediterraneo per lunga tratta. Da allora piccole ed isolate frange, intrapresero la nuova attività non più sotto l’egida del Sultano Solimano, pur inalberando “mezze lune”.
La pirateria fu una vera e propria attività industriale che ogni pirata si gestiva autonomamente. Come ultima ratio, il rapito veniva venduto in Nord Africa, solo se non si riusciva ad ottenere “in loco” un riscatto. Per consentirne il pagamento, lo sventurato veniva esibito in varie spiagge vicine a casa sua sino a che qualcuno non ne avesse pagato il richiesto; con calma, perché nel frattempo veniva messo a lavorare per loro, in primis ai remi. Fra gente tirchia come siamo e poveri come eravamo, non era facile trovare parenti pronti a versare i propri risparmi per “acquistare” la libertà ad un “furesto”, ancorché parente. Invece i beni, le barche o i leudi e i loro carichi appena depredati lungo la costa, venivano rivendute ad acquirenti senza scrupoli, interessati ad averli subito e a prezzi stracciati; c’erano già allora commercianti locali organizzati che offrivano denari per poterli avere. Sembra strano ma la disorganizzazione e la miseria che regnava in tutte le cittadine, non permetteva alle stesse di riprendersi con la forza, quanto era stato loro appena rapito ed offerto a pochi passi da casa.
Isola del Tino (La Spezia)
Basti pensare che il frutto delle malefatte compiute nel golfo della Spezia, veniva poi messo in vendita appena dietro il Tino e così, per tutta la riviera. La merce depredata trovava subito acquirenti ma le persone, se non abbienti o importanti per i signorotti locali che avevano i mezzi per riscattarli, erano difficili da affrancare.
Le scarse e mal pagate guardie, assoldate per difendere i Borghi, troppo spesso di notte dormivano, quando non erano in combutta con i predatori.
Genova - Magistrato per il riscatto degli schiavi
Tutti i paesi sudditi si rivolgevano pungolando l’intervento della matrigna Repubblica di Genova, ma trovarono sempre orecchio da marcante, sino a quando non decise di dar vita, vista l’enorme disorganizzazione dovuta anche alla miseria dominante sulle riviere e per evitare sollevazioni, alla nomina del <Magistrato per il riscatto degli schiavi> (1597). Ma anche lui senza denari poteva far poco e allora si cercò, diciamolo subito <vanamente>, di ricavare le somme ricorrendo ad istituire delle “bussole” per raccogliere le offerte, o devolvere le entrate delle concessioni da parte dei Pontefici di “indulgenze” estese all’intero Dominio della Repubblica a chi avesse donato per il riscatto.
In fine si decise di raggruppare tutti i denari sino ad allora amministrati da molte Opere Pie, Confraternite (oggi ne abbiamo testimonianza nella antiche Casacce) e di Misericordia, incaricate allo scopo per tentare di ragranellare qualcosa. Falliti anche questi tentativi, solo allora, i rapiti venivano inviati ai mercati degli schiavi del Nord Africa dove venivano pagati, data la massiccia presenza, assai meno del richiesto riscatto in loco. Altra cosa che và precisata per sfogliare il “carciofo” della leggenda: questi delinquenti non erano ne lussuriosi ne anticristiani per il fatto che non rispettassero l’immunità dei luoghi sacri, convenzione che invece veniva osservata all’epoca da tutti gli eserciti perché i loro Regnanti non volevano inimicarsi il Papa che era il vero “intermediatore”fra gli Stati. In Chiesa le donne e le giovani (merce di facile vendita) si radunavano pensando di essere protette, portando con se quei pochi valori di famiglia mentre gli uomini, se non fuggiti nelle alture, stavano opponendosi ai pirati. Quindi le Chiese erano i siti più sicuri e facili da espugnare e dove trovare donne in età da lavoro e appetibili, con tutti gli oggetti preziosi della comunità: in un sol colpo si ci impadroniva del meglio di ogni cittadina rivierasca. La miseria, va detto, era tale che neppure le modeste e malandate guarnigioni, ove esistevano, potevano disporre di armi, polvere da sparo e quant’altro. Non parliamo dei cannoni dal costo di acquisto e di gestione proibitivi e che, invece, avrebbero fatto comodo per poter cannoneggiare le navi barbaresche al solo avvistarle all’orizzonte. L’altro modo per evitare le invasioni sarebbe stato che alcune navi armate, battessero la costa così da intercettare e fugare i veloci ma piccoli battelli pirata. Ma anche qui la sola che potesse disporre di simili mezzi era la Serenissima Repubblica di Genova che, se non retribuita, non le inviava.
Molte cittadine si fecero carico, naturalmente a loro spese ma sotto la soprintendenza dei tecnici della Repubblica che in quello “metteva naso”, di costruirsi dei fortilizi sulle cui terrazze alloggiare dei cannoni che avrebbero reso possibile fugare a distanza, le barche barbaresche; ma, una volta costruite le “castella”, non c’erano più fondi per acquistare l’armamento o, quando c’erano, mancava la possibilità di fornirli della polvere da sparo, delle palle in piombo e delle stoppacce per “armarli”. Quindi quei forti servirono più come rifugi inespugnabili per ricoverare la popolazione, che per difesa del territorio. Mentre la popolazione era colà rinchiusa e protetta, i pirati saccheggiavano le case ignorando i fortilizzi. Tutto si svolgeva in poche ore; si iniziava di primo mattino così’ da cogliere nel sonno la maggior parte delle persone, meglio se il mattino dopo di una festa di paese. I tempi veloci erano dettati dalla prudenza di ritirarsi prima che eventuali rinforzi dai borghi vicini, rendessero più rischiose le scorribande. La storia ci dice che questi “aiuti” non avvenissero mai o, al più, tardivi ma, all’epoca, i barbareschi non lo sapevano.
Come si vede in molti non avevano interessi a che cessasse questa situazione perché se ben organizzata e seguendo indirizzi precisi noti a tutti permetteva a molti dei locali di speculare pure su questa situazione inumana, arricchendosi.
Alla prossima puntata vedremo come vivevano i rapiti non riscattati..
Renzo BAGNASCO
Foto del webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 12 Giugno 2015
Raimondo MONTECUCCOLI, una storia goliardica e fortunata
Raimondo MONTECUCCOLI
UNA STORIA GOLIARDICA... e fortunata
E’ stata brillantemente rievocata dal comandante Sergio Nesi nel suo:
Tutto ruota intorno alla figura di Raimondo Montecuccoli, condottiero seicentesco ma anche moderno “fantasma” con la divina missione di proteggere l’incrociatore che porta il suo nome dalle mille insidie delle missioni di guerra nel Mediterraneo.
Tutto nasce da una storia vera che diviene uno degli spassosissimi aneddoti raccontati dal comandante Sergio Nesi, amico dei Piloti del Porto di Genova, nel suo libro “Volo dell’Alcione”.
Allo scoppio della guerra, il T.V. Giulio Pelli, estroso Ufficiale di rotta del Montecuccoli, introdusse l’usanza di coprire con la carta di un cioccolatino la “O” del motto “Centum Oculi” che campeggiava in alto sul quadro del condottiero posto nel quadrato Ufficiali della nave. Questa semplice accortezza, nell’idea del Pelli, avrebbe procurato all'incrociatore, che secondo lui difettava di corazzatura, una discreta “scorta” di ben cento colpi di fortuna da "spendere" durante il corso della guerra.
La cosa andò ovviamente ben oltre la trovata goliardica.
Un paio di marinai di guardia in coperta svennero dallo spavento asserendo di aver visto il fantasma del condottiero comparire dal buio della notte mentre i colpi di fortuna che riguardarono l’incrociatore nelle sue navigazioni di guerra continuarono a moltiplicarsi stante la carta stagnola ben appiccicata sulla “O” del motto del condottiero.
Ma il sugello alla leggenda del fantasma di Montecuccoli si ebbe il 15 giugno 1942, durante la battaglia di Pantelleria. Il solo colpo d’artiglieria che raggiunse il Montecuccoli attraversò il quadrato ufficiali seminando nell’ambiente diversi fori di scheggia. Una di queste schegge andò proprio ad impattare sul quadro del condottiero provocando la chirurgica asportazione della famigerata “O” del motto “Centum Oculi”. La goliardica storiella del fantasma di Montecuccoli divenne pertanto storia.
Ecco quindi il filo conduttore di questo bel romanzo del Nesi. La storia della vita terrena del condottiero “rigorosamente desunta dalla vasta letteratura citata nella indicazione bibliografica desunta da padre Berardo Rossi […] nel suo bellissimo libro Raimondo Montecuccoli” e la vita ultraterrena del suo fantasma, raccontata attraverso il personaggio del giovane Ufficiale Sergio Rocca, unico nome di fantasia del romanzo, che altri non è che il Nesi stesso.
Nonostante il rigore storico che contraddistingue l'opera, il romanzo del Nesi è tutt'altro che noioso. Grazie allo stile brillante dell’autore che, come nella precedente trilogia dell’Alcione, è prodigo di aneddoti e freddure, la lettura è piacevole e scorrevole.
Per chi non fosse in possesso poi della già citata ormai introvabile trilogia, inoltre, il romanzo è anche un ottima occasione per poter leggere una buona parte delle incredibili avventure trascorse dal Nesi durante la Seconda guerra mondiale. Quelle appunto che si riferiscono al suo periodo d’imbarco sul Montecuccoli.
Post Scriptum:
Per chi fosse riluttante a credere alla storia del fantasma di Montecuccoli, ecco le foto del quadro in questione che, dopo il disarmo dell’incrociatore, fu collocato nel Museo Navale di Venezia.
Ringrazio il nostro Vicepresidente, lo storico Maurizio Brescia, socio di BETASON, per la gentile concessione e il socio di Mare Nostrum Franco Bernareggi per la segnalazione del libro di Sergio Nesi e della foto del quadro dallo stesso ammirato nel Museo Storico dell’Arsenale veneziano.
A cura di
Carlo GATTI
Rapallo, 24.12.2012
RICORDO DI GIORGIO ODAGLIA
RICORDO DI GIORGIO ODAGLIA
In questi giorni di tristezza per la scomparsa di Giorgio Odaglia, i giornali lo hanno ricordato come medico della Sampdoria per oltre 40 anni, di quando fondò la prima Cattedra di Medicina dello Sport e del Lavoro in Italia e per gli studi sulla scienza subacquea; noi preferiamo ricordare Giorgio nei suoi momenti più gioiosi, quelli che lui amava di più, gli anni in cui si distinse come bravo giocatore di serie A, nello sport più seguito in Liguria: la Pallanuoto.
Giocammo insieme due campionati nella R.N. Camogli, in seguito Giorgio continuò a giocare fino all’età di 36 anni concludendo la sua carriera sportiva nella Pro Recco vincendo il Campionato Italiano.
Tra i tanti ricordi personali mi é caro sottolineare che Giorgio fu innanzitutto un MAESTRO di educazione, di umiltà e di grande umanità. Il mondo della pallanuoto si é sempre distinto, tra le altre discipline sportive, per essere uno sport duro, gladiatorio e Giorgio, che era uno scienziato, fu tra i più autorevoli Campioni, un uomo-atleta che non fece mai pesare la sua immensa cultura.
Vinti e vincitori: più amici di prima
I pallanuotisti per lui erano tutti AMICI, anche gli avversari, ma in particolare il giocatore Odaglia era l’antidivo più ammirato e amato da tutti.
Il Camogli nella formazione che ha battuto la Canottieri Napoli
Da sinistra: Gatti, Rontevroli, Parodi, Caprarulo, Marciani (in secondo piano), Ferrando, Odaglia.
La sua estrema gentilezza, cordialità e ripeto imbarazzante educazione, va interpretata nel senso SPORTIVO, in quanto Giorgio in acqua si trasformava in un leone, arcigno, duro, spigoloso che non perdeva volentieri… Era nato sul mare, alle Nagge di Rapallo; era “costruito” per nuotare e in acqua raddoppiava il suo già incredibile potenziale.
Per moltissimi anni frequentammo gli attigui stabilimenti balneari: Bagni Vittoria e Bagni Tigullio.
Appena qualcuno si avvicinava col pallone alla porta del campo di pallanuoto, i vecchi e i giovani pallanuotisti rapallesi si tuffavano in mare: Bonazzi (Lacci), un certo Bruno, Odaglia, io e mio fratello Pino, Paolo ed occasionalmente arrivavano altri nuotatori attirati dal rimbombo delle pallonate… Quelle di Giorgio facevano male, erano legnate che io, giovane portiere, assorbivo con disinvoltura, ma quando uscivo dall’acqua, dopo qualche ora di “bombardamento”, avevo le braccia rosse e forse anche gonfie… i palloni di allora erano pesanti e facevano male, specialmente quando li prendevo in faccia e nel collo sotto il mento!
Anche in allenamento Giorgio non faceva sconti… ma con lui s’imparava a combattere e a vivere da sportivo vero.
Il 13.10.11 Scrissi sul sito di Mare Nostrum Rapallo:
In quell’articolo parlo di Giorgio Odaglia e del contesto dei grandi subacquei liguri che diedero un impulso enorme all’evoluzione della scienza SUB. (Furono chiamati “La Tribù delle Rocce”)
Giorgio fu felice di quella pubblicazione dicendomi che non avevo dimenticato proprio nulla…
Giorgio fu il mio medico per molti anni e mi preparò anche per il superamento della difficile visita medica per diventare pilota.
Giorgio, come appassionato di storia e di mare, fu spesso presente agli EVENTI di Mare Nostrum e molti soci lo ricorderanno come ospite illustre della nostra Rassegna.
Conobbi anche i suoi fratelli Gianfranco e Puny. Si somigliavano non solo fisicamente, ma soprattutto per la semplicità con cui si porgevano verso il prossimo.
Il professor Giorgio Odaglia lascia la moglie Franca Mari (figlia di un storico dirigente della pallanuoto), i figli Stefano e Federica con le rispettive famiglie.
Addio Giorgio! Grazie per tutto quello che ci hai donato!
Carlo GATTI
Rapallo, 6 Febbraio 2018
MANOVRA IMPORTANTE NEL PORTO DI GENOVA
30 novembre 2015
MANOVRA IMPORTANTE NEL PORTO DI GENOVA
YM Wondrous
CALATA SANITA’ - SECH
Genova, ecco la nave da 14 mila containers
Giornata importante al porto storico di Genova dove per la prima volta è entrata una nave da 14 mila containers. È la YM Wondrous, lunga 367 metri. Ripartita dopo poche ore senza aver effettuato alcuna operazione commerciale: il suo arrivo è stato solo un test di manovrabilità, spiega il dottor Aldo Negri (direttore commerciale di Yang Ming Italia).
Spiega Negri: «Quello di oggi è stato un test per la nave, che fa un servizio regolare tra Nord Europa e Estremo Oriente. La nave ha fatto tappa a Genova per capire se questo tipo di navi potranno essere messe in servizio regolare, già dalla prossima primavera. Oggi esiste già un servizio su questa tratta ma Yang Ming vorrebbe inserire in questo servizio navi più grandi. La necessità, per la compagnia, era quella di capire se esistevano gli spazi di manovra utili per operare con questo tipo di portacontainer e tutto sembra essere andato per il meglio».
Continua Negri: «Il mercato chiede questo tipo di navi, il porto di Genova a questo si deve adeguare: è emblematico essere riusciti ad accogliere questa nave nel porto storico di Genova. Finora navi di queste dimensioni attraccavano solo al VTE (Voltri Terminal Europa). Questo è l’ennesimo tassello che l’Italia e Genova mettono a disposizione del mercato».
SEGUE UNA INTERVISTA INEDITA DELL'ASSOCIAZIONE MARINARA MARE NOSTRUM RAPALLO AL SOCIO COMANDANTE JOHN GATTI, CAPO PILOTA DEL PORTO DI GENOVA, SULLA MANOVRA D’ENTRATA E USCITA A CALATA SANITA' (SECH).
1) - Gli esperimenti come quello realizzato oggi con la YM WONDROUS comportano sempre dei rischi: se l’esperimento riesce, il merito é di tutti, se l’esperimento andasse storto non ci sarebbero dubbi su chi dover “impalare”... Il merito del successo che le si attribuisce é quindi proprio quello di aver deciso e rischiato in prima persona con molto coraggio. E’ così?
R) - In realtà il discorso non può essere circoscritto al solo tempo di durata della manovra. L’aver svolto la delicata operazione entro limiti accettabili di rischio, ha imposto uno studio accurato di tutti gli elementi critici, giornate intere trascorse su simulatori di altissimo livello alla Force Technology di Copenaghen, valutazioni precise delle caratteristiche della nave ottenute provandola dal vero ad Amburgo e confronti approfonditi, durante il quotidiano incontro al “Tavolo Tecnico”, con la Capitaneria e gli altri Servizi Tecnico Nautici.
Durante la manovra mi sono servito, inoltre, dell’ausilio di un PPU (Portable Pilot Unit), uno strumento che utilizziamo proprio per la gestione delle navi più grandi.
E’ comunque vero che tutte le manovre “sperimentali” sono caratterizzate da una percentuale di rischio difficilmente quantificabile in anticipo e che, alla fine, la componente umana è sempre quella decisiva.
2) - Si dice che queste navi di quasi 400 metri di lunghezza abbiano una potenza ridotta al 25% nella marcia indietro, con gravi rischi sulla capacità di fermarsi entro spazi di sicurezza. Anche l’elica trasversale di prua é molto debole rispetto alla mole da spostare. Ci può spiegare il motivo per cui vengono costruite navi con queste limitazioni in piena “era tecnologica”? Ci può inoltre spiegare se ci sono ragioni economiche dietro queste défaillances tecniche?
R) - Oggigiorno sono molte le navi che offrono una risposta a marcia indietro decisamente sproporzionata rispetto alla marcia avanti. Il motivo di questa caratteristica negativa è legato alla forma delle pale delle eliche. Contestualmente all’elevarsi del prezzo del petrolio, sono stati sviluppati studi per cercare di ottimizzare la resa nella marcia avanti legandola a consumi ridotti il più possibile. Questi studi hanno portato allo sviluppo della forma delle pale delle eliche, ottimizzandole per il moto avanti, a discapito della resa a marcia indietro. Se per certe tipologie e misure la cosa può essere comunque gestita, ben diverso è il discorso su navi sopra i trecento metri che devono evoluire in spazi ristretti. Spesso sono anche navi che hanno il “molto adagio avanti” compreso tra i nove e gli undici nodi che, in un porto come quello di Genova, dove hai tre/quattro scafi a disposizione per fermarle, si capisce bene che avere a disposizione soltanto il 25% della potenza è ben poca cosa. Nel caso della YM Wondrous, effettivamente, anche l’elica prodiera di manovra si è dimostrata piuttosto insufficiente. Tengo a precisare che, a parità di misure, le navi portacontainer presentano caratteristiche molto diverse tra loro: una buona percentuale è caratterizzata da sistemi di propulsione e di manovra assolutamente adeguati.
3) - Si dice anche che le grosse navi ORE-OBO-BULK di 20-30 anni fa, certamente non così lunghe, installassero turbine con le stesse limitazioni di potenza nella marcia indietro, proprio come nei motori Diesel del tipo montato sulla YM Wondrous, vista oggi. Nulla di nuovo sotto il cielo?
R) - Credo che i ragionamenti di oggi seguano rotte diverse rispetto al passato. Il risparmio, l’efficienza, la competitività sono valori assoluti che vengono tradotti in progetti, cercando di mantenere la sicurezza ad un livello tale che possa influenzare il meno possibile i costi. A volte si esagera, ed escono fuori navi con limiti operativi anche importanti.
4) – Ci sono altre difficoltà tecniche di manovra oltre a quelle accennate? Equipaggi ridotti? Visibilità scarsa dal Ponte di Comando? Difficoltà nelle comunicazioni?
R) - Non amo entrare in polemica, ma è innegabile che esistono, in percentuale purtroppo ragguardevole, equipaggi impreparati anche a gestire la quotidianità. A cui dobbiamo aggiungere l’importante superficie velica offerta al vento, i pescaggi, la visibilità limitata dalla lunghezza delle navi e dai muri di container che trasportano, gli spazi ristretti consentiti da porti nati per navi lunghe la metà, e così via.
5) – Dopo il riuscito esperimento d’attracco al SECH si sono lette dichiarazioni, a nostro parere azzardate se non addirittura trionfalistiche sull’esito della manovra effettuata in bonaccia o quasi. A nostro modesto avviso, andrebbero esaminate sul campo le difficoltà imposte dai venti turbolenti che investono la nostra regione da tutti i quadranti. Avete in programma altre manovre per stabilire i limiti operativi di vento, mare e correnti?
R) - A Genova, fortunatamente, esiste un “sistema” collaudato e molto efficiente di gestione dell’operatività portuale. Intendo dire, che tutte le parti coinvolte si sono date, e si danno, molto da fare per migliorare e rendere possibile tutto quello che fino a poco tempo fa sembrava utopia: i terminalisti hanno fatto importanti investimenti per adeguare gru, parabordi, bitte, illuminazione, dragaggi, ecc; l’Autorità Marittima, coadiuvata dai Servizi Tecnico Nautici, ha proposto e preteso importanti cambiamenti e adeguamenti da apportare nel pieno rispetto della sicurezza; da parte nostra abbiamo investito nella tecnologia, nei corsi, nelle simulazioni, nello scambio di esperienze con altre corporazioni europee e nella ricerca di manovre alternative che permettessero di spostare i limiti un po’ più in là.
Tutto questo ha permesso di arrivare fino a qui. Da queste prove escono dei risultati che vanno interpretati per decidere se l’economicità di una determinata operazione rientra in limiti accettabili. Nel frattempo si prosegue con tutti i mezzi a disposizione per cercare di ottenere e di offrire di più.
6) – Ci risulta infine che questa manovra debba essere eseguita con molta precisione, come se fosse “sui binari”, a causa dei bassi fondali prospicienti la banchina d’ormeggio. E’ così?
R) - Molte zone del porto di Genova sono caratterizzate da fondali che limitano il pescaggio delle navi in arrivo. Effettivamente, quando ho portato la YM all’ormeggio, uno dei problemi di cui dovevo tenere conto riguardava proprio una pericolosa zona di basso fondo. A onor del vero devo dire che alla fine del mese inizieranno i lavori di dragaggio per risolvere anche questo problema.
Ringraziamo il Comandante John GATTI per la sua disponbilità e per l'esclusiva.
Porto di Genova, le avventure di John il pilota
Bruno Viani – IL SECOLO XIX
Genova - La sera del 7 maggio 2013, alzando i binocoli in direzione della Torre Piloti, il comandante John Gatti aveva visto il nulla. E aveva capito. «A quell’ora dovevo essere ancora là dentro, ma mi avevano chiamato per un servizio non previsto e solo per questo oggi sono qui».
Sono passati meno di due anni, Gatti oggi ha 48 anni e dal primo gennaio è il nuovo Capo pilota del porto al posto di Giovanni Lettich che è andato in pensione. E quel cambio è un segno: la storia della corporazione iniziata nel Settecento, arrivata a una tragica svolta meno di due anni fa, va avanti. Senza torre, nella nuova sede spaccata in tre. Senza dimenticare i colleghi e gli amici che non ci sono più. Ma avanti tutta, guardando avanti, come le navi accolte all’arrivo a Genova e poi accompagnate fuori dal porto ogni giorno dagli uomini di John, a cavallo delle onde.
Calata Sanità, l’altra mattina, ore 9. La bandiera sulla punta del Matitone oscilla verso sud, vento di tramontana, lo spigolo del molo è sempre più vicino. E l’immensa sagoma rossa e nera della Jazan, portacontainer della United Arab Shipping Company diretta al terminal Sek avanza lentamente e sembra sfiorarlo. Poi scivola indenne per affiancarsi all’attracco: una manovra calcolata al millimetro, compiuta da un bestione da oltre 75.500 tonnellate, lungo 305 metri. Il passaggio (che a un occhio estraneo sembra un miracolo) è la quotidianità.
A guidare le operazioni, dall’aletta di sinistra del ponte di comando è il pilota Leonardo Pignatelli, 50 anni, che per salire e scendere dalle biscaggine di corda in qualunque condizione (e il pensiero corre alla telefonata di un’altra notte e un altro luogo: «sali su quella biscaggina c....zzo») si tiene in forma facendo footing e palestra. «Perché quando il mare si alza con onde di cinque o sei metri, saltare dalla pilotina alla nave e viceversa è oggettivamente pericoloso. Ma bisogna farlo».
Nello stesso tempo, la “piccola” portacontainer Fritz Reuter, armatore tedesco e bandiera liberiana, 18.480 tonnellate di stazza, viene accompagnata fuori dall’area portuale da Danilo Fabricatore, 46 anni, neoeletto presidente nazionale di Fedepiloti.
La quotidianità dei piloti del porto, domatori di mostri d’acciaio, è una sfida che si gioca sempre sul filo dei millimetri. «Se nel corso della manovra si toccassero le gru vicinissime alla banchina sarebbe un disastro, non è come un’auto che sfiora un guard rail e si graffia: qui si parla di vite in pericolo, milioni di euro di danni e l’operatività bloccata». A garantire la sicurezza sono preparazione, esperienza, la conoscenza dei fondali e dei venti. E (non ultimo) il feeling con i colleghi che lavorano, fianco a fianco, sotto altre bandiere: gli ormeggiatori e gli uomini della Rimorchiatori Riuniti, della Capitaneria e delle pilotine.
È la vita quotidiana dei 22 piloti del porto di Genova, una corporazione che vive malgrado le lenzuolate e le scelte politiche che spingono verso un mondo di liberalizzazioni. «Siamo una corporazione necessaria ancora oggi perché, per ogni operazione che si compie in porto, i minuti valgono milioni: in un regime di concorrenza e deregulation, le pressioni per accorciare i tempi sarebbero insostenibili e la sicurezza portuale sarebbe compromessa».
Il porto non è più lo stesso, dopo quel 7 maggio e l’impatto della Jolly Nero. La vecchia sede dei piloti adesso è frazionata in tre: le pilotine attraccano ancora a molo Giano, gli uffici amministrativi sono a due passi da piazza Cavour. La sede operativa invece, ospitata nei primissimi tempi a bordo di un rimorchiatore, è a ponte Colombo, al secondo piano di una palazzina moderna dalla quale non si vede nemmeno l’imboccatura del porto. La presenza delle navi in arrivo e in partenza appare solo su tabelloni luminosi, come avviene in una grande stazione, oppure sugli iPhone dei piloti. E poi ci sono le sottostazioni di Multedo e Voltri.
«La Torre Piloti era la nostra casa, là avevamo tutto: era una struttura assolutamente all’avanguardia, in Italia e non solo. Qui ci siamo organizzati, ma è un’altra cosa». E il pensiero torna inevitabilmente a quella notte.
Scene rivissute come se fossero oggi. «Sono in cabina con l’iPhone acceso, alle 23 dovrei finire il mio turno di lavoro. Ma quando mancano venti minuti mi viene chiesto di uscire un’ultima volta: c’è una portacontainer, l’Emona, che prima di allora non avevamo mai visto a Genova e non avremmo mai più visto nemmeno in seguito: alle 22.40 esco, quando sono in mare mi chiamano via radio: aspetta a rientrare, deve essere successo qualcosa».
Il resto è la cronaca di quella notte: uomini che girano tra le macerie, si contano cercando il volto dei propri amici e colleghi tra i sopravvissuti. E cercano di indovinare, guardando le auto parcheggiate negli spazi riservati, chi era in servizio e manca all’appello.
Oggi i colleghi, fratelli, compagni d’avventura di chi non c’è più, continuano a vivere la loro vita di lavoro sotto un altro tetto. E si sentono ancora più famiglia, mentre la cuoca Angela Sartori prepara il pranzo e un po’ li vizia. Una madre, quando vede i figli arrivare a tavola nelle ore più impossibili, dice: questa casa non è un albergo. «Ma non avere orario, per questi ragazzi, è parte del lavoro, mica un capriccio: così per quelli che fanno il primo turno e sono in azione già alle quattro del mattino, il pranzo è alle 10. E poi tocca agli altri».
Se si chiede al Comandante J. Gatti a cosa serve un pilota a bordo di una nave che ha già il suo Comandante, risponde. «Quello è un altro mestiere: il pilota, che viene sempre da esperienze di comando di navi spesso di grandi dimensioni, è un manovratore che ha una formazione specifica e, alle spalle, migliaia di manovre, almeno sette o ottocento all’anno». Nulla si improvvisa. «Il lavoro di preparazione inizia il giorno prima dell’arrivo della nave che sarà presa in carico appena arriva a 7 miglia dall’imboccatura del porto».
Sul tavolo, già iniziata, c’è la torta al cioccolato della cuoca Angela che ammette. «Forse li vizio un po’, ma passo molto più tempo insieme a loro che con mio marito».
ALBUM FOTOGRAFICO
La M/n YM WONDROUS in manovra nel Porto di Genova
Il portacontenitori Yang Ming WONDROUS si trova in avamporto, ha appena compiuto una evoluzione di 180° e sta indietreggiando verso la zona d’attracco: calata Sanità.
Molo Giano-Genova - La Torre di Controllo non c’é più, ma la Statua della Madonna dei Piloti tirata su dal fondo, dopo il tragico incidente del 7 maggio 2013, é ritornata al suo posto.
La pilotina é sottobordo alla nave all’altezza dell "combinata" dove sale e scende il Pilota del porto.
In questa suggestiva immagine, la Y.M. WONDROUS appare in tutta la sua lunghezza occupando quasi tutto l’avamporto portuale genovese. In primo piano la pilotina in manovra.
La Y.M. WOUNDROS, dopo circa due ore di sosta a Genova, é ripartita per il suo prossimo scalo.
Suggestiva immagine dell’uscita dal porto di uno degli ultimi esemplari del “Gigantismo Navale”.
Carlo GATTI
Rapallo, 31 Dicembre 2015
COME E COSA SI MANGIAVA NEL MEDIOEVO
COME E COSA SI MANGIAVA NEL MEDIOEVO
Conoscendo e avendo visto gli Amici del Gruppo Storico Rapallo 1608, mi sono nuovamente appassionato al Medioevo. Tutti sappiamo esserci stato, ma la sua conoscenza non l’abbiamo più approfondita una volta finita la scuola, al di là delle Crociate.
Questo “periodo” lo si fa iniziare nel 472 d.C., V secolo, con la caduta dell’Impero Romano di Occidente, e si può considerare finito nel 1492, XV secolo, con la cacciata degli Arabi da Granada, ultimo loro baluardo in Europa, la contemporanea scoperta dell’America e la successiva Riforma Protestante, iniziata da Martin Lutero che prese spunto, fra l’altro, dalle vendite delle indulgenze per far soldi e poter completare la Basilica di San Pietro, rivelatasi più costosa del preventivato.
Ma, dal punto di vista culinario, è stata, una prosecuzione della gastronomia della Roma imperiale? No: è il frutto di un coacervo di cucine arrivate da tutta Europa che si sono incontrate, assorbendo anche quella Araba, molto presente quando l’Islam era ancora alcune spanne più avanti di noi. Da allora ben poco è cambiato, se si accettano le evoluzioni.
Esposizione di spezie dolci in un Bazar mediorientale
Spezie mediorientali
La prima cosa che mi ha colpito è l’uso delle spezie, quelle dolci però, e della frutta secca. Avendo studiato un po’ l’alimentazione sui velieri antichi si accetta che in mare si usassero le spezie “forti”, per mascherare il gusto del deteriorarsi dei cibi, difficilmente conservabili. Nel Medioevo invece erano una scelta di gusto e una ostentazione di ricchezza. Anche queste spezie amabili arrivavano dall’Oriente ed erano perciò costose. I cuochi, per non affievolirne il tenue sapore, ve le univano alla fine, poco prima di servire; se cotte avrebbero perso il loro delicato aroma. Il problema della conservazione dei cibi a terra non si poneva, perché coglievano solo il necessario da ciò che coltivavano vicino ai villaggi (oggi diremmo a chilometro zero), limitandosi a macellare quello che sapevano poter consumare a breve. Il latte invece, poco usato in cucina perché impossibile a conservarsi per più di un giorno, diventava formaggio e poco veniva usato come legante di intingoli. Una presenza che invece nella loro cucina abbondava, era il grasso animale usato come condimento: poco l’olio perché non presente dappertutto mentre i suini, allevati in casa e macellati, si conservavano a lungo se salati. Il burro era conosciuto e le uova usate soprattutto come coagulante. Diciamo che era un’epoca nella quale, bene o male, mangiavano tutti.
I contadini perché avevano le verdure e gli animali da cortile ma non la selvaggina, di proprietà esclusiva del Principe, ed i ricchi e i Monsignori, perché alimentati con i generi che arrivavano dai loro contadi. I poveri parroci di campagna, come i contadini, si dovevano accontentare di quello che coltivavano attorno alla canonica. Durante i “digiuni”, i primi disponevano di pesce, la “carne della Quaresima”, questi ultimi invece di sola verdura: così andava già il mondo. La classe operaia, intesa come la intendiamo ora, non esisteva. O si era contadini, o si lavorava al servizio del Signorotto, oppure si era Prelati.
Non a caso le Chiese le troviamo sempre collocate in tutti i Borghi Antichi,fra il paesino sottostante e l’entrata al Maniero;
con questo lungi dal pensare che fungessero da “stampella” al Signorotto ma, per conservare quella protetta posizione il Parroco, che “istituzionalmente” sapeva tutto di tutti, come poteva, dal pulpito, stigmatizzare le malefatte del Principe ? Quei pochi che lo fecero vennero bruciati vivi. Non a caso la Provvidenza mandò San Francesco a < sostenere la Chiesa che stava crollando>,, convincendo un riottoso Papa Innocenzo III ad ascoltarlo ed ufficializzarne l’Ordine.
Peasant wedding / peasant Bruegel c.1586; Kunsthistorisches Museum, Vienna
Ma veniamo al tema. Le tavole da pranzo non erano, come adesso, costruite allo scopo. Se da un Antiquario trovate un tavolo d’epoca, diffidate: è fasullo. Solo nelle case umili li usavano per confezionare il cibo, nutrirsene e lavorarci sopra. Nella borghesia e nella nobiltà, che altri non erano coloro che con le loro malefatte si erano arricchiti e riconosciuti “degni” dal Signorotto o dal Principe cointeressato, venivano allestite di volta in volta adagiando delle tavole su cavalletti, poi ricoperte dalle tovaglie. Ogni commensale poteva disporre di: bicchiere col piede ( calice), piatto, stecco in legno appuntito a mò di forchetta ( quella non esisteva ancora e, quando iniziarono ad usarla, fu avversata pure dalla Chiesa perché richiamava il forcone del Demonio) un coltello o stiletto personale, bicchiere e un cucchiaio, solo però se il menù prevedeva <brodetti> (zuppe o minestre). Il resto lo si portava alla bocca con le mani. Il cibo veniva disposto in vassoi posati al centro fra due commensali e ognuno se ne serviva. Il Principe veniva servito dagli infiniti domestici che provvedevano a tutto, compreso disossare le carni e mescere vino. A fine pasto, pressoché tutti si pulivano le mani strofinandole sulle tovaglie, se non troppo belle e linde, altrimenti sui propri panciotti o sui fianchi. La bacinella con acqua profumata era un privilegio riservata a pochi. Molti i caci e i formaggi, parmigiano compreso. Erano presenti vari tipi di ravioli, cotti in brodo di cappone e conditi con spezie dolci e grana, quest’ultimo già noto fin dai tempi della cucina Imperiale Romana. A questo proposito merita ricordare quanto scritto nel Decamerone (1349-53 ) , VIII giornata, 3^ novella, là dove narra del Paese di Bengodi e vi descrive una montagna di parmigiano grattugiato, lungo le cui pendici vengono fatti cadere dei ravioli che, rotolando, si insaporiscono con il solo grana. Ancor oggi se volete sapere se un raviolo merita o no, conditelo unicamente con il formaggio; i sughi ne camuffano le eventuali carenze o li castigano, se buoni.
La carne o era di porco o di ovino o di vitello, perché i buoi erano immangiabili, essendo considerati solo animali da lavoro e quindi dalle carni dure.
Certa frutta era cara perché, nelle zone non vocate, bisognava approvigionarsene, mentre il pesce era, laddove si confinava con l’acqua, facilmente reperibile ma altrove difficile consegnarlo fresco: da lì la conservazione sotto sale. In genere tutti mangiavano a sufficienza, tranne che nelle grandi carestie dovute o alle guerre dove gli eserciti, che si muovevano senza scorte, razziavano tutto per sopravvivere, o alle catastrofi atmosferiche. Lì veramente i contadini soffrivano la fame, obbligati a mangiare di tutto, mentre i Signori attingevano alle scorte. La farina era prodotta macinando tutti i tipi di cereali, ghiande comprese: và da se che quella bianca al Principe e ai suoi cortigiani non mancava mai; le altre, diversificate, mano a mano che si scendeva la scala sociale. Il vino, anche se non alterato dal miele come quello romano, se lo assaggiassimo oggi, non credo lo gradiremmo, mentre l’attuale birra è simile a quella.
In genere, lo abbiamo visto, i cibi non erano piccanti, perché insaporiti con solo spezie aromatiche mentre invece erano “colorati”, perché si badava molto alla cromia dei manicaretti appositamente tinti per ottenere armoniosi effetti; molto usato lo zafferano che, con il suo giallo, richiama l’oro, l’antico mangiare degli Dei, le rape rosse, gli spinaci e lo zenzero (Decamerone,VIII giornata, 6^ novella) anche per il suo valore medicamentoso. La cipolla era molto presente, specie affettata e fritta, così come l’aglio, pur esso anche per i suoi innegabili poteri terapeutici.
Questa massima riportata da F. Sacchetti <Trecento novelle>(1332-1400), fa chiarezza sulle introvabili donne–cuoco: <<Sia buona che cattiva il bastone ci vuole per ogni donna>>. Quanta dura strada ha dovuto conquistarsi “l’altra metà del cielo”, per arrivare ad oggi !
In ultimo va detto che è difficile localizzare un cibo comune a tutta l’Europa, visto che quella civilizzata era organizzata in paesotti, anzi in Castelli con intorno il borgo e utilizzavano principalmente prodotti locali. Gli “Staterelli” prenderanno corpo poco dopo. L’Italia, grazie alla Savoia, comunicava con la Francia, tanto che le due cucine erano e sono rimaste intercambiabili. Quando Caterina de Medici andò a Parigi sposa del Re di Francia, portò con se i propri cuochi fiorentini che si confrontarono con gli autoctoni influenzandosi a vicenda ma, soprattutto, innovando i menù francesi.
Renzo BAGNASCO
Foto del webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 12 giugno 2015
IL TEMPIO DELLA FRATERNITA', Chiesa-Museo della guerra
IL TEMPIO DELLA FRATERNITA'
"La storia del Tempio della Fraternità é una storia semplice, legata al ricordo dell'ultima guerra mondiale, quando infuriavano in tante contrade solo odio, violenza, persecuzione e delitto. Un cappellano militare, reduce dalla guerra, dopo aver visto tante distruzioni, si andava tormentando di poter fare qualche cosa anche lui, perché tornassero tra gli uomini una vera pace e una serena convivenza.
Un giorno, trovandosi nella necessità di dover ricostruire la piccola chiesa del suo paese sui monti, ebbe l'idea di raccogliere le rovine del conflitto e con esse ricostruire il tempio come simbolo ed auspicio di una ricostruzione più grande: quella della fratellanza umana; e poi arredarlo liturgicamente con tanti ricordi dolorosi della nostra generazione, trasformando gli ordigni di distruzione e di morte in simboli e richiami di vita."
Il Tempio della Fraternità sorge a Cella di Varzi ridente località del boscoso Appennino Pavese a 700 m. di altitudine. Ad esso si arriva dalla Valle Staffora risalendo la Voghera a Varzi; e dalla Valle Curone risalendo da Tortona a Fabbrica Curone e poi Cella. Per chi arriva in autostrada le uscite consigliate sono Voghera sulla Torino Brescia e Casei Gerola o Tortona sulla Milano-Genova.
Per ulteriori info rivolgersi al Rettore del Tempio: Tel 0383 52371 - 0143 323621 - 338 9261500
Fotografie a cura del webmaster Carlo Gatti
UNA CHIESA NEL BOSCO
Di Andrea AMICI
Il Tempio della Fraternità in Cella di Varzi
Oggi è la seconda volta che vengo qui. Tutti gli altri giorni in cui avevo progettato di venire era nato sempre un nuovo problema e nel primo tentativo mi ero addirittura perso: dalla quantità di stradine e sentieri smarrire la strada non è affatto difficile. Oggi sicuramente andrà bene, ne sono sicuro. E’ inverno, il termometro segna tre gradi sotto zero e tra non molto sarà notte.
Il paesaggio della pianura sta diventando collina, viaggiando attraverso filari di viti e scheletrici alberi da frutta, tra la neve ormai turchina per il crepuscolo. Poche case, lontane una dall’altra. Un piccolo paesino con la sua piazzetta, il baretto, il tabacchino, il ferramenta e la farmacia. Natale è finito e l’aria di festa sa già di nostalgia. L’anno prossimo il presepe sarà più bello, anche se domani dovremo smontare quello di quest’anno, senza farci vedere dai bambini. Loro lo vorrebbero vedere sempre lì, anche in estate, in tutta la sua verdognola e colorata poesia.
Mentre penso ai bellissimi Natali passati, la strada si fa sempre più piccola e ripida. Ormai i campi sono finiti, sto viaggiando in un bosco sempre più fitto e deserto. Sono le diciassette e tra mezz’ora devo essere al mio appuntamento; se va bene sarò un po’ in anticipo. Mentre viaggio attraverso questo luogo desolato, il crinale della montagna oscura il cielo violaceo del vespro di una giornata stupenda. Ancora un po’ e finalmente lo vedrò. Chissà come si presenterà quest’oggetto che da tanto tempo vado inseguendo. Chissà che viso avrà il suo custode, che conosco solo per esserci parlati al telefono. Mi aspetta su, in questo posto sempre più mistico e misterioso, di cui ho sempre sentito parlare. A quanto pare si tratta di un luogo unico al mondo. Chi me lo ha descritto ha sicuramente esagerato. Vedremo.
Non so perché, ma mentre proseguo sulla mia strada mi viene in mente Erasmo da Rotterdham, il personaggio de Il nome della rosa di Eco, che in groppa al suo asinello andava a far visita al misterioso monastero sito sulle Alpi Provenzali, dove era custodita la più ricca e proibita biblioteca, seconda solo a quella di Alessandria d’Egitto, perduta per sempre. “Calmati vecchio mio - penso tra me -, non essere presuntuoso: non sei certo QQQuil saggio Erasmo dei tempi dell’Inquisizione, sei solo uno dei tanti del nuovo millennio che sta guidando la sua automobile, facendo attenzione a non finire fuori strada a causa del ghiaccio”. Lo stereo sta diffondendo nell’abitacolo le note di Stairway to Heaven dei Led Zeppelin. Che pezzo! Insieme al flauto, gli arpeggi della dodici corde di Jimmy Page e la suadente voce di Robert Plant sembrano fondersi magicamente nell’atmosfera del mio viaggio.
Ormai manca poco, sto per vedere e, forse, toccare ciò che sto aspettando da tanto tempo. Proprio mentre l’acustica di Page fa spazio allo splendido assolo della Telecaster, eccomi arrivato.
F-104 Starfigter
Sulla sinistra di questa strada, meglio adatta ai trattori che alle automobili, ecco apparire un vecchio aereo F 104 sistemato su una base di cemento. Come sarà arrivato fin qui? Sarà atterrato da qualche parte? Mistero… Poco più in là una piramide alta quanto un piano di una casa, con la base nascosta dalla neve. Proseguo altri cinquanta metri ed ecco apparire una chiesa, spoglia ed abbastanza sgraziata per la verità. Emerge dal buio e dagli alberi imbiancati che la circondano con austerità. Il tramonto è ormai cessato e in fondo alla valle una nebbia fosforescente sembra aver trasformato in un morbido materasso le foreste di latifoglie: un quadro che ha un che di gotico, in questo luogo decisamente strano ed inquietante… Mi dispiace interrompere il reprise di Plant, per un cultore come me equivale ad un delitto, ma ho fretta di scendere. La mia guida mi sta aspettando qui, anche se non la vedo.
Parcheggio l’auto dietro l’abside, a fianco all’edificio della canonica. Prendo il piumino e la fotocamera digitale, non si sa mai. Mi guardo intorno in cerca dell’uomo: nessuno. E’ ormai buio e fa un freddo che si gela. Nella penombra sembra di riconoscere la sagoma di un carro armato. Mi avvicino.
Carro Armato M7 SEAXTON e cannone modello 57/50 della guerra 1940-45
Si tratta proprio di un vecchio carro armato perfettamente conservato, anch’egli coperto da una spanna di neve gelata. Pare un molosso impigrito, che dorme sulla porta della sua cuccia. Ma non sono qui per lui. Mi avvicino al lato più luminoso della chiesa e scatto un paio di foto alla valle incantata. Sembrerebbe, da un momento all’altro, di vedere Odino uscire da quelle nebbie!
Missile di Smg
Cannone antiaereo della Seconda guerra mondiale
L’ancora davanti all’entrata del Tempio
Altare della Marina
Arrivo sulla porta della chiesa e ciò che appare ai miei occhi è quanto di più strano e bizzarro abbia mai visto: un missile di sottomarino, un cannone, un’ àncora, un altare montato su mine e bombe d’aereo, siluri, ali ed eliche d’aeroplano. Una moltitudine di oggetti bellici che sembrano non avere proprio alcun senso con il piazzale di un edificio di culto cristiano. Il primo concetto che mi passa per la testa è che si tratti del giardino di un eccentrico artista, dall’estro un po’ confuso. Mentre continuo a girarmi intorno, da una automobile scura parcheggiata nell’ombra scende un uomo. Mi avvicino lentamente a lui, con un po’ di timore. Tutto è così strano… Anche lui sembra essere un po’ cauto, ma pochi istanti dopo ci stringiamo la mano affabilmente, presentandoci finalmente di persona. E’ il sacerdote della chiesa ed è anche il suo custode. Ora la chiesa è chiusa, ma dato che vengo da molto lontano, si è offerto volentieri di aprirmela. Per un attimo ho temuto che mi facesse tornare la terza volta, negli orari d’apertura al pubblico.
Ci dirigiamo velocemente verso la canonica, attraverso un sentiero battuto nella neve. Ho con me la mia fedele Mini Maglite blu, che si rivela utilissima per salire i gradini ghiacciati e trovare la toppa della serratura. Il sacerdote entra ed accende la luce, mentre rimango un attimo sul pianerottolo. Una volta entrato si gira verso di me domandandomi: “Ragazzo, cosa è che ti ha spinto a venire fin qui a quest’ora? Cosa vuoi vedere in particolare qui? Dentro c’è talmente tanta roba che non so neppure se c’è ciò che stai cercando!”
“Sono alla ricerca della cima di un nave, reverendo. Mi mostri i reperti e sono sicuro che se c’è la troverò da solo!”
Mi guarda con un’espressione di incredulità. Forse sta pensando di avere a che fare con un tipo un po’ svitato. Annuisce con il capo accennando una smorfia con la bocca, mentre proseguiamo passando sotto un porticato per poi avvicinarci alla porta della sacrestia. La mia piccola torcia tascabile deve far luce ancora un momento e poco dopo siamo dentro. C’è un’aria inquietante, arcana e misteriosa. Sembriamo due carbonari con la lanterna, nelle segrete di una fortezza. Manca solo essere vestiti con il mantello e la tuba.
La porta che accede all’altare è chiusa, il sacerdote tenta di accendere l’illuminazione interna maneggiando i tasti di un quadro elettrico. Niente da fare, bisogna accontentarci di una fioca luce di un paio di lampadine. Poco male, la Maglite andrà benissimo!
Entriamo nella sala, a fianco dell’altare al quale ci inginocchiamo, nell’eco cattedralico dei nostri passi. Guardo verso il centro, a destra e poi a sinistra rivolgo lo sguardo verso l’altare. Non è possibile! Sono sbalordito, tutto questo è pazzesco! Fisso il tabernacolo e penso di essere finito in un manicomio.
Altare Maggiore costituito da rovine giunte dalle principali capitali mondiali; il pavimento del Presbiterio é la vecchia pavimentazione del Duomo di Milano, così come alcuni pinnacoli visibili ai lati.
Navata centrale e presbiterio con il paracadute
Lo scrigno dell’Eucaristia è formato da un grosso proietto d’artiglieria navale, verniciato di rosso. Alzo lo sguardo sul ciborio: un vecchio paracadute militare! “Ma qui sono tutti matti!” penso tra me. La mia guida mi dice di seguirlo dietro al coro, sfiorando delle teche contenenti moltitudini di oggetti. “Questi simboleggiano i militi ignoti, di tutte le patrie!” indicandomi delle tombe stilizzate con elmetti di varie parti del mondo e di diverse epoche. Straordinario… Nelle nicchie della balaustra è custodita la terra di tutti i luoghi dove si sono combattute sanguinose battaglie.
Il volto di Caino con cimeli giunti da tutto il mondo
La tomba del Milite Ignoto é posta dietro l’Altare Maggiore
delle teche contenenti moltitudini di oggetti. “Questi simboleggiano i militi ignoti, di tutte le patrie!” indicandomi delle tombe stilizzate con elmetti di varie parti del mondo e di diverse epoche. Straordinario… Nelle nicchie della balaustra è custodita la terra di tutti i luoghi dove si sono combattute sanguinose battaglie.
Le spiagge del D-Day: Juno, Omaha, Gold. Utah......
Sono ammutolito nel vedere i colori della terra di Auschwitz, El Alamein, Stalingrado, Omaha Beach, Monte Cassino, la sabbia dei fiumi vietnamiti e tanta altra polvere di Mondo. In vita mia non mi ero mai trovato in una situazione come questa. Vorrei poter stare qui tutta la notte, se fosse possibile; ma il tempo stringe. “Padre mi porti dove c’è la cima d’ormeggio! Tornerò con più calma e di giorno ad ammirare tutti questi oggetti!”. Dico al sacerdote. “Va bene - mi risponde lui - ma prima dai un’occhiata a questo!”. Su una parete è appeso un grande Crocifisso.
Crocefisso realizzato con armi giunte dai principali campi di battaglia di tutto il mondo
E’ in ferro, tutto arrugginito. “Guardalo bene, devi guardarlo da vicino!” mi dice. Lo osservo e immediatamente dopo una sensazione agghiacciante mi assale. E’ costruito con pezzi di armi, schegge di bombe, pugnali, spade e tant’altro. Mai, mai avrei immaginato di vedere una cosa del genere. Solo adesso inizio comprendere appieno che questo luogo non è stato costruito da un artista eccentrico. E’ stato edificato da un genio! Un genio che ha voluto trasmettere un messaggio ai posteri, utilizzando i cocci della Storia che scrissero.
Materiale bellico proveniente dall’Africa
Sotto la scultura sono posate mine anticarro, bombe a mano, maschere antigas e tanti altri ordigni. A fianco, il pulpito è formato dai legni di due imbarcazioni del D-Day, lo Sbarco in Normandia.
Fonte Battesimale costituito dall’otturatore di cannone della corazzata “Andrea Doria”
Proseguo la mia veloce visita in cerca dell’oggetto famoso, mentre mi viene mostrato il fonte battesimale: l’otturatore dei cannoni da 320 mm della Regia Corazzata Andrea Doria. Oggi fa anche da culla per il Bambino, essendo anche l’angolo del presepe. Ormai non mi sorprendo più. Ma non ho ancora trovato l’oggetto che mi interessa più di ogni altro.
Scorro con gli occhi tutti i manufatti sistemati alla rinfusa, quando ad un tratto il fascio della mia torcia si ferma da sé su un oggetto in particolare, come se una forza inconscia guidasse il mio polso fino ad esso. Il vapore del mio alito nell’aria gelida, tra i miei occhi e la torcia quasi offusca la sua immagine. Mi giro per vedere dov’ è il sacerdote. E’ tornato accanto all’altare, molti metri dietro di me. Sono solo.
Ecco il pezzo di gomena (cavo di canapa) della corazzata ROMA che l'Autore ha ritrovato sopra altri Cimeli della guerra marittima 1940-45
Mi avvicino all’oggetto, appeso a due chiodi sulla parete. Sotto di lui, su una mensola, alcune malconce statuette dei Re Magi in terracotta plasmano uno scampolo di colore tra le foto in bianco e nero che lo circondano. Sbiadite, come i ricordi che hanno impressi. Sono come rallentato dall’emozione e dalla riverenza che questo cimelio mi trasmette, allungando la mano e la torcia per toccarlo e vederlo da vicino. Non è che un pezzo di gomena di canapa lungo un metro, ma è preziosissimo. Sopra di esso un cartellino scritto a pennarello racconta la sua storia: tutto coincide. E’ lei! Una cima d’ormeggio, che mi lega al mio passato. Il silenzio si è fatto immenso. La mia mente inizia a viaggiare indietro in un tempo lontano. Perduto. Sembra quasi vedere le mani dei marinai che la stanno tagliando, impiombando. Sento le loro risate, l’odore di sigarette e del sudore sulle divise da fatica. Parlano di ragazze, di partite di calcio. Sono felici, la guerra sembra non far parte di quei momenti. E’ estate e fa caldo, siamo a prora della Regia Corazzata Roma, seduti sul ponte d’acciaio accanto ad una delle catene che si infilano nella cubìa. Tutto sembra essersi trasformato in una sorta di macchina del tempo…
Pezzi di gomene ed altri cimeli marinari
Ma la magia dura lo spazio di qualche istante. Si avvicina il sacerdote, chiedendomi se è questo quello che cercavo. Mi chiede anche qualche informazione più precisa sulla storia di questa nave, menzionata nel cartello. Mentre gli spiego quello che so, compreso il fatto che mio nonno era su quella sfortunata nave, il mio sguardo cade su alcuni boccaporti d’acciaio. Incredibile! Si tratta di un boccaporto, con il passo d’uomo, e di una porta stagna del Cacciatorpediniere Carabiniere, una delle quattro unità che recuperarono i naufraghi della Roma, portandoli poi in Spagna. Su quelle stesse lamiere, oggi posate sul pavimento di una chiesa di montagna, la sera del 9 settembre 1943 si sedettero i naufraghi di quella maledetta giornata. E lì sopra vennero adagiati i Caduti ripescati e quelli che morirono quella notte per le ferite.
Ora è notte, devo andare via. Mentre ci avviamo verso la sacrestia, mi giro ancora un istante verso la penombra, per salutare tutti i ricordi di questo luogo, sovrastati dalle bandiere di tutto il Mondo. Il mio istinto sembra come percepire la presenza di occhi invisibili, che mi osservano nel buio della sala. Tornerò, sicuramente non da solo, anche se l’emozione che mi ha dato questo posto visitandolo in questo modo è a dir poco irripetibile.
Ma il tempo concessomi è terminato e velocemente il mio nuovo amico mi saluta, andando via con l’auto. Rimango solo nel piazzale a riflettere su questa esperienza. Credevo di venire qui a trovare qualche oggetto esposto come ex-voto tra le opere d’arte che di solito adornano una chiesa, invece me ne sto andando pensando al nome che è stato dato a questo luogo. Niente di più appropriato. E ripenso anche se è giusto dire che si viene a visitare questa specie di museo. Credo sia più opportuno dire che si viene a rendere omaggio a tutte le gocce di Storia che ogni oggetto trasuda. Qui la Storia non ha colore, non ha odore né lingua. Qui la Storia dell’Uomo moderno trasmette la sua anima.
Zattera Carley appesa alla parete del Tempio
Mentre passo davanti alla facciata dell’edificio, mi soffermo ancora un istante a osservare il Carley appeso al muro.
Appartenne anche lui al Carabiniere? Si tratta forse di una delle zattere di legno e sughero in cui vennero adagiati i corpi dei marinai della Roma, ricoprendoli con la Bandiera italiana? A quelle sagole si aggrapparono le giovani e disperate mani che poco prima si staccarono dalla Roma in fiamme?
Non lo so. Mi avvicino all’auto, con passi che scricchiolano nella neve ghiacciata del giardino del Tempio della Fraternità. Intorno a me il silenzio della foresta addormentata. Fa freddo e la strada è brutta. Devo andare.
Andrea AMICI
Foto di Carlo GATTI
Appennino Ligure, 7 gennaio 2006
Andrea Amici vince a Chiavari il concorso di narrativa 2012, dedicato al Ten. Emilio Ruocco C.V.M.
Chiavari (Genova), venerdì 21 settembre 2012. Presso la Scuola Telecomunicazioni Forze Armate di Chiavari, si è svolta la premiazione del concorso di narrativa dedicato al Tenente C.R.E.M. Emilio Ruocco C.V.M., disperso nel naufragio della R.N.Roma. L’elaborato di Andrea Amici ha vinto il primo premio del concorso, riservato unicamente al personale delle FF.AA., Croce Rossa, Guardia Forestale, Polizia di Stato, Vigili del Fuoco, ecc.
QUANDO RAPALLO SOGNAVA IL SUO CASTELLO RESIDENZIALE
QUANDO RAPALLO SOGNAVA IL SUO CASTELLO RESIDENZIALE…
“C'ERA UNA VOLTA …”
Tre generazioni fa a Rapallo fu lanciata un'dea che si realizzò solo in parte:
IL CASTELLO DEI SOGNI
Di quel “sogno” é rimasta solo la toponomastica che ricorre ogni volta che si parla di quel sito, di investimenti immobiliari, di polemiche e del tempo che fu…!
Da UNA FINESTRA SU RAPALLO – Album curato da Maria Angela Bacigalupo, Pier Luigi Benatti ed Emilio Carta leggiamo:
Il “Castello dei sogni” come appariva al turista in questo scatto del 1929. E’ un’immagine romantica ormai perduta: la costruzione sorgeva là dove era stata realizzata la torre Da Vigo distrutta dalla furia del onde la notte di Natale del 1821.
Su progetto dell’ing. *Luigi Rovelli, che per la prima volta impiegò solette in cemento armato, la costruzione venne avviata agli inizi del nostro secolo (1900). Una leggenda spiegherebbe perché l’opera rimase per molti decenni incompiuta: il proprietario accompagnando la fidanzata a visitare la nuova casa in costruzione ebbe la sventura di vederla cadere nel vuoto e trovare la morte nella scogliera sottostante. Di qui la rinuncia a proseguire i lavori ed il nome di “Castello dei sogni”.
Il Castello dei Sogni nel 1925
(Agenzia Bozzo-Camogli)
Il Castello dei sogni visto dal vialetto delle Orsoline
(Agenzia Bozzo-Camogli)
*Luigi Rovelli – Milano, 23.3.1850-Rapallo, 1911 - E’ stato un architetto italiano, uno dei protagonisti dell’Ecletismo in Liguria.
La facciata del santuario di Nostra Signora di Montallegro, opera del Rovelli risalente al 1896
Avevo forse una decina di anni quando, sotto lo sguardo vigile di nostro padre Amedeo sul gozzo a remi, mio fratello Pino ed io nuotavamo dai Bagni Vittoria fino al Molo Langano, toccavamo il muro sotto il lanternino rosso e ritornavamo ai Vittoria senza fermarci. Il tempo di sentire i commenti tecnici di Amedeo e poi via, sempre a nuoto, verso il Castello dei Sogni. Oggi si direbbe: “che figata!” Già, quei ruderi erano la nostra TANA proibita, l’arena per confrontarci con le altre bande cittadine, coraggiose ed agguerrite.
Ma perché? Beh, innanzitutto perché era proibito avventurarsi tra quei muri grigi, arcigni e severi che avevano catturato e ucciso una giovane donna… e forse altri “furesti” che, ignari di quelle insidie nascoste tra gli anfratti, si erano salvati per un pelo. Insomma, il Castello era inagibile sotto tutti i punti di vista. Le leggende si moltiplicavano e ad ogni incidente venivano liberati spiriti e folletti maligni che pretendevano sempre un’altra vittima.
Erano tempi legati alle credenze popolari e tra i vicoli di Rapallo si aggiravano ancora le streghe, le chiromanti, i creduloni e tanti inbriaeghi che contavan de musse! Noi leggevamo Salgari e ci bastava per sentirci delle Tigri di Mompracen!
Eravamo impertinenti e impermiabili alle raccomandazioni dei nostri genitori che mai seppero, neppure in vecchiaia, delle nostre avventure tra quelle mura sbrecciate che erano aperte alla pioggia e alle burrasche da scirocco; di quando aspettavamo le mareggiate per farci spingere in salita fino alla prima rampa che portava al primo piano e poi farci risucchiare in discesa a folle velocità verso il fondale profondo e sicuro.
Dai basamenti delle sue colonne prendevamo la rincorsa sulla breve piattaforma e ci lanciavamo in mare trattenendo il fiato per vedere chi emergeva più lontano tra i cavalloni. Fu proprio in quel Castello, che presi i primi colpi di mare in faccia ingaggiando le prime lotte contro il mare. Ma sapevo che la mia nave immaginaria non mi avrebbe mai abbandonato, era sempre là, immobile, dietro le mie spalle, inaffondabile, per guardarmi e farmi crescere; sfidavo il mare, lo bevevo e poi scappavo, lui mi raggiungeva, ma per accarezzarmi; presto diventammo AMICI! E lo siamo ancora oggi!
Sono passati 60 anni e forse più....
Roma, 24 giugno 2008
Mare Monstrum 2008 – dossier Legambiente
Oggi, il “Castello dei sogni” è un complesso residenziale composto da due condomini e nove villette immerse in uno scenario incantevole: a picco sul mare, con terrazzamenti e una piccola darsena. Nei primi Anni ’50 tra i primi acquirenti VIP si ricordano Walter Chiari, Ugo Tognazzi ed altri attori che erano all’epoca sulla cresta dell’onda.
I mugugni con i relativi malcontenti hanno covato a lungo sotto la brace nonostante lo scudo protettivo della “rapalizzazione” poi, a turbare l’idillio dei residenti, nel luglio 2007, è arrivata la Capitaneria di porto di Santa Margherita che ha sequestrato alcune porzioni delle ville costruite negli anni Cinquanta, secondo l’accusa, sul demanio marittimo. Aumenti volumetrici abusivi che l’ufficiale della Capitaneria ha notificato in base ad una vecchia mappa del 1903 e delle planimetrie disponibili.
I condomini di oggi…
Una situazione quasi grottesca, poiché i sigilli hanno riguardato camere da letto, bagni, salotti, terrazze all’interno delle varie abitazioni: sequestri, per così dire, a macchia di leopardo. Con una linea gialla segnata in una mappa affissa alle porte degli appartamenti, l’ufficiale ha diviso le zone private, di libero accesso, e le zone del demanio ad uso interdetto. Qualcuno si è trovato così rinchiuso in un paio di metri quadrati, dopo che aveva acquistato una casa di centoquaranta. Dalla Capitaneria fanno sapere che l’operazione è stata condotta con criteri chirurgici perché sarebbe stato ingiusto mettere i sigilli alle intere case. Secondo l’Agenzia del demanio, le entrate evase, dagli anni Cinquanta ad oggi, ammontano a circa otto milioni di euro. Sulla vicenda sta indagando la Procura di Chiavari.
“Quando gli abusi vengono accolti con la sottomissione, il potere usurpatore non tarda a convertirli in legge.”
MALESHERBES
CARLO GATTI
Rapallo,10 Gennaio 2018
CONGEDO, FESTA E RIMPIANTI PER IL COMANDANTE MARIO TERENZIO PALOMBO
CONGEDO, FESTA E RIMPIANTI PER IL COMANDANTE
MARIO TERENZIO PALOMBO
Questo mio messaggio venne diramato a tutte le navi e uffici Costa:
Come sapete, il giorno 11 Settembre 2006, nel porto di Napoli, sono stato costretto a lasciare il comando della COSTA FORTUNA per motivi di salute. Non credevo di finire così la mia carriera. Sbarcare in ambulanza ha provocato una ferita al mio orgoglio professionale che ha richiesto diversi mesi per rimarginarsi. Ringrazio tutti per l’interessamento nei miei confronti e l’assistenza che io e mia moglie abbiamo avuto in questa occasione. Ora mi sono completamente ristabilito, ma il cardiologo mi consiglia di evitare stress causati dal comando di una nave. Sarei tentato di non seguire questo consiglio: questo tipo di stress per me è piacevole perché deriva da un lavoro fatto con passione.
Mi auguro che gli Ufficiali che sono stati sotto la mia direzione si ricordino dei miei insegnamenti. Ho cercato di trasmettere loro coraggio, passione e serietà professionale. Soprattutto ho insegnato loro l’arte del navigare, quella che io ho appreso da mio padre, vecchio lupo di mare, che non sarà mai superata dalla moderna tecnologia, e che fa di un Comandante un vero “Uomo di Mare“.
Cordiali saluti e buon Lavoro.
Com.te Mario T. Palombo.
Una bella istantanea degli ufficiali di coperta prima del mio sbarco
Qualche tempo dopo, ricevetti per posta elettronica, da un mio ufficiale che ricordo benissimo perché gli avevo dato dei preziosi consigli in quanto aveva un’ottima preparazione professionale, ma manifestava delle difficoltà ad integrarsi con la vita di bordo. La lettera mi ha molto commosso perché significava che ero veramente riuscito, durante la mia carriera al comando, a dare un buon esempio ed insegnamenti utili ai miei ufficiali, che ne avevano fatto tesoro. Perciò ne voglio pubblicare il contenuto:
Buongiorno Comandante, probabilmente non si ricorderà subito di me, sono Simone Canessa ed ebbi l’onore di iniziare la mia carriera sul mare sotto suo comando nel 2005 e nel 2006, come allievo ufficiale di Coperta, rispettivamente sulla COSTA FORTUNA e sulla COSTA ATLANTICA. Le scrivo (ho avuto questo indirizzo dal Sig. Console d’Italia in San Juan P.R.) perché ho avuto occasione di leggere, pubblicata sulla rivista aziendale, la sua lettera. Mi è molto dispiaciuto venire a conoscenza di ciò che le è accaduto solo dopo così tanto tempo, e in questa maniera così inusuale, ma ancora di più mi dispiace per ciò che le è successo.
Spero che oggi quel problema di salute si sia completamente rimarginato e che non le impedisca di godersi con la dovuta tranquillità il suo meritato riposo.
C’e anche un’ altra parte della sua lettera che mi ha molto toccato, quella in cui parla ai suoi Ufficiali degli insegnamenti che ha dispensato nella sua lunga carriera da Comandante. Ecco, io volevo ringraziarla proprio per questo. Mi rendo conto solo ora, dopo diversi anni, di quanto sia stato importante avere una persona come Lei al Comando, e solo oggi riesco a cogliere ciò che intendeva trasmettere a me e agli altri Ufficiali.
Oggi sono riuscito a diventare Terzo Ufficiale, sono stato promosso all’esame per il titolo professionale con i complimenti della Commissione esaminatrice, riesco a svolgere il mio lavoro con l’apprezzamento degli altri, mi sono appassionato all’astronomia, riesco finalmente a calcolare con precisione la posizione con le 4 stelle al crepuscolo e con il sole a mezzogiorno, queste e tante altre cose, e per tutto questo devo ringraziare Lei, perché anche se forse Lei non ha mai avuto modo di accorgersene, Lei mi ha sempre ispirato a diventare un Ufficiale, un Lupo di Mare, come scrive nella sua lettera. Un Ufficiale che sa guidare la sua nave anche solo grazie alle sue capacità. Certo sono ben lungi dal rispecchiarmi in queste definizioni che ho appena dato, troppe cose devo ancora imparare e tanta esperienza ho ancora da acquisire, però ci tenevo molto a dirle che se un giorno riuscirò nel mio intento sarà solo grazie a Lei e grazie ai suoi insegnamenti. La cosa che più le ho invidiato, nel senso buono del termine, è la sua lunga esperienza, la sua professionalità che andava ben oltre le ultime innovazioni tecnologiche, quella sensazione palpabile che Lei, in ogni momento, grazie ai suoi segreti, avrebbe potuto condurre la nave a destinazione da solo con le sue conoscenze, senza alcun ausilio moderno. E rubarle, sempre nel senso buono del termine, questi segreti è stato il mio obiettivo. Avrei voluto tanto ringraziarla di persona, e mi creda, una delle cose a cui tenevo molto era diventare il suo Primo Ufficiale un giorno, per avere l’onore di navigare con Lei in una posizione così prestigiosa e dimostrarle che la pazienza che ripose in me a suo tempo fu ben riposta. Purtroppo il destino ha deciso in maniera diversa, non so nemmeno se avrò mai l’occasione per stringerle la mano e dirle grazie di persona, per questo sono qui a scriverle questa lettera. La ringrazio di nuovo, Comandante. Mando i miei migliori saluti a Lei e alla sua gentile Signora. Buona giornata.
Simone Canessa.
Terzo Ufficiale di Coperta M/n COSTA FORTUNA.
La M/n COSTA ATLANTICA in navigazione
"Sono certo che un giorno, in una delle mie vacanze a bordo delle navi “Costa”, incontrerò questo bravo ufficiale e potremo con piacere stringerci la mano. Ho potuto solo salutarlo e ringraziarlo del suo pensiero nei miei confronti mentre io e mia moglie Giovanna, nel novembre del 2008, eravamo ospiti d’onore a bordo della COSTA MEDITERRANEA , in occasione della crociera del 60.mo anniversario Costa. La nave era in porto a Malaga. Venni a sapere che lui era a bordo di una nave Costa che stava partendo, non ci fu il tempo per incontrarci, ma ci scambiammo i saluti per telefono.
Dopo 44 anni dedicati alla mia professione, il mare e le navi saranno per sempre la mia passione, ma non mi resta ora che augurarmi di recuperare, vivendo in salute e serenità, gli affetti familiari che ho dovuto trascurare vivendo da Uomo di Mare".
ALBUM FOTOGRAFICO
M/n COSTA MEDITERRANEA
Le foto che seguono si riferiscono al 60.mo Anniversario di Costa Crociere
26 ottobre – 10 novembre 2008
La Signora Giovanna, moglie del Comandante M.T.Palombo
A sinistra il Comandante M.T.Palombo
COSTA MEDITERRANEA in uscita da Savona il 26 ottobre 2008
Una suggestiva immagine di Antalya
La M/n COSTA MEDITERRANEA in manovra nel Porto di Izmir
C.S.L.C. Mario Terenzio PALOMBO
Rapallo, 30 Novembre 2015
VIAGGIO DAL MERIDIANO DEL FERRO A QUELLO DI GREENWICH
VIAGGIO DAL MERIDIANO DEL FERRO A QUELLO DI GREENWICH
Vista satellitare dell’Isola del Ferro
Isola del Ferro, in spagnolo: El Hierro, detta anche Isla del Meridiano, è un'isola spagnola. Si trova nell'Oceano Atlantico, nelle Isole Canarie di cui é la più piccola e la più a ponente dell'arcipelago
Per gli antichi naviganti il meridiano di riferimento era il Nilo al centro del mondo conosciuto d’allora, tuttavia, il PRIMO MERIDIANO CONVENZIONALE per il calcolo della longitudine ha continuato a spostarsi sul mappamondo con le progressive esplorazioni geografiche.
Possiamo sintetizzare la successione geografica in questo modo:
- A ovest delle Colonne d’Ercole fu posto il meridiano, in seguito arretrato alle Canarie (Isole fortunate).
- Copernico lo stabilì a Freudenburgo (Renania-Palatinato)
- Keplero a Uraniburgo (Uraniborg – Osservatorio astronomico gestito dall’astronomo danese Tycho Brahe).
- Mercatore, inizialmente lo stabilì all’isola di Forte Ventura (Canarie), successivamente all’ISOLA DEL FERRO.
- Nel secolo successivo, G.B. Riccioli lo fissò nell’isola di Palma.
Nel 1724, durante un viaggio di studio, fu stabilita l’esatta posizione del meridiano. In molte carte geografiche del 1600 e 1700, il meridiano di ORCHILLA appare come Meridiano 0. Il faro rappresentato in questa immagine, fu costruito sopra la LINEA DEL MERIDIANO 0.
Per mettere un punto fermo che togliesse ogni confusione, ci provò Luigi XIII, con un decreto del 1° luglio 1634 e fissò IL PRIMO MERIDIANO all’Isola del Ferro (Canarie), uno tra più diffusi. Come abbiamo visto nella didascalia, tale meridiano prendeva il nome dall'isola del Ferro (El Hierro), la più occidentale dellIsole Canarie e allo stesso tempo la parte più estrema del Vecchio Mondo.
Si deve sottolineare un particolare importante: il famoso geografo greco Tolomeo definì già nel II Secolo d.C. il meridiano dell'Isola del Ferro come Meridiano Zero. La scelta adottata fu molto fortunata in quanto favorì i calcoli astronomici della cartografia europea dovendosi calcolare soltanto longitudini positive (ad est dell'Isola di El Hierro ).
Verso la metà del Settecento, le nazioni marinare più prestigiose ritornarono a meridiani di riferimento sulla base d’interessi economici ed anche nazionalistici:
- Gli Inglesi a Londra
- I Francesi a Parigi
- Gli Olandesi sul Picco della Tenerifa – considerato il monte più alto del mondo
- Gli Spagnoli alle Azzorre.
Verso la metà dell’Ottocento, L’Inghilterra ed i Paesi sotto la sua influenza, adottarono GREENWICH, mentre gli Stati Uniti e l’Italia preunitaria scelsero Parigi. Finalmente, nel 1881, nel 3° Congresso Geografico Internazionale fu proposto di adottare il MERIDIANO E IL TEMPO MEDIO DI GREENWICH. Il “tempo” non era ancora maturo... Prestigio culturale, Potenze marittime, Spinte azionalistiche ecc... ritardarono l’approvazione ormai nell’aria.
La penultima fase di avvicinamento al traguardo passò per Roma, dove fu organizzata nel 1883 la Conferenza Geodetica Internazionale. E ci fu ancora una spaccatura:
Stati Uniti decidevano di adottare il meridiano del Ferro e la Germania optava per quello dell'Europa centrale, a 15°E da Greenwich, nel 1893 accolto anche dall'Italia.
Osservatorio di Greenwich
Si dovette attendere il Congresso Geografico Internazionale di Washington del 13 ottobre 1884 per stabilire definitivamente quale dovesse essere questo meridiano. In quell'occasione venne definito da 41 delegati provenienti da 25 paesi, alla presenza del Presidente degli Stati Uniti d'America, il meridiano zero, ossia quello che passa per l’Osservatorio di Greenwich.
Meridiano di Greenwich
Meridiano di Greenwich (angolatura per Meridiano)
Qui furono stabiliti i seguenti principi:
1. L'adozione di un unico sistema di meridiani a livello mondiale, in sostituzione dei diversi esistenti.
2. Il meridiano passante attraverso il più importante strumento di controllo del traffico dell'Osservatorio di Greenwich sarebbe stato il primo meridiano.
3. Tutte le longitudini, sia a est sia a ovest sarebbero state calcolate a partire da questo meridiano da 0° a 180°.
4. Tutti i paesi avrebbero adottato la data universale.
5. Il giorno universale sarebbe cominciato alla mezzanotte di Greenwich e misurato su un orologio di 24 ore.
6. I giorni nautici e astronomici sarebbero cominciati ovunque alla mezzanotte convenzionale (di cui sopra).
Sarebbero stati supportati tutti gli studi tecnici finalizzati a regolamentare ed estendere l'applicazione del sistema decimale alla divisione del tempo e dello spazio.
Il 23 febbraio 2007 nei Giardini vaticani fu inaugurata la targa indicante il tracciato del Primo Meridiano d’Italia.
Carlo GATTI
Rapallo, 12 Giugno 2015