USS CONSTITUTION - Una leggenda
USS CONSTITUTION
Una Leggenda
La USS Constitution, detta "Old Ironsides" è una fregata pesante a tre alberi, in legno, della United States Navy. Battezzata in omaggio alla Costituzione degli Stati Uniti d'America, è la più vecchia nave al mondo ancora galleggiante (la HMS Victory è più vecchia di trent'anni, ma è stata tirata permanentemente in secca).
La Constitution fu una delle sei fregate originali autorizzate alla costruzione dall'Atto Navale del 1794. Joshua Humphreys le progettò per essere le navi capitali della marina e quindi la Constitution e le sue sorelle furono più grandi e meglio armate delle fregate standard dell'epoca. Per un certo periodo alla Constitution venne assegnato il numero di classificazione di scafo IX-21 ("IX" significa "Miscellanea non classificata"), ma venne riclassificata "nessuna" il 1 settembre 1975
La Constitution abbatte l'albero di mezzana della Guerriere. La Constitution venne costruita nel cantiere navale di Edmund Hart a Boston, Massachusetts con assi di quercia virginiana spesse fino a 178 mm. Fu varata il 21 ottobre 1797 ed entrò in servizio il 22 luglio 1798. Il suo primo servizio fu il pattugliamento delle coste sudorientali degli Stati Uniti durante la guerra non dichiarata con la Francia del 1798-1800.
Nel 1803 venne designata come nave ammiraglia dello squadrone del mare Mediterraneo sotto il comando del capitano Edward Preble e servì nel corso della prima guerra barbaresca contro gli Stati barbareschi del Nordafrica che chiedevano il pagamento di tributi dagli Stati Uniti, in cambio del permesso dell'accesso delle navi mercantili ai porti mediterranei. Preble iniziò una campagna aggressiva contro Tripoli bloccando i porti e bombardando fortificazioni. Infine Tripoli, Tunisia e Algeria accettarono di firmare un trattato di pace.
La Constitution pattugliò la costa del Nordafrica per due anni dopo il termine della guerra, per far rispettare i termini del trattato.
Ritornò a Boston nel 1807 per due anni di raddobbi. La nave venne rimessa in servizio come nave ammiraglia dello squadrone del Nord Atlantico nel 1809 al comando del commodoro John Rodgers.
All'inizio del 1812 le relazioni con il Regno Unito si erano deteriorate e la Marina iniziò a prepararsi per la guerra che venne dichiarata il 20 giugno. Il capitano Isaac Hull che era stato nominato ufficiale comandante della Constitution nel 1810 prese il mare il 12 luglio per prevenire il blocco dei porti. La sua intenzione era di unirsi alle cinque navi dello squadrone di Rodgers.
Il 17 luglio la Constitution avvistò cinque navi al largo di Egg Harbor nel New Jersey. Il mattino seguente le vedette avevano determinato che si trattava di uno squadrone britannico che aveva a sua volta avvistato la Constitution e che si era messa al suo inseguimento. Trovandosi in bonaccia, Hull e il suo equipaggio misero in mare le barche per trainarla fuori tiro. Tonneggiando tenendosi sull'ancorotto (tecnica per trainare o far virare una nave usando l'ancorotto) e bagnando le vele per sfruttare ogni alito di vento la Constitution iniziò a guadagnare lentamente vantaggio contro i britannici. Dopo due giorni e due notti di incessante lavoro sfuggì infine ai suoi inseguitori.
Un mese più tardi, il 19 agosto incontrò la fregata HMS Guerriere al largo della Nuova Scozia e ingaggiò battaglia, riducendola dopo 20 minuti ad uno scafo privo d'alberi, così gravemente danneggiata da non valere la pena di essere trainata in porto. Hull usò efficacemente le sue bordate più pesanti e la superiore capacità di manovra della sua nave, mentre i britannici assistettero sgomenti alle loro bordate che rimbalzavano apparentemente senza effetto dalle fiancate della Constitution, che si guadagnò così il soprannome di Old Ironsides ("vecchia corazzata").
Nel dicembre, al comando di William Bainbridge, affrontò la HMS Java, un'altra fregata britannica. Dopo tre ore di scontro la Java era così danneggiata da essere irreparabile e venne data alle fiamme. Le vittorie della Constitution furono di grande sostegno al morale americano.
Nonostante abbia dovuto trascorrere molti mesi in porto, o a causa di riparazioni o a causa di blocchi navali, al comando di Charles Stewart la Constitution catturò altre otto navi prima della dichiarazione della pace nel 1815, inclusi una fregata ed uno sloop britannici che navigavano insieme e che combatté simultaneamente. Dopo sei anni di estensive riparazioni ritornò in servizio come nave ammiraglia dello squadrone del Mediterraneo. Ritornò in porto a Boston nel 1828.
Nel 1830 venne giudicata non in grado di navigare, ma l'indignazione pubblica alla raccomandazione che venisse smantellata (specialmente dopo la pubblicazione del poema Old Ironsides di Oliver Wendell Holmes), spinse il congresso a decidere di ricostruirla e nel 1835 rientrò in servizio. Servì come nave ammiraglia nel Mediterraneo e nel Sud Pacifico e compì un viaggio di 30 mesi intorno al mondo nel marzo 1844.
Negli anni 1850 pattugliò la costa africana in cerca di schiavisti e durante la Guerra di secessione americana servì come nave scuola per gli allievi dell'Accademia navale.
Dopo un altro periodo di ricostruzioni, nel 1871 trasportò beni per l'Esposizione Universale di Parigi del 1877 e servì nuovamente come nave scuola. Venne ritirata dal servizio nel 1882 e servì come nave ricevimenti a Portsmouth nel New Hampshire. Ritornò a Boston per celebrare il suo centennale nel 1897.
Nel 1905 l'opinione popolare la salvò nuovamente dalla demolizione; nel 1925 venne restaurata grazie alle donazioni di scuole e gruppi patriottici. Rimessa in servizio il 1 luglio 1931 venne trainata in un tour di 90 città portuali lungo la costa atlantica e pacifica degli Stati Uniti. Dal 1920 al 1923 venne rinominata Old Constitution, per liberare il suo nome per un nuovo incrociatore da battaglia in corso di costruzione, ma che non venne mai completato.
Più di 4.600.000 persone la visitarono durante il suo viaggio durato tre anni. Essendo ormai un'icona americana ritornò al suo porto di Boston. Nel 1941 venne messa in servizio permanente e nel 1954 un atto del Congresso rese il Segretario della Marina responsabile del suo mantenimento. Attualmente è ancorata nel vecchio cantiere navale di Charlestown a Boston. È aperta al pubblico per visite (per maggiori informazioni vedi il sito indicato sotto).
Dal 1992 al 1995 venne raddobbata e revisionata e riportata alla piena capacità di navigare. La revisione fu molto meno intensiva di quella della Constellation, dato che la Constitution era in forma migliore.
Il 21 luglio 1997 durante le celebrazioni per il suo duecentesimo compleanno la Constitution riprese il mare per la prima volta in oltre un secolo. Venne trainata dal suo ormeggio fino a Marblehead, quindi innalzò sei vele (fiocchi, vele di gabbia e driver) e si mosse senza assistenza per un'ora sparando 21 salve.
Ormeggiata a Boston, il ruolo moderno della Constitution è quello di "nave di Stato". Incaricata di promuovere la marina, viene visitata annualmente da milioni di visitatori. Il suo equipaggio di 55 marinai partecipa a cerimonie, programmi educativi ed eventi speciali, mantenendo la nave aperta la pubblico ed organizzando giri guidati. È ancora un vascello in servizio attivo della US Navy. L'equipaggio è composto da marinai in servizio attivo e l'assegnamento a questa nave viene considerato un incarico speciale nella marina. Tradizionalmente il titolo di capitano viene assegnato ad un capitano in servizio attivo della marina.
Caratteristiche e armamento
▪ Dislocamento: 2.250 ton
▪ Lunghezza: 204 piedi, 175 al galleggiamento
▪ Larghezza: 43 piedi e 6 pollici
▪ Pescaggio: 19 piedi e 2 pollici di prua, 22 piedi e 9 pollici di poppa
▪ Alberi: Maestra 220 piedi, Trinchetta 198, Mezzana 172 e 6 pollici,
▪ Superfice velica: 3967,89 mq con 36 vele; 1135,74 mq con 6 vele nel 1997
▪ Equipaggio: nel 1797 – 23 ufficiali, 273 marinai, 60 marines nel 1821 – 40 ufficiali, 395 marinai, 60 marines
▪ Disegnatore: Joshua Humphreys
▪ Costruttore: George Claghorne
▪ Costruita a: Hartt Shipyard, Boston, Massachusetts
▪ Varata: 21 ottobre 1797 alle 12,15
▪ Prima navigazione: 22 luglio 1798 alle 20,00
▪ Velocità: Record per 1 ora – 14.0 nodi. Record in 24 ore – 10.3 nodi.
▪ Record in 72 ore – 9.2 nodi
▪ Armamento: 1798 – 30 cannoni da 24 libbre, 16 da 18 libbre e 14 da 12 libbre 1812 – 30 cannoni da 24 libbre, 1 da 18 libbre, 24 carronate da 32 libbre
Date essenziali
▪ 21 ottobre 1797 varo della USS Constitution al cantiere Edmond Hartt’s Shipyard di Boston;
▪ Agosto 1798 in azione nella “Quasi guerra” con la Francia; 1803–1806 nave ammiraglia della flotta del Mediterraneo nella guerra contro Tripoli;
▪ 18 agosto 1812 vittoria contro la HMS Guerrière da cui il soprannome Old Ironsides;
▪ 29 dicembre 1812 battaglia contro la fregata Java e altri cinque vascelli inglesi;
▪ Marzo 1844 viaggio intorno al mondo, della durata di 30 mesi; 1931-1934 viaggio che la conduce a toccare 90 città statunitensi e ritorno a Boston;
▪ 1996-1997 sottoposta a un restauro della durata di 44 mesi, con uscita in mare nel luglio 1997;
▪ 21 ottobre 1997 compie 200 anni.
ENTRATA IN BACINO USS CONSTITUTION
La nave USS Constitution è entrata martedì scorso nel bacino della CHARLESTON NAVY YARD BOSTON NATIONAL HISTORICAL PARK per un programmato lavoro di restauro del costo di diversi milioni di dollari. La USS Constitution è la più vecchia al mondo tra le navi militari tuttora in servizio. Essa è stata consegnata alla US NAVY il 21 ottobre 1797. Tuttavia dal 1907 la nave è stata utilizzata come simbolo per preservare la storia della Marina Americana. Il restauro prevede un costo tra i 12 e 15 milioni di dollari, durerà più di due anni e sarà la prima volta che la Constitution viene tirata in secco dal 1992. Il lavoro prevederà: la sostituzione della parte inferiore del fasciame della carena; la rimozione delle 1995 piastre di rame sostituendole con 3400 fogli di rame nuovo che proteggeranno lo scafo sotto la linea di galleggiamento; la sostituzione dei bagli della coperta; la manutenzione ed eventuale sostituzione della parte superiore degli alberi e del sartiame. Durante il periodo di carenaggio la nave resterà aperta alle visite del pubblico.
ALBUM FOTOGRAFICO
Testo a cura di CARLO GATTI
Album fotografico
A cura di PINO SORIO
Rapallo, 22 Maggio 2015
URAGANO "EMILY" - Una dura prova per M.T.Palombo
URAGANO "EMILY"
Comandante CSLC Mario Terenzio Palombo
Sono nato a Savona il 30 agosto 1942, da famiglia di tradizioni marinare: mio padre Francesco, autentico “lupo di mare” era originario di Porto Santo Stefano (Monte Argentario), mia madre Renata Mattera, era dell’Isola del Giglio. La mia famiglia nel 1935, per esigenze di lavoro, si trasferì in Liguria, nella pittoresca cittadina di Camogli.
Il comandante Mario Palombo nel 1983
Mio nonno Biagio, già armatore del pinco-goletta Nettuno, comandato da mio padre, si mise in società con una famiglia camogliese ed iniziò i trasporti e la vendita a Camogli e Santa Margherita Ligure, di carbone e legna proveniente dalla Sardegna.
Mi sono diplomato nel 1963 all’Istituto Nautico “Cristoforo Colombo” di Camogli.
Dopo varie esperienze su navi da carico e petroliere, nel 1972 iniziai la mia carriera su navi passeggeri con la Società di navigazione Home Lines, assumendo il mio primo comando nel 1983. Nel 1988 questa Società fu venduta e venni, nello stesso anno, assunto dalla Società Costa Crociere dove rimasi a ruolo, sino al 30 giugno 2007. Con queste due importanti Società maturai sempre più la mia esperienza professionale partecipando a vari allestimenti di nuove navi, con l’affidamento del comando di navi prestigiose.
Il 21 giugno 1987 mi imbarcai al comando della M/n Atlantic (Home Lines) impegnata sulla linea New York – Bermuda. Fu una bella stagione calda e le crociere andarono a gonfie vele. L’alta temperatura aveva favorito lo sviluppo di depressioni e tempeste tropicali e alcune di queste erano già passate nelle vicinanze dell’isola, ma per fortuna sino a settembre le tempeste si erano esaurite durante la nostra sosta in porto e avevano permesso un tranquillo viaggio di rientro a New York.
La sera del 24 settembre, però, mentre eravamo tranquillamente in porto ad Hamilton (Bermuda) un comunicato straordinario ci informava che la tempesta tropicale che si trovava a 480 miglia a SW dell’isola, nelle vicinanze delle Bahamas, stava dirigendosi verso Nord rafforzandosi, con previsioni di ulteriore peggioramento e probabile passaggio, nelle seguenti 36 ore, su Bermuda.
L’intera isola era in stato d’allarme, tutti però speravano, come era successo molte altre volte, in un cambiamento di direzione della tempesta in prossimità della terra. Convocai subito nel mio studio il comandante in seconda Giorgio Bercic, il direttore di macchina Martino Gallinaro, il capo commissario Augusto Fazzio e il nostromo Latino Calloni per informarli sulla mia decisione in merito all’uragano e sui preparativi per affrontare il maltempo in navigazione. Studiata la situazione sulla carta nautica e valutate varie ipotesi, quella più valida al momento era di partire in tarda serata o in prima mattinata, di passare a Sud dell’isola e, una volta ricevuto il bollettino meteo aggiornato con l’ultima posizione, assumere una rotta di allontanamento in tutta sicurezza, per poi dirigere verso la costa (Cape Hatteras) e quindi verso New York. Avevamo, in questo modo, un buon margine da poter sfruttare convenientemente. Purtroppo la navigazione nei canali di Bermuda, data la loro ristrettezza era interdetta durante la notte e, nonostante la nostra motivata richiesta, non riuscimmo ad ottenere il permesso di partenza.
Non rimaneva che attendere la mattina successiva con una buona dose di ottimismo.
Il capo commissario preparò un avviso che fece diramare in tutte le cabine passeggeri, con il quale si comunicava che la nave, per l’avvicinarsi dell’uragano all’isola, non potendo rimanere in porto, per motivi di sicurezza, avrebbe anticipato la partenza al mattino successivo alle 07.00. Seguirono annunci per altoparlante in modo che tutti fossero informati sulla situazione. Il comandante in seconda fece chiudere le corazze degli oblò dei due ponti al di sopra del galleggiamento ed il nostromo preparò alcune pompe portatili che installò in prossimità degli ombrinali in cui l’acqua piovana avrebbe potuto defluire con difficoltà e causare allagamenti.
Informai la nostra agenzia sulla decisione di partire la mattina seguente. Il responsabile, un certo John Moore (mio amico già dal mio primo arrivo a Bermuda), essendo anche lui esperto di mare, approvò la mia idea e mi confermò che, essendo previsti piovaschi, le autorità portuali avevano ulteriormente esaminato la nostra richiesta di partenza notturna giungendo però alla conclusione di non accoglierla. Passai la notte nell’attesa di ricevere qualche bollettino meteo di aggiornamento. Purtroppo a quel tempo le previsioni non erano così accurate come oggi e per avere la posizione della tempesta e l’intensità del vento bisognava attendere che un aereo da ricognizione si recasse sopra l’occhio dell’uragano e con un’apposita sonda, rilevasse tutti i dati.
Provai pure a chiamare il Miami Hurricane Center, ma non avevano aggiornamenti. La mattina del 25 settembre 1987 il cielo si presentava grigio scuro ed il mare calmo, non un alito di
vento. Il barometro scendeva rapidamente. Da 1000 hPa, in pochissimo tempo, era già arrivato a 980 hPa. La cosa mi insospettì, la tempesta doveva essere vicinissima a noi. Avevamo appena iniziato ad alleggerire gli ormeggi per la partenza prevista alle 07.00, ma diedi ordine di sospendere, per attendere l’emissione del successivo bollettino meteo. Telefonai nuovamente al Miami Hurricane Center e mi dissero che a breve avrebbero diramato l’aggiornamento, infatti, poco dopo, il nostro strumento inizio a scrivere il messaggio.
Come pensavo, in realtà, la tempesta tropicale era molto più vicina a Bermuda e durante la notte si era intensificata trasformandosi in uragano e dirigendosi a forte velocità verso l’isola, in quanto aveva trovato condizioni meteo favorevoli con l’avvicinarsi alla terra. Si calcolò che aveva addirittura galoppato spostandosi ad una velocità superiore ai 30 nodi (55 Km/H) e che la forza del vento aveva raggiunto raffiche oltre i 100 nodi (180 Km/H). Il bollettino concludeva scrivendo che l’impatto con l’isola era previsto alle 08.00 del mattino. L’unica cosa da fare era riormeggiare la nave con tutti i cavi a disposizione e sperare in un cambiamento di rotta dell’uragano.
Ricordo che passammo intorno alle bitte d’ormeggio disposte in banchina almeno una dozzina di cavi a prora e poppa, in aggiunta feci mettere spezzoni di cavo d’acciaio, di cui la nave era dotata, tra le bitte di ormeggio lungo lo scafo e lungo la banchina. Questi spezzoni servivano a non far allargare troppo la nave dalla banchina durante le raffiche, evitando che aumentasse la tensione dei cavi di prora e di poppa. Feci zavorrare la nave per aumentarne la stabilità durante le forti raffiche ed in caso di una possibile perdita d’ormeggio. Feci inoltre devirare l’ancora di dritta in mare (lato banchina) sino a otto lunghezze (220 metri di catena) e feci disporre tra la banchina e la nave tutti i parabordi di cui la nave era dotata (circa una dozzina).
L’ancora in mare sarebbe stata una sicurezza in più nel caso in cui il vento fortissimo ci avesse fatto rompere i cavi e perdere l’ormeggio. Quando tutto il nostro personale addetto a queste operazioni salì a bordo, togliemmo lo scalandrone e rimanemmo in attesa degli eventi, con i motori in moto, pronti all’emergenza.
Tutti gli abitanti dell’isola si erano barricati in casa cercando di sbarrare e chiodare le finestre per limitare i danni. Puntualmente alle 08.00 il cielo, che prima era grigio, diventò nero, praticamente buio come la notte. Il barometro scendeva paurosamente a rotta di collo. La pioggia in pochi minuti diventò torrenziale e la quantità d’acqua caduta in pochi minuti fu tale da allagare tutte le strade, mentre le nostre pompe ausiliarie, fortunatamente, reggevano bene salvaguardando dall’allagamento l’interno della nave. La potenza del vento era paurosa. In porto sembrava di essere in mare aperto. In certi momenti le raffiche raggiungevano gli 80 nodi. Le barche ormeggiate poco distante dalla nave, strapparono gli ormeggi e rimasero in balìa del mare come fossero dei leggeri fuscelli.
Intanto la depressione che si era creata proprio al centro di Bermuda fece salire la marea di oltre due metri, il barometro era sceso ancora sino a 960 hPa. Il mare lambiva l’orlo della banchina. Guardandoci attorno, osservando le case sulle isolette, sembrava che l’isola dovesse inabissarsi. Sulla banchina riservata alle navi da carico ubicata proprio dietro di noi, le fortissime raffiche di vento fecero cadere tutti i containers vuoti accatastati e li spinsero in mare.
In porto ad Hamilton (Bermuda)
Danni causati alle bitte di ormeggio dalle prime raffiche violente di vento
I tetti delle case non resistettero a questa forza tremenda e di tanto in tanto, grossi pezzi di copertura dei tetti venivano sradicati e volavano via. La stazione marittima venne scoperchiata completamente. Il nostro scalandrone volò in mare. Le macchine e le moto rimaste in strada volavano via e venivano accatastate una sull’altra. Le uniche piante a resistere alla furia del vento erano le palme lungo la passeggiata. Venivano strapazzate in tutti i sensi, si piegavano quasi a toccare terra, ma resistevano. La nave, invece, quando la raffica aumentava di intensità veniva sbattuta contro la banchina, si avvertivano i forti colpi e le vibrazioni, ma i parabordi aggiuntivi che avevo fatto mettere proteggevano lo scafo che si manteneva integro. Il vento soffiò da SW, sbattendo la nave contro la banchina per oltre un’ora, poi il vento incominciò a girare da W e poi da NW, segno che il centro dell’uragano si stava allontanando, ma la forza del vento in questo settore era ancora più forte. Per circa cinque minuti le raffiche diminuirono di intensità, ma dovevamo aspettarci qualcosa di ancora più forte e tremendo. Improvvisamente le raffiche ripresero superando i 100 nodi ( 180 Km/H.), parte dei tetti ripresero a volar via e una forte raffica spinse violentemente la nave lontano dalla banchina, Si pensò che i cavi avessero ceduto, invece guardando tra la pioggia li vidi penzoloni e mi accorsi che in banchina mancavano tutte le bitte da ormeggio.
Praticamente i cavi avevano resistito, ma le bitte con tutto il cemento armato avevano ceduto e oltre alle bitte erano venuti via blocchi di banchina. Avevamo perso l’ormeggio.
Perdita dell'ormeggio causata dal fortissimo vento
Le bitte avevano ceduto perché su ognuna di esse c’erano almeno tre o quattro cavi che, insieme, avevano formato un fascio molto resistente che superava la tenuta della bitta stessa.
La furia dell'uragano contro la nave Atlantic
Una scena che, a prima vista, mi lasciò sbalordito. Fortunatamente mi ripresi subito pensando che la poppa della nave spinta dal vento avrebbe potuto urtare contro la banchina, il vento infatti aveva fatto ruotare velocemente la nave. Tolsi tutte le sicurezze sui motori per avere l’intera potenza disponibile e misi le leve di colpo avanti tutta.
Perdita dell'ormeggio causata dal fortissimo vento
La nave reagì subito, ebbe un balzo in avanti portando via anche le bitte di ormeggio di poppa. La nave fu salva dal possibile urto contro la banchina. Subito per altoparlante gridai al nostromo di cercare di recarsi a prora per dare fondo all’ancora di sinistra.
Mi dissero dopo che, sentendo la mia voce così forte e decisa, l’equipaggio e i passeggeri si rassicurarono pensando che chi stava in quel momento al comando, non aveva perso la calma. Il nostromo Latino Calloni fu rapido, passò dal portello di prora, riuscì con una cintura di sicurezza a legarsi al verricello e, al mio ordine, quando la catena di dritta che era già in mare si stese tutta, diede fondo all’ancora di sinistra lasciando andare, anche su questa, circa sette lunghezze (200 metri). Ci trovavamo in mezzo alla baia del porto con le due ancore in mare.
In porto ad Hamilton (Bermuda) si lotta contro le violente raffiche di vento
Pioggia e vento non mollavano, non si vedevano neppure la banchina e la terra intorno a noi per le forti raffiche di vento e per la pioggia torrenziale. Mi sentivo però più sicuro, dentro di me pensavo che le ancore avrebbero salvato la nave. In tutto questo frangente si doveva pensare anche ai nostri passeggeri e all’equipaggio. Il nostro direttore di crociera era sul ponte per dare informazioni sull’accaduto con messaggi sempre ottimistici. Feci anche dire loro di stare tranquilli perché in quelle circostanze il luogo più sicuro era la nave e anche se ci fossimo arenati, non ci sarebbe stato alcun pericolo.
In porto ad Hamilton (Bermuda) la nave lotta contro la furia dell'uragano Emily
Le raffiche di vento causavano improvvisi sbandamenti a dritta e a sinistra di oltre 10 gradi. Cercavo di manovrare la nave con i motori, non si vedeva nulla per la furia della pioggia e per il vento. L’ufficiale a poppa di tanto in tanto gridava che la nave si avvicinava paurosamente alla banchina ed io prontamente agivo sui motori per evitare l’urto.
In porto ad Hamilton (Bermuda): raffiche violente di vento
Molte volte arrivammo a meno di un metro di distanza, ma riuscimmo sempre a evitare il contatto. La forte escursione di marea aveva fatto sì che la nave galleggiasse tranquillamente anche nella parte più interna del porto, dove veniva sospinta dal vento.
In porto ad Hamilton (Bermuda) la nave lotta contro la furia dell'uragano Emily
Tutto intorno a noi lo scenario era terrificante: a terra case scoperchiate, strade allagate, macchine accatastate, in porto barche e containers rovesciati e alla deriva.
Nelle tre foto: in porto ad Hamilton (Bermuda), raffiche violente di vento contro le case
Dopo circa due ore di furia, finalmente, verso mezzogiorno, il vento incominciò a placarsi. In mezz’ora il tempo fece un rapido cambiamento. Prima si calmò il vento, poi il cielo da nero diventò grigio e poco dopo incominciò a schiarirsi fino a divenire completamente sereno.
In porto ad Hamilton (Bermuda): la furia dell'uragano si sta placando
Il barometro che aveva raggiunto un picco in discesa sino a 956 hPA,( mai visto così basso!) stava salendo molto rapidamente e ciò significava che l’uragano dopo aver scaricato tutta la sua furia sull’isola si era diretto in mare, degradato a depressione tropicale. Come avevo pensato le ancore avevano salvato la nave.
Con una lancia messa a disposizione dalla nostra agenzia feci un giro di ispezione intorno alla nave. Nessun danno allo scafo e alla sovrastruttura, nessun vetro di oblò rotto.
L’isola fu invece semidistrutta dalla tempesta. Mentre giravo con la lancia intorno alla nave, i passeggeri applaudivano e mi gridavano «Bravo Mario, grazie!». Anche da terra molti abitanti usciti di casa applaudivano nel vedere la nave integra in mezzo a tutto quel disastro.
Prima di poter partire per New York si dovette attendere qualche ora per consentire al comandante del porto di far sgombrare l’area dalle imbarcazioni che si trovavano in mezzo al canale e sulla nostra rotta. Rimanemmo nella rada di Hamilton antistante la banchina di ormeggio, inoltre studiammo con il comandante, il pilota e il nostro agente, il capitano John Moore, la priorità delle azioni da intraprendere per poter far scalo senza problemi la settimana successiva.
C’erano da ripristinare le bitte, da riparare il tetto della stazione marittima e da ripescare il nostro scalandrone caduto in mare. Per le bitte i tempi erano lunghi, in quanto si doveva attendere che il cemento armato facesse ben presa e quindi si decise, per almeno due o tre scali, di utilizzare la catena di emergenza sistemata nei pozzetti della banchina di prora e di poppa della nave. Questa catenaria nei casi di vento fortissimo, veniva di proravia connessa alla catena della nave, di poppavia ad un fascio di almeno tre cavi, di cui uno di acciaio. In questo modo l’ormeggio poteva considerarsi sicuro, di certo non in caso di uragani, in quanto era meglio che le navi lasciassero per tempo il porto per raggiungere mari più tranquilli. Nel nostro caso, le catene non erano state utilizzate in quanto pensavamo di partire in prima mattinata, ma la nave era stata salvata dalle proprie ancore.
Suggerii al comandante del porto di far installare bitte molto resistenti, almeno due in testata ed in radice della banchina, con un solido e profondo basamento. Ci vollero tre settimane, ma finalmente avevamo nuove bitte molto forti posizionate a regola d’arte.
Liberato il canale da tutti gli oggetti pericolosi per la navigazione, poco dopo le 14.00 partimmo per New York. Avevo passato quattro ore terribili in piedi, nonostante tutto mi sentivo ancora forte sulle gambe. Durante la navigazione lungo la costa dell’isola era possibile osservare le spaventose distruzioni provocate alla vegetazione e alle case dall’uragano.
Lasciata la costa a circa cinque miglia di distanza, al limite della barriera corallina l’uragano Emily che dirigeva verso Nord Est e che era ormai solo una depressione tropicale, ci aveva lasciato un’ultima sorpresa: davanti a noi il mare lungo formava, sui bassi fondi, onde tra i sei e i dieci metri che frangevano sulla barriera, sollevate da raffiche violente di vento. Feci subito fare un annuncio ai passeggeri che avremmo affrontato le onde a bassa velocità e che non ci sarebbe stato alcun pericolo per loro e per la nave.
Sotto le coste di Bermuda, primo impatto con le onde lasciate dall'uragano "Emily"
Affrontata la prima onda, dovetti diminuire e subito aumentare la velocità per governare bene la nave. L’ Atlantic si comportò egregiamente; data la bassissima velocità, l’onda passò senza provocare forte movimento di beccheggio né tantomeno forte impatto. A seguire ce ne furono altre quattro, tutte tra i sei e gli otto metri. Finalmente fuori, assumemmo la rotta iniziale più verso Cape Hatteras, dove il mare era previsto molto più calmo. Il viaggio fu buono e i passeggeri rimasero soddisfatti.
Impressionante veduta delle onde lasciate dall'uragano "Emily"
Sul programma del giorno chiamammo la serata dell’ arrivederci “Gala dell’uragano Emily” e dovetti poi firmare tutte le copie perché i nostri passeggeri lo vollero tenere come ricordo.
La stessa sera ricevetti moltissime lettere di elogio e di ringraziamento dai passeggeri. Avrei dovuto scendere in ristorante, ma ero troppo stanco, mi feci vedere soltanto durante i due cocktail prima dei due turni della cena. Fui accolto con grandi applausi, elogiai i nostri passeggeri per la calma mantenuta durante l’emergenza e poi mi ritirai per un meritato riposo.
Onde montagnose lasciate dall'uragano "Emily"
Non riuscii a dormire quella notte, sentivo forti crampi alle gambe per la stanchezza e poi il pensiero del pericolo corso e superato mi veniva continuamente in mente. Rivedevo chiaramente tutto. Ringraziai il Signore per avermi dato così tanta forza da mantenermi sempre calmo e lucido in tutte le decisioni e negli ordini impartiti e per avermi fatto uscire dalla tempesta con la nave integra.
Nelle foto sopra: impressionanti vedute delle onde lasciate dall'uragano "Emily"
La notizia dell’uragano e della nave scampata al pericolo era rimbalzata su tutte le reti televisive degli Stati Uniti. In arrivo a New York, la mattina di lunedì 27 settembre, un elicottero di una rete televisiva sorvolò la nave e, all’arrivo in stazione marittima fui intervistato varie volte sull’accaduto.
Vidi poi in televisione che tutti i passeggeri intervistati avevano rilasciato dichiarazioni encomiabili nei confronti miei e di tutto l’equipaggio per come era stata gestita l’emergenza e per l’informazione continua e rassicurante. Per alcuni giorni in TV non si parlò d’altro che di me, della nave e dell’uragano. Fu una buona pubblicità per la nostra Compagnia.
Anche i passeggeri appena imbarcati non facevano altro che parlare di questa storia e, appena mi vedevano, mi fermavano per conoscerne i dettagli .
Ritornati a Bermuda, guardando l’isola con l’occhio più attento, notammo moltissimi tetti delle case distrutti e tantissimi alberi abbattuti. Gli abitanti avevano iniziato la riparazione provvisoria dei tetti utilizzando della tela in attesa che giungesse sull’isola altro materiale idoneo per la riparazione.
Ci ormeggiamo in porto ad Hamilton utilizzando l’unica bitta rimasta di prora e di poppa ed in aggiunta, come avevamo già stabilito, le catene sistemate nei pozzetti della banchina.
Appena arrivati ci fu una bella sorpresa: la banda dell’isola ci diede il benvenuto. Ricetti l’invito di presentarmi dal governatore dell’isola: fu una cerimonia molto toccante che culminò nella firma dell’evento dell’uragano su un registro dove di solito firmano le persone importanti.
Il governatore John W. Swan mi consegnò una targa in memoria del passaggio dell’uragano e oltre al suo encomio personale mi diede una lettera dove esaltava il mio comportamento e mi dichiarò cittadino onorario dell’isola per tutta la stagione 1987. Fui veramente commosso e nello stesso tempo fiero per quanto, con l’aiuto di Dio, ero riuscito a fare.
Firma del registro "Eventi straordinari su Bermuda" in presenza del governatore dell'isola
Riporto qui di seguito i contenuti della lettera ricevuta:
PREMIER – THE CABINET OFFICE – HAMILTON 28.9.1987.
Caro Comandante Mario Palombo,
Tutti, tra coloro che sono stati testimoni delle difficoltà duramente provate dalla m/v Atlantic, nel culmine del cattivo tempo causato dall’uragano Emily, lo scorso venerdì, sono rimasti sbalorditi dalla consumata destrezza con la quale Tu sei stato capace di portare la Tua Nave fuori dal pericolo.
La subitaneità con la quale Bermuda è stata colpita dall’uragano, ha colto molta gente di sorpresa, ma le storie rimangono di quelli che, come Te, sono stati capaci di emergere dall’occasione. La Tua rapida azione ha certamente allontanato ciò che poteva essere un disastro molto pericoloso. Quindi, a Nome del Governo, ho il piacere di encomiare Te ed il Tuo Equipaggio per la pronta ed efficiente azione con la quale Tu hai manovrato la Tua Nave fuori dal pericolo, Vogliamo sperare che, da oggi in poi, Noi navigheremo mari più tranquilli. Cordiali e personali saluti, sinceramente John W. Swan.
Alcuni giorni dopo dal presidente della Compagnia ricevevo la seguente lettera:
HOME LINES INC. 5 Ottobre 1987.
Caro Comandante Mario Palombo,
Voglio congratularmi con Te e con il Tuo Equipaggio per il modo coraggioso con il quale avete affrontato le difficoltà causate dall’uragano Emily.
Vi porgo i miei migliori saluti, sinceramente. N. Vernicos Eugenides President.
Il Presidente della Home Lines New York mi scriveva in data 1 Ottobre 1987.
Caro Comandante Mario Palombo,
a seguito della nostra conversazione telefonica relativa all’atroce uragano Emily, voglio esprimere per iscritto il nostro apprezzamento e ringraziamento per il modo magistrale con il quale Tu hai manovrato la Tua nave durante quei critici momenti. Noi siamo estremamente orgogliosi di avere Comandanti del Tuo calibro nella nostra Famiglia Home Lines.
Congratulazioni, sinceramente, Franciskos G. Stafilopatis, President.
Dal nostro Comandante di armamento di Genova ricevevo :
AGENZIA MARITTIMA ITALO SCANDINAVA Sede in Genova, 7 Ottobre 1987.
Caro Comandante,
Ho appena finito di leggere ed osservare tutto il materiale, fotografie, estratto giornale, lettera del Primo Ministro ecc. da lei cortesemente inviatomi relativamente alla famigerata “Emily”. Naturalmente sono tornato con la mente alle conversazioni telefoniche con Lei avute quando mi ha informato di quanto accaduto e mi viene il dubbio che in quelle nostre conversazioni forse non sono stato capace di esprimerLe appieno il mio apprezzamento e la mia ammirazione per la capacità con cui ha saputo affrontare la pericolosa emergenza ed essere padrone della nave malgrado tutte le circostanze avverse che, in breve giro di tempo, si sono scatenate contro di Lei e la sua nave. Solo la Sua perizia e la Sua calma Le hanno consentito di manovrare in condizioni praticamente impossibili e di tener testa agli elementi. Ammirevole è stato anche il comportamento del Suo Equipaggio al quale La prego di esternare il mio apprezzamento. Lei non può immaginare quale soddisfazione sia per me il poter dire una volta di più che i Marittimi della Home Lines sono sempre i migliori di tutti.
Con i più cordiali saluti, Diego Voussolinos.
Inoltre il giornale di Bermuda la “ Royal Gazzette “ riportava un articolo da un bellissimo titolo : “ATLANTIC NEVER LOST CONTROL” dove esaltava la mia impresa e dove ringraziavo il mio bravissimo direttore di macchina Martino Gallinaro per la collaborazione ricevuta nel mantenere sempre tutti i servizi nave in efficienza durante questa dura prova. Riportava che, mentre l’isola era stata colta di sorpresa, io non mi ero lasciato sorprendere, mi ero preparato, mettendo a frutto la mia esperienza, per affrontare le intemperie. In questo articolo riportavano anche quanto io ero fiero dei miei ufficiali e del mio equipaggio per il comportamento coraggioso dimostrato in questa occasione.
In conclusione posso dire che fu veramente una brutta esperienza dalla quale venni fuori senza danni con l’aiuto di Dio. Il fatto di aver pianificato ogni cosa e cercato di prevedere il peggio mi fu senz’altro di grande aiuto in quanto tutti i miei ufficiali erano pronti all’emergenza ed erano a conoscenza del miei piani in tutti i dettagli e, quindi, sapevano come muoversi. Inoltre l’equipaggio era stato informato su come intervenire in aiuto, se fosse stato necessario, dei nostri passeggeri e soprattutto sapeva di dover agire con calma evitando di creare panico. Fu proprio la calma, che grazie a Dio, riuscii sempre a mantenere, a farmi prendere le giuste decisioni per la nave, i passeggeri e l’equipaggio.
dal Libro : "La mia vita da uomo di mare" del Com.te Mario Terenzio Palombo - Editrice Innocenti - Grosseto (4/09)
Carlo GATTI
Rapallo, 15.03.12
NATALE 2017 dedicato al SANTUARIO DELLA MADONNETTA - GENOVA
NATALE 2017
dedicato al
SANTUARIO DELLA MADONNETTA - GENOVA
IL PRESEPE
Se volete vedere Genova antica visitate i presepi!
Era il 1220 quando Francesco d’Assisi di ritorno dalla Palestina pensò di riprodurre “tridimensionalmente” la scena della natività. Il santo chiese e ottenne l’autorizzazione dal Papa Onorio III e nel 1223 a Greccio diede vita al primo presepe.
La tradizione religiosa presepiale ebbe subito un grande successo e si diffuse per tutta l’Italia dove trovò a Napoli, Bologna e Genova benemeriti artisti che produssero opere tanto preziose che oggi rappresentano un patrimonio artistico fondamentale per il nostro Paese.
Nel 1932 Il sociologo francese Henry Haubert scrisse che “il presepe è il trionfo dei genovesi”. Dal XVI secolo al XIX secolo Genova, insieme a Napoli, rappresentarono le aree in cui si espresse il più alto grado di ingegno nella produzione delle statuine e delle coreografie per i numerosi significati, non solo evangelici, ma anche sociali e comportamentali.
Ogni famiglia nobile, ogni chiesa o pieve che fosse, nel periodo dell’Avvento e del Natale erano invitati a visitare reciprocamente i PRESEPI per raccogliersi in preghiera.
Oggi queste opere miniaturizzate: sculture e statuine in legno intagliate a mano rappresentano la devozione in primis, ma anche una scenografia a volte anche precisa della vita di quei tempi. Si tratta di un’opera didascalica e descrittiva che abbraccia le mode dei vestiti dell’epoca che rispecchiano i diversi strati sociali, come del resto le professioni ed i mestieri ormai dimenticati che all’epoca rappresentavano i veri personaggi intorno ai quali ruotavano le città ed i paesi.
Tutti: nobili e popolani dovevano essere rappresentati per godere della Grazia della “Buona Novella”.
Il santuario di N.S. Assunta di Carbonara è conosciuto come Santuario della Madonnetta
Il Santuario della Madonnetta è una chiesa della città di Genova. Sorge nel quartiere di Castelletto sulla collina di Carbonara, uno sperone alle pendici del Monte Righi, al culmine della creuza che dalla chiesa prende il nome, in una posizione panoramica che domina da 95 metri di altitudine il centro della città, il porto e i monti alle spalle.
I marinai genovesi che arrivano da lontano, prima vedono la LANTERNA per sentirsi a casa poi, con il binocolo, cercano la MADONNETTA nell'anfiteatro che domina il porto per sentirsi in comunione con lo spirito della città!
- Anno 1732 - Il sagrato in pietre bianche e nere (Riseu). Così ci appare l’opera ottagonale in stile rococò, realizzata in un cortile esterno cintato da muri. I sassi sembrano sottomessi alla volontà del pittore come inchiostro sulla carta.
Il santuario della Madonnetta, così denominato per via delle ridotte dimensioni dell'immagine di alabastro (proveniente dalla Sicilia) che vi si venera, fu voluto dalla stessa MADONNA che ne ha ispirato la costruzione al Ven. P. Carlo Giacinto, al secolo Carlo Sanguineti, Agostiniano Scalzo. Si tratta di un simulacro affine alla Madonna di Trapani.
La costruzione del Santuario cominciò sul finire del 1695 e terminò nel 1697 secondo il progetto elaborato da Anton M. Ricca, divenuto religioso agostiniano scalzo. In quindici mesi fu aperto al culto: qui le autorità genovesi giungevano ogni trent'anni per consegnare le chiavi della città. Il Santuario custodisce circa 25.000 reliquie e numerosi tesori d'arte tra cui il Presepe settecentesco opera di autori come il Maragliano, Bissone e Gaggini. La festa titolare è il 15 agosto di ogni anno.
L'interno della chiesa, a navata unica, davvero suggestivo, è a pianta ottagonale irregolare che ricorda il sagrato che abbiamo appena visto.
Sia a destra che a sinistra dell'ingresso si aprono tre cappelle per ogni lato dell'ottagono, ma quella centrale di ogni gruppo è più ampia delle altre, fatto che dà alla chiesa una forma vagamente ovale. Ogni cappella ospita un altare (tutti di Carlo De Marchi, 1737) ed un'opera pittorica. Chiude l'ottagono della pianta un gruppo di tre scalinate: le due laterali salgono verso la zona decisamente sopraelevata del presbiterio con l’altare maggiore e il coro, mentre quella centrale scende verso lo SCUROLO (Cripta)–(termine lombardo di origine popolare che indica un ambiente sotterraneo, spesso localizzato al di sotto della zona presbiterale, con la volta sorretta da colonne. Si tratta di un modello architettonico che si ispira direttamente a quello delle cripte romaniche, le quali già nel medioevo, avevano la particolare funzione di conservare le reliquie o venerate immagini sacre).
Il pavimento della chiesa fu disegnato a raggiera nel 1750 dall’artista genovese Francesco Schiaffino (Ge-1689/Ge-1765); al centro un'apertura consente di vedere in basso i sottostanti locali della cripta e del presepe e in alto la cupola ellittica.
La composizione architettonica, in linea con il gusto tipico del Barocco, spinge lo sguardo verso il presbiterio nel quale è esposto un bel Crocifisso ligneo del tardo XVIII secolo (attribuito al Cambiagio) sopra l’altare in marmi policromi di stile barocco, opera di D. Stella (1715). In una nicchia sul cornicione dell'altare è posta una Madonna di Domenico Bissoni (fine XVI sec.); i simboli mariani sono presenti anche nel retrostante coro ligneo, di autore ignoto.
Le pareti sono interamente ricoperte di marmi; sulla destra una porta conduce ad una piccola cripta funeraria.
· . Prima cappella a destra: La Madonna della cintura e i Santi Agostiniani, di Bartolomeo Guidobono;
· . Seconda cappella a destra: altare dedicato a san Giacomo; quadro Gesù e la madre di San Giacomo e San Giovanni, di Giovanni Battista Paggi, del 1620, proveniente da un oratorio distrutto nella zona di Genova Prè; statua lignea ottocentesca Madonna col Bambino benedicente di Stefano Valle;
· . Terza cappella a destra: L' Annunciazione, tela di Giuseppe Galeotti, 1738;
· . Prima cappella sul lato sinistro: L'Immacolata attribuita a Bartolomeo Guidobono;
· . Seconda cappella a sinistra: Il Crocifisso con la Vergine, San Giovanni e la Maddalena di Giovanni Raffaele Badaracco. Questo dipinto fu donato al santuario nel 1735;
· . Terza cappella a sinistra: Vergine dell'aspettazione del parto, di dubbia attribuzione a Bartolomeo Guidobono.
Il Santuario della Madonnetta, edificato in soli quindici mesi, è una delle più originali e armoniose architetture del barocco ligure. Fa parte della Parrocchia di San Nicola da Tolentino, Vicariato di Castelletto, dell’arcidiocesi di Genova.
“Gli annali del santuario tramandano una promessa della Vergine al fondatore del santuario della Madonnetta - racconta padre Eugenio Cavallari, agostiniano scalzo - fu LEI stessa a chiedere che fosse costruita questa chiesa e a descriverla fin nei minimi particolari. E, quando il 15 agosto 1696 fu consacrata, promise che sarebbe stata fisicamente presente ogni anno, nel giorno dell’Assunta a partire dalle 5 del mattino, da allora fino alla fine del mondo”.
Il fondatore del santuario si chiamava padre Carlo Giacinto Sanguineti dell’ordine degli agostiniani scalzi, un veggente che raccontò di aver avuto dalla Madonna le indicazioni per la costruzione dell’edificio a mezza costa fra Castelletto e il Righi. Per la chiesa è “venerabile” (primo passo sulla strada della beatificazione) e le apparizioni delle quali ha lasciato memoria sarebbero storia e non leggenda: per secoli i frati genovesi hanno, quindi, perpetuato all’interno della loro congregazione religiosa il ricordo di quella promessa.
“Un tempo questo era il santuario ufficiale della Repubblica di Genova - riprende padre Eugenio - e qui veniva rinnovato ogni anno il voto di consacrazione alla Madonna Regina della città, alla presenza di quattro senatori in rappresentanza del Doge”. L’evento, che veniva celebrato la domenica successiva al Ferragosto, era salutato con 21 salve di cannoni sparate dalla batteria del Molo.
Padre Carlo Giacinto aveva una profondissima devozione a Maria che gli ispirò ben presto e vivamente il desiderio di realizzare la costruzione di un Santuario alla Vergine, che dominasse tutta la città.
Lo scurolo è il cuore del Santuario: come la chiesa, ha una pianta ottagonale ed è sormontato da una volta a padiglione, affrescata da Bartolomeo Guidobono negli anni a cavallo fra il XVII e il XVIII secolo con una "Incoronazione della Vergine"; ospita un altare disegnato da Francesco Quadro, arricchito da interventi del Gaggini e portato alla forma attuale nel 1798 da Francesco Schiaffino, che vi pose un tabernacolo intagliato in pietre rare. Sopra l'altare, coronato da quatto colonne di alabastro a tortiglione, si erge la statua della Madonnetta donata al venerabile padre Carlo Giacinto.
Disseminati sulle pareti sia della chiesa che dello scurolo si possono vedere numerosi medaglioni dorati di gusto barocco (opera di Nicolò Pantano, 1715, e di Gaetano Torre, 1757) arricchiti nel XIX secolo da stucchi del Lavarello, nei quali sono conservate migliaia di reliquie provenienti dalle catacombe romane.
Volta dello SCUROLO
PRESBITERIO
Sotto al presbiterio si trova lo Scurolo (Cripta), al quale si scende per mezzo di un ampio scalone di marmo; l'accesso è sovrastato da un cartiglio che reca scritto Convertit rupem in fontes aquarum (LT) traduzione:
ha trasformato la rupe in fonti d’acqua, citazione dal Salmo 114.
Padre Giacinto era direttore spirituale della famiglia Moneglia, in particolare di Eugenia Balbi Moneglia, che nella propria cappella privata aveva fatto collocare una preziosa statua della Madonna col Bambino in alabastro, famosa per aver protetto una navigazione pericolosa: questa statua, alla morte di Eugenia nel 1689, fu donata dalla figlia Isabella al Padre Carlo Giacinto, che la pose nella cappelletta di San Giacomo.
Il luogo divenne meta di pellegrinaggio spontaneo dei fedeli che vi si recavano per rendere omaggio alla sacra immagine, da tutti chiamata la Madonnetta.
Tuttavia il dono della statua fu per il venerabile un segno della ispirazione di Maria e il 4 maggio 1695 finalmente iniziò l'opera di cui Giacinto aveva ricevuto la visione.
Il 15 agosto dell'anno successivo 1696 la costruzione era già terminata: la statua della Madonnetta fu posta nello scurolo sotto l’altare maggiore e la comunità festeggiò l’Assunta nel nuovo Santuario. Nello stesso giorno, nella Cattedrale di San Lorenzo la città di Genova, in seguito a decreto del Senato della Repubblica sollecitato dal Padre Carlo Giacinto, offriva le proprie insegne a Maria Santissima e la Madonnetta divenne il Santuario ufficiale della Repubblica Genovese.
L'architetto che ne aveva curato la realizzazione, l'imperiese Antonio Maria Ricca, a compenso dell'opera chiese ed ottenne l'ammissione all’Ordine di Sant’Agostino, dove fu accolto dal venerabile Carlo Giacinto col nome di Padre Marino.
Il Santuario della Madonnetta, oltre che luogo di pellegrinaggio e di devozione per i genovesi, è stato sito di fondazione o di stretto legame con molte congregazioni religiose della città: le Terziarie Scalze Agostiniane Scalze, le suore Battistine, le suore di Santa Dorotea della Frassinetti, i Figli dell’Immacolata, le Figlie dei SS. Cuori; alla Madonnetta il 30 settembre 1873 è stato anche fondato il quotidiano cattolico IL CITTADINO.
Illustri personaggi sono seppelliti nel Santuario: il venerabile padre Carlo Giacinto, fondatore, inumato nel 1721; il contrammiraglio Francesco Sivori (1771-1830); Girolamo Serra, marchese, politico e storico, autore di importanti opere tra cui una Storia dell'antica Liguria e di Genova; Luigi Tommaso Belgrano, uno dei principali studiosi della storia di Genova; Giorgio Des Geneys, ammiraglio e generale; Ambrogio Multedo, abate e scienziato, rappresentante dell'Italia a Parigi al congresso internazionale per l'adozione del sistema metrico decimale.
Sotto la chiesa una cripta conserva una assai pregevole Pietà lignea di Anton Maria Maragliano (1733).
Un lato del Santuario è occupato dal portone, e sopra di esso dall'organo recentemente restaurato. Lo strumento fu costruito in due tempi: il Grand’Organo da Lorenzo Roccatagliata (S. Margherita Ligure - 1733), l’Organo Positivo da Carlo Giuliani (Genova, 1844). Gli interventi solo parziali nel corso degli anni hanno consentito che esso mantenesse la sua struttura originale. La cassa di prospetto proviene dal convento degli agostiniani scalzi di Albisola Superiore, mentre la cantoria è stata costruita appositamente dall’intagliatore De Negri: ambedue sono riccamente scolpite e indorate.
PRESEPE
Nel Santuario si possono visitare il Presepio permanente (aperto tutto l'anno) che é una delle più interessanti testimonianze della tradizione genovese del presepe. Fu composto nel primo XVIII secolo, poco dopo la costruzione del Santuario, e veniva formato ogni anno per il tempo di Natale sull’altare della cappella dell’Immacolata (la prima a sinistra entrando), ponendo le statuine su un fondale dipinto. Successivamente si trovò una collocazione più adatta al piano sotterraneo, dietro la cripta; nel XX secolo il presepe venne inserito in una scenografia che ricostruisce luoghi e monumenti genovesi, realizzata da Roberto Tagliati ed inaugurata il 24-25 settembre 1977.
Le statuine, in origine quasi 120, oggi sono ridotte a circa 80, di pregiata fattura artigianale, provennero dalle due botteghe dei più rinomati artisti genovesi del tempo: Anton Maria Maragliano e i Gaggini di Bissone.
Alte circa 70 centimetri, riproducono i costumi della Genova settecentesca e raffigurano sia persone del popolino intente ad adempiere alle mansioni quotidiane e ai vari mestieri sia nobili a passeggio.
La loro fattura è di due tipi:
· il gruppo della Natività con i pastori è interamente scolpito in legno e ritenuto opera del Gaggini;
· le altre, della bottega del Maragliano, sono snodabili, in legno ma rifinite con altri materiali, come la terracotta per le mani e la testa, stoffe anche preziose per gli abiti, coralli e filigrana d'argento per i gioielli.
L'insieme, che occupa un'area di un centinaio circa di metri quadri, è suddiviso in cinque scene: idealmente da sinistra si entra in città dalla campagna nella valle del fiume Bisagno, per arrivare al centro storico di Genova, e risalire le alture fino al Santuario della Madonnetta e alla stalla della Natività; nella parte destra l’ultima scena è ambientata a Betlemme, dove da Gerusalemme giungono i Magi.
L'interesse oltre che per la fattura delle sculture risiede anche nella cura dei particolari e nella caratterizzazione delle figurine.
ALBUM FOTOGRAFICO DEL PRESEPE
FIGURE E PANORAMI
La figura centrale dell'immagine rappresenta un marinaio che ha perso una gamba a bordo della sua nave. Non può più navigare ed é costretto a mendicare.
PRIMI PIANI DI FIGURE DEL PRESEPIO
Sullo sfondo la Cattedrale e Porta dei Vacca
Due marinai con il SUDOVEST
Curioso il banchetto a tre piani dove si vendono statuette per il presepio
La Natività
I Magi
CARLO GATTI
Rapallo, 12 Dicembre 2017
ICEBERG, un pericolo sotto controllo?
ICEBERG
Un pericolo sotto controllo?
Perché si vede l’ICEBERG? - Poiché la densità del ghiaccio puro è di circa 920 Kg/m3 e la densità dell'acqua è di circa 1025 kh/m3, il primo galleggia e circa il 90% del volume di un iceberg rimane sotto la superficie marina.
Un iceberg è una massa più o meno grande di ghiaccio che si stacca da un ghiacciaio e si muove “galleggiante” alla deriva nel mare. Il nome iceberg deriva dalle lingue nordiche isberg-ijsberg- isbjerg, Eisberg che significa montagna (berg) dighiaccio (ijs).
È difficile quantificare le dimensioni della parte subacquea dalla sola osservazione della parte emersa, da qui la dizione: punta dell'iceberg per indicare un problema di cui si conosce solo una piccola parte. Gli iceberg hanno dimensioni che vanno normalmente da 1 a 75 m sopra il livello del mare e pesano da 100.000 a 200.000 tonnellate .
I RECORDS
Il più grande iceberg mai visto nell'Atlantico settentrionale si ergeva di 168 m sopra il livello del mare, quanto un edificio di 55 piani. Nonostante le loro dimensioni, gli iceberg dell’isola di Terranova si muovono in media di 17 km al giorno. Essi hanno origine dai ghiacciai occidentali della Groenlandia e possono raggiungere temperature interne dai -15 ai -20 °C.
Nell'Antartico, il più grande iceberg mai registrato è stato il B-15, staccatosi dalla Barriera di Ross: fotografato dal satellite nel 2000, era lungo 295 km e largo 37 km, con una superficie di 11.000 km² e con una massa stimata di circa 3 miliardi di tonnellate.
Quando un iceberg si scioglie, produce un suono spumeggiante denominato Bergie Seltzer: esso è dovuto alla liberazione delle bolle di aria compressa rimaste intrappolate negli strati di ghiaccio dell'iceberg.
MONITORAGGIO
La tragedia del TITANIC, avvenuta il 15 aprile del 1912, che provocò la morte di circa 1.500 dei suoi 2.223 passeggeri, diede una forte spinta all'istituzione di organismi di sorveglianza degli iceberg, infatti, prima d’allora non esistevano sistemi di monitoraggio degli iceberg che mettessero in guardia le navi sul pericolo di possibili collisioni. La svolta si ebbe con la Conferenza Internazionale sulla Sicurezza in Mare del novembre 1913, tenutasi a Londra, nella quale fu decisa la nascita di un ente di osservazione permanente degli iceberg che nacque nel giro di tre mesi. La International Ice Patrol (IIP) ebbe il compito di raccogliere dati meteorologici e oceanografici nell'Atlantico settentrionale, misurandone le correnti, i flussi di ghiaccio, la temperatura e i livelli di salinità. Nel XX Secolo molti altri enti scientifici sono stati istituiti per studiare e monitorare gli iceberg tra cui il NIC, National Ice Center, nato nel 1955, il quale fornisce analisi e previsioni sulle condizioni del ghiaccio dell'Artico e dell'Antartico . Oltre il 95% dei dati utilizzati nell’analisi del ghiaccio marino provengono da “sensori satellitari” che orbitano sui poli e che sorvegliano queste aree solitarie della .
Il NIC è l'ente che assegna i nomi agli iceberg antartici: a ciascun iceberg che supera i 18 km lungo uno dei suoi assi viene dato un nome composto da una lettera che denota il punto di origine e da un numero progressivo. Le lettere utilizzate sono:
• A – Longitudine 0° - 90° W (Mare di Bellinghouse, Mare di Weddell)
• B – longitudine 90° W - 180° (Mare di Amundsen, Mare di Ross a est)
• C – longitudine 90° E - 180° (Mare di Ross a ovest, Terra di Wilkes)
• D – longitudine 0° - 90° E (Piattaforma di ghiaccio Amery, Mare di Weddel a est)
L'Iceberg B-15, staccatosi dalla Barriera di Ross nel 2000 e con un’area iniziale di 11.000 km², è stato quello più grande mai registrato. Si spaccò nel novembre del 2002: il pezzo più grande, il B-15A, con un’area di 3.000 km², continuava ad essere, nel dicembre del 2004, l’iceberg più grande sulla Terra . A fine ottobre 2005, il B-15A si divise in nove parti in seguito a ripetute collisioni con la costa. Oltre ad essere stato un pericolo diretto per la navigazione, il B-15A minacciò di creare ulteriori iceberg, scontrandosi con alcune piattaforme di ghiaccio.
Infine è falso che lo scioglimento degli iceberg crei un incremento del livello dei mari: infatti sciogliendosi un iceberg l'acqua che ne risulta è il 90% del volume di partenza, cioè occupa meno volume dell'iceberg originario (per la spinta di Archimede) tale volume di ghiaccio immerso si traduceva come aumento di volume dell'acqua marina). Contando che la punta di un iceberg è il 10% della parte immersa si ottiene che lo scioglimento di un iceberg in mare produca acqua per un volume pari alla sola parte immersa. L'innalzamento del livello dei mari è invece determinato dallo scioglimento del ghiaccio che riposa sulla terraferma, come quello delle calotte in Groenlandia o in Antardide .
ALBUM FOTOGRAFICO di
PINO SORIO
A cura del webmaster Carlo GATTI
Album Fotografico di Pino SORIO
Rapallo, 2 Luglio 2015
LUSITANIA, affondava 100 anni fa.
Cento Anni fa
AFFONDAVA IL LUSITANIA
E L'AMERICA ENTRO' NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
Il 7 maggio del 1915, l'U-boot U-20 tedesco affondò il transatlantico inglese RMS Lusitania (Cunard Line) presso la costa irlandese. Delle 1.195 vittime, 123 erano civili americani. Nessuna tragedia dei mari e nessun episodio di guerra navale ebbero mai una risonanza e delle conseguenze mondiali per l’intera umanità. Intorno alla fine di questo transatlantico, enorme e lussuoso, chiamato "il levriere dei mari", divamparono le polemiche e si addensarono i misteri. Questo evento fece rivolgere l'opinione pubblica americana contro la Germania, e fu uno dei fattori principali dell'entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco degli alleati durante la Grande Guerra, intervento che fu decisivo per la sconfitta della Germania.
L’avviso premonitore che non fu ascoltato...
Nel 1915 la Germania aveva disposto un blocco navale attorno alle coste del paese nemico: la Gran Bretagna. Gli Stati Uniti, all'epoca, erano neutrali e mentre il Lusitania era ormeggiato nel porto di New York, nell’attesa di partire per l’ultimo viaggio, l'ambasciata tedesca fece pubblicare il seguente avviso sulla stampa statunitense:
«Ai viaggiatori che intendono intraprendere la traversata atlantica si ricorda che tra la Germania e la Gran Bretagna esiste uno Stato di guerra. Si ricorda che la zona di guerra comprende le acque adiacenti alla Gran Bretagna e che, in conformità di un preavviso formale da parte del Governo Tedesco, le imbarcazioni battenti la bandiera della Gran Bretagna o di uno qualsiasi dei suoi alleati sono passabili di distruzione una volta entrati in quelle stesse acque.»
Rimase celebre la risposta del Comandante Turner: “Questa é la più bella battuta che abbia sentito da anni”.
Alle 12,30 del mattino del 1° maggio 1915, il transatlantico Lusitania, orgoglio della marina civile inglese, lasciò il Pier 54 di New York con a bordo milletrecento passeggeri, di cui centocinquantanove americani che, si disse allora, fossero una “garanzia” contro un attacco tedesco. Nulla di più erroneo.
Mentre la Lusitania salpava per l’Inghilterra, il sottomarino U-20 lasciava la base in Germania per la sua più celebre missione. Le due rotte erano destinate ad incontrarsi.
Soltanto un sottomarino doveva colpire il bersaglio, benché gli ordini diramati dalla Kriegsmarine prevedevano la presenza di numerosi U-Boot in agguato in prossimità dei porti britannici e lungo le rotte più battute dell’Atlantico e del Mare del Nord.
Un certo numero di mercantili britannici erano già stati affondati dagli U-Boot, tuttavia, l’annuncio germanico apparso sulla stampa non produsse particolare effetto. Era diffusa la convinzione che nessuna nazione civile avrebbe agito piratescamente contro una nave di linea e che, soprattutto, la Germania non avrebbe corso il rischio di provocare l’intervento in guerra degli Stati Uniti.
Il Comandante inglese Turner
Con questi ottimistici pensieri i passeggeri americani e inglesi, sfidando il destino della nave, mantennero le loro prenotazioni e partirono per l’Inghilterra. Pur non viaggiando alla massima velocità di crociera, il transatlantico si avvicinò rapidamente alle acque europee con calma piatta. All’alba del 7 maggio il comandante Turner del Lusitania, pur sentendo il profumo di casa, era molto teso, ma anche deluso dall’assenza di navi militari di sua Maestà durante l’atterraggio verso l’Europa, come gli era stato promesso alla partenza. I sottomarini tedeschi operativi in quel settore, tra cui l’U-20, conoscevano esattamente la rotta del Lusitania, ma ci fu un imprevisto: giunto in prossimità della costa alle 11 del mattino, la nave incappò in un banco di nebbia che la costrinse a diminuire la velocità a 18 nodi, ma anche a farsi scudo dalle insidie del nemico. A dire il vero, l’Ammiragliato Inglese non si fece vivo con le navi militari di copertura promesse, ma lo fece con un messaggio crittografico con cui si rendeva nota la presenza nella zona di un sottomarino tedesco. Poche ore dopo un altro messaggio raggiunse il Capitano segnalando nuovamente la presenza di un sottomarino. Cap. Turner ritenne di essere ancora lontano dalla zona di agguato dell’U-Boot e, superato l’Hold Head of Kinsale, si preparò a raggiungere rapidamente Liverpool senza prendere particolari precauzioni.
Nello stesso tempo, il comandante del sottomarino tedesco U-20 Walther Schwieger, in agguato proprio nella zona del Kinsale (Mare Celtico), avvistò una nave che procedeva alla velocità di 22 nodi, aveva quattro fumaioli e non poteva che essere il Lusitania, indicata nell’annuario navale come mercantile armato. L’U-Boot modificò la propria rotta per intercettare la nave ed attaccarla.
Alle 14,10 di venerdì 7 maggio 1915, un siluro lanciato dall’U-Boot 20 colpì senza preavviso il Lusitania e quasi subito si udirono due forti esplosioni in successione. Il transatlantico sbandò sulla dritta ingavonandosi di prora. Con questo assetto innaturale e precario proseguì la sua corsa per un breve tratto con le macchine ancora in moto. L’equipaggio, malgrado la confusione provocata dal terrore e dalla disperazione dei passeggeri presenti a bordo, lanciò l’S.O.S e fece il possibile per ammainare le scialuppe di salvataggio ma, nel corso della difficile operazione, parte di queste si capovolsero. Dopo circa 18 minuti il Lusitania s’inabissò di prora.
La poppa del transatlantico emerse per qualche istante sopra il livello del mare, quindi scomparve in un gorgo immenso nel quale, fra rottami e cadaveri, si dibatteva qualche sventurato.
462 passeggeri e 302 marinai furono i superstiti, per un totale di 764 rimasti miracolosamente sulle scialuppe, mentre le vittime inermi ed innocenti del disastro furono 1200. Tra i 123 cittadini americani deceduti, perse la vita il famoso filantropico Alfredo Vanderbilt affogato dopo aver cercato di trarre in salvo molti bambini presenti a bordo. Le operazioni di salvataggio e di recupero dei superstiti iniziarono con l’invio di navi da guerra e civili non appena la richiesta di soccorso del Lusitania fu ricevuta dall’Ammiragliato. Nella giornata successiva un altro gruppo di unità navali fu inviato per il ritrovamento ed il successivo trasporto a terra delle salme dei deceduti. L’U-20 riuscì a rientrare alla sua base senza aver subito danni. Il comandante dell’U-Boot tedesco Walther von Schwieger racconto: “Il bastimento stava affondando con velocità incredibile. Il terrore regnava in coperta. Le imbarcazioni gremite, quasi strappate dalle loro gruette, piombavano in mare... Uomini e donne saltavano nell' acqua e cercavano di raggiungere a nuoto le imbarcazioni capovolte... Non potevo prestare nessun aiuto. Tutt' al più avrei potuto salvare una dozzina di tutta quella gente... Quella vista era troppo atroce: ordinai che ci immergessimo e ce ne andammo via”. Quelle rivelazioni sulle colpe tedesche squalificarono Berlino agli occhi del mondo.
Alle attività di soccorso seguì un’inchiesta per accertare la dinamica dell’affondamento nonché eventuali responsabilità del capitano Turner, sopravvissuto e salvato dopo aver passato più di tre ore in acqua. Secondo la successiva versione dell’ammiragliato britannico, il Lusitania sarebbe stato colpito a 14 miglia al largo della costa irlandese da due siluri. Molti testimoni confermarono la duplicità delle esplosioni, ma dalla lettura del diario di bordo dell’U-20, considerato attendibile e non contraffatto, emerse che il siluro lanciato fu uno solo. Secondo alcune ipotesi, la seconda deflagrazione che provocò come diretta conseguenza il rapido inabissamento del piroscafo fu dovuta allo scoppio successivo e quasi contemporaneo di circa 5.000 proiettili di artiglieria immagazzinati di contrabbando nelle stive della nave.
L’annuncio della perdita del Lusitania giunto sia a Londra sia a New York, produsse orrore, cordoglio ed indignazione impegnando con le notizie del disastro le prime pagine dei giornali. Accuse durissime furono lanciate dall’opinione pubblica contro la Germania per il fatto di aver affondato senza alcun preavviso una nave civile totalmente indifesa e per essere conseguentemente responsabile di una condotta bellica barbara e senza scrupoli umanitari.
La Germania, malgrado le critiche ed il biasimo internazionale, celebrò invece l’avvenimento come una grande vittoria. “La notizia – scrisse la Kolnische Zeitung – sarà appresa dal popolo tedesco con unanime soddisfazione, giacché dimostra all’Inghilterra ed al mondo intero che la Germania é decisa a fare la guerra sottomarina sul serio”. La Kolnische Volkszeitung – giornale cattolico e nazionalista molto diffuso commentò il fatto scrivendo: “Con orgogliosa gioia ammiriamo questa gesta della nostra Marina e non sarà l’ultima”. Furono aperte sottoscrizioni per premiare l’eroico equipaggio e coniata una medaglia commemorativa per ricordare ai posteri l’affondamento del transatlantico.
Indipendentemente dai risultati delle inchieste, dato il coinvolgimento di entrambi i paesi estensori delle conclusioni che ne derivarono, sulla realtà oggettiva dell’accaduto continuarono a permanere dubbi. Si accesero polemiche mentre furono formulate accuse contro l’Ammiragliato britannico giudicato responsabile del mancato invio di navi di scorta al Lusitania almeno nel tratto di mare considerato zona di guerra e nel quale si trovavano, come peraltro noto all’Ammiragliato stesso, U-Boot in attività.
In seguito all'attacco, tuttavia, gli Stati Uniti non entrarono subito in guerra, ma chiesero in maniera decisa la fine degli attacchi U-Boot nell'Atlantico; richiesta alla quale la Germania acconsentì non senza proteste. Dopo alcuni mesi di guerra la Germania - ormai sull'orlo della rovina - riprese gli assalti condotti con sottomarini alle navi in transito nell'Atlantico nel tentativo di ridurre i rifornimenti degli Alleati; ciò pose fine alla neutralità degli Stati Uniti.
Non molti anni fa, un gruppo di sommozzatori ispezionò il relitto del Lusitania e dichiarò: “.... si ritiene che nella stiva del Lusitania giacciano circa quattro milioni di proiettili Remington 303 fabbricati negli Stati Uniti, a una profondità di circa 100 metri”.
Il mondo é passato nel duplice guado di due guerre mondiali, ma il caso LUSITANIA continua a far parlare dei suoi irrisolti misteri.
Carlo GATTI
Rapallo, 4 Maggio 2015
MARIETTO ed il suo rimorchiatore d'altura Casteldoria
MARIETTO DI BARTOLOMEO
ed il rimorchiatore Casteldoria
Il m/r Casteldoria
Una buona macchina della sua epoca
Gli armatori di allora lo avevano programmato e realizzato per farne un “uso allargato” e per questo motivo la “barca” aveva uno shape più elegante e navigabile di quei “mastini portuali” che avevano la prora bassa, rincagnata e richiamavano alla memoria la virilità dei gladiatori romani. Sul suo unico albero svettava l’antenna del radar che gli conferiva un portamento nobile e suscitava una certa invidia tra le altre barcacce del porto che erano destinate allo stesso impiego.
Tuttavia, il suo compito principale era pur sempre il “servizio portuale” che era alle prese, in quegli anni di boom economico, con il gigantismo crescente delle petroliere e dei primi containers transoceanici, ragion per cui, i suoi 1.535 cavalli di razza erano sempre molto richiesti sulle tre imboccature del porto di Genova.
Ma la Società aveva da difendere “Il suo Marchio RR” anche nel settore dell’Altura a corto e medio raggio e certamente non era disposta a lasciarsi scappare i vecchi clienti e qualche “nolo buono” da mettere nella “cantia”. Il Casteldoria nacque così nel 1961 per soddisfare questa doppia esigenza economica e operativa.
In realtà, fuori dell’ambiente di Ponte Parodi, pochi erano in grado di distinguere le diversità tra le due attività di rimorchio: portuale ed alturiera che, in qualche modo, pur partendo da una radice comune, erano ben presto destinate a dissociarsi al traverso del fanale rosso del porto, per seguire rotte ben distinte e caratterizzate da responsabilità oggettive ed esperienze tecniche complementari, ma differenti.
In porto occorreva imparare una tecnica per la verità molto complessa, che si affinava in molti anni di gavetta e si realizzava di pari grado con la personalità, il coraggio ed il senso marinaro del suo comandante che agiva per mezzo del timone e di un potentissimo motore, ma che interagiva con un “suo” equipaggio motivato, addestrato e direi personalizzato. L’intelligenza complessiva dell’equipaggio doveva poi adattarsi alle caratteristiche della nave da rimorchiare in porto, al suo personale, alle condizioni meteo e soprattutto al pilota portuale che, con un suo metodo originale, dirigeva la manovra accanto al comandante della nave.
“Saper navigare” costituiva invece il presupposto del rimorchio d’altura. In mare aperto, il Casteldoria ed il suo equipaggio cessavano di essere un “servizio portuale” retribuito dalla nave in manovra e diventavano una “unità indipendente”, un piccolo e poderoso scafo che però si allungava con quasi 300 metri di cavo e terminava sul dritto di poppa dell’unità trainata. Il rimorchiatore era soltanto la testa del convoglio che esercitava il comando su quasi 500 metri di spazio “nazionale”. Il Casteldoria, steso tutto il suo cavo, diventava improvvisamente la nave più lunga del mondo ed il suo esiguo equipaggio aveva il compito di controllare una superficie di mare che durante i piovaschi invernali, le mareggiate e le nebbie adriatiche diventava impervia, infinita, difficile da gestire per l’occhio e l’orecchio umano che erano ancora sprovvisto, a quell’epoca, di moderni strumenti ed “aiuti” alla navigazione.
Il comandante del Casteldoria cessava così di prendere ordini dall’alto e diventava autonomo nelle sue decisioni e responsabilità. Proprio su questo punto fondamentale del Codice della Navigazione si dividevano quindi le due principali attività di rimorchio.
“In mare non ci sono taverne!”
Con questa pittoresca sentenza, i marinai di una volta usavano sottintendere il concetto di pericolosità delle furie del mare in burrasca e le difficoltà di trovare un ridosso nell’attesa di un cambiamento favorevole del tempo. Ma questo monito sembrava ancor meglio “appiccicarsi” alla realtà di un rimorchio d’altura che poteva navigare solo in alti fondali, lontano dalla costa, a causa dell’immersione (pescaggio) di circa 20-30 metri che disegnava l’arco (catenaria), del suo cavo filato fuoribordo.
In inverno le burrasche erano di gran lunga più veloci dei “rimorchi” d’altura che annaspavano a 5/ 6 nodi, senza alcuna possibilità di fuga su rotte alternative. Il risultato era sempre lo stesso: lunghe notti alla cappa (con la prora al mare), “ballando con i lupi”, piegati su se stessi, nell’attesa che il vento girasse a tramontana per poi controllare i danni e riprendere la rotta.
Era importante per un comandante d’altura, che non poteva “scappare” da una depressione, capire i segnali del tempo, intuire la verità tra le righe dei bollettini meteo e capire poi con l’esperienza, quali erano i bollettini affidabili, quelli meno e quelli addirittura pericolosi. Ma era ancora più difficile decidere di “mollarsi” dal porto o dal ridosso quando il meteo non dava alcuna certezza e i Ricevitori, qualche volta, premevano per esigenze legate ai loro programmi operativi.
Ricordo di un Rimorchio in Mediterraneo
Spero che gli amici barcaccianti abbiano già perdonato la lunghezza di questo cappello introduttivo teso, nelle nostre intenzioni, soltanto a proiettare alcuni sprazzi di luce su un mondo che troppo a lungo è stato occultato in una nicchia, che molte volte è stata scambiata e confusa con altre realtà marinare e che, ancora oggi, sfugge quasi sempre alle giuste interpretazioni.
Il motivo di tanto silenzio sta nella ritrosia dell’uomo di mare che rifugge dalle operazioni di marketing terrestre e - dialoga solo con il mare - come sosteneva il celebre scrittore di mare Vittorio G. Rossi.
Questa “piccola” storia di un viaggio del Casteldoria non è altro che l’occasione per ricordare il comandante Marietto Di Bartolomeo che ci ha lasciato in questi giorni. Il suo amico e compagno di bordo per oltre vent’anni, il direttore di macchina Osvaldo “consumi” Schiano di Porto S. Stefano, mi ha chiamato al telefono e con un comprensibile magone alla gola mi ha raccontato un episodio, uno fra i tanti vissuti accanto al “suo” comandante sicuramente, per essergli ancora un po’ vicino, su quel ponte angusto del Casteldoria dove le decisioni, le gioie e le sofferenze legavano le persone ben oltre i normali rapporti di lavoro.
Un Pontone della Soc. MICOPERI al Traino del M/r CASTELDORIA
VIAGGIO MARS EL BREGA-CAGLIARI- e rientro a GENOVA
Dal 14 al 23 dicembre 1970
Osvaldo racconta:
“Per quattro giorni consecutivi, dalla partenza da Mars El Brega (Libia), la navigazione era stata regolare e veloce fino all’alba del 18.12, quando il primo bollettino meteo delle 06.25 ci fornì un preoccupante Avviso di Burrasca forza 7 sul Canale di Sardegna, quindi sulla parte finale del nostro viaggio da compiersi in mare aperto.
Il comandante Marietto Di Bartolomeo, serio e scrupoloso come sempre, ci chiamò sul ponte e illustrò il bollettino del tempo, sentì le nostre opinioni e poi decise di rallentare l’andatura per portarsi a ridosso di Capo Mustafà (Tunisia) situato ad una ventina di miglia a ponente di Capo Bon. L’intenzione era quella di giungervi all’alba per constatare “de visu” la situazione meteo, per poi decidere se pendolare dietro la punta o rischiare l’avventura sperando in un rallentamento o meglio in una deviazione della depressione”.
A questo punto del racconto, Osvaldo rivive la stessa tensione emotiva di quel lontano inverno del ‘70 e con la consueta verve esuberante della sua gente toscana, riprende il racconto al presente storico, ma la sua voce ogni tanto è rotta dall’emozione.
“Verso le 04, improvvisamente il beccheggio causato dal mare lungo in prora s’interrompe. Il vento leggero che sibilava al traverso si ammutolisce, il convoglio frena dolcemente fino a fermarsi. Sembra un incaglio. Ma il Casteldoria, con il cavo già abbondantemente accorciato, non è ancora sotto costa; allora è evidente che abbiamo incocciato qualcosa. Il cavo si è stirato ma ha tenuto. Sveglia generale. Tutti sul ponte di comando, per guardare la carta nautica che però è muta. In quella zona non è segnalato alcun relitto. Abituati come siamo a vedere il nemico in faccia, è davvero traumatico sentirsi aggrediti alle spalle, anzi sotto i piedi, vigliaccamente!
Marietto, grande marinaio, rimane calmo e tranquillizza l’equipaggio, smorza subito qualsiasi suggerimento avventuroso e comincia ad “assaggiare il fondale” con qualche timido strappetto teso a sganciarsi, ma è chiaro che teme di peggiorare la situazione. Prova qualche accostata da ambo i lati e poi desiste.
Marietto mi guarda e intuisce che forse il suo fedele direttore di macchina, munito di una cospicua esperienza sui pescherecci di Porto S. Stefano, potrebbe aver già conosciuto quel problema che penalizza, ogni giorno, numerosi pescherecci che sono costretti a lasciare costosi pezzi di rete a strascico, cavi e attrezzi vari sui relitti del Mare Nostrum che, com’è noto, da oltre duemila anni è teatro d’affondamenti di navi mercantile e militari di ogni razza e bandiera.
Nel suo sguardo leggo un invito a prendere la parola.
- Marietto ascolta! Una volta ci è capitato con il “Papetto II” d’incocciare un relitto, pare si trattasse di un’ala d’aereo abbattuto a sud della Capraia e so che da queste situazioni non si esce tirando a strappare… ma lavorando con il cervello, con la calma e con l’astuzia. Io, come sai, non sono un manovratore e non ho la sensibilità di sentire sulla pelle se il cavo resisterà o cederà, come invece capita a te, ma questo lavoro l’ho visto fare numerose volte.
“Dai Osvaldo, dimmi la tua!”
- Rispose con la solita ironia Marietto che aggiunse:
“Quando mi g’anavo ti ne vegnivi! (quando io ci andavo tu ne venivi!) Così recita un vecchio proverbio genovese che si tramanda da padre in figlio, e se fosse una belinata, pazienza, qui ne sento tante…!”
- Ascolta Marietto:
Molliamo il cavo di rimorchio dal gancio del Casteldoria.
Lo filiamo tutto in mare. Quando siamo liberi, passiamo di poppa al pontone e sbarchiamo due uomini.
Gli passiamo un cavo da mettere alle bitte e noi ci portiamo l’altra estremità al gancio.
Poi toccherà a te cominciare a tirare piano piano il pontone verso l’alto fondale. Con un po’ di fortuna, il cavo di rimorchio impigliato e venuto nel frattempo in bando, dovrebbe liberarsi -
“Ho capito Osvaldo!”
Risponde preoccupato Marietto.
“Con questo sistema dobbiamo però virarci ancora parecchi metri di cavo, che nel recupero potrebbe incocciare altri punti del relitto. L’idea mi sembra buona, ma ho l’impressione che per risolvere il problema, ci vorrà molta fortuna….!”
- Purtroppo non conosco altre soluzioni!
– Insiste Osvaldo –
Marietto era un uomo molto riflessivo e da esperto uomo di mare, non tardò a capire che la strategia suggerita da Osvaldo era valida, ma sentiva che la buona riuscita dell’intera operazione sarebbe dipesa dalla tattica impiegata, cioè dalla scelta di una manovra basata sulla sensibilità, sul sentire, attraverso le vibrazioni del cavo, la descrizione “visiva” di quel misterioso fondale.
Occorreva impadronirsi di una telecamera virtuale che aiutasse ad immaginare la posizione del relitto che imprigionava il cavo di rimorchio, forse sotto una lancia di salvataggio, oppure sotto la poppa di un vapore inclinato. Occorreva captare la giusta sensazione e indovinare la direzione di tiro da imporre al pontone, con uno spostamento viscido, scivoloso, subdolo ma efficace.
Osvaldo prosegue nel racconto.
Marietto pensò tutto questo e poi decise di tentare.
Portò tre uomini sulla Micoperi, gli fece stendere il cavo e con molta tranquillità disse all’equipaggio:
“Ragazzi! Quando “veniamo in forza” datemi una mano ad osservare le reazione del pontone: anche il minimo rumore, sussulto, oppure il più impercettibile sbandamento; datemi tutte le variazioni della velocità d’avanzamento ed avvertitemi immediatamente se ci fermiamo”.
Io mi misi silenzioso sul telefono di macchina ed ascoltavo i battiti del motore ed ero pronto a comunicare al 1° macchinista la potenza che Marietto voleva. La mia preoccupazione era superiore a quella di sempre. I miei suggerimenti erano stati accolti dal comandante, ma ne sentivo in qualche modo il peso, la condivisione della responsabilità anche se Marietto, ormai, aveva deciso che quella era la tattica migliore. Tutto sarebbe dipeso dalla dea bendata, e solo lei poteva vedere sotto la superficie di quel mare verde ingannatore, ma a parte la superstizione, tutti noi speravamo nella mano marinara di Marietto che non ci aveva mai deluso”.
Quando le prime luci dell’alba diffusero ampi e crescenti chiarori rossastri, il comandante dette il via all’operazione “recupero cavo”.
La dea bendata quella mattina era dalla nostra parte. Dopo circa 30 minuti di tiro, il cavo si liberò e lo recuperammo tutto, senza aver riscontrato il minimo danno. Rifacemmo l’attacco e si partì per Cagliari. Natale era alle porte e Marietto riuscì a portarci dalle nostre famiglie in tempo per festeggiare la festa più importante dell’anno, a “porto cosce”!
Carlo GATTI - 04.03.12
Equipaggio:
Comandante - Mario Di Bartolomeo
D.M.: - Osvaldo Schiano
1°Uff.le cop. – Luigi Gabrielli
1°Macch. – Angelo Angius
Marò - Maiulo (senior)
-“- - Giovanni Bottino
-“- - Antonio Mazza
-“-/cuoco - Parodi
In ricordo di “Marietto”
Sabato 29 Settembre 2007.
Cari Amici,
......oggi abbiamo salutato un caro amico che ci ha lasciato: il Comandante Mariano Di Bartolomeo…..
per tutti da sempre Marietto per il suo imbarco giovanissimo nel Mondo dei Rimorchiatori, il nostro Mondo. Comandante e Uomo di grande statura morale nella professione e nella vita.
Ci ha stupito la mancanza alla mesta cerimonia di una partecipazione delle nuove generazioni a testimonianza di un Mondo, che pur nelle personali divergenze, raccoglie il testimone di una appartenenza e la porta oltre.
Vedete, la mia generazione pur avendo conosciuto di sfuggita Uomini della generazione precedente ha sempre onorato chi ci ha preceduto e che tanta storia ha tramandato ai successori.
Per quasi un secolo questo filo non si è interrotto.
Un filo tessuto dalla dura vita di Bordo, dalle vicissitudini dei colpi mare presi su mezzi allora inadeguati…un filo tessuto consolidando amicizie e sentimenti di fratellanza che hanno segnato la nostra vita professionale ed umana e che ci saremmo portati dietro per tutta la vita.
Il Mondo dei Rimorchiatori come senso di appartenenza ad una “casta”(passatemi il termine) privilegiata che ci onorava e ci onora ancora con orgoglio.
Abbiamo avuto dure vicissitudini sociali, scontri (per noi, e a quel tempo) epocali ma mai abbiamo messo in forse questi sentimenti ed il desiderio in qualche modo di tramandarli, mai il senso di appartenenza a questo Mondo ci ha abbandonato, e mai abbiamo dimenticato il rispetto verso la Società (Rimorchiatori Riuniti) che ci ha aperto a questo Mondo anche se il dialogo talvolta si faceva aspro.
Oggi sembra che quel filo si sia spezzato, le nuove generazioni restano chiuse nel breve spazio della loro attuale professionalità esercita, sorde verso preziose testimonianze storiche e, forse, poco o nulla interessate a passare il testimone.
Un mondo in via di estinzione che resterà senza passato e dal futuro incerto se non innervato su sentimenti di alto profilo umano.
……oggi abbiamo salutato un caro amico che ci ha lasciato, il Comandante Mariano Di Bartolomeo…….
mi va di dire: ti sia lieve la terra, Marietto, sei un galantuomo e tale resti con noi.
TESTI di:
Carlo Gatti
Silvano Masini
Paride Faggioni
RAPALLO, L’IMPRENDITORE “CARLO RIVA” COSTRUI’ IL PRIMO PORTO TURISTICO ITALIANO (1971-’75)
RAPALLO, L’IMPRENDITORE “CARLO RIVA” COSTRUI’ IL PRIMO PORTO TURISTICO ITALIANO (1971-’75)
Carlo Riva é morto nell’aprile 2017 all’età di 95 anni. Ma chi era Carlo Riva?
L’ingegnere, ex patron dei cantieri Riva di Sarnico, sinonimo di motoscafi di lusso nel mondo, é stato definito “un genio che sta alla motonautica come Enzo Ferrari sta alla Formula Uno”. Si parla di personaggi che hanno lasciato tracce indelebili nel nostro Paese e non solo... L’equazione citata é giusta e suggestiva, ma io rimarrei volentieri nell’ambito "salino" suggerendo un'altra considerazione: “Carlo Riva sta alla motonautica mondiale come le linee architettoniche delle navi di linea italiane stanno alla “bellezza” che da sempre solca gli oceani!”
La storia famigliare possiamo sintetizzarla così: sulle rive del lago d'Iseo nasce l'azienda di famiglia: un cantiere navale che presto sarà conosciuto in tutto il mondo come simbolo di eleganza, potenza ed efficienza. La storia dei Riva inizia nel lontano 1842 con il maestro d’ascia Pietro Riva e poi con il figlio Ernesto che introduce il motore a scoppio sulle loro imbarcazioni. Finita la grande guerra Serafino Riva diede un'ulteriore impronta al marchio della famiglia. È l'epoca dei motoscafi da corsa e delle vittorie in Italia e all'estero.
Negli anni '50 Riva fa il salto di qualità. Ed è proprio il giovane Carlo a diventare il protagonista assoluto dell’ascesa ai massimi vertici dell’Azienda famigliare. «L'ingegnere ha insegnato a tutti noi cosa significano visione, creatività e passione. La sua inesauribile energia innovativa ne fa l'indiscusso Maestro della nautica del XX secolo, un uomo le cui straordinarie creazioni appartengono già alla storia» è il ricordo di Alberto Galassi, l'A.D. di Ferretti Group che dal 2000 è il proprietario dell'azienda.
Sotto la direzione di Carlo Riva nascono i modelli Ariston, Tritone, Sebino, Florida, veri simboli di eleganza che si concludono con il the best AQUARAMA (nella foto) che dagli Anni ’60 é l’icona del Cantiere di Sarnico.
Genova ha voluto dedicare a questo grande imprenditore il Salone Nautico di Genova-2017.
“Io, personalmente, perdo un maestro, un esempio di genialità, d'impegno e di amore per il lavoro”, aggiunge ancora Galassi che sottolinea come “le barche di Carlo Riva saranno per sempre le più belle del mondo, fonte d'ispirazione per tutti noi che sentiamo, forte, la responsabilità di custodire e portare nel futuro il più importante marchio della nautica mondiale”.
Torre di controllo del Porto Carlo Riva di Rapallo
Veduta aerea del Porto Riva di Rapallo
Nella sua Sarnico il giorno dei funerali è stato proclamato il lutto cittadino ed anche a Rapallo il grande imprenditore lombardo é stato onorato degnamente. Nel comune rivierasco Carlo Riva ebbe l'intuizione di costruire, tra il 1971 e il 1975, il primo porticciolo turistico in Italia. “Ho lavorato con lui per 30 anni era un grande uomo che ha fatto grande la nautica”, dice Marina Scarpino, la direttrice del porto.
Seguendo l’esempio di Pierre Canto, realizzatore del Porto di Cannes nel lontano 1971, Carlo Riva si entusiasmò all’idea di traslare nel Tigullio una perla della Costa Azzurra. Un progetto ambizioso, degno delle migliori tradizioni nautiche italiane, dettato dalla tenacia, dall’esperienza, ma soprattutto dalla passione e dalla voglia di fare.
Sotto questa spinta imprenditoriale, nacque a Rapallo il primo approdo turistico “privato” italiano.
Come tutte le idee pionieristiche, anche quella del porto si è dovuta scontrare con le resistenze di una realtà locale, a quei tempi restia ad innovazioni e non sorretta da un chiaro riferimento legislativo.
Ma alla fine il Porto Carlo Riva, unanimemente considerato il “salotto buono” della nautica internazionale, da sogno apparentemente impossibile si é trasformato in realtà. Una realtà per 400 imbarcazioni da 6 a 42 metri, oltre ai posti in transito e 500 posti barca realizzati per il porto pubblico.
Il 26 Luglio 1975 felicemente si inaugura il nuovo approdo. Nella foto gallery seguono alcune immagini rappresentative delle fasi di progettazione, costruzione ed inaugurazione del porto.
Carlo Riva presenta il Nuovo Porto turistico di Rapallo
I primi clienti…
Il porto al completo…
Il Porto privato di Rapallo é situato accanto al porto comunale da cui è separato dal molo di sottoflutto (molo Langano). Il porto è protetto da una diga foranea a tre gomiti, interamente banchinata all’interno dello specchio acqueo di 54.129 mq.
Porto Turistico internazionale - Marina privato Rapallo
Latitudine Lat 44° 20' 42'' N Long 9° 13' 50'' E
Email: info@portocarloriva.it - Tel. +39 0185 6891 - Fax +39 0185 63 619
VHF 09 - Sito Web: http://www.portocarloriva.it Indirizzo: Calata Andrea Doria 2
Numeri Utili: Ufficio Locale Marittimo: 0185 50583 ; Carburante: 0185 689311
In omaggio al ricordo di Carlo Riva, riportiamo in una rapida carrellata la situazione dei Posti Barca nei porti principali italiani.
Da 60.000 ormeggi nel 2007 si è arrivati a 83.000 odierni; inoltre bisogna aggiungere gli ormeggi presenti in porti preesistenti che fa arrivare il totale a 161.000 unità.
POSTI BARCA IN LIGURIA
Marina di Chiavari……………………459 Posti barca
Porto Carlo Riva di Rapallo………...401 P.B.
Porto di Varazze…………………………….707 P.B.
Porto Finale Ligure………………………..579 P.B.
Portobello Loano…………………………….474 P.B.
Porto di Alassio……………………………….400 P.B.
Marina di Andora…………………………….825 P.B.
Porto Maurizio…………………………………709 P.B.
Marina Genova Aeroporto………………500 P.B.
Marina Genova Molo Vecchio…………160 P.B.
Porto di Imperia……………………………..709 P.B.
S.Stefano al Mare…………………………..989 P.B. Marina degli Aregai
Porto di Sanremo……………………………806 P.B.
Marina Porto Lotti Spezia……………….516 P.B.
PORTO DI LAVAGNA……………………..1400 P.B.
Per classificare l’ampiezza e l’importanza dei porti turistici italiani si conteggiano, ogni anno, le migliaia di turisti che transitano per quel porto, vengono inclusi anche i passeggeri dei traffici locali, di collegamento con le isole italiane e con località della stessa-regione.
Il primato spetta al Porto di Messina, tra i più grandi ed importanti del Mediterraneo, che comprende una superficie portuale di circa 820.000 m². Segue il Porto di Napoli, dove è attualmente in fase di sviluppo la pedonalizzazione dell’area ed un collegamento metropolitano che comprende la creazione di sottopassi per le auto e, nell’area di fronte il Molo Beverello, la costruzione della stazione Municipio della metropolitana di Napoli. Chiude il podio il Porto di Civitavecchia, conosciuto fin dai tempi antichi come porto di Roma, è stato per molti secoli un importante centro per gli scambi e per i contatti tra i popoli dell’antico Mare Nostrum.
Ecco la classifica completa delle prime 15 posizioni per transito annuo di passeggeri (dati espressi in migliaia):
1. …………Messina-Milazzo: 7.909
2. …………Napoli:............. 7.593
3. …………Piombino:......... 6.015
4. …………Olbia:.............. 4.018
5. ………..Civitavecchia:... 3.809
6. ………..Genova:........... 2.853
7. ………..Livorno: ...........2.660
8. ………..Palermo:...........1.815
9. ………..Venezia:............1.755
10………..Bari:..................1.491
11………..Savona: .............1.379
12………..Ancona:............. 1.010
13………..Salerno:............... 687
14………..La Spezia: ............667
15………..Brindisi:............... 625
PORTI ITALIANI CON DISPONIBILITA’
SUPERIORE AI 500 POSTI BARCA
Porto di Viareggio………………………(2000 P.B.)
Porto Marina di Nettuno (Lazio)…(850 P.B.)
Porto Turistico di Roma……………..(796 P.B.)
Porto S.Nicola L’Arena……………….(800 P.B.) Erice – Sicilia
Porto di Numana–Marche………… (780 P.B.)
Porto Turistico di Jesolo…………….(650 P.B.)
Porto di Alghero ………………………..(918 P.B.)
Marina del Gargano (Puglia)……..(747 P.B.)
Marina di Villasimius (Sardegna).(740 P.B.)
Marina di Scarlino (Toscana)……..(566 P.B.)
Marina Punta Faro Lignano Sab..(1200 P.B)
Marina di Porto Cervo-Sardegna..(720 P.B.)
Marina di Policoro-Basilicata……….(750 P.B.)
Marina di Pescara……………………….(1250 P.B.)
Marina Dorica-Ancona………………..(1200 P.B.)
Marina di Castelsardo…………………..(650 P.B.)
Marina di Carloforte……………………..(600 P.B.)
Marina di Capo Nord-Friuli…………..(650 P.B.)
Marina di Cala del Sole-Licata……..(1500 P.B.)
Darsena Aprilia-Udine………………….(680 P.B.)
Civitanova Marche………………………..(600 P.B.)
Marina Riva di Traiano………………….(1182 P.B.) Civitavecchia
ALBUM FOTOGRAFICO - MODELLI RIVA
1 – AQUARAMA
L’icona, il simbolo, la nascita del mito. È il 1962 quando l’Aquarama viene presentato al terzo Salone Internazionale della Nautica a Milano e diventa immediatamente il sogno di tutti gli appassionati. Il prezzo di vendita era di 10 milioni ed 800 mila lire. Naturalmente un sogno irrealizzabile per molti.
2 - AQUARIVA
Presentato nel 2000, anno in cui la Riva tornò a battere bandiera italiana grazie al Ferretti Group, e lanciato sul mercato nel 2001. Rappresenta uno dei più grandi successi dell’azienda, con oltre 240 esemplari venduti in tredici anni. Il prezzo? 500 mila euro. È uno dei meno cari tra i Riva attualmente in produzione.
3 - ARISTON
«Disegnato con amore, nato forte e puro come un cavallo di razza. Indimenticabile! Il mio signore del mare». Così ne parlava Carlo Riva negli anni ’50, quando l’Ariston si innestò nel mito dell’alta velocità e delle auto da corsa che contraddistingueva gli anni della rinascita industriale post-bellica italiana. Anita Ekberg se ne innamorò e ne volle uno personalizzato con tappezzeria zebrata.
4 – RIVARAMA
Torniamo negli anni 2000 con un motoscafo di media grandezza ma decisamente pensato per un mercato di lusso. Rappresenta un successo con oltre 100 esemplari prodotti.
5 – TRITONE
Nuovamente un salto nel passato, un salto negli eleganti ed esuberanti anni ’50. Il Tritone fu ideato e prodotto sull’onda lunga del successo dell’Arsiton, ma rappresentò un passo avanti ingegneristico importantissimo: è infatti il primo bimotore della Riva.
6 – SUPER FLORIDA
Sono gli anni ’60 e l’America è un mondo lontano che fa sognare tutti grazie alle fantastiche star del cinema. La Riva si lancia così nella produzione del Super Florida, un motoscafo che segue le linee delle imbarcazioni americane in voga in quegli anni, ma con il tocco di classe unico del design italiano.
7 – 86′ DOMINO
E’ il salto nel futuro della Riva il distacco dalla produzione classica che ha creato il mito dell’azienda. 86 piedi (26 metri) d’imbarcazione all’avanguardia, dal design accattivante ed aggressivo. Prodotto nel 2011, i suoi 6 milioni di euro di prezzo di listino lo relegano al mercato dell’extra lusso ma lo hanno immediatamente reso l’oggetto del desiderio di milionari di mezzo mondo.
La ripresa del settore, peraltro, emerge anche dai dati di Assomarinas, l’associazione che raggruppa i porti turistici italiani, divulgati nel corso della IV conferenza sul turismo costiero, svoltasi nell’area del Salone.
“Nella stagione estiva 2017 – ha spiegato il presidente, Roberto Perocchio – il giro d’affari dei porti turistici è aumentato del 4,5% rispetto allo stesso periodo del 2016. Si è trattato, quindi, di un altro anno relativamente buono per gli approdi turistici, che sono in leggera ripresa da tre anni”. Il dato, però, ha aggiunto “deve essere valutato alla luce del fatto che il giro d’affari è ancora al di sotto del 25%, rispetto al periodo pre-crisi”. Negli anni più difficili della nautica, infatti, gli scali turistici avevano perso il 35% del giro d’affari.
Assomarinas ha anche rilevato un incremento dei transiti a +7%, rispetto al 2016. Transiti che comunque, ha detto Perocchio, “non fanno la salute totale di un porto turistico, perché senza l’utenza stanziale la struttura non si regge economicamente”. Questa crescita è da attribuirsi anche al fatto che “per motivi geopolitici l’Italia è diventata molto interessante per le navi da diporto; poi il merito va ai charter, cresciuti quest’anno del 10%, e un contributo va ascritto pure al noleggio nautico, che registra una fase di prosperità”. Resta, comunque, dice Perocchio, “un forte squilibrio tra offerta di posti barca in corso di realizzazione e utenza. Negli ultimi 10 anni, sono stati costruiti ben 21.490 posti barca; inoltre 22.559 sono in costruzione e 51.696 sono in corso di progettazione. Per contro, le immatricolazioni di nuove barche nel 2015 (è dato disponibile più recente, ndr) sono state solo 600”. Fermi restando i dati, Assomarinas sta pensando a un ricorso alla corte di giustizia Ue, contro la norma che decretato l’aumento retroattivo dei canoni demaniali.
INTESA SANPAOLO
Italia vince con il maggior numero dei porti turistici più cari in classifica
Autore: Redazione
11 agosto 2017, 11:27
Ormeggiare una barca nei diversi porti di lusso in Europa può costare tra i 1.000 e 3.000 euro al giorno, a seconda della destinazione.
Secondo le stime dei consulenti immobiliari di lusso Engel & Völkers, il porto di Ibiza è quello che questa estate ha il prezzo più alto: la quota di ormeggio al giorno per uno yacht di 55 metri di lunghezza si aggira sulle 3.025 euro circa.
La seconda città marinara della lista è Capri (Italia) con il suo porto di Marina Grande, il cui prezzo giornaliero raggiunge 2.670 euro al giorno; seguita da Marina di Porto Cervo in Sardegna con i suoi 2.514 euro di tassa di ormeggio quotidiano.
Seguono altri tre porti con prezzi di ormeggio superiori ai 2.000 euro al giorno: Marina di Portofino (Italia) con 2.288 euro; Puerto Banus (Marbella) con 2.068 euro e il Porto di Saint-Tropez (Francia), il cui prezzo è di circa 2.054 euro.
Nella Top 10 dei porti europei più costosi ci sono anche Limassol Marina (che si trova a Cipro), dove la tassa di ormeggio si aggira sui 1.533 euro al giorno (costa la metà rispetto alla quota del porto di Ibiza).
Nella lista sono anche ACI Marina a Spalato (Croazia), al prezzo di 1.320 euro; Porto Ercole a Monte Carlo (l’unico porto in acque profonde di Monaco), con 1.074 euro; e Netsel Marina Marmaris (Turchia), il cui costo giornaliero è di 1.045 euro.
La Spagna e l’Italia conducono la classifica dei porti turistici più esclusivi del Mediterraneo.
Tra le motivazioni aggiunte da Engel & Völkers, si è presa in considerazione la posizione del porto turistico, la domanda elevata e la capacità limitata di questi porti.
Inoltre, influisce molto anche il costo dei servizi aggiuntivi: elettricità, acqua, rifornimento di carburante che variano notevolmente di prezzo da un porto all’altro.
Per quanto riguarda l’aumento annuale, i due porti dove si è avuto un aumento del prezzo di ormeggio del 7% rispetto allo scorso anno, sono Porto Cervo e Aci Marina a Spalato.
Infine, lo studio di Engel & Völkers assicura che le preferenze per un porto o l’altro possono cambiare a seconda del tipo di clienti. Così, mentre i proprietari di yacht optano spesso per le città italiane di Capri, Porto Cervo e Portofino, quelli che affittare le barche scelgono di attraccare a Marmaris, Montecarlo, Marbella, Saint-Tropez o Ibiza.
UNA NOTA NEGATIVA CE LA SEGNALA:
NAUTICA REPORT
I principali porti turistici italiani rischiano il fallimento
I porti turistici davanti alla Corte Costituzionale
- Il 10 gennaio la Corte Costituzionale si pronuncia in merito all’aumento retroattivo dei canoni demaniali che potrà causare ingenti danni economici.
- Stimata una perdita di oltre15.000 ormeggi e un buco di 190 milioni di euro per l’erario a fronte di un ricavo di soli 3,5 milioni.
La sentenza della Suprema Corte, che si riunirà il prossimo 10 gennaio, sarà decisiva per la sopravvivenza di 26 strutture portuali turistiche fra le maggiori del Paese.
Oggetto del contendere è l’applicazione della normativa sulle concessioni turistico-ricreative anche ai porti turistici, che ha modificato a posteriori i termini dei contratti firmati dagli investitori con lo Stato, che prevedevano per i marina una specifica legislazione riconoscendo gli ingenti investimenti connessi alla realizzazione di queste opere e la differente natura dello stesso titolo concessorio rispetto a quello delle concessioni balneari. In particolare la sua applicazione retroattiva ha reso indispensabile il ricorso alla Corte Costituzionale poiché sembra violare le norme costituzionali a difesa della iniziativa economica.
Dopo la tassa Monti – cancellata perché a fronte dei 22 milioni di euro incassati ha prodotto un buco di 800 milioni nelle casse dell’erario causato dalla fuga di 40.000 imbarcazioni – questa rischia di essere una nuova mazzata per tutta la filiera della nautica, che proprio negli ultimi mesi sta uscendo da una grave crisi durata sei anni.
Questa situazione ha causato un contenzioso legale decennale che fino ad ora ha sempre visto vincere i porti turistici – nelle diverse sedi civili e amministrative – e che il Consiglio di Stato, confermando le ragioni dei ricorrenti, ha rinviato alla Corte Costituzionale, la quale si pronuncerà il prossimo 10 gennaio
L’impatto economico
Da un lato c’è un costo stimabile in 3,6 milioni per lo Stato, spiccioli per il bilancio, dall’altro un danno per l’erario di 54 volte maggiore.
Le imprese della portualità turistica che hanno impugnato l’applicazione retroattiva della nuova normativa sui canoni demaniali sono 26 per 15.000 posti barca complessivi: 10 sono le strutture più piccole, da 100 fino a 500 posti barca, 16 quelle maggiori da 501 a 980 posti barca.
Gli aumenti annui dei canoni demaniali vanno da 45.000 a 75.000 euro, per le strutture della fascia minore, e da 100.000 a 250.000 euro annui per le strutture più grandi. Il gettito che l’erario può ottenere è pari a 3.595.000 euro l’anno.
Infatti, secondo i dati dell’Osservatorio Nautico Nazionale (ente di rilevazione, studio e monitoraggio del diporto nautico riconosciuto dal Ministero dei Trasporti), l’indotto economico a rischio è pari a 185 milioni di euro, somma che si ottiene moltiplicando l’indotto medio annuo di 12.300 euro generato da ciascuna unità per i posti barca che sono interessati dalla vicenda.
Inoltre, sempre secondo l’Osservatorio Nautico Nazionale, in media un marina turistico genera un indotto occupazionale di 92 unità, dunque in discussione c’è la sopravvivenza di 2.484 posti di lavoro, che contando il solo l’incasso diretto del fisco valgono circa altri 4 milioni di euro.
I rilievi del Consiglio di Stato
La Legge finanziaria del 2007 (art. 1, comma 252, della legge n. 296 del 2006) ha disposto l’applicazione dei criteri previsti per le concessioni turistico-ricreative anche ai porti turistici, abrogando la precedente normativa applicata ai marina (contenuta nell’art. 10, comma 4, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), che prevedeva un meccanismo di calcolo informato a criteri incentivanti per gli investimenti con canoni inversamente proporzionali al valore degli investimenti.
Il Consiglio di Stato ha evidenziato che i rapporti concessori relativi ai porti turistici devono essere regolati dalla concessione, perché il canone è fissato dall’atto concessorio “tenendo conto dell’equilibrio economico-finanziario dell’investimento” e che la concessione:
- dispone il pagamento di un canone “ad aggiornamento annuale ai sensi della vigente normativa”,
- prevede che il concessionario dovrà ultimare l’esecuzione delle opere che è obbligato a costruire entro un periodo determinato,
- prevede investimenti complessivi per decine di milioni di euro, - alla cessazione della concessione, anche per rinuncia, le opere erette, complete di tutti gli accessori e le pertinenze, resteranno “in assoluta proprietà dello Stato senza che al concessionario spetti alcun indennizzo”
- in applicazione della nuova normativa, nella durata della concessione l’importo totale dei canoni a carico del concessionario aumenterebbe di circa cinque volte e, visto il margine complessivo dell’iniziativa previsto dal piano economico-finanziario approvato in sede di rilascio della concessione medesima, ciò renderebbe il margine negativo per diversi milioni di euro.
Nel rilevare la sostanziale diversità tra le concessioni balneari e quelle relative alla realizzazione e gestione di strutture per la nautica da diporto, il Consiglio di Stato ha inoltre evidenziato che:
- le concessioni turistico-ricreative sono in numero molto più elevato e comportano di regola investimenti modesti a carico del concessionario e sono caratterizzate da canoni irrisori, su cui il legislatore è intervenuto nel 2006 per riallinearli con i valori di mercato
- le concessioni per la realizzazione e la gestione di strutture per la nautica da diporto sono in numero molto minore, richiedono investimenti ingenti per la realizzazione delle opere strutturali, che saranno poi acquisite gratuitamente dal demanio, e che, per l’impegno gestionale, richiedono un piano di equilibrio economico-finanziario di lungo periodo
- il criterio di fissazione dell’importo del canone, individuato all’atto della concessione, è un elemento determinante del piano economico-finanziario definito tenendo conto della rilevanza degli investimenti.
- la normativa in questione, applicata alle concessioni in corso, appare violare l’art. 3 della Costituzione per il duplice profilo del trattamento uguale di situazioni disuguali e della lesione del principio della sicurezza giuridica costitutivo di legittimo affidamento.
- c’è anche una possibile violazione del principio del legittimo affidamento ingenerato nei concessionari sulla stabilità dell’equilibrio economico-finanziario di lungo periodo.
- l’applicazione alle concessioni in corso potrebbe ledere il rispetto all’art. 41 della Costituzione relativo alla libertà di iniziativa economica, poiché recante l’effetto irragionevole di frustrare le scelte imprenditoriali modificando gli elementi costitutivi dei relativi rapporti contrattuali in essere.
UCINA Confindustria Nautica
Ufficio stampa Chiara Castellari
Carlo GATTI
Rapallo, 6 dicembre 2017
PROGETTO TORRE PILOTI GENOVA-Presentato 19.6.15
PROGETTO TORRE PILOTI
PRESENTAZIONE
Palazzo San Giorgio - Genova
LA TELEFONATA ALL’INDOMANI DELLO SCHIANTO
All’origine del progetto c’é una telefonata di Renzo Piano, all’indomani dello schianto della Jolly Nero a Molo Giano, all’ammiraglio Vincenzo Melone, comandante della Capitaneria: “Sono a disposizione per aiutare il porto e la città a ripartire”.
L’UOMO DI MARE CHE HA SCELTO LA NUOVA SEDE
PER IL COMANDANTE dei Piloti del porto John Gatti “Il gigantismo navale riduce sempre più gli spazi di manovra. La strumentazione é importante ma per guidare le manovre é ancora necessaria la vista dell’uomo: abbiamo bisogno della Torre.”
IL SECOLO XIX - 20-06-2015
E’ la sentinella del porto, il custode silenzioso che osserva i movimenti delle navi in entrata e in uscita dallo scalo. Il progetto della nuova torre dei Piloti è stato presentato a Palazzo San Giorgio, sede dell’autorità portuale. A firmarlo, l’architetto Renzo Piano. “E’ un dono al porto e alla città, questo progetto preliminare che puntiamo a dar diventare al più presto esecutivo” spiega il presidente dell’authority Luigi Merlo. La struttura, interamente in acciaio, ha una testa “verde”, nel senso che il suo tetto è interamente ricoperto di pannelli solari e soddisfa la metà del fabbisogno energetico della struttura (nelle foto pubblicate i rendering del progetto). “Non può non essere anche una struttura simbolica – ricorda Piano – Perché nasce per sostituire quella abbattuta a Molo Giano. E’ il ricordo delle vittime di quella tragedia che ha ispirato il lavoro di tutti quanti”. Se i tempi verranno rispettati, si potrà già andare in gara per la costruzione all’inizio del 2016, così da avere la struttura già funzionante per il 2017. Costo, 12 milioni di euro, interamente a carico dell’autorità portuale. “Mi piace pensare a questo come al primo passo che dovrà compiere il Blueprint – aggiunge Piano – A fianco della torre c’è una piazza che le persone potranno raggiungere, proseguendo il loro cammino fino a Porta Siberia. Il progetto è fattibile e ha un budget sopportabile, ora sta alle istituzioni dare il via libera alla realizzazione, ma sono ottimista” (testo di massimo minella) 19 giugno 2015
SECOLO XIX
Genova - Presentato a Palazzo San Giorgio, sede dell’Autorità Portuale di Genova, il progetto della nuova torre piloti donato dall’architetto Renzo Piano alla comunità portuale genovese. La torre sarà posizionata sull’estremità di Levante del porto di Genova, in corrispondenza della nuova Darsena: sarà alta 60 metri, costruita in acciaio, con due ascensori che porteranno dallo spazio a terra (2000 mq circa dedicati ad uffici ed alloggi) fino alla sala di controllo.
Sarà un progetto “green” grazie all’installazione sulla sommità della sala di controllo di alcuni pannelli fotovoltaici che ne copriranno in larga parte i bisogni energetici. Riguardo ai tempi, si lavorerà fin da subito al progetto esecutivo in modo da poter procedere con gara all’inizio del prossimo anno e di avviare i lavori a fine 2016 per vedere la nuova torre piloti realizzata nel corso del 2017.
Il presidente Luigi Merlo ha ringraziato Renzo Piano per la generosità e ha sottolineato l’importanza del lavoro corale tra la Capitaneria, il Corpo Piloti e lo staff dell’architetto che ha portato ad un progetto che soddisfa pienamente le esigenze operative e tecnologiche che hanno ben illustrato in sede di presentazione sia l’Ammiraglio Vincenzo Melone che il Capo del Corpo Piloti John Gatti.
L’architetto Piano ha parlato del grande valore simbolico del progetto, della costante attenzione alla sicurezza in tutte le fasi della progettazione come dovere etico morale dopo la tragedia del 2013 e ha paragonato la nuova torre ad una sorta di sentinella chiamata a vegliare su un porto sicuro.
Torre piloti, il “cervellone” del porto
Genova - Era una vera e propria torre di controllo che, come quelle aeroportuali, guidava i traffici del porto di Genova la torre piloti di Molo Giano, a Genova, crollata, nella notte. La Torre Piloti era alta 50 metri, in cemento e vetro. Era stata costruita nel 1997 e da allora era considerata «l’altra Lanterna» del porto.
La Torre aveva la sala di controllo all’altezza dei 40 metri e da lì gli operatori potevano controllare ogni movimento in atto nello scalo, coordinando attracchi, entrate, uscite.
La sala aveva una superficie di 165 metri quadri e, al suo interno, aveva la sede dei Piloti del Porto. Prima che la struttura fosse realizzata, i piloti a Genova operavano in una torretta più piccola, situata sempre nella zona del Molo Giano. Ma i crescenti traffici nello scalo genovese avevano indotto l’Autorità Portuale a realizzare la nuova torre, in tutto e per tutto simile alla torre di controllo di un aeroporto.
La struttura era il “cervello” operativo della Capitaneria di Porto di Genova. Era divisa in due livelli: una prima zona operativa, dove erano custodite apparecchiature di supporto, e una seconda al piano superiore dotata degli strumenti per effettuare le diverse operazioni di controllo del traffico marittimo portuale. Da lassù gli operatori della Capitaneria svolgevano il loro lavoro, in modo analogo a quello di un controllore di volo.
Genova - La città non vuole dimenticare. A due anni dalla tragedia del 7 maggio 2013, quando la Jolly Nero, portacontainer della compagnia Messina, centrò la Torre Piloti durante una manovra per uscire dal porto uccidendo nove persone tra militari della capitaneria e civili che lavoravano nella torre, Genova inaugurerà il memoriale alle vittime. «Un memoriale che però potrebbe anche diventare qualcosa di più: un luogo per tutti i genovesi», dice Fulvio La Torre, l’architetto che insieme al Provveditorato alle opere pubbliche ha progettato l’opera.
Speciale: La Treagedia della Torre Piloti - Scheda: I "numeri" del Memoriale
Sono state la Capitaneria di porto, la società Rimorchiatori Riuniti e il Corpo piloti del porto di Genova a volere fin da subito un’opera in memoria dei loro caduti. Fulvio La Torre e Raffaele Vedova, funzionario del Provveditorato alle opere pubbliche, hanno fatto il resto. Nel posto che un tempo era occupato dalla torre si staglierà una statua della Madonna della Guardia, copia identica di quella che si trovava lì, alla base del fusto di cemento armato che reggeva la Torre Piloti e che fu colpito e distrutto la notte del 7 maggio. Di quella statua, che poi è un calco dell’originale oggi conservato nella sede dell’Autorità portuale di Genova, Palazzo San Giorgio, restano la corona e la mano destra con le chiavi della città, entrambe conservate in una teca, nella sala “7 maggio” della Capitaneria di porto. La nuova statua, come la precedente, guarderà e benedirà le navi che entrano ed escono dall’imboccatura di levante del porto.
Filmato della Presentazione:
A cura del webmaster
Carlo GATTI
Rapallo, 21 Luglio 2015
ALBUM FOTOGRAFICO
Da sinistra: Amm. Vincenzo Melone - Arch. Renzo Piano - Dott. Luigi Merlo - C.P. Jhon Gatti-Dott. Giovanni Toti
STRETTO DI MAGELLANO
STRETTO DI MAGELLANO
Il diario di viaggio di Luis Sepulveda in Patagonia e nella Tierra del Fuego così ricco di riflessioni, racconti, leggende e incontri che s'intrecciano nel maestoso scenario del Sud del mondo, rispecchia oggi la sintesi dei desideri di molti turisti occidentali che guardano laggiù, dove l'avventura non solo è ancora possibile, ma è la più elementare forma di vita.
Estrecho de Magellanes é la scritta blu che disegna la via d’acqua nella zona centrale della carta (color ocra).
Lo Stretto di Magellano é un canale naturale che separa l'estremità meridionale dell'America Latina dalla Terra del Fuoco e dalle Isole Dawson, Clarence, Santa Inés e Desolación. Lungo circa 600 km, è molto tortuoso. L'entrata, tra il Capo Dungeness e la Punta Catalina, è larga ca. 30 km; a Capo Forward comincia la seconda sezione, con coste ripide, incise da fiordi. L'uscita principale sul Pacifico è a Nord dell'isola Desolación. Le coste hanno scarsi approdi. Lo Stretto appartiene al Cile e prende il nome dal suo scopritore.
Un po’ di Storia
Sulla fine del secolo XV, i portoghesi scoprirono il Capo di Buona Speranza, aprendo in questo modo, la prima rotta marittima verso EST (Asia e Oceania), fonte di ricchezze per il commercio europeo; tuttavia, un altro portoghese Ferdinando Magellano non riuscì a convincere il re del suo Paese di costruire una flotta per cercare un passaggio a Occidente, attraversando il continente americano per raggiungere l’Oriente. Sarà il re spagnolo Carlo V che nel 1518 accetterà la proposta di Magellano.
Ferdinando Magellano in un ritratto postumo (anonimo del XVI o XVII secolo)
Ferdinando Magellano (in latino: Ferdinandus Magellanus; in portoghese: Fernão de Magalhães; in spagnolo: Fernando de Magallanes); nacque a Sabrosa il 17 ottobre 1480 – Morì nell'isola di Mactan,il 27 aprile 1521 è stato un esploratore e navigatore portoghese . Intraprese, pur senza portarla a termine, perché ucciso nelle isole Molucche nel 1521, quella che sarebbe diventata la Prima Circumnavigazione del Globo al servizio della corona spagnola di Carlo V di Spagna. Partendo dall'Europa, fu il primo a raggiungere le Indie navigando per OVEST attraverso il passaggio che oggi porta il suo nome: Stretto di Magellano. La storia del suo viaggio è pervenuta tramite gli appunti di un suo uomo d'arme, il vicentino Antonio Pigafetta, che si adoperò per il resto della sua vita a mantenere viva la memoria di Magellano e della sua memorabile impresa.
Questo fu l’inizio del viaggio più straordinario nella storia dell’esplorazioni europee intorno al globo. Il 20 settembre 1519, la “Flotta delle Molucche” partì dal porto di Siviglia (Spagna), al comando del navigatore Magellano per raggiungere le Isole Molucche (le leggendarie Isole delle Spezie) con ROTTA OVEST. Il risultato principale fu il seguente: partirono con 5 navi e 265 uomini, ritornarono a Siviglia con una nave e 18 uomini. Quegli stessi uomini avevano realizzato la prima circumnavigazione del globo in 3 anni.
Dopo essere arrivati in Brasile, esplorarono minuziosamente il Rio de la Plata che però era solo un fiume... dopo di ché la flotta ripartí verso SUD alla ricerca di una vera via d’acqua che collegasse i due OCEANI. Il 1° Novembre 1520, la Spedizione entrò finalmente nello Stretto che fu subito battezzato: Stretto di Ognissanti e che solo in seguito fu rinominato: “Stretto di Magellano”. Le terre al Nord dello Stretto furono chiamate “Terre dei Patagoni” (Patagonia) e quelle al sud “Terra dei Fumi” (Tierra del Fuego). Ci vollero cinque settimane di navigazione difficile tra montagne, secche, fondali variabili, strettoie e venti ghiacciati, ma alla fine le tre navi superstiti si trovarono davanti un nuovo oceano che parve loro calmo, accogliente, invitante a tal punto da chiamarlo “Mare Pacifico”.
Magellano e i suoi uomini proseguirono per le Molucche, ma l’arrivo fu davvero tragico: durante uno scontro con gli indigeni, proprio il Capo della Spedizione Ferdinando Magellano perse la vita. Il suo pilota, Sebastian del Cano s’assunse il compito di riportare i resti della Flotta in Spagna dopo innumerevoli difficoltá, ma La rotta marittima verso OVEST era stata aperta dalla Spagna.
Altre spedizioni compiute tra il 1557 e 1559 portarono alla ribalta Juan Ladrillero che esplorò le nuove terre partendo da Valdivia (Cile). Ma fu il corsaro inglese Francis Drake che l’attraversó nel 1557-1578 aprendo un contenzioso con la Corona Spagnola e fu, in ogni caso, il primo a rendersi conto che la Terra del Fuoco era un’isola e non un continente che arrivava fino al Polo Sud e fu il secondo a circumnavigare il mondo.
Gli Spagnoli, allarmati dalla presenza degli Inglesi, decisero di colonizzare quei luoghi e nel Settembre 1581 affidarono a Sarmiento de Gamboa il comando della missione che salpò da Siviglia con 23 navi e 3 mila tra coloni e militari.
Un anno e mezzo durò quel viaggio, tra numerosi stenti, naufragi, malattie, sofferenze e morti; alla fine soltanto 5 navi e 500 persone arrivarono davanti all’imboccatura dello Stretto di Magellano. Nei pressi di Punta Dungenes (entrata dello Stretto) Sarmiento fondò una cittá chiamandola: Nome di Gesú e, più a sud, fondò la cittá “Re Filippo” (60 km a Sud dell’attuale Punta Arenas).
Il tentativo di colonizzazione, purtroppo, si era nel frattempo trasformato in un disastro: i coloni e i soldati delle due cittá morirono letteralmente di fame e la Spagna dovette rinunciare per sempre alla colonizzazione dello Stretto di Magellano.
Il luogo sul quale era stata fondata la cittá di Re Filippo fu battezzata: “Port Famine” nome che perdura fino ai nostri giorni per ricordare il “Porto della Fame” e la sua inquietante storia.
UN PASSAGGIO CONSIDERATO ANCORA OGGI DIFFICILE
Per farci un’idea ancora più precisa circa le difficoltà cui sono sottoposti i naviganti in quel tratto di mare, riportiamo un interessante sintesi:
"Il percorso attraverso lo Stretto - scrive Angelo Solmi nel suo libro Gli esploratori del Pacifico (Novara, istituto Geografico De Agostini, 1985, pp. 75-76) - era considerato con timore, e spesso con terrore, dai marinai: i suoi interminabili 565 chilometri, le condizioni meteorologiche avverse, l'intrico degli angusti canali dalle rive anguste e scoscese, il pericolo delle secche, le correnti capricciose, le bufere inaspettate, gli ancoraggi malcerti, crearono intorno allo Stretto di Magellano una fama sinistra. I marinai - non a torto - lamentavano soprattutto che vi mancava la libertà di manovra del mare aperto. Queste terribili difficoltà furono confermate dal tentativo fatto, nel 1526-28, da una flotta guidata da Francisco de Loayasa e da El Cano, per ripetere l'impresa di Magellano; un tentativo così tragico che, oltre a Loayasa e a El Cano, morirono quasi tutti. Negli anni dal 1535 al 1550 sette spedizioni spagnole avevano cercato di compiere la traversata e su 17 velieri 12 erano stati respinti all'imbocco orientale, alcuni erano naufragati e uno solo, comandato da Alonso de Camargo, era riuscito a passare. Soltanto un uomo su cinque degli equipaggi delle navi aveva potuto salvarsi, e ne erano periti più di 1.000, forse 1.500.
"La situazione migliorò un poco dopo la metà del secolo; nel 1558 il capitano Juan Fernandez Ladrillero forzò lo stretto da ovest a est, dal Pacifico all'Atlantico, con una navigazione brillante e avventurosa sulla nave San Luis, partita dal Cile. Ladrillero tornò poi nel Cile riattraversando lo stretto e dimostrando, fra l'altro, che il percorso era possibile anche durante il gelido inverno antartico. Così le squallide rive del passaggio videro, verso la fine del Cinquecento, un certo numero di frequentatori, sia pur relativamente esiguo: ma va anche considerato che, a rendere meno difficile lo stretto, fu lo sviluppo della tecnica di navigazione, la maggior solidità delle navi e la più progredita esperienza marinaresca.
"Fra i più illustri navigatori che compirono la classica traversata furono Drake (1578) e Cavendish (1587), ossia il secondo e il terzo uomo che circumnavigarono il mondo, due anglosassoni. Ma prima che il secolo finisse, a contrastare il dominio marittimo spagnolo, portoghese e inglese, scesero in campo nuovi temibili avversari, gli Olandesi. (…)
"Furono olandesi il quarto e il quinto uomo che, seguendo la rotta di Magellano, circumnavigarono il mondo: Olivier van Noort (1598-1601) e Joris van Spilbergen (1614-17). Il primo dei due, partito da Amsterdam con tre navi, passò lo stretto fra il 25 novembre e l'inizio di febbraio del 1600, attraversò il Pacifico, poi l'Oceano Indiano e rientrò in patria per la via del Capo di Buona Speranza. Attraversando le Molucche, ancora dominate dai Portoghesi, van Noort si convinse che non sarebbe stato difficile scalzare il già vacillante impero coloniale lusitano. Quanto a Spilbergen, partito da Texel nell'agosto del 1614, percorse lo Stretto di Magellano nell'aprile 1615, esercitò una proficua attività piratesca sulle colonie spagnole d'America, attraversò anch'egli il Pacifico e giunse alle Molucche già in parte conquistate dai connazionali."
Tale, dunque, il contesto in cui matura il disegno di Pedro Sarmiento de Gamboa di fortificare lo Stretto di Magellano in modo da chiuderlo con una sorta di catenaccio che impedisse, per sempre, il ripetersi di devastanti incursioni come quella di Francis Drake contro le colonie spagnole sulla costa del Pacifico.
Durante i primi anni del secolo XVII, gli olandesi passavano diverse volte per lo Stretto, finché nel 1616 scoprirono la rotta del Cabo de Hornos. D’allora e durante quasi due secoli, le navi a vela di tutte le nazionalitá preferirono, per lo più, la rotta diretta tra gli oceani del Cabo de Hornos a quella dello Stretto di Magellano. Alcune spedizione scientifiche famose come quella del Commodoro Byron o di Bougainville, passarono per lo Stretto. Grazie alle imprese di esplorazioni idrografiche inglesi di Parker King e Fitz Roy (tra gli anni 1826 e 1834) si riuscì a ottenere Carte Nautiche molto precisa delle coste dello Stretto e degli arcipelaghi della Patagonia e della Terra del Fuoco.
Riproduzione della goletta Ancud (che reclamò per il Cile le terre australi) e scheletro di balena al locale museo.
Nel 1843, il Governo Cileno mandò il Comandante John Williams, a bordo della Goletta Ancud, a prendere possesso dello Stretto di Magellano e a fondare la Colonia di “Fuerte Bulnes” sulla punta Santa Ana vicino al tristemente noto “Porto della Fame”. Nel 1848, il nuovo governatore della nascente colonia, José de los Santos Mardones, abbandonò il Fuerte Bulnes per la mancanza di acqua dolce e il terreno inospite. Il Governatore fondò allora la Colonia di Punta Arenas (18 dicembre 1848) a 60 km. a Nord del luogo conosciuto fino allora come Sandy Point.
Al principio, la nuova colonia di Punta Arenas fu una specie di colonia penale, ma in seguito alcune comunità riuscirono a radicarsi sul territorio, sebbene nel 1851, un ammutinamento dei guardiani militari ridusse brutalmente la popolazione da 436 a 86 abitanti.
Il dinamismo dei suoi abitanti venne tuttavia affermandosi con lo sfruttamento di giacimenti carboniferi, con la vendita delle pelli di animali marini e l’estrazione del legno. La cittá rinacque grazie anche ad un lento ma constante flusso migratorio di “cilotes” svizzeri, spagnoli, italiani, francesi ed altri, che animò e contribuì allo sviluppo della piccola ma prospera cittá che nel 1853 passò da 150 abitanti a 805, nel 1870 a 1095, nel 1898 a 7000.
Alla fine del secolo XIX lo Stretto di Magellano riprese la sua importanza, come principale via di navigazione tra gli Oceani Atlantico e Pacifico.
Punta Arenas si transformò in un porto cosmopolita, sede di ogni tipo di interscambi, affari e commercio. Dopo l’apertura del Canale di Panama (1914), lo Stretto perse, ovviamente, la sua importanza e questa situazione, in un certo senso, perdura fino ai giorni nostri, ma con qualche variante che induce all’ottimismo.
Nel 1877, con l’introduzione dell’allevamento di bestiame lanoso sulle due sponde dello Stretto, si sviluppò un intenso traffico cabotiero regionale e si stabilirono numerosi allevamenti di bestiame, generalmente sulle coste.
Ma fu la scoperta del petrolio, sia nella Terra del Fuego (1945), sia nelle acque dello Stretto, ad avviare un importante industria che si consolidò negli anni ’80 con lo sfruttamento di giacimenti di GAS e la loro trasformazione in Metanolo. Queste attivitá animarono la vita nello Stretto di Magellano. Attualmente, circa 1500 navi all’anno percorrono lo Stretto e quasi un centinaio di navi da crociera arrivano ogni estate nelle città di Punta Arenas-Ushuaia e dintorni.
Nota Storica: 29 Gennaio 1865, una nave militare italiana passa per la prima volta lo Stretto di Magellano
Domenica - Parte da Genova la fregata a elica Principe Umberto al comando del capitano di vascello Guglielmo Acton con 103 guardiamarina per una campagna di istruzione nell’America meridionale con scalo nei principali porti dei versanti atlantico e pacifico, da Rio de Janeiro a Callao, con due attraversamenti dello Stretto di Magellano, i primi di una nave da guerra italiana.
Dal Libro: IL MARE, AMORE E ODIO
dell'amico Cap. Sup. di L.C. ALVARO DEL PISTOIA
2015 - Edizioni Cinquemarzo Via Paladini 72 – Viareggio
(La nave chimichiera di 54.000 t. aveva scaricato in un porto cileno. N.d.r)
Riporto:
“Era l’inizio dell’inverno e la sera faceva fresco. In quei giorni ricevetti l’ordine di andare a caricare a Buenos Aires. Ovviamente passando per lo Stretto di Magellano. I piloti erano due, salirono alla partenza e dopo circa trentasei ore di navigazione in oceano entrammo nei fjordi per lo Stretto. La navigazione era molto interessante ed i piloti mi fecero vedere i ghiacciai dove le navi da crociera si avvicinano per far scendere i turisti a prendere il ghiaccio per metterlo nei bicchieri colmi di whisky e, per questa operazione pagavano circa mille dollari! Ah gli americani!! Avendo passato lo Stretto di Magellano la terza volta, mi fu conferito il diploma di “Magellano Strait Pilot”. Praticamente potevo passare lo Stretto da Punta Arenas ad Evangelista e viceversa (circa otto ore di navigazione) senza l’aiuto del pilota, un altro cimelio che si aggiungeva a tutti i miei certificati”.
Lo Stretto di Magellano, tagliando la “Tierra del Fuego”, consente di risparmiare circa 300 miglia nautiche, ma soprattutto evita di affrontare in mare aperto le tempeste di Capo Horn. L'espressione Quaranta ruggenti (in inglese: Roaring Forties) è stata coniata dagli inglesi all'epoca dei grandi velieri che passavano perCapo Horn.
Poiché la forza del vento aumenta procedendo verso sud, oltre il 50º parallelo gli stessi inglesi parlavano di Furious Fifties (che in italiano viene tradotto conCinquanta Urlanti). Con “Quaranta ruggenti e Cinquanta urlanti” vengono convenzionalmente indicate in marineria due fasce di Latitudini Australi caratterizzate da forti venti provenienti dal settore Ovest (predominanti), le quali si collocano rispettivamente tra il 40º e il 50º parallelo e tra il 50º e il 60º parallelo dell'emisfero meridionale. Tali venti hanno la stessa origine dei venti da ovestdell'emisfero settentrionale, ma la loro intensità è superiore di circa il 40 per cento: ciò è dovuto alla serie di intense depressioni che interessano queste zone, dovute all'incontro tra l'aria fredda dell'Antartide e l'aria calda proveniente dal centro degli oceani, inoltre questi venti sono amplificati dalla relativa scarsità di terre emerse nell'emisfero sud, cosicché soffiando sempre sul mare non incontrano mai terraferma che li potrebbe frenare.
Cartina geografica raffigurante l'area dei Quaranta ruggenti e dei Cinquanta urlanti
ALBUM FOTOGRAFICO
La vecchia Mappa dello Stretto di Magellano
La copia della VICTORIA la prima nave che attraversò lo Stretto
La spedizione di Magellano ed Elcano fu la prima Circumnavigazione del globo terrestre intrapresa tra il 10 agosto 1519 e il 6 settembre 1522 da una flotta di cinque navi capitanate dall'esploratore portoghese Magellano al servizio della Corona spagnola. Dopo la morte di Magellano nelle Filippine nell'aprile 1521 il comando della spedizione venne preso dall'esploratore spagnoloJuan Sebastiàn Elcano. Il viaggio si concluse con gravi perdite: ritornarono solo due navi, la prima (Victoria) nel 1522 e la seconda (Trinidad), che seguì una rotta diversa senza circumnavigare il globo, solo nel 1525. Dei 234 tra soldati e marinai che formavano l'equipaggio iniziale soltanto 36 si salvarono: 18 sulla Victoria e 5 sulla Trinidad, 13 finirono nelle carceri portoghesi nelleIsole di Capo Verde. La storia del viaggio è nota grazie agli appunti dell'uomo di fiducia (criado) di Magellano, il vicentino Antonio Pigafetta.
Foto satellitare dello Stretto di Magellano
Lo Stretto di Magellano è un percorso navigabile del Cile immediatamente a sud della massa continentale delSud America. Si può sostenere che lo stretto sia il più importante passaggio naturale tra l'Oceano Pacifico e l'Oceano Atlantico, ma è considerato una rotta difficile da percorrere a causa del clima inospitale e della strettezza del passaggio. Fino al completamento del Canale di Panama nel 1914, lo Stretto di Magellano era spesso l'unico modo sicuro di spostarsi tra l'Atlantico e il Pacifico. Protette dalla Terra del Fuoco a sud e dal continente sudamericano a nord, le navi lo attraversavano con relativo agio, evitando i pericoli del Canale di Drake. Il Canale o Passaggio di Drake è quel tratto relativamente stretto (800 km circa) di oceano che separa Capo Horn (la punta meridionale del Sud America) dall'Antartide , le cui acque sono notoriamente turbolente, e sono frequenti il ghiaccio e gli Iceberg. Fino al completamento del Canale di Panama, lo stretto era la seconda rotta più usata dalle navi che passavano dall'Atlantico al Pacifico (il Canale di Drake era la prima).
L'apertura orientale è l'ampia baia sul confine tra Cile e Argentina. Ad ovest, ci sono diversi punti di accesso dal Pacifico, anche se il più visibile qui è l'estensione di circa 200 km che va dall'Arcipelago della Regina Adelaide (al centro a sinistra) fino al cuore dello stretto (al centro in basso). Le isole e le montagne sono evidenziate dal bianco della neve, mentre le terre meno elevate a nord e a est ne sono libere.
Ferdinando Magellano divenne il primo europeo a navigare lo stretto nel 1520, durante il suo viaggio di circumnavigazione del globo. Poiché le navi di Magellano vi entrarono il 1º novembre, venne chiamato in origine Estrecho de Todos los Santos (Stretto dii Ognissanti).
Il 23 maggio 1843 il Cile prese possesso del canale, che rimane ancora sotto la sua sovranità. Sulla costa dello stretto si trovano la città di Punta Arenas e il villaggio di Poverni.
Questo passaggio venne attraversato dai primi esploratori Ferdinando Magellano, Francis Drake e Charles Darwin, tra gli altri. Anche i cercatori durante la corsa all'oro della California nel 1849 usarono questa rotta.
Punta Arenas-Cile
PUNTA ARENAS é la capitale della regione del Cile, conosciuta come Magellan e Il Cile Antartico. Fu fondata il 18 dicembre del 1848 con il nome di Punta Arenas. La città cambiò nome in Magellanes nel 1927 e poi ritornò al suo nome originale nel 1938. La sua posizione strategica nello Stretto di Magellano, crocevia di rotte commerciali, diede alla città grandi momenti prosperità, specialmente durante il Gold Rush in California. Tuttavia, la sua importanza decadde a partire dal 1914, anno dell’apertura del Canale di Panama, ma la sua prosperità ritornò a livelli eccellenti quando Punta Arenas diventò un centro molto importante per il traffico della lana. Oggigiorno, Punta Arenas vede intensificarsi il fenomeno del Turismo internazionale legato alle Navi da Crociera, di cui si parla all’inizio, il cui polo d’attrazione é l’avventura, il clima, la fauna, montagne altissime, panorami mozzafiato, ma soprattutto la curiosità culturale di trovarsi immersi in un mix di razze, di lingue e di tradizioni che si sono trasferite in Cile dalla vecchia Europa marinara e contadina, per cui ognuno può trovare in Cile qualcosa di sé.
Scorcio panoramico d’intensa bellezza - Cile
Lo stretto di Magellano all’alba
Lo Stretto di Magellano al tramonto
Carlo GATTI
Rapallo, 4 Maggio 2015
Navigare contro "MELTEMI" ?
NAVIGARE CONTRO MELTEMI ?
NOTIZIARIO DELLA
GUARDIA COSTIERA
ANNO XIII - DICEMBRE 2011
Un racconto inedito di un’avventura realmente vissuta.
di Marinella Gagliardi Santi
Nata a Milano, la scrittrice Marinella Gagliardi Santi ha poco della cittadina. Frequenti le sue e fughe dalla città per raggiungere la Liguria, considerata da sempre terra d’adozione. Perché il mare è una presenza sottile e insinuante nella vita di Marinella, nome che gli aderisce veramente addosso. E qualcosa deve essere scritto nel suo DNA, visto un nonno e uno zio navigatori transoceanici e una bisnonna che affittava imbarcazioni sul lago Maggior fatto insolito per una donna, vista l’epoca! Impegnata per parecchi anni come insegnante, per fuggire la metropoli oggi Marinella - con il marito, suo skipper e compagno d’avventure - vive e scrive sul Lago di Varese. Non è il mare, ma sempre acqua è...
Non riusciamo ad avanzare oltre, il vento contrario è troppo forte… non ci consente di raggiungere Amorgos…Anche il mare era peggiorato. Le onde, oltre a colpirci in continuazione con violenza, stavano squassando troppo la barca, erano diventate incrociate… La frase, pronunciata da Rinaldo, mio marito, alle cinque di un pomeriggio di agosto, trovava un po’ sgomenti sia me che il nostro amico Elio, compagni di avventura con lui nelle Cicladi in una sfida contro il famoso vento greco, il Meltemi. Di necessità avevamo scelto di navigare non sotto la sua spinta, ma affrontandolo a viso aperto! Dunque avremmo ripiegato su Astipalaia, un’isola che fa parte del Dodecanneso: era l’approdo più vicino, ma ci saremmo arrivati in piena notte. E avremmo ancorato al buio in una baia interna sconosciuta, raggiungibile attraverso uno stretto passaggio… Unico dato consolante, il vento in poppa, e se vai col vento, sia pur forte, ma in poppa, è tutto un altro discorso che averlo frontale e furioso come questo famoso vento greco. Per tornare all’origine della nostra avventura, devo dire che quella volta l’avevo fatta davvero bella. Avevo detto sì alla richiesta del nostro amico di dargli una mano per riportare la sua barca a vela dalla Turchia al Peloponneso. Elio, partito da Genova su Alga, un Cirano 38, progetto Sciomachen, aveva cambiato più equipaggi nella sua Odissea verso oriente: ora, arrivato in Turchia e rimasto solo, ci aspettava, come gli avevamo promesso. E tu gli hai detto sì! Aveva commentato, preoccupato e incredulo Rinaldo quando avevo accettato la proposta di Elio. Avevo capito che anche tu fossi d’accordo… A parte il fatto che preferisco navigare sulla mia, di barca, ma sai almeno a cosa vai incontro? Certo, in agosto, il Meltemi, nelle Cicladi… Ma sai anche che non si va mai contro questo vento? Nelle Cicladi tutti navigano da ovest verso est, tenendoselo in poppa e le barche vengono riportate indietro quando ha finito di soffiare! E tu vuoi navigare di bolina contro una furia di vento? E come può Elio da solo? Del resto ormai ho preso l’impegno, hai brindato anche tu all’impresa, siamo ingaggiati.
Sì, ma io proprio non avevo capito a cosa stessimo levando i calici! Ed ecco il portolano, in inglese, che sconsiglia la nostra navigazione asserendo che non si va contro il Meltemi e consigliando una rotta ben precisa attraverso le Cicladi, se proprio non se ne può fare a meno! La mia adesione risaliva all’inizio di giugno, perciò ho avuto tempo di rielaborare le mie ansie per due mesi abbondanti, anche sulla scorta di letture varie, a volte intercettate del tutto casualmente. Una, in particolare, trovata su una rivista, continuava a riaffiorare impietosa nella mia mente: il succo dell’articolo era che contro il Meltemi navigano al massimo quelli di Caprera, con il rischio, però, di far dei danni all’attrezzatura, se non di farsi male loro stessi…
Due mesi, perciò, di attesa che si era depositata in modo fastidioso nel mio inconscio e ogni tanto affiorava, interrogandomi circa la mia decisione e la mia convinzione di voler affrontare davvero quel famoso terribile e temibile vento greco… Ed eccoci arrivati ad uno dei momenti delicati del nostro viaggio per mare. Amorgos era lì, a sole due miglia, ma la nostra velocità di avanzamento era nulla. Le onde, incrociate, si accanivano contro la barca e anche contro di noi, chiusi e sprofondati nelle nostre cerate (è l’inizio di agosto e fa freddo!). Il Meltemi a 38-40 nodi, urlava tutta la sua rabbia, si sarebbe detto che ce l’avesse proprio con noi, in quel momento. Un simile urlo di vento, cupo e profondo che stordiva ed intimidiva, non l’ho mai sentito, a parità di intensità, da nessun altra parte del Mediterraneo che ho visitato, ma nemmeno ai Carabi… Il Maestrale ha sì un suono forte, ma lo ricordo più sibilante e metallico. Dunque, invertita la rotta, puntiamo su Astipalaia, la città vecchia letteralmente, in greco; l’isola a forma di farfalla, geograficamente. Sia pur forte il Meltemi, ma averlo che ti spinge da poppa è davvero tutto un altro vivere, l’onda, poi, che ti arriva da dietro, ti fa sì surfare, ma diventa un divertimento a confronto dell’impatto frontale che avevamo prima, mentre viaggiavamo contro vento. I problemi sorgono dopo cinque ore di navigazione, quando intravediamo appena, nel buio di una notte senza stelle, la sagoma scura di una collina lunga e omogenea. A parte un piccolo faro sulla punta del promontorio alla nostra sinistra, luci a terra, nessuna. Punti cospicui, perciò, zero! Lasciata quell’unica luce, è l’oscurità più totale…
Non ci restava che affidarci al plotter e verificare attentamente latitudine e longitudine confrontandole con le coordinate del portolano per identificare, e questo era il bello, non un’ampia e accogliente baia, bensì uno stretto passaggio tra le rocce che si apre su un canale di accesso, che finalmente, ci avrebbe condotto a un’ampia, e, si sperava, tranquilla baia interna… Con quel buio pesto l’avremmo trovato? In più ora avevamo un’andatura al traverso, di certo meno tranquilla del gran lasco di prima. Avvolgiamo, perciò, lo yankee, e accendiamo il motore per poterci avvicinare con maggior cautela.
Certo che il Meltemi non demorde neanche di notte, non va a dormire insieme al sole come fanno certi venti per bene… continua a soffiare invariato e spinge le onde davanti a sé, a frangersi sulla scogliera. Spingerà anche noi… dobbiamo individuare con certezza questo benedetto accesso! Ora il varco dovrebbe essere davanti a noi. Ci comunica Rinaldo che non stacca gli occhi dal plotter e non si stanca di asciugarlo dalle continue ondate, mentre io credo di interpretare il suo pensiero: quando siamo all’ormeggio, nei porti, è successo più di una volta che lo strumento non mettesse la barca dove in effetti era, ma spostata, anche se di poco. E se qui ci posiziona davanti al canale di accesso sbagliando anche solo di poco? Mi consolo pensando che, se non altro, i fondali erano dati sicuri, puliti. Anche quella, però, è una certezza del tutto relativa. Insomma, in quelle condizioni e senza il radar, bisognava fidarsi, di necessità, di quello strumento che per fortuna ci eravamo portati con noi dall’Italia, perché Elio non ce l’aveva, lui vuole navigare - come dice Rinaldo - duro e puro.
Ecco che si materializzavano, in quel frangente, parte delle mie inquietudini dei mesi passati: quell’alta collina continuava ad incombere nera e cupa, gelosa del suo varco… Dai, Marinella – incalza Rinaldo – dicci qualcosa tu, che avevi 11 decimi! Ecco, appunto, avevo! Vi sembra di vedere qualche novità in questo nero omogeneo? Incalza Elio che, giustamente è al timone di Alga, visto il frangente. La responsabilità della barca è tutta sua… Silenzio da parte nostra.
Cosa dite, avanzo? Perché ora la parete rocciosa è ben vicina! Vai, fidiamoci del plotter, ci dà l’ingresso proprio davanti a noi… Che tensione tremenda in questa notte impenetrabile: vento che incalza, onde che spingono, rocce incombenti… E vai che c’era davvero l’ingresso davanti alla nostra prua! E’ Rinaldo che ce lo comunica per primo, lui che è il più alto e quindi vede fuori dalla capottina già di suo, senza bisogno di scomode torsioni, come facciamo noi. Alla fine il plotter era stato onesto, ci aveva condotto al varco, che però ci sembrava davvero un po’ stretto. Colpa del buio, di certo, ma non è che fosse un passaggio poi così ampio, rivisto di giorno. Più a destra, Elio! Ero io che guidavo il procedere di Alga seduta sul winch di sinistra guardando con estremo rispetto la parete rocciosa dalla mia parte. Ma non troppo a destra, Elio! controbatteva dall’altra parte della barca Rinaldo, seduto sul winch opposto come osservatore della roccia di destra. Ma come è lungo questo canale, sembra non finire mai! Voi continuate a dirmi se sto timonando bene nel centro, sto facendo del mio meglio, dato che il vento e le onde continuano ad accompagnarci anche qui senza demordere…Insomma la tensione ancora non ci abbandonava… Finalmente, sulla sinistra, si apre una baia ampia e tranquilla, delimitata da alte colline.
Era ora, il Meltemi ne è rimasto fuori e le onde con lui. Primo sospiro di sollievo. Non si vedono luci, ma si intravedono due case bianche, distanziate tra loro. Avanziamo pianissimo, ci sembra incredibile: ad agosto nemmeno una barca? O siamo noi che non le individuiamo? È vero, non ce ne sono proprio. Questa navigazione nelle Cicladi, contro il Meltemi, sulla scorta della rotta suggerita dal Portolano, ci sta portando lontano dal turismo, attraverso le isole nelle quali vanno in vacanza i Greci. Addirittura in baie di notte deserte! Questo è uno degli aspetti più avvincenti del nostro viaggio: niente affollamenti né confusione, solo qualche barca di pescatori; luoghi, almeno all’apparenza incontaminati, che ti consentono ancora di vivere il mare nella sua integrità. È quello che vorremmo trovare sempre, lontano dalla confusione dei porti estivi e dalla mondanità. L’ancora ha preso. Spegniamo il motore, non c’è un rumore, l’acqua sembra quella di un lago. Pare incredibile questo silenzio se paragonato con l’ululato cupo del Meltemi che ci accompagna incessante durante la navigazione. Secondo respiro di sollievo. Sorgono spontanei tra noi dei batti cinque incrociati, ripetuti e molto soddisfatti. In realtà non siamo riusciti a superare il primo puntum dolens (in tutto sono due) dell’incanalamento del Meltemi tra le Cicladi, là dove, arrivando da nord-est, raggiunge spesso forza 10. Ma domani ci riproveremo. Una suoneria rompe l’incanto del silenzio… è Miriam, la moglie di Elio, davvero molto inquieta: Ma dove vi eravate cacciati, sono ore che chiamo i vostri cellulari! Siamo appena atterrati a Vathi, nella baia interna di Astipalaia. Rispondo io, che sono corsa a recuperare il telefono. Ma cosa vi viene in mente di navigare di notte col Meltemi? Lei ha le sue ragioni, ma come spiegarle che non si poteva fare altrimenti? Poi capirà. Dunque a domani, Meltemi, per oggi hai vinto tu, ma domani sarà un nuovo round… speriamo di uscirne dignitosamente vincitori! P.S. Sembra quasi inutile che io stia qui ad aggiungere che il nostro amico Elio, appena tornato in Italia, è corso a comperarsi un plotter cartografico… la prova dei fatti l’aveva convinto!
Marinella Gagliardi Santi
Rapallo, 03.03.12