L’ANTICA E LA NUOVA VIA DELLA SETA

 

L’ANTICA E LA NUOVA VIA DELLA SETA

Lungo la Via della seta si scambiavano non solo merci, ma anche culture, religioni, forme artistiche, conoscenze tecniche.


I precedenti storici

L’antica Via della Seta, illustrata dalla mappa qui sopra, era la rotta commerciale che partendo dalla Cina univa Asia, Africa ed Europa. Essa risale al periodo dell’espansione verso Ovest della dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.), che costruì reti commerciali attraverso gli attuali Paesi dell’Asia Centrale (Kyr-gyzstan, Tajikistan, Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan e Afghanistan), come pure, in direzione sud, attraverso gli attuali Stati di Pakistan e India.

Su queste piste terrestri per carovane tra un caravanserraglio e l'altro dell’Asia centrale, si fecero  i primi esperimenti di globalizzazione creando occasioni d’incontro: mercati, ricchezza, sincretismi religiosi e culturali. L’importanza massima di questi traffici si ebbe nel primo millennio dopo Cristo, ai tempi degli imperi romano, poi bizantino e della dinastia Tang in Cina (618-907).

Con le scoperte geografiche la Via della seta si arricchì anche di percorsi marittimi e fluviali che dalle pianure della Cina settentrionale, costeggiando il deserto del Gobi e, attraversando l'Asia centrale, conducevano all'altopiano iranico e alla Mesopotamia, e da qui ai porti del Mediterraneo.

L’itinerario, lungo circa 8.000 chilometri, costituiva il principale asse di comunicazione tra il Mediterraneo e l’Asia, tra l’Impero Romano e l’Impero Cinese. Questi percorsi variarono nel tempo adattandosi alle circostanze politiche ed economiche delle aree attraversate.

Tra le merci scambiate c’era la seta, ricercatissima dai ricchi romani e disposti a pagarla a peso d’oro. Essi credevano che i fili di seta pendessero da alberi rari che si trovavano in Cina, un paese altrettanto sconosciuto ai confini del mondo. D’altra parte, il segreto della fabbricazione della seta era custodito gelosamente dell’imperatore cinese, che ne deteneva il monopolio.

L’importanza della Via della seta è enorme perché nel I secolo a.C. mise per la prima volta in contatto due mondi che si ignoravano a vicenda: la civiltà romana e la civiltà cinese e,  con la discesa in campo dell'Islamismo nel 620, mise in contatto la civiltà cinese con la civiltà araba e infine con la nuova civiltà europea.

Le Crociate e l’avanzata dei mongoli lungo le steppe dell’Asia centrale spostarono più incisivamente l’asse commerciale sulle rotte marittime, più rapide e a buon mercato.

RIMANIAMO ANCORA NELLA STORIA CON UN PERSONAGGIO CHE CI RIGUARDA DA VICINO

«Quivi si fa molta seta». Con queste parole Marco Polo descrisse ne il Milione l'economia della provincia cinese del Catai caratterizzata dalla produzione della seta, tessuto che in Europa, come abbiamo appena visto, arrivava attraverso un percorso preciso che univa ORIENTE E OCCIDENTE:

La VIA DELLA SETA


La via della seta, aveva anche le sue diramazioni che si estendevano a est sino alla Corea e al Giappone e a Sud fino all’India. Nella porzione occidentale del tragitto, una volta superati i passi montani del Pamir, la via della seta proseguiva in vari percorsi che da una parte conducevano all’India, dall’altra verso l’Iran e i fiumi Tigri ed Eufrate in Medio Oriente.

Marco Polo (Venezia 15. Settembre 1254 - 8 gennaio 1324) cadde

prigioniero dei genovesi dal 1296 al 1299 e, proprio in quel perido, dettò le memorie dei suoi viaggi a Rustichello a Pisa, forse suo compagno di cella, che le scrisse in lingua franco-veneta con il titolo "Divisiment dou monde".

Seppur non sia stato il primo europeo a raggiungere la Cina, Marco fu il primo a redigere un dettagliato resoconto del viaggio, Il Milione, che fu ispirazione e guida per generazioni di viaggiatori europei, non ultimo Cristoforo Colombo, che ebbe accesso a materiali sulla cartografia occidentale, in primis al Mappamondo di Fra Mauro.

Da quanto riportato poi nel suo resoconto di viaggio, Il Milione, i tre Polo seguirono le varie tappe di quella che solo alcuni secoli dopo sarà chiamata la VIA DELLA SETA che tutti noi oggi conosciamo nei suoi vari aspetti geografici e non solo.

Secondo una diffusa leggenda, il 5 settembre 1298 Marco Polo si trovava su una delle 90 navi veneziane sconfitte dai genovesi nella battaglia di Curzola. Di sicuro fu catturato dai genovesi, anche se non nei pressi di Curzola, ma più probabilmente a Laiazzo in Cilicia, dopo uno scontro navale nel Golfo di Alessandretta.

 


Palazzo San Giorgio – Genova

Ala antica del Palazzo San Giorgio

Palazzo San Giorgio è uno degli edifici storici più importanti di Genova. Costruito nel 1260, si compone di una parte più antica, in stile medioevale, e di quella rinascimentale che è rivolta verso il mare. Lo splendido Palazzo del Mare, che ha ospitato il Comune, le Dogane, una Banca e ora è la sede dell'Autorità Portuale genovese, è stata anche la prigione di Marco Polo. Tra le sue mura, il navigatore fu imprigionato dai genovesi. Da questa triste circostanza, nacque il resoconto dei suoi viaggi che poi diventò uno dei più celebri libri al mondo: Il Milione.

Marco Polo fu finalmente rilasciato dalla prigionia nell'agosto 1299 e ritornò nuovamente a Venezia, dove, nel frattempo, il padre e lo zio avevano acquistato un grande palazzo in Contrada San Giovanni Crisostomo (sestiere Cannaregio) nota come "Corte del Milion".

Ecco una domanda importante.

Perché si riparla tanto di VIA DELLA SETA?

Il mastodontico progetto della 'Nuova Via della seta', proposta da Pechino sin dal 2013, mira a ridefinire il sistema di rapporti economici e politici a livello globale. La Belt & Road Initiative prevede, sin dall'inizio, la creazione di due corridoi - uno marittimo e uno terrestre - con l'obiettivo di trasformare la Cina nel perno di una rete di collegamenti estesa tra Europa, Africa Orientale e Estremo Oriente.

La risposta appare semplice: perché ancora oggi ci riporta all’idea di un interscambio commerciale pacifico. Lo dimostra il passo tratto da un opuscolo del governo cinese del 2014:

“Come una sorta di miracolo nella storia umana, l’antica Via della Seta potenziò il commercio e gli interscambi culturali nella regione eurasiatica. In epoche antiche, differenti nazionalità, differenti culture e differenti religioni a poco a poco entrarono in comunicazione tra loro e si diffusero lungo la Via della Seta al tintinnio dei campanacci dei cammelli.

A quell’epoca, le regioni attraverso cui si snodava la Via della Seta erano relativamente pacifiche, e non conoscevano i problemi di ‘geopolitica’, ‘geo-economia’, ‘minacce militari’, né il problema del terrorismo che oggi attanaglia l’Asia centrale, l’Afghanistan e altri Paesi, per non parlare poi del ‘terrorismo internazionale’”.

LA NUOVA VIA DELLA SETA

 


 

Con la nuova via della seta, da un punto di vista diplomatico, la Cina si prefigge cinque obiettivi fondamentali: il coordinamento politico, l'incremento della connettività e dei flussi commerciali fra i paesi, l'integrazione finanziaria e culturale tra i diversi paesi.

Il progetto ONE BELT ONE ROAD (OBOR) prevede il rilancio in chiave contemporanea della STORICA VIA DELLA SETA.

Percorso della nuova via della seta

 

Percorso terrestre

Comprensivo di tre diverse rotte atte a connettere la Cina con Europa, Medio Oriente e Sud-est asiatico.

Percorso marittimo

Diviso in due rotte – una che dalla Cina si snoda attraverso l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e infine si collega all’Europa, l’altra che connette Pechino con le isole del Pacifico attraverso il mare di Cina.

L’idea di costruire una via che potesse potenziare i flussi commerciali fu proposta dal presidente cinese XI JINPING nel settembre 2013 durante un discorso tenuto alla Nazarbayev University in Kazakistan, e successivamente durante una visita al parlamento indonesiano. In tali occasioni “XI” auspicava la creazione di una tratta commerciale che potesse permettere di stringere profondi legami economici e di rinsaldare la cooperazione fra i paesi beneficiari al fine di facilitare lo sviluppo della zona eurasiatica.

- ONE BELT, ONE ROAD -


Cosa prevede la nuova via della seta?

L’iniziativa One Belt One Road (OBOR) è supervisionata dalla Commissione nazionale di sviluppo e riforma, dal ministro degli affari esteri e dal ministro del commercio. L’OBOR ricopre un ruolo primario nei piani del governo di Pechino in quanto fattore coadiuvante agli obiettivi di lungo periodo di raddoppiamento del PIL e di creazione di nuovi legami internazionali, già enunciati a marzo 2016 con la pubblicazione del 13° piano quinquennale.

Le Rotte Commerciali

Il progetto prevede la creazione di nuove tratte commerciali e il potenziamento di quelle già esistenti. Le rotte terrestri di riferimento sono tre:

1.una delle vie terrestri parte da Xi’an (la prima delle quattro antiche capitali Cinesi), città situata nel centro del paese, e si snoda attraverso il centro dell’Asia, ossia attraverso Kazakhistan, Russia (Mosca) e dirigendosi infine nel Mar Baltico;

2.Da Xi’an inizia un secondo percorso terrestre che attraversa il Medio Oriente, nello specifico Islamabad (Pakistan), Teheran (Iran), Istanbul (Turchia);

3.Infine una terzia via parte da Kunming a attraversa il sudest asiatico, attraverso paesi quali Tailandia e Myanmar, finendo la sua corsa a Delhi in India.

Le principali rotte marittime sono due: una inizia dal porto di Fuzhou e attraversa l’oceano Indiano toccando Malesia, Sri Lanka e il mar Rosso, collegando l’Europa a Rotterdam; la seconda parte sempre da Fuzhou e arriva alle isole Pacifiche attraverso il Mar di Cina.

Il progetto in totale coinvolgerà circa 4,4 miliardi di persone, ossia circa il 63% della popolazione mondiale, e il 29% del PIL mondiale, corrispondente a 21 miliardi di dollari.

Nello specifico, riguardo la via terrestre, la Cina sta pianificando una ferrovia ad alta velocità che parta da Kunming e si espanda verso il Laos, Cambogia, Malesia, Myanmar, Singapore, Tailandia e Vietnam. Inoltre viene prevista la creazione di un ulteriore network di strade, ferrovie e condotti che inizi da Xi’an e si snodi ad Ovest verso il Belgio.

Pechino ha già iniziato la costruzione di una ferrovia per il trasporto merci di 8 mila miglia che connetta Yiwu a Madrid e una linea che inizi Kashgar e si diriga verso il Pakistan e successivamente verso il mare Arabico. La Cina non ha bisogno di costruire molte delle tratte richieste, ma solo di collegarle fra loro in modo efficiente.

 

L’Italia e la nuova Via della Seta

Un polo portuale e varco per l’Europa

I porti italiani sono ritenuti importanti snodi commerciale e strategici per il progetto One Belt-One Road. Il mediterraneo è il punto di arrivo della tratta marittima che da Fuzhou si dirige in direzione Sud-Est verso Malesia, Thailandia, Indonesia, India, passando per l’Oceano Indiano prima e il Mar Rosso dopo, e dirigendosi infine nel Mediterraneo dove, dopo Atene, raggiungerà l’Italia.

Già nel 2016 il porto di Venezia (vedi mappa sopra) aveva assunto particolare rilevanza per il progetto cinese, in quanto la rotta Marittima facente approdo a Venezia si figura come la più efficiente, per via della possibilità di ridurre al minimo i tempi e i costi relativi alla movimentazione delle merci. Il porto permetterebbe il collegamento più rapido tra l’Europa la Cina: la tratta Nord Adriatico – Shanghai, lunga 8.630 miglia, è di 2.000 miglia più vicina rispetto alla tratta Amburgo-Shanghai, della lunghezza di 11 mila miglia, comportando un risparmio di tempo di navigazione di 8 giorni.

Recentemente, in occasione della visita ufficiale di Xi Jinping a fine Marzo 2019, l’Italia ha assunto un ruolo ancora maggiore in quanto i porti di Palermo, Genova e Trieste potrebbero diventare importanti snodi nel mediterraneo. In particolare, quest’ultimo avrebbe attirato l’attenzione cinese poiché per la Cina, avere uno scalo in uno dei porti storici dell’Europa porterebbe condizioni doganali favorevoli, una rotta commerciale più veloce nel cuore del continente e un accesso diretto alle ferrovie per lo spostamento delle sue merci nell’Unione europea. Una soluzione già offerta da Venezia, ma che la Cina preferisce per via della più facile realizzazione.

L’apertura dei porti italiani alla Nuova Via della Seta e i conseguenti ingenti investimenti nelle infrastrutture condurranno non solo l’Italia ma l’intera Europa a essere collegate in maniera più efficiente con la Cina e tutti i paesi interessati dal progetto.

IN SINTESI:

Si chiama 'One Belt, One Road', abbreviato nell'acronimo 'Obor' o 'Bri' il progetto cinese di una Via della Seta in chiave contemporanea destinata a collegare l'Asia all'Europa e all'Africa, ma soprattutto a mettere la CINA MODERNA al centro dei traffici e a ridisegnare di conseguenza gli equilibri economici e geopolitici mondiali. E' una rete di collegamenti infrastrutturali, marittimi e terrestri basata su due direttrici principali: una continentale, dalla parte occidentale della Cina all'Europa del Nord attraverso l'Asia Centrale e il Medio Oriente, ed un'altra marittima tra le coste del Dragone ed il Mediterraneo, passando anche per l'Oceano Indiano.

La sua realizzazione avrebbe un costo di almeno 900 miliardi di dollari, una cifra enorme che neanche il colosso cinese può gestire da solo. esteri.

La rete commerciale descritta aprirebbe poi la strada a gasdotti e oleodotti. L'intera mappa dei flussi economici mondiali potrebbe uscirne ridisegnata, seppure nell'arco di decenni.

Nel marzo 2019, l’Italia ha aderito alla Nuova Via della Seta – Conosciuta internazionalmente come:

Belt and Road Initiative (BRI)

Sono stati espressi molti giudizi, sia positivi che negativi, a riguardo del progetto. Tuttavia, a più di un anno dalla firma del MEMORANDUM D’INTESA, i rischi e le opportunità derivanti dall’adesione sono ancora poco chiari. E’ opportuno quindi far luce sulla questione, e di analizzare le conseguenze della partecipazione italiana alla Via della Seta.

L’adesione italiana

L’accordo sancisce l’adesione ufficiale dell’Italia al progetto, senza però stabilire impegni giuridici. Per inaugurare la collaborazione, insieme al Memorandum sono stati firmati 29 accordi istituzionali e commerciali per un valore totale di 2,5 miliardi di euro.

I vantaggi

A sette anni dal lancio dell’iniziativa, la Via della Seta è ancora nella fase iniziale del suo sviluppo – la conclusione è prevista per il 2049, nel centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese.

Una maggiore connettività

Gli investimenti infrastrutturali correlati alla Via della Seta hanno indubbiamente migliorato i rapporti tra Asia ed Europa. I progetti della Via della Seta, dunque, potrebbero espandere il commercio di queste zone riducendone i costi, e aumentare gli investimenti esteri e la connettività.

Un canale preferenziale

L’Italia è la più grande economia europea e unico Paese appartenente al G7 ad aver aderito all’iniziativa di Xi Jinping. Per Pechino, i porti italiani offrono condizioni commerciali favorevoli e un accesso più rapido ai mercati dell’Unione Europea. Soprattutto, però, l’adesione italiana ha rappresentato un successo simbolico per la Cina poiché è stata vista come il primo e vero endorsement occidentale. Pechino potrebbe aver considerato la partecipazione di Roma come un’opportunità per spianare la strada ad accordi con altri Paesi dell’Unione Europea, ed esercitare pressioni politiche per allentare i meccanismi di controllo dell’Unione Europea verso gli investimenti cinesi. L’Italia, grazie a questa condizione di unicità, potrebbe essere vista come un canale preferenziale da parte della Cina: nella speranza di mostrare all’Occidente la bontà della Via della Seta, Pechino potrebbe avere un occhio di riguardo per l’Italia.

La partita dei porti


Nave portacontainer della Cosco, gigante cinese della logistica

 

È opportuno, infine, soffermarci sui potenziali vantaggi che il partenariato strategico con la Cina ha per i porti italiani, dal momento che l’Italia sarà il punto di arrivo della componente marittima della Via della Seta. Pechino è particolarmente interessata agli scali mercantili italiani. Compagnie cinesi hanno partecipato allo sviluppo del porto commerciale di Vado Ligure, mentre altre sono interessate alla nuova piattaforma logistica del porto di Trieste. Entrambi i porti hanno fondali molto profondi – caratteristica rara nei porti mediterranei –, capaci di accogliere anche le più grandi navi portacontainer di ultima generazione, e offrono collegamenti ferroviari diretti con il resto d’Europa. Il porto di Trieste, inoltre, detiene un’esenzione unica dai dazi doganali.

Secondo uno studio congiunto dell’Università di Ferrara e la Peking University, il Mediterraneo si appresta ad assumere una dimensione centrale nei commerci Euroasiatici. Secondo l’OCSE, le merci spostate lungo la componente marittima della Via della Seta saranno almeno dalle 10 alle 20 volte superiori rispetto a quelle mosse lungo la tratta terrestre. I porti italiani, dunque, hanno ampie potenzialità di sviluppo nel contesto BRI. Basti pensare che il Pireo, il porto di Atene, ha incrementato il suo traffico del 50% da quando la Cosco, una famosa compagnia cinese, ne ha assunto la gestione nel 2016.

Tra rischi e opportunità

L’adesione italiana alla Nuova Via della Seta offre quindi molte potenzialità e prospettive. Ma quali sono i rischi?

Innanzitutto, il gioiello di Xi Jinping è ancora molto nebuloso, nonostante ci siano chiari elementi positivi, molti sono ancora oscuri.

La Via della Seta è stata più volte considerata una debt trap, ossia uno strumento diplomatico volto a estendere il controllo politico ed economico cinese all’estero. A Roma è stato criticato il fatto che è possibile fare affari con Pechino senza doversi impegnare in un “ambiguo programma geopolitico”. Molti Paesi europei sono rimasti interdetti dall’adesione italiana perché preoccupati delle implicazioni per la sicurezza nazionale degli investimenti cinesi in settori strategici come porti, energia, tecnologia e telecomunicazioni.

Inoltre, sebbene le opportunità sulla carta siano molte, la realtà potrebbe non essere all’altezza delle aspettative. È vero, l’Italia potrebbe usare a proprio vantaggio il fatto di essere la più grande economia europea e unica potenza del G7 a partecipare alla Via della Seta; tuttavia, è impensabile che giochi una partita alla pari con il gigante cinese. Rompendo ulteriormente la compattezza dell’Unione Europea, Roma ne ha messo in discussione il ruolo nella scena internazionale. L’Unione Europea può agire efficacemente e esercitare influenza nel teatro geopolitico globale soltanto a condizione che i suoi membri agiscano all’unisono.

Il punto di non ritorno

La questione delle responsabilità per disastri sanitari, e delle regole comuni nella lotta ai mutamenti climatici, impongono come obiettivo urgente la creazione di un luogo in cui giudicare le pratiche internazionali, almeno per costringere i Paesi a muoversi responsabilmente nelle sfide che ci attendono per la sopravvivenza dell’intero pianeta. Nel frattempo il prezzo che la Cina pagherà per la crisi da Covid-19 sarà politico ed economico, se le multinazionali ridurranno la loro attività nel Paese. Sono questi i costi che Xi Jinping maggiormente teme. Non è più solo Washington a prendere le distanze da Pechino: anche il summit tra Xi e i vertici della Ue di poche settimane fa, che originariamente doveva essere il sigillo di una relazione profonda, ha visto gli europei sempre più convinti nel considerare la Cina un «rivale strategico» con interessi, obiettivi e metodi divergenti da quelli della Ue.

La pandemia ha segnato un punto di non ritorno: l’Europa, gli Stati Uniti e il resto del mondo sono di fronte alla necessità di fare un serio reset delle relazioni con la Cina.

Difficilissimo. Ma inevitabile.

 

Nel sottotitolo di questa modesta ricerca, abbiamo scritto:

Lungo la Via della seta si scambiavano non solo merci, ma anche culture, religioni, forme artistiche e conoscenze tecniche.

Abbiamo solo il tempo e lo spazio per fare qualche esempio:

Palazzo Marino in Musica con l’edizione Sentieri d’Oriente ha raccontato in musica il lungo percorso di avvicinamento tra Europa e Asia indagando i differenti linguaggi nati, nel corso del tempo, dalle contaminazioni e dalle influenze reciproche. La stagione 2018 ha presentato repertori particolarmente rari e ricercati e ha chiamato a esibirsi per la prima volta in Sala Alessi interpreti internazionali.

Con sei concerti, Palazzo Marino in Musica ha proposto un affascinante viaggio musicale, dal Seicento a oggi, che ha percorso simbolicamente quelle Vie della Seta che fin dall’antichità misero in contatto culture e popolazioni differenti, dal Mediterraneo alla Cina e al Giappone. Sono state eseguite le composizioni dei primi sacerdoti missionari e musicisti come Teodorico Pedrini e Joseph Marie Amiot che introdussero le sonorità dell’Occidente alla corte degli Imperatori cinesi nel primo Settecento e portarono in Europa la loro testimonianza delle civiltà dall’Estremo Oriente. Si è passati attraverso l’esotismo musicale che caratterizza fortemente la scrittura musicale di Debussy e Ravel e i temi di opere di grande successo come Turandot di Puccini, per arrivare poi verso i confini orientali con il greco Kalomiris e i russi Skrjabin e Stravinkij. I concerti hanno proposto le sonorità dell’armeno Komitas, che traduce il folklore della sua terra in chiave occidentale, e del giapponese Hosokawa, in un intreccio tra Oriente e Occidente sempre più sofisticato. La stagione è giunta nel nuovo mondo con il compositore Bright Sheng di Shangai, al quale la Casa Bianca ha commissionato un brano eseguito in onore del primo ministro cinese Zhou Rongji nel 1999, e con uno dei più influenti musicisti del mondo, Philip Glass, che trova nel buddismo tibetano un rifugio spirituale e del quale è stato eseguito il Quartetto d’archi, colonna sonora del film dedicato allo scrittore giapponese Youko Mishima.

Ad aprire Sentieri d’Oriente è stato il Mediterranean Ambassadors, ensemble fondato da Irina Solinas sulle tracce di Yo-Yo Ma e del suo Silk Road Ensemble del quale ha ospitato per questo speciale concerto uno dei membri fondatori: l’artista indiano del tabla Sandeep Das. Il concerto è stato il debutto mondiale del nuovo ensemble.

AGGIUNGO un mio ”amore” giovanile:

NELLE STEPPE DELL'ASIA CENTRALE

Poema sinfonico

di Aleksander Porfir’evic BORODIN

composto nel 1880


Il poema sinfonico rappresenta una carovana di Asiatici della zona del Caucaso, mentre attraversa una steppa desertica scortata da un plotone di soldati russi. Il tema d'apertura, che inizia dopo l'ingresso dei violini rappresenta i Russi, e si presenta in due tonalità: la maggiore (clarinetto) e do maggiore  (corno); segue un tema di carattere più orientaleggiante eseguita dal corno inglese,  che rappresenta gli Asiatici. Queste due melodie sono in seguito sovrapposte. A fare da collegamento tra i due temi etnici vi è un "tema del viaggio", eseguito dagli archi che rappresenta il rumore degli zoccoli dei cavalli e dei cammelli. Alla fine si sente solo il tema russo eseguito dal flauto in pianissimo, che conclude il brano.

L’Asia centrale è una regione del mondo che in pochi conoscono davvero, nonostante in passato sia stata un’importante via di passaggio tra Oriente e Occidente: per esempio la celebre Via della Seta – il reticolo di circa 8mila chilometri che si sviluppava tra l’impero cinese e quello romano – passava anche da lì, e una delle città sulle vie carovaniere era Samarcanda, il cui nome conosciamo anche in Italia per la famosa canzone di Roberto Vecchioni. I paesi che fanno parte dell’Asia centrale vengono spesso indicati con l’espressione “stan”, perché così finisce il loro nome: Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan (anche Afghanistan e Pakistan finiscono per stan, ma non sono considerati paesi dell’Asia centrale). Gli “stan” hanno diverse cose in comune: per esempio fino alla fine del 1991 facevano parte dell’Unione Sovietica, che è il motivo per cui ancora oggi l’influenza russa da quelle parti rimane molto forte. E poi sono governati da regimi autoritari e sono paesi a maggioranza islamica. Ma non significa che negli ultimi 25 anni gli stan siano riusciti a sviluppare una grande cooperazione reciproca. Un ex ministro del Kirghizistan ha detto: “C’è zero armonizzazione tra noi”.

Carlo GATTI

Rapallo, 27 Aprile 2021

 


(1)-(2) MANPA' - Pannelli solari ante litteram a Genova

(1) - MANPA'

Curiosità genovese: pannelli solari ante litteram

MAURO SALUCCI

storico genovese

Spulcio talora con invidia gli scritti di Vito Elio Petrucci, un vero conoscitore della genovesità, delle sue stranezze, a volte delle sue estreme stravaganze che rendono questo percorso di conoscenza ancora più accattivante perché a volte originalissimo ed unico.

Solo a Genova l'ingegno si coniugò alla parsimonia rimanendo aguzzo. E' il caso dell'uso dei "manpà", dei rettangoli di tela bianchissima che venivano incorniciati da strutture in legno e posti alle finestre delle abitazioni dei vicoli per riflettere la luce chiara all'interno delle case. Genova ha alcuni fra i vicoli più stretti e privi di luce del mondo e vitale era per i nostri avi sfruttare al massimo l'uso di luce naturale o comunque limitare al massimo l'uso di energia elettrica. Un tempo quasi tutti i piccoli laboratori di artigiani, che normalmente erano situati ai primi piani, avevano il loro manpà, il pannello solare genovese.

 

 

(2) - MANPA'

 

 

Una bella immagine di vico del Duca, un rettilineo che scende precipitoso stretto fra alti palazzi sotto a Strada nuova, l'attuale Via Garibaldi, proprio dinanzi a Palazzo Tursi, sede del Comune di Genova. Da notare l'estrema cura della pulizia della strada, probabilmente carrabile a traino. La gente del luogo si mette in posa per la fotografia, un evento raro e inusuale. I titolari degli esercizi si pongono con cura dinanzi agli ingressi, quasi tutti sulla sinistra, pronti a dare i loro servigi agli importanti personaggi che uscivano dal Municipio, soprattutto alla gente che veniva da fuori. Parrucchiere subito a disposizione e, a destra, mescita di vino buono evidenziato da apposita lanterna. A destra si nota una mampâ. Le mampæ erano dei rettangoli di tela bianchissima che venivano incorniciati da strutture in legno e posti alle finestre delle abitazioni dei vicoli per riflettere la luce chiara all'interno delle case. Vitale era per i nostri avi sfruttare al massimo l'uso di luce naturale o comunque limitare al massimo l'uso di candele e olio. Un tempo quasi tutti i piccoli laboratori di artigiani, che normalmente erano situati ai primi piani, avevano la loro mampâ, il pannello solare genovese. La mampâ, plurale le mampæ deriva da una voce ispanica, mampara, che significa paravento. All'inizio di vico del Duca troviamo oggi due belle edicole prive delle statue, probabilmente trafugate a suo tempo. Da notare inoltre le cornici d'ingresso in legno scolpito che ornavano gli accessi ai negozi. La nomea di centro storico come di una zona degradata, poco raccomandabile nacque solo alla metà del Novecento, quando a Portoria si iniziò a demolire in nome del nuovo e i vicoli vennero additati come luoghi da evitare, sia per viverci che per passeggiare.


Rapallo, Mercoledì 3 Marzo 2021

A cura di Carlo GATTI


IL NATALE A NEW YORK DI UN EQUIPAGGIO SOPRAVVISSUTO

IL NATALE A NEW YORK DI UN EQUIPAGGIO SOPRAVVISUTO…

Versione Natalizia di un brano del libro

QUELLI DEL VORTICE

La storia del rimorchiatore d’Altura Vortice è stata scritta sul mare da tanti equipaggi. Su di loro è rimasto impresso un sigillo indelebile, corredato di una “certificazione” che è stata rilasciata dalla più esclusiva Università Marinara di Genova – Facoltà: Rimorchi d’Altura Il diploma di laurea però è impresentabile, perché è impregnato di sudore, è sporco del grasso di molte redance e maniglioni, è unto dall’olio del troller ed è schiacciato da pesanti catene.

Il centro della depressione e l’atterraggio del VORTICE a New York sono pericolosamente in rotta di collisione. La metropoli americana é già truccata per l’imminente Natale 1970


Il velo notturno, bloccato a ponente da un’entità superiore, tramonta più lentamente del solito. Le tenebre, acquattate dietro l’orizzonte, sembrano intenzionate a frenare le luci dell’alba, forse per non “chiarire” il suo infausto progetto. Poi, lentamente, la luce nascente di poppa, scolpisce uno scenario dantesco, che si estende come un arco tra i due traversi del Vortice che procede verso ponente, cavalcando su onde alte ormai sei metri o forse anche di più.

Il ponte di comando è largo quel tanto che basta per sgranchirsi le gambe tra un’onda e l’altra. Charly usa esercitare questo tipo di footing per sciogliersi i muscoli e quando il mare monta e ringhia, l’esercizio è utile, almeno così pensa, per esorcizzarne, con una specie di balletto rituale quella nenia furiosa che annunzia la nuova sfida all’O.K. Corral...

Qui la situazione appare molto più grave, perché le misure ed il peso dell’avversario sono fuori scala. Charly lo sa e per una sorta di vanto giovanile non lo teme, tuttavia non osa provocarlo, neppure con lo sguardo. Il gran match sta per cominciare e Charly non intende svelare le sue strategie né tanto meno le sue emozioni all’avversario che si avvicina minaccioso, a testa bassa, simile più ad un toro gigantesco che carica infuriato, che ad un pugile raffinato che usa colpire sempre con jabs pungenti, sfuggenti e senza tregua.


Poi, senza alcun preavviso, verso le otto, il mostro sbuffante apre le sue fauci e mostra i suoi contorni più alti, che paiono scolpiti da mani diaboliche nella nera lava. La sua parte inferiore, ancora lontana, appare invece invitante, affascinante, magica come una grotta di smeraldo, colma d’acqua scintillante… da bere! La caverna stregata è l’occhio del mostro, che incanta e attira le sue vittime per divorarle senza pietà.


Alle spalle di quell’inferno incalzante c’è il sinuoso fiume Hudson che porta alla festosa New York, con i suoi docks resi celebri da Marlon Brando in “Fronte del Porto” e che Charly rivede ora in trasparenza, brulicanti di gente festosa e laboriosa. Su quella immaginaria e cromatica tavolozza non mancano le maestose navi passeggeri, i liners giganteschi che ornano, come tanti fiori freschi appena giunti dall’Europa, l’ovale di Manhattan brulicante d’immensi grattacieli che fluttuano come fantasmi sulle note di West Side Story.

Non è tempo di sognare, il vento forte solleva ormai creste insidiose e disegna con i suoi poderosi artigli, simmetriche graffiate di schiuma che s’infrangono minacciose sui vetri del ponte di comando e scivolano poi lungo i fianchi dello scafo.

“Guardate! Quell’oscuro disegno di prora sembra la costa, invece temo che sia qualcosa di molto più duro e impenetrabile rispetto a ciò che dovremmo vedere domani a quest’ora”.

Il nostromo Zeppin, madido di sudore, stenta a tenere la rotta. La prora, nel precipitare verso l’incavo dell’onda, spiattella attorcigliandosi come un serpente. I colpi del tagliamare sono secchi e sordi nella caduta, lamentosi nel risalire disperato in verticale come un naufrago in cerca d’aria pura verso il cielo aperto.

Charly rimane in posizione d’attesa: alla cappa in mezzo al ring, nella speranza di un’improbabile clemenza dell’avversario o di una più improbabile sospensione del match, per la manifesta inferiorità di un imprudente e vanitoso sfidante.

L’equipaggio, assicurata la chiusura di tutte le aperture dello scafo, corazzati gli oblò e bloccati tutti i tipi d’attrezzature esterne e interne, si è radunato nel caruggio centrale. Nessuno è solo e tutti sono pronti al peggio…


Il muro avanza nella bonaccia. Siamo nell’occhio del Ciclone

 

Il Vortice si trova proprio nel centro della depressione diffusa e riportata nel bollettino meteo americano.

Di prora riappare a tinte evanescenti quel lago azzurro smeraldo, proprio come un miraggio. Si tratta dell’occhio ammaliatore che tanti marinai, prima del Vortice, ha già attirato e divorato nelle sue viscere infernali come vittime sacrificali.

Il Vortice, simile ad un puledro appena domato, si trova improvvisamente nella più surreale bonaccia di vento e di mare; frena guardingo, si solleva ancora una volta, si scrolla il sudore di dosso, sbuffa e sconcertato per la falsa accoglienza, si blocca d’istinto.

Charly sa che la straordinaria “grotta azzurra” è un’infida trappola, zeppa di secche e senza vita. Così come teme che pochi al mondo, o forse nessuno abbia mai potuto raccontare d’essere uscito vivo dall’occhio di una simile tempesta…

La respirazione è diventata nel frattempo tremendamente difficile.

Charly, superato mentalmente l’incantesimo di quella magia, fiuta appena in tempo il tragico pericolo incalzante. Reagisce prontamente con rabbia e, strappando l’interfonico dal suo alloggio, urla all’equipaggio di tenersi forte, con tutta la forza possibile. Avverte la macchina di rimanere attaccati ai comandi:

“Presto manovreremo per la vita. Un muro nero e gigantesco si sta avvicinando a folle velocità!”

Chi può in quei reali frangenti, riportare un po’ di sereno in quegli animi scoraggiati e disperati? I veri marinai hanno paura del mare. Chi, più dei marinai sa gestire la paura che non è rassegnazione o fatalità, ma freddezza e calma interiore che provengono da una preghiera?

I marinai vivono positivamente la solitudine e sono dei veri esperti nel ritrovare dentro di sé quella fermezza che li soccorre, sempre, nella tragicità di certi episodi. Questa forza d’animo, per alcuni si chiama Madonna di Montallegro, per altri della Guardia, del Boschetto oppure lo stesso… Dio Misericordioso.

Poi, si sa! Ritornato il sereno, riemerge uno strano pudore ed i santi invocati diventano: destino, fatalità o addirittura bravura umana… ”Parola di marinaio?”

Sul Vortice, anche i più duri di cuore ed i più ostinati di cervello si piegano e, tenendosi stretti l’uno all’altro, pregano. Chi in silenzio, chi ad alta voce.

Quella vulcanica ombra grigia che Charly vede avanzare terrificante come l’incubo di “Una notte sul Monte Calvo”, non è una montagna staccatasi dal continente, neppure il più mastodontico dei piovaschi apparso sulla terra. E’ un’onda di proporzioni catastrofiche!

Ecco il volto della morte!

Sogghigna Charly.


Mancano cento metri all’inevitabile inghiottimento e i tre uomini sul ponte di comando possono soltanto guardare attoniti l’immensa cresta bianca veleggiare ad altezze celestiali. Già!! Proprio verso quel cielo che sembra averli abbandonati per sempre.

La collisione avviene dopo qualche istante ed il Vortice, come un infimo Golia, s’impenna in verticale e fiero soltanto della sua gioventù, penetra il mostro infilzandolo nel ventre, ad un terzo della sua altezza.

E poi c’è il buio più totale! Profondo! Abissale! Lunghissimo come il film della propria vita che scorre lucido, senza fretta, tra gli affetti lasciati per sempre.

Un enorme scroscio d’acqua precipita sopra lo scafo e tuona come un’esplosione. Il Vortice, schiacciato da una pressa gigantesca, è risucchiato verso gli abissi. Poi, carico d’aria, si ferma di schianto, ha ancora una stridula impennata e comincia a salire lentamente, emana flebili ruggiti, come un vecchio leone schiacciato da un branco d’elefanti. Segue un sussulto rapido e poi risale a pallone, urlando insieme al suo equipaggio che percepisce la salvezza. Il VORTICE è ferito gravemente.  Tonnellate di mare diabolico sono entrate dappertutto portando l’umiliazione e la devastazione.

Il Miracolo

Quando la fine sembra ormai giunta, improvvisamente avviene il miracolo. La “risurrezione” dagli abissi si attua con un’insperata emersione, col rivedere improvvisamente la luce e con i comandi del Vortice che rispondono ancora. In queste fasi distinte, ma collegate strettamente tra loro, c’è il ritorno alla vita. I miracoli purtroppo non si ripetono, almeno per i comuni mortali.

Charly lo teme, si avventa sull’interfonico ed urla alla macchina:

“Datemi  “tutta forza ripetuta e con la massima urgenza.  Dobbiamo volare!”

Il mostro, sicuro ormai della vittoria, non dà tregua. Il colpo di maglio, simile al precedente, è già lì, sospeso, statuario, in posa arcuata, a poche decine di metri, urlante d’odio, ghignante nella sua immensità. Il suo martello è pronto a sferrare con micidiale crudeltà l’ultimo colpo su l’ignobile ed arrogante insetto che ha osato sfidarlo.

Charly balza come un giaguaro sulla ruota del timone e grida a Zeppin:

TUTTA A SINISTRA

insieme, in un abbraccio terrificante e sovraumano, s’avvinghiano urlando appesi alle caviglie della ruota che vibra al limite della rottura. Nella rotazione forzata degli ingranaggi, caldi guizzi d’olio sprizzano sui loro volti già intrisi di sudore.

Bobby abbassa ancora la leva del telegrafo e ripete l’ordine con rabbia :

Tutta forza avanti

Il Vortice parte come una poderosa cannonata ed accosta piegandosi sul fianco sinistro, appiccicato a quella parete livida, perfettamente verticale e levigata come la pista di un circo di periferia.

In quella curva perfettamente circolare, impressa nell’onda densa come un muro, c’è l’ultima speranza.

Chi può dirlo di preciso?  La sensazione è quella di un vero e proprio tuffo in una rotazione avvitata. Attimi di terrore! Il rumore dei motori è sparito, è racchiuso, ovattato nel tunnel verde che lo avvolge a spirale come un serpente che sta per soffocarlo.

Il ponte di comando, sbandato al limite del rovesciamento, perde ogni riferimento visivo e ogni connotazione nautica.

Stivali, incerate, strumenti, sgabelli, bandiere, coperchi, tazze e tazzine sono rimescolati, sparpagliati dal mare vivo e poi lanciati senza mirare come micidiali proiettili impazziti.

Il Vortice è riuscito a girarsi e mettersi il mare in poppa!

Ma l’onda implacabile lo insegue e quando lo raggiunge gli scarica poi il suo macigno dall’alto di quella collina assetata di sangue. La cresta, come una fragorosa valanga, colpisce in pieno la poppa del Vortice che pare staccarsi di netto dal resto dello scafo. La prora, ormai sfuggente, reagisce arrampicandosi in alto, svirgolando come un rettile impaurito che sottrae la sua coda al predatore.

Lo sforzo di Zeppin, Bobby e Charly sulla ruota del timone è immane e forse volutamente esibizionista, plateale, pensò Charly:

“A quel mostro bastardo ed infernale non possiamo che mostrare il volto della nostra sofferenza, del nostro coraggio e quella parte “assistita” della nostra debole intelligenza umana”.

Tra i vetri appannati e striati di bianco, le ombre nere di tre marinai lottano ancora, confusamente attorcigliati. E’ l’unico segno di vita! Il Vortice è ingovernabile, ma non può traversarsi alle onde. Il timone è diventato una ruota di pietra. Nella rinata speranza di vita, quegli uomini veri triplicano le forze ormai esaurite e, dall’Isola dei morti ritornano lentamente alla vita.

Il Vortice ed il suo equipaggio sono ora un ammasso violentato, ammaccato e ferito, ma ancora uniti nei colpi ricevuti, in parti eguali. Tutti a bordo hanno lottato. Nessuno ha deluso l’altro. Ognuno ha dato il massimo di sé, con estremo coraggio ed ora insieme hanno messo le ali.

La musica tambureggiante, scolpita, asimmetrica ed imprevedibile di Prokofiev, lascia la ribalta e, in virtù di un’altra magia, le prorompenti Walkirie fanno il loro ingresso sul nuovo palcoscenico, nella trionfale cavalcata liberatrice di Wagner.

Sospeso come un falco che prende l’ultimo fiato, il Vortice scivola ora in picchiata verso il basso, sparisce e riemerge come un grosso pallone grondante di verde-oceano e striato di schiuma biancastra. Poi risale planando dolcemente alle massime altezze, per restare immobile alcuni istanti sulla cresta dell’onda, e infine precipita a folle velocità, con una schioccante panciata….

Il mostro ci ha pestato ed ora ci prende per il culo. Ci culla e ci spinge, ci risucchia, ci schiaffeggia, ci accarezza e ci scrolla come ragazzini sulla spiaggia dei Cavi in una giornata di burrasca”.

Ammette Charly, cui non restano che vuote parole per frenare l’emozione, un vago senso di sconfitta e tanta stanchezza.

Il Vortice naviga ora verso casa, con un assetto poco virile. Sbandando e sculettando vistosamente, si ritira verso il suo angolo, dolorante come un pugile colpito e frastornato dai colpi.

L’equipaggio è a pezzi, ma vivo, è stato salvato da un “gong celeste” ed è fiero per le manovre fortunate del suo capitano.

Quel silenzio colmo di sagge meditazioni esistenziali è rotto, ben presto, da un urlo incontenibile di gioia, che sale dal carruggio del Vortice, e prende ancora più forza nella tromba delle scale.

“Hip-Hip-Hurrà !! “ Forse per esorcizzare il drago che sputa ancora fiamme e vapori sulfurei,  ma non fa più paura a nessuno. Hip-Hip-Hurrà !!”  Forse per ringraziare il Cielo del dono ricevuto.“Hip-Hip-Hurrà !!”   Per un brindisi di Champagne alla gioia di vivere.

Con una ritirata strategica, la prima parte della spedizione prende una piega assolutamente atipica ed il Vortice, esibendosi in un insolito surf Atlantico, si fa sberleffi della tempesta. Alla comprensibile paura dell’equipaggio, subentra la reazione nervosa, che mira ora al recupero d’energie ed alla rivincita su un avverso destino, mediante un gioco ancora pericoloso, ma affascinante.

La tempesta spinge ancora forte di poppa e scarica, talvolta, sullo scafo onde ancora più alte che, un Vortice sprezzante e altezzoso, respinge ormai sicuro di sé, fuggendo a zig zag come una lepre sulle colline di Carpenissone. Il solcometro, purtroppo, segna 12 nodi di velocità, il doppio di quella registrata con mare calmo e con lo stesso numero di giri-motore. Sembra impossibile, ma il Vortice sta volando.

Passata è la tempesta… Tre navi sono affondate davanti a New York… Il rimorchiatore d’altura VORTICE prende il pilota dell’Hudson e verso mezzogiorno é in banchina. E’ la X-mas Eve (la vigilia di Natale). Il destino gli ha fatto vedere l’inferno ed ora il PARADISO della nascita di Gesù Cristo ed anche quello della rinascita di un equipaggio che ormai tanti davano per disperso.

Quando chiamai mia moglie per AUGURARLE il BUON NATALE, con una punta d’invidia mi disse: “beati voi che passate le feste nella città natalizia più famosa del mondo! Immagino che il viaggio sia andato bene! Avete ritardato solo qualche giorno”. Ricordo d’averle rispostoUn viaggio indimenticabile, ora prenderemo due navi Liberty a rimorchio per la Spagna mediterranea. MAI DI PEGGIO! – Cosa significa? – Te lo spiegherò al ritorno!

Carlo GATTI

Rapallo, 15 Dicembre 2020


LA M/N CATERINA COSTA 28 MARZO 1943 ESPLODE NEL PORTO DI NAPOLI

LA M/N CATERINA COSTA

28 MARZO 1943

ESPLODE NEL PORTO DI NAPOLI

Oltre 1.000 sono le vittime ufficiose

3.000 i feriti e ingenti danni alla città

 

La CATERINA COSTA saltò in aria. Era una santabarbara galleggiante ormeggiata al molo 18 del porto di Napoli, non lontana dal rione di Sant’Erasmo.

Approdata nella città partenopea, carica di esplosivo, carri armati, cingolati, munizioni, cannoni e più di mille tonnellate di benzina in fusti nelle stive, si presentava come un boccone prelibatissimo per eventuali sabotatori… i quali non lasciarono tracce, ma tanti sospetti che non diedero tuttavia corso ad alcuna “azione antiterroristica”, come si direbbe oggi.!

La nave sarebbe dovuta partire per la Tunisia, a detta di molti studiosi fu sabotata dagli Alleati, ma il Regime al potere in quegli anni non lo avrebbe mai ammesso: oltre al danno la beffa”. Ciò non toglie che la nave possa essere stata vittima anche di una gestione molto superficiale da parte di un equipaggio improvvisato ed inesperto.


Il VARO della CATERINA COSTA A RIVA TRIGOSO IL 14 Aprile 1942


La flotta commerciale dei Costa aveva come ammiraglia la nave “Caterina Costa”, notevole per dimensioni e potenza di motori. Notare il moderno SHAPE della nave.

Le frecce indicano lo squarcio fra le mura del Maschio Angioino


Ciò che rimase della nave….

L'esplosione

Il 28 marzo 1943 la M/n CATERINA COSTA era carica di materiale bellico destinato alle forze armate italiane dislocate in Tunisia . Vediamo questa santabarbara nel dettaglio:

- 790 tonnellate di carburante ; 900 tonnellate di esplosivi; 1.700 tonnellate di munizioni; carri armati ed autocingolati; 43 cannoni a lunga gittata; fucili; circa 600 militari italiani e tedeschi; viveri.

Una volta ultimata la caricazione dei citati rifornimenti, sarebbe entrata a far parte di un convoglio militare diretto a Biserta , in Tunisia.

Nella prima mattinata del 28 marzo 1943 ntale o doloso che, evidentemente, fu sottovalutato e che portò, alle 17,39, all'esplosione del carico e della nave stessa.

Per entrare nel vivo della tragedia, nulla ci sembra più coinvolgente della lettura di alcuni stralci di cronaca trovati qua e là…

“Il comandante Marsi, da giorni stava vigilando sullo stivaggio del “delicato” carico della nave. La partenza era fissata per il 27 di marzo, ma un imprevisto provocò la rottura di una fune e fece slittare la partenza al giorno dopo. Il 28 marzo del 1943 intorno alle cinque del pomeriggio si scatena quello che inizialmente sembra un piccolo incendio a bordo, forse provocato da una
banale scintilla. Basta poco perché il tutto si trasformi in tragedia. La nave diventa una vera e propria bocca di fuoco dalla quale vengono “sparati” pezzi infuocati su tutta Napoli”.

“L’onda d’urto, e non solo, investì Napoli, dal porto partirono pezzi di nave, di cannoni e altro ancora, che arrivarono fino a Piazza Garibaldi, Borgo Loreto, la Sanità, piazza Carlo III e i Quartieri Spagnoli, provocando numerosi feriti. Fu colpita la Stazione Centrale dove alcune schegge appiccarono incendi ai vagoni in sosta, presero fuoco i Magazzini Generali e si dice che proiettili e detriti arrivarono fino al Vomero, alla collina dei Camaldoli, a Soccavo e a Pianura. La torretta di un carro armato si incastrò nel tetto del Teatro San Carlo dopo un volo di cinquecento metri, un pezzo di nave abbatté due fabbricati al Ponte della Maddalena, un altro si conficcò nel tetto di un palazzo di via Atri. Fu colpita anche una facciata del Maschio Angioino. Una lamiera veloce quanto un proiettile trafisse l’orologio della chiesa di Sant’Eligio ubicata nel centro storico della città a ridosso della zona di piazza Mercato. L’edificio gotico, costruito nel 1270, è la più antica costruzione di epoca angioina.

“Alla fine della giornata si contarono ben 600 morti, la stragrande maggioranza tra i marinai di bordo e oltre 3.000 feriti in tutta la città. Purtroppo se ne aggiungeranno molti altri. Non si conta invece il numero indefinito di persone che fu per un breve periodo di tempo, in forte stato di confusione dovuto alla paura e allo shock”.

“Il molo sprofonda letteralmente trascinando un gruppo di caseggiati vicini, due palazzi vengono letteralmente schiacciati dalla prua della nave, un carro armato fu rinvenuto sulla terrazza di un palazzo. Furono sollevati molti dubbi, si pensò anche ad un attentato, ma nulla emerse dalle serrate indagini che seguirà il drammatico evento”.

 

“I sismografi dell’Osservatorio del VESUVIO percepirono l’evento come un terremoto del quinto o sesto grado della scala Mercalli. Quello della Caterina Costa, fu solo uno dei terribili colpi che, compresi i cento bombardamenti che martoriarono Napoli durante la Seconda Guerra Mondiale, segnò la storia della nostra città”.


Rovina, disastro e distruzione

Per meglio comprendere il contesto storico in cui si venne a trovare la nave genovese “CATERINA COSTA”, mi affido alle lucide e dotte spiegazioni rilasciate dalla Prof.ssa Gabriella Gribaudi, docente di Storia Contemporanea all’Università Federico II, la quale si è occupata del periodo bellico e soprattutto ha approfondito gli avvenimenti che sconvolsero Napoli negli anni compresi tra il 1942 e il 1945 arrivando alla conclusione che Napoli é stata la città più “bombardata” d’Italia, dove vivo è ancora il ricordo di quelle giornate.

L’intervista é centrata sull’esplosione della “Caterina Costa”, avvenuta nel porto di Napoli il 28 marzo del 1943.

  • Professoressa Gribaudi nel suo libro “Guerra Totale” dedica un capitolo alla drammatica esplosione che sconvolse Napoli il 28 marzo del 1943. Cosa è emerso?

Devo premettere che Napoli ha subito oltre 100 bombardamenti che hanno causato la morte di oltre sei mila persone. E’ stata una città fortemente colpita per una ragione precisa: con il suo porto era la base di partenza delle navi militari dirette in Africa ed era il porto di rifornimento di armi. In più è stata sottoposta, dopo lo sbarco degli alleati a Salerno il 9 settembre del 1943, alle rappresaglie dell’esercito tedesco. Per cui possiamo affermare che fu colpita dal cielo dall’aviazione degli alleati e, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, fu sottoposta ai rastrellamenti, alle rappresaglie naziste. 18 mila furono in quegli anni i napoletani condotti nei campi di concentramento.”

  • Venendo, dunque, al 28 marzo, cosa accadde?

“La nave “Caterina Costa” era ormeggiata nel porto, in attesa di partire per il nord Africa per portare all’esercito armi e derrate alimentari. Nella stiva di poppa, già dalle prime ore della mattina, iniziò a sprigionarsi un incendio. All’inizio si trattò di piccole esplosioni. Dai documenti rinvenuti e dalla corrispondenza tra le Autorità, come Prefettura, Marina Militare, Autorità del porto, si evince chiaramente che su tutti prevalse l’indecisione, l’incapacità di assumere delle decisioni e che, per una studiosa di storia, è un’ulteriore dimostrazione della mentalità delle “élite dirigenti” del fascismo: avventurismo, incapacità di decidere e di operare in sintonia con i vari centri del potere, scarsa sensibilità verso la gente comune furono i caratteri distintivi del regime. A bordo c’erano bombe, polvere da sparo, carri armati per cui l’esito dell’esplosione fu devastante: palazzi crollarono, fabbriche andarono distrutte, quartieri lontani dal porto furono colpiti. I morti accertati furono 600, ma probabilmente furono molti di più. Devo aggiungere che le sirene non suonarono, come avveniva in caso di “bombardamenti”, per cui i cittadini ignari non corsero nei rifugi.”

  • Una domanda che molti si sono posti, è se si sia trattato di un attentato.

“No, lo testimoniano le relazioni di Prefettura e Vigili del Fuoco dell’epoca che ho esaminato. Gli errori furono molteplici: il primo fu di aver ormeggiato una nave carica di esplosivo con la prua rivolta verso la città e non verso il largo, altro errore fu di non provare ad affondarla o almeno ad allontanarla. All’inizio, come le ho precisato, l’incendio fu di piccole dimensioni. L’esito catastrofico fu il risultato di una conclamata incapacità a prendere delle decisioni sensate.”

  • Ma ci fu un’indagine dopo l’evento? In che modo si valutarono le responsabilità?

L’unico risultato delle indagini fu l’allontanamento del Comandante del porto, Ammiraglio Falangola. Provvedimenti più seri e che la popolazione si aspettava non vi furono. Su tutto calò il silenzio. Ciò che emerge chiaramente, da questa triste pagina della guerra, è la perdita delle “memoria pubblica”. L’esplosione di quella giornata è rimasta, invece, impressa nella mente dei napoletani. Nel mio libro riporto diverse testimonianza di figli di uomini e donne dell’epoca che conoscono quanto avvenne grazie al racconto di nonni e di genitori. La memoria privata c’è.  Ritengo importante aver deciso di commemorare quel 28 marzo 1943 per riportare all’attenzione “pubblica” un accadimento dimenticato per 75 anni dalle Istituzioni.”

.

M/N CATERINA COSTA - Un po’ di Storia -

La motonave da carico Caterina Costa fu protagonista, come abbiamo già visto, di uno dei peggiori incidenti della Seconda guerra mondiale. La nave da carico, ne vale la pena ricordarlo,

era da poco tempo entrata in servizio nelle file dell’Armamento Costa di Genova e rappresentava in quel momento storico una delle navi più moderne tra quelle costruite in Italia.

Il 21 ottobre 1942 fu requisita dalla Regia Marina e, in virtù delle sue caratteristiche, fu adibita al trasporto dei rifornimenti sulla rotta più importante, quella per il Nord Africa.  Compì quattro viaggi su questa tratta;

il 26 dicembre 1942 rimase danneggiata in un attacco aereo su Biserta.

Per completezza riportiamo date e dati che la riguardavano:

Tipo ……………………………. Motonave da carico

Proprietà…………………….. Giacomo COSTA

Cantiere……………………… Cantiere Navale di Riva Trigoso (Genova)

Impostazione…………….. 1939

Varo……………………………. 14 Aprile 1942

Completamento…………. 1942

Entrata in servizio……… 1942

Destino finale…………….. Affondata a Napoli il 28 marzo 1943

DATI NAVE

Dislocamento…………….. 8.600 tonn.

Stazza lorda………………. 8.060 tonn.

Lunghezza…………………. 135,5 mt.

Larghezza………………….. 19,0 mt.

Altezza………………………. 9,0 mt.

Pescaggio a pieno carico8,0 mt

Propulsione………………. Motori “FIAT Grandi Motori” – 8 cilindri

Carlo GATTI

Rapallo, 2 Ottobre 2020


I MISTERI DEL KT DI SESTRI LEVANTE

SCHEDA

 

 

“EROS” “KT”

(Krieg Transporte)

 

Caccia antisommergibili U-J 2216 (UJ: U Boot Jager = Cacciatore di sommergibili) Data di affondamento: siluramento da parte di 4 moto torpedo boat (motosiluranti) inglesi alle ore 3,40 nella notte tra il 13 ed il 14 settembre 1944)

 

Posizione: LAT. 44° 15’ 856” NORD LONG. 09° 21’ 960” EST

 

Distanza dalla costa: 0,95 mg dalla punta di Sestri Levante Allineamenti da terra: Il punto di partenza della diga foranea del porto di Sestri L. con il campanile della chiesa di Sant’Antonio: i due capi, Punta Manara e Punta Baffe allineati.

 

MEMO

 

Localizzazione 8, Visibilità 7, Facilità di discesa 7, Correnti sì Accesso all’interno 3, Presenza lenze/reti sì, Interesse storico-doc. 7, Interesse bentonico 8.

 

Il relitto giace ad una profondità di 58 metri. La nave, inizialmente considerata semplicemente un trasporto di nazionalità tedesca, è stata successivamente rivisitata ed un più accurato controllo delle attrezzature rimaste a bordo, ha consentito di riscontrare la presenza di scritte in lingua francese per cui inizialmente si era affacciata anche l’ipotesi che l’unità fosse stata allestita in un cantiere transalpino. Non era comunque l’unica incertezza circa l’identità di questa unità navale: secondo altri ricerca tori, infatti, poteva essere stata varata in un cantiere italiano. Grazie ai registri storici della Kriegsmarine, la vera identità della nave è stata infine ricostruita con certezza: si chiamava originariamente Eros ed era uno splendido yacht appartenente al nobile francese, il barone Henri de Rotschild, noto banchiere. Si sa anche che nel 1926 venne varata dai cantieri Ramage & Ferguson di Leith e che venne affidata

 

al comando del capitano J.H. Evrard che ne aveva anche seguito i lavori di costruzione. L’Eros, estremamente lussuoso e ben rifinito, era di base a Le Havre ed era sospinto da due motori da 900 cv ciascuno. I dati tecnici illustrativi sono eloquenti:

 

- peso= 26 tons

 

- lunghezza totale= 65,13 mt

 

- larghezza= 9,75 mt

 

- dislocamento= 914 tons

 

- velocità= 14 nodi.

 

In occasione della crisi cecoslovacca il 17 aprile 1939 l’Eros venne requisito dalla Marina Nazionale Francese e inviato in servizio ad Ajaccio con la sigla AD 227. Si sa anche che il 4 maggio fu restituito ai suoi proprietari, ma tre mesi più tardi, con la seconda guerra mondiale ormai in corso, venne nuovamente requisito e reinscritto nel ruolo militare col numero AD 196. Infine venne affidato a “Marine Maroc” e inviato a Tangeri, ove ebbe un ruolo rappresentativo anche per le autorità francesi a Gibilterra.

 

A questo prestigioso yacht, inizialmente furono affidate missioni, diplomatiche. Nonostante ciò fu poi riclassificato come scortaconvoglio e venne dotato di un cannone da 100 mm e di alcune altre installazioni militari indispensabili per i nuovi compiti e il suo numero divenne questa volta P 140. Rimesso in servizio a Tolone il 2 settembre verrà inviato in missione a Tangeri il 10 novembre 1939. Delle sue missioni militari ricordiamo una scorta al sottomarino Ariane nel dicembre 1939, una scorta al sottomarino Espadon nell’aprile 1940, la scorta a due convogli trasporto truppe in marzo e il riconoscimento dello stato sanitario del rimorchiatore danese Geir il 12 aprile 1940. L’Eros non lascerà il porto di Tangeri che dopo l’armistizio per raggiungere Casablanca il 26 giugno 1940 con il personale della Missione Navale Francese di Gibilterra.

 

 

Resterà due anni in Marocco, poi sarà richiamato a Tolone, giungerà in Provenza il 16 giugno 1942; incorporato nella divisione Metropolitana, sarà incaricato della sorveglianza dei litorali e verrà ribattezzato col nome di “Incomprise”. Il 27 novembre 1942 i tedeschi occupano Tolone: la maggior parte delle navi ormeggiate in porto viene danneggiata e affondata ma alcune piccole unità, tra cui l’Enterprise, vengono catturate integre.

 

Cacciatore di sottomarini Ufficialmente ceduto alla Kriegsmarine dal governo di Vichy, la nave nell’arsenale di Tolone subì diverse modifiche al fine di trasformarla in U-Jager (cacciatore di sottomarini). Contrariamente all’armamento sommario di cui era stato dotato dalla Marina Francese, le installazioni tedesche furono molto più importanti. Il ponte poppiero fu interamente scoperto sino all’altezza della sala macchine, scomparvero i lussuosi saloni superiori e sul ponte principale, così ripulito, furono fissati un pezzo da 88 mm, tre piattaforme di artiglieria antiaerea e otto lanciagranate sottomarino. Sul ponte prodiero venne installata una piattaforma per un binato di 37 mm e due pezzi da 20 mm vennero disposti su ogni bordo avanti e dietro il ponte di comando. Degli apparecchi speciali per l’ascolto dei sottomarini trovarono posto nello scafo.

 

 

Questi importanti lavori richiesero più di nove mesi. La prima uscita di prova dell’unità, ribattezzata UJ-2216, venne effettuata il 2 settembre 1943. Messa infine in servizio il 27 settembre 1943 e assegnata alla Flottiglia U-J di stanza a Genova, l’UJ-2216 rimase bloccata parecchie settimane a Marsiglia e non riuscì a raggiungere il capoluogo ligure che agli inizi del 1944. La sua vita militare nella Kriegsmarine fu però assai breve. Il 13 settembre 1944, verso sera, l’UJ-2216 è in missione nei pressi di La Spezia: soffia un leggero vento da terra, il mare è calmo e illuminato dalla Luna. L’UJ 2216 scorta due posamine, la MFP 2865 e la 2922. Scopo della missione è la posa di un nuovo sbarramento di mine nei pressi del porto di La Spezia. Le mine sono tutte sganciate e verso le 22,30 la missione è compiuta, il piccolo convoglio si avvia verso Genova con l’UJ in testa seguito dalle due MFP.

 

Dopo alcuni minuti le navi sono sorprese dal primo passaggio di un aereo alleato mentre si trovano all’altezza della punta di Sestri Levante. Dopo aver lanciato alcuni bengala l’aereo lanciò sei bombe ma senza colpire il convoglio. Ma ormai le navi erano state scoperte e una mezz’ora più tardi infatti l’operatore radio dell’UJ intercettò delle comunicazioni via radio che davano ordine a delle motosiluranti inglesi di dirigersi sulle navi nemiche.

 

La battaglia in mare.

 

Alle ore 3 i dispositivi di ascolto di babordo individuarono rumori di eliche a circa 25 miglia: l’allarme venne dato e gli uomini raggiunsero i posti di combattimento ma bisognava attendere ancora mezz’ora prima di avvistare il nemico. Alle 3,30 alcuni marinai imbarcati su una delle MFP cedettero di riconoscere due sagome. Al fine di facilitare i rilevamenti l’UJ manovrò di 30 gradi prima su un bordo poi sull’altro, ma brusii di fondo perturbarono l’ascolto e il numero degli attaccanti fu sovrastimato in 7 motosiluranti. L’operatore radio invece sentì l e vedette chiamarsi tra di loro coi nomi in codice, Tiger, Mystral, Tering e Daniel: erano dunque 4 e avrebbero attaccato senza dubbio a due a due. Alle ore 3,35 il comandante dell’UJ diede l’ordine di aprire il fuoco coi cannoni da 37 e 20 mm di prua senza apparenti effetti; poco dopo il sistema d’ascolto percepì il caratteristico brusio dei siluri filanti sotto la superficie del mare, cinque sibili furono percepiti, due scie passarono a babordo, tre a tribordo, la distanza minima della nave era di tre metri e la massima di venti. Sul ponte di comando si tirò un sospiro di sollievo: un breve attimo perché alle 3,40 esatte una detonazione avvenuta a poppa sorprese l’equipaggio. Lo scoppio del siluro fu immediatamente seguito dall’esplosione delle munizioni e delle granate antisottomarino poste sulle tramogge.

 

La poppa fu distrutta mentre un secondo siluro esplose davanti alla galleria di Sant’Anna. Gli inservienti ai pezzi rimasero uccisi o gravemente feriti. L’ordine di abbandono della nave non venne dato immediatamente e i cannoni da 37 mm di prua e da 20 mm di tribordo continuarono a sparare aiutati dall’artiglieria della MFP. L’U-J 2216 si riempì rapidamente d’acqua e colò a picco.

 

 

Tutti gli uomini validi e i feriti si gettarono in mare, qualche secondo ancora e la nave scomparve. Il combattimento durò in tutto 10 minuti. Sulle FMP trovarono posto 57 naufraghi, tra cui 13 feriti, mentre una piccola vedetta uscita da Sestri Levante ne recuperò 9 e 6 raggiunsero la costa a nuoto. L’indomani alcuni pescatori ritrovarono alcuni corpi. In totale si contarono 6 morti e 17 dispersi.

 

Lo scafo è uno fra i meglio conservati della zona. Poggia su un fondale di fango ed ha ancora le mitragliere in assetto di combattimento, puntate verso l’alto, quasi ad ultima testimonianza della drammaticità di un duello aeronavale. Scendendo in immersione il primo a vedersi è l’albero di trinchetto raggiungibile a soli 35 metri di profondità.

 

Il fondale

 

La nave è completamente avvolta da banchi di rosei Anthias, boghe, menole, da grandi saraghi. Lo scafo è poi ricoperto di bellissime incrostazioni che lo rendono simile ad un giardino tropicale con colorazioni che vanno dal giallo al verde, dal fucsia al rosa grazie anche ai magnifici cnidari del genere Corynactis viridis.

 

Lo scafo si presenta ancora in buone condizioni malgrado gli assalti dei numerosi cacciatori di souvenirs.

 

(Testi)................  Emilio CARTA

(Schede e foto)...  Matteo VITA

webmaster...........   Carlo   GATTI

Rapallo, 19 Agosto 2015



Link con i MITI DEL MARE

I MITI DEL MARE

Avvisiamo gli appassionati di Modellismo Navale che possono entrare nei siti dedicati a questo argomento tramite l'Associazione I MITI DEL MARE cliccando Link nella Home Page.

Carlo Gatti


1346-LA PESTE IN VIAGGIO CON I GENOVESI DA CAFFA ALL’ITALIA

1346-LA PESTE A BORDO CON I GENOVESI IN VIAGGIO DA CAFFA (CRIMEA) ALL’ITALIA

 

La Peste Nera che colpì l’Europa fra il 1347 e il 1351 fu la più grande pandemia che la storia ricordi. Si calcola che, nel volgere degli anni, il terribile morbo uccise tra i 20 e i 25 milioni di persone, che corrispondevano a circa un terzo della popolazione europea del tempo.

«Tanti sum li Zenoeixi, e per lo mondo si desteixi, che dund eli van e stan un'aotra Zena ghe fan»

«Tanti sono i genovesi, per il mondo così dispersi, che dove vanno e stanno un'altra Genova fanno»

Genova, che nell'anno mille aveva solo 4000 anime ed era povera economicamente, cominciò a rendersi autonoma dal Sacro Romano Impero intorno al 1096, come Libero Comune, partecipando poi alle Crociate. Inizialmente chiamata “Compagna Communis”, la Repubblica di Genova si distinse nella Terrasanta, arricchendosi enormemente.

Durante la Prima Crociata (1097-1099) i crociati genovesi, guidati da Guglielmo Embriaco diedero un decisivo contributo nella conquista di varie città. Per il loro importante contributo vennero ricompensati dai Crociati con la terza parte di Gibelletto e la terza parte delle entrate fiscali della città e del contado (fino ad una lega di distanza) di Acri. Inoltre i mercanti genovesi costruirono fondaci o ebbero una strada tutta per loro in varie città del Levante: a Cesarea, a Tolemaide, a Giaffa, a Gerusalemme, a Famagosta, ad Antiochia, a Laiazzo, a Tortosa (oggi in Siria) a Tripoli del Libano ed a Beirut.

In seguito, a partire dalla seconda metà del XIII, ha inizio una colonizzazione genovese di diversa natura e dimensioni. piccole comunità si stabiliscono tutt'attorno al Mar Nero, città come Caffa, Pera e Chio conoscono uno sviluppo eccezionale, si dotano di successive cinte di mura e animano la vita economica regionale, resistono agli assalti dei Greci e dei Mongoli, e soltanto due secoli più tardi cadranno per lo strapotere degli Ottomani, superiori in numero, navi e potenza di fuoco. Queste esperienze di colonizzazione hanno una larga portata: esse costituiscono gli antecedenti medievali della colonizzazione moderna.

 


Secondo lo storico Heyd, nel 1266 é Mengu Temur discendente di Gengis Khan a vendere ai mercanti genovesi le terre e gli agglomerati urbani su cui si svilupperà la città di Caffa, accordando loro la licenza di potervi edificare case e magazzini per le merci. I Genovesi scelgono, non lontano dal sito dell'antica Teodosia, il villaggio di Kafà, insediamento di pescatori ottimo per posizione costiera.

 

Colonie genovesi in Crimea

· Caffa (l'odierna Feodosia) - 1266–1475 era il capoluogo delle colonie genovesi in Crimea

· Cherson (l'odierna Sebastopoli) - 1250–1320/1427

· Cembalo (l'odierna Balaklava) dal 1357

· Alupka

· Caulita (l'odierna Jalta)

· Lusta (l'odierna Alušta) - 1365–1434

· Soldaia (l'odierna Sudak) - 1266/87-1322, 1358/65–1475 nel periodo intermedio fu veneziana

· Solgat, o Solhat, Surcati (l'odierna Staryj Krym o Kirim)

· Sarsona

· Chimmero

· Vosporo (l'odierna Kerč) dal 13

Le norme per favorire il potenziamento di Caffa erano dettate dagli "Octo Sapientes super factis navigandi et maris majoris" costituiti nel 1314 e diventati nel 1341 l'"Officium Gazariae" che da Genova controllava e dirigeva tutta l'attività della colonia delegando ogni anno un console. I genovesi a Caffa batterono moneta tartara: aspri e follari di vari tipi, in un periodo di tempo limitato (1390-1453). Il 31 maggio 1475 una flotta turca, forte di 40000 uomini, si presentò davanti a Caffa: la resistenza fu brevissima (neppure una settimana) e i genovesi abbandonarono definitivamente la colonia.

"Dal punto di vista amministrativo Caffa dipendeva da Pera ed era governata da un console genovese facente le funzioni prima dei consoli, podestà e capitani del popolo della madrepatria, poi, nella sostanza, quelle dogali. Si può affermare senza timori che, tipologicamente, non vi fosse merce che non transitasse per il suo porto, non in ultimo gli schiavi (di cui Caffa divenne uno dei principali mercati). In quanto a investimento di capitali fu uno degli empori commerciali piú ricchi e vivaci del tardo medioevo europeo, con un declino che inizierà solo con la frammentazione politica dell'Asia Centrale e la conseguente crisi della sicurezza dei trasporti fra il Mar Nero e la Cina. In età genovese, come poi in seguito in quella turca ottomana, Caffa fu anche sede di zecca (fra crasellame)".


Le rovine di una Vecchia Fortezza Genovese in Crimea

 

IL CASTELLO DI TEODOSIA

IL VIAGGIO DELLA PESTE NERA - L’ASSEDIO DI KAFFA



Balestrieri genovesi

Si disse che alla foce del fiume Don era scoppiato un incidente tra gli stessi mongoli e i mercanti genovesi che avevano acquistato la città di Kaffa dal Gran Kahn nel 1266 per farne il centro amministrativo delle loro basi commerciali in tutta l’area. Le conseguenze di quell’incidente furono tragiche. Orde di guerrieri mongoli si portarono sotto le mura di Caffa (oggi Feodosiya in Ucraina) e diedero inizio.

Nel 1346, durante l’assedio di Caffa, avamposto commerciale genovese sulla via della Seta, i mongoli cominciarono però a morire a centinaia, ma non per la strenua difesa degli assediati, morivano a causa di un terribile morbo sconosciuto, del quale si diceva che fosse originato nella lontana Cina e che, percorrendo le piste carovaniere che solcavano il cuore dell’Asia – come la Via della seta – avesse sparso morte e desolazione nelle immense steppe orientali.

La malattia misteriosa era dunque giunta fino alle sponde del Mar Nero. I mongoli, devastati dall’epidemia e ormai incapaci di protrarre l’assedio, si decisero a levare le tende. Non prima però di un’ultima offesa: caricarono i cadaveri dei propri compagni sulle catapulte e li lanciarono dentro le mura di Kaffa, in quello che oggi è considerato il primo atto di guerra batteriologica della storia umana. Che fossero consapevoli o meno di trasmettere il contagio dentro Kaffa, così accadde.

Mesi dopo, le navi genovesi che tornano nei porti italiani sono piene di cadaveri o di malati. L’Europa, ignara di che cosa significhi “contagio” e di come proteggersi da un’epidemia, viene colpita da una delle più gravi pestilenze che la storia ricordi.

Nel 1347 colpì la nostra penisola dalla Sicilia fino al nord, risparmiando parzialmente Milano. Un anno dopo si allargò in Francia, Spagna, Inghilterra, Scozia e Irlanda. Nel 1353, dopo aver infettato tutta l’Europa, i focolai della malattia si ridussero fino a scomparire. Secondo studi moderni uccise almeno un terzo della popolazione del continente, provocando verosimilmente quasi 20 milioni di vittime. Alla fonte di tutto non c’era un virus (organismo non vivente che necessita di un ospite per propagarsi) ma bensì un batterio (organismo vivente in grado di autoriprodursi) che fu isolato solamente nel 1894. Il “Yersinia Pestis” si trasmetteva generalmente dai ratti agli uomini per mezzo delle pulci. La malattia, se non trattata adeguatamente, e nel 1347 non era di certo conosciuto alcun modo per farlo, era letale per quasi la totalità dei casi a seconda della forma con cui si era manifestata: bubbonica, setticemica o polmonare. La peste nera si diffuse nel Mediterraneo e in Europa, oltre che in Cina, con le carovane che percorrevano i diversi tratti della via della seta, a quel tempo straordinariamente attiva. La grande peste fu dunque un sottoprodotto non desiderato del grande sviluppo del commercio eurasiatico al principio del XIV secolo.

In occasione delle epidemie, in mancanza di conoscenze mediche e con una Medicina non ancora così evoluta da dare spiegazioni chiare e certe, si cercava di scampare a sofferenze e morte votandosi ai santi, con l’aiuto della fede e della preghiera. E quando il pericolo si allontanava, spesso si rispondeva alla grazia ottenuta della vita con un segno tangibile dell’intercessione divina.
A seconda della possibilità economica, si costruiva una cappella, una chiesa oppure una santella, ai margini delle campagne, del proprio luogo di lavoro e di residenza. Era il modo per testimoniare ai contemporanei ed ai posteri che il Divino aveva guardato benevolo ai propri figli, ed era la garanzia che, se in futuro fosse stato ancora necessario, si poteva continuare a chiedere l’intercessione.

Ma come iniziò tutto? Nella penisola di Crimea, Caffa ed altre cittadine vicine in mano alla Repubblica di Genova furono il punto di contatto tra il mondo mongolo-tartaro e quello dell'Europa occidentale. Per oltre due secoli e fino alla totale conquista ottomana dell'impero bizantino, le colonie genovesi del Mar Nero prosperarono ed arricchirono Genova. Nel corso dei quasi due secoli della sua vita, la colonia genovese di Caffa, vide complicarsi le sorti. Caffa fu assediata nel 1343 e nuovamente nel 1346-47. Fu in questo periodo che la peste si diffuse nei territori dell’Orda d’oro, finendo per raggiungere e decimare i tatari che stavano cercando di espugnare Caffa.

Il cronista piacentino Gabriele de Mussis racconta che nella primavera del 1347 gli assedianti si convinsero di non avere più forze sufficienti per conquistare la città. Ricorsero allora a una sorta di guerra batteriologica: «legarono i cadaveri su catapulte e li lanciarono all’interno della città, perché tutti morissero di quella peste insopportabile. I cadaveri lanciati si spargevano ovunque e i cristiani non avevano modo né di liberarsene né fuggire». L’epidemia si introdusse così anche fra i genovesi.
Il khan tataro Jani-Beg non fu comunque in grado di mantenere l’assedio e una flotta genovese riuscì a lasciare Caffa, ricominciando a portare i carichi di seta e spezie verso occidente e facendo scalo prima di tutto a Costantinopoli. Lo svolgimento dei fatti non può essere ricostruito in tutti i dettagli, ma fu voce allora corrente, raccolta anche dal cronista fiorentino Matteo Villani, che quell’unica flotta, nella quale si trovavano topi e marinai già contagiati, sia stata responsabile dell’introduzione della peste nel Mediterraneo e in Occidente.

Nel settembre del 1347 la peste comparve nella capitale bizantina, da dove si diffuse in Turchia e in Grecia. Poco dopo venne segnalata ad Alessandria e da qui si diffuse in Egitto, a Cipro e, nella primavera del 1348, in Siria. Uno dei primi giorni di ottobre del 1347, riferisce la cronaca del francescano Michele da Piazza, una flotta genovese composta di dodici navi raggiunse il porto di Messina. Erano sicuramente le stesse che avevano già portato la peste a Costantinopoli e che stavano proseguendo nel loro itinerario. Nelle due o tre settimane del viaggio verso la Sicilia l’epidemia era esplosa in tutta la sua virulenza. Bastarono pochi contatti fra gli equipaggi già decimati e i messinesi perché la Sicilia e la Calabria si aprissero al dilagare dell’epidemia. Dopo qualche giorno le navi furono scacciate da Messina e quel che restava della flotta proseguì verso Genova, ma si vide rifiutare l’ingresso nel porto. Dirottò allora su Marsiglia, che fu raggiunta il 1° novembre e immediatamente infettata, divenendo una nuova porta d’ingresso europea per l’epidemia.
Anche se non pienamente documentata, questa dovette essere la conclusione del fatale viaggio della flotta di Caffa: pochi giorni dopo nelle acque di Marsiglia, si narra: «le navi fantasma, cui nessuno osava avvicinarsi benché fossero piene di sete e derrate preziose, venivano sballottate dal vento con i loro equipaggi di cadaveri».
(J. Rouffié, J.C. Sournia, Les épidémies dans l’histoire de l’homme, Flammarion, Paris 1984, p. 94). Secondo alcune fonti dell’epoca, gli abitanti di Caffa avrebbero immediatamente gettato in mare i corpi malati lanciati all’interno delle mura dagli assedianti, ma la peste riuscì comunque a entrare in città in questo modo oppure, secondo altre fonti, per via dei ratti che passavano dalle schiere dei mongoli agli abitanti della città.


La prima foto, è una mappa dell’Italia del 1285 secondo le strategie dei Doria e degli Spinola, realizzata dal team di scenografi “Cri Eco” per il film “Mondi Paralleli, prigionieri del Tempo” in uscita in autunno 2020 nelle sale. L’ultima foto è un dipinto del porto di Genova nel Medioevo esposto al Museo Galata di Genova.

La Peste Nera che colpì l’Europa fra il 1347 e il 1351 fu la più grande pandemia che la storia ricordi. Si calcola che, nel volgere degli anni, il terribile morbo uccise tra i 20 e i 25 milioni di persone, che corrispondevano a circa un terzo della popolazione europea del tempo. Ben più lontano, tuttavia, si era originato il morbo virulento che avrebbe seminato morte e distruzione in due continenti. Nel 1331 infatti la peste comparve nell’Impero Cinese, a cavallo fra le regioni del Pamir e dell’Altaj, quando la penuria di cibo e la moria dei topi neri portarono le pulci ad attaccare l’uomo. Dalla Cina iniziò dunque il suo cammino verso l’Europa. Il cammino della peste nera.

CARLO GATTI

Rapallo, 16 Aprile 2021

 


CHI CE LO FA FARE DI ANDARE PER MARE? Recensione di Carlo GATTI!

 

Recensione di Carlo GATTI

VIZCAYA

Fatto maquillage si torna in mare, pronti a mollare gli ormeggi!

A volte lo scirocco non si accontenta di flagellare le nostre coste ma, proseguendo la sua corsa, valica gli Appennini, invade la pianura Padana e fa nascere “particolari individui con il mare dentro”! Non è quindi un caso che molti di loro - crescendo - scelgano le VIE DEL MARE e altri invece diventino affermati professionisti che in seguito, attratti dal richiamo delle sirene, trovino casa in riviera e un marito skipper col quale iniziare un nuovo percorso lungo 20.000 miglia sui sevenseas, in pratica il “giro del mondo”.


Rinaldo lo skipper

Questa, per chi non lo avesse capito, è la storia di Marinella, nostromo della Vizcaya, che nulla ha a che fare con Faber, e di suo marito Rinaldo, skipper esperto che sa cavarsela in ogni situazione.

Un equipaggio alquanto ridotto… e interscambiabile per ragioni di sicurezza, ma i loro ruoli a bordo sono precisi e rispettosi di una regola marinaresca vecchia come il mare:

“due capitani, nave sugli scogli”

Per cui Rinaldo ascolta i consigli del nostromo Marinella e poi decide il da farsi!

Per chi sceglie il diporto, in genere, la propria barca è come una piccola isola felice, una sorta di “isola che non c’è”, dove dimenticare per un certo periodo gli affanni della vita apprezzando l’armonia e la pace che una o tante giornate sul mare regala.

Il titolo del libro: Chi ce lo fa fare di andar per mare?! A prima vista é un po’ inquietante, ma non tanto per chi ha letto il primo libro di Marinella Gagliardi Santi: Non comprate quella barca”, in cui la stessa scrittrice afferma: “Un bel giorno abbiamo levato le ancore. E quando si molla un ormeggio, l’avventura è dietro l’angolo”.

Dobbiamo qui ricordare che pure i marittimi professionisti, ogni volta che ritornano a casa, usano come “sfogo personale” il titolo dell’ultimo di libro di Marinella per ricordare, più che altro a sé stessi, i pericoli incontrati e le sofferenze di ogni genere patite durante l’ultimo imbarco. Uno sfogo che dura poche settimane, il tempo di curare al meglio le “ferite” per poi soccombere al richiamo delle sirene e riprendere il largo ancora più agguerriti.

A questo punto, per pura curiosità, m’imbarco in remote! Navigare, anche soltanto “virtualmente” con loro, diventa presto una esperienza nautica di assoluto valore: coinvolgente, istruttiva e molto coraggiosa.


Vizcaya

I nostri amici scelgono quasi sempre di navigare a vela di notte per sfruttare le brezze favorevoli che talvolta rinforzano localmente creando pericoli reali alla robusta VIZCAYA lunga 12 metri, una evergreen che sa il fatto suo; bordeggiano sotto costa vicino agli scogli per prendere meno vento, le distanze sono difficili da valutare, i bollettini non tengono conto delle situazioni meteo-locali e degli improvvisi “passing showers”. Eolo ne approfitta e ogni tanto prende il sopravvento spargendo ansia e un po’ di paura. La navigazione diventa del tipo: dormi quando non hai sonno, mangia quando non hai fame - L’equipaggio è ridotto a sole due persone e il “detto” diventa ancora più attuale …}


Viene in mente quella canzone di Bruno Martino “E la chiamano estate!” – Ma certe estati in Mediterraneo fanno “strani” regali a chi sceglie la rotta Genova-Isole Egadi passando a ponente della Corsica che è la parte che tutti sognano di costeggiare, ma prima di arrivare alle Bocche di Bonifacio… dentro quell’imbuto può incanalarsi una specie di scirocco che li costringe a fare i giochi…

L’amore per l’avventura é infatti la chiave di lettura anche di questo romanzo autobiografico che non si preoccupa di narrare soltanto il coraggio ed il cuore marinaro, ma soprattutto, con grande ironia, anche le inevitabili defaillances di chi va per mare in agosto conoscendo  benissimo il proverbio: Chi è in mare naviga, chi è in terra giudica!


Marinella all’ombra dello spinnaker


Marinella ed il gennaker

Seguo la spedizione in remote control: è un viaggio vero, spedito ed essenziale come le manovre da compiere con le vele per rimanere in rotta e proseguire verso la destinazione.

Eventi e navigazione hanno lo stesso ritmo veloce delle decisioni e degli avvenimenti che si susseguono incalzanti. Senza nulla togliere allo skipper e al nostromo sua consorte, vien voglia d’intervenire per dare una mano … il mio coinvolgimento diventa totale all’interno di una narrazione fluida, marinara e naturale, come usano gli amici che danno del TU al mare. Una confidenza meritata. Già! quel dio-mare che la concede a pochi marinai esperti ma soprattutto UMILI, che non lo sfidano mai per poi darsi importanza nei Bar dei porticcioli.

Marinella e Rinaldo osano dare del TU al mare, ma con prudenza, in loro non c’è arroganza e supponenza, n’é tanto meno aria di sfida, semmai è palpabile l’amore e la passione, l’umiltà e il grande desiderio di conoscerlo nei suoi segreti più intimi.


Tramonto a Chiaia di luna - Ponza

Ma c’è dell’altro: questi due “innamorati” del Mare, oltre a coinvolgerci sulle rotte del diporto,

si prendono numerose pause culturali durante le programmate escursioni a terra facendoci sentire graditi ospiti. A questo punto, il remote control funziona anche sulla terraferma: colline e i pendii con viste mozzafiato. Trapani, Ustica, le Isole Pontine, Ischia, Pompei, Capraia e Portovenere ……in quei posti che Marinella adora perché profumano di archeologia e di storia.

Il lettore attento e curioso ormai li pedina con insistenza per vivere le loro stesse emozioni in quelle avventure e disavventure che non mancano mai, ed è sempre in trepidazione anche a qualche chilometro dal mare!

Sembra strano, ma in compagnia dei nostri amici, diventiamo consapevoli di un altro problema estivo molto ricorrente: è più facile navigare al largo che trovare un ormeggio nelle bellissime golfate e calanche italiane…


Vele alla fonda in bonaccia …

In queste occasioni gli echi provenienti dal bordo sono più che giustificati:

“Ogni volta che si atterra in cerca del meritato stacco e riposo notturno, l’operazione è densa di rischi per la vicinanza di altre imbarcazioni, di danni reciproci, di liti e di rara solidarietà”.

Molti “terrazzani - falsi manici cazzuti” guardano il mare come un luogo di conquista e di esibizione… e questo la dice lunga sulla civiltà che c’è in giro.

Sotto sotto, la propria barca a vela è come una piccola, unica, isola felice, una sorta di “isola che non c’è”, dove dimenticare per un periodo gli affanni della vita, apprezzando l’armonia e la pace che un lungo o anche breve viaggio sul mare regala.

Siamo giunti al termine di questa escursione e, per quanto mi riguarda, la domanda che mi pongo ogni volta è sempre la stessa: qual’è l’anima di questo libro?

Per moltissime persone il mare è soprattutto mistero ed ogni tentativo di svelarlo e spiegarlo resta quasi una sorta di profanazione. Marinella e Rinaldo ne sono assolutamente consapevoli.

Il mare riempie di stupore. Cangiante, immateriale, di colore sempre diverso, inafferrabile, inspiegabile. Le sue onde, incessanti, affascinanti: furono scelte infatti nella simbologia antica, come rappresentazione dell'eternità. Il mare come "agognata dimora", come luogo ideale, come rifugio dalla terraferma, come metafora del porto dell’anima.

MARE NOSTRUM RAPALLO

2 febbraio 2021


DUE STORIE DI MARE D'ALTRI TEMPI

Capitani Camogli

Due storie d'altri tempi

UNA TOCCATA A CAMOGLI

Il veliero sfruttava il Maestrale per costeggiare verso il porticciolo da Ponente. Quella notte d'aprile, lo stesso Capitano Giuseppe Piarengo era al timone del "Pietro Terzo". Con i binocoli, cercava di scorgere le lenzuola rosa che sua moglie Virginia doveva stendere dalla casa sulla spiaggia. Quando la nave doppiò il Castel Dragone, finalmente le scorse: significava che Giuseppe avrebbe visto poco dopo i suoi cari.

Diede ordine al Nostromo di ridurre la velatura e così la velocità. Dalla spiaggia di Ponente si staccò un gozzo con delle persone a bordo. Ai remi c'era "Ghelō", suo suocero, poi riconobbe la sua consorte con i due bimbi. Dopo che i tre salirono in coperta, il gozzo ritornò a terra e scomparve nella penombra del "Giorgio".

Il Capitano istruì il Nostromo di spiegare tutte le vele e di dirigere al largo della Punta, per far poi rotta verso Sud. Giuseppe abbracciò finalmente la famiglia, la quale era euforica di trovarsi su quella splendida nave. Rimasti soli, i due coniugi parlarono delle loro prospettive future.

Virginia era preoccupata, pareva che da tempo, lo sconforto si fosse sparso tra la gente, pure i figli erano insensibili, anzi, lei aveva l'impressione che non avessero più sogni. Giuseppe la rassicurò affermando che ora avrebbero passato dei giorni fantastici a bordo della sua nave, che avrebbe raccontato loro di quando fu quasi ucciso da un pirata malese, di quando il Presidente Argentino apprezzò il suo concerto di violino oppure di tutti i tipi di alberi "foresti" che si trovavano nella vallata di Camogli. La sua nave era adatta a quello scopo: li avrebbe allontanati per un po’ dai pensieri cattivi di ogni giorno. E che sarebbe rientrata in porto appena quella buriana fosse passata.

Nello sciacquio del Golfo Tigullio, tutti si addormentarono. Solo il Capitano - fumando la sua pipa di "albatross" - era vigile al timone e già pensava alla prossima storia da raccontare ai suoi: "...verso fine '800, il veliero "Teresa Olivari" giaceva inerme in una bolla di calma equatoriale nel Mare di Singapore...".=

P.S. Se sei arrivato a leggere sino qui, probabilmente abbiamo allontanato per qualche attimo le preoccupazioni di ogni giorno! Immagini Archivio Ferrari.

Capitani Camogli

ALBERI E ALBERI


A differenza dell'Inglese (trees, masts), in Italiano dobbiamo specificare di quali "alberi" stiamo parlando, cioè quelli naturali o quelli navali. Inaspettatamente, sceglieremo quelli naturali, che sono comunque ben "radicati" alla tradizione marinara Camogliese.

La pianta che oggi è sistemata sul viso di Camogli (cioè l'insieme Basilica-Castel Dragone) è una palma. Forse fu scelta (nel 1930-40?) sull'onda dell'esotica moda delle passeggiate a mare della Costa Azzurra o forse, per richiamare l'originale funzione protettiva del Castello dai pirati Barbareschi.

Comunque sia, notiamo da un'immagine antecedente al 1920 (?) che sul Castel Dragone vi era un albero che non era una palma. Non siamo in grado di affermare di quale albero si trattasse, fatto sta che sale la curiosità di capire se a Camogli siano mai stati importati alberi "foresti", molto probabilmente dai naviganti di tempo fa.

Ecco allora che ci ritroviamo nelle tranquille passeggiate sulle nostre alture. E' abbastanza comune individuare alberi non propriamente Liguri all'interno delle ville di Camogli.

Si incontrano le grandi sequoie della California, sicuramente portate a Camogli da chi navigava a San Francisco; si trovano anche dei "redwood", cioè un tipo più piccolo di sequoia, generalmente originari dell'Oregon, che ha un grande approdo, Portland. Poi, l'eucalipto, proveniente dall'Etiopia, le nostre navi toccavano Djibouti. Non manca il Canada con Halifax, delle cui terre la quercia è il simbolo nazionale; poi il famoso cedro del Libano, il cui porto principale è ancor oggi Beirut. Dal Centro America o dai Caraibi qualcuno importò degli esemplari di seibò, un enorme albero coi fiori scarlatti. Qualche marinaio amante del buon vino aveva importato per la sua casa nel verde anche la vite di Madeira, il cui porto, Funchal, offre ancor oggi un punto di appoggio prima o dopo la traversata Atlantica. Ed infine il celebre "pitchpine" dell'Alabama: molte navi di Camogli toccavano il porto di Mobile, famoso appunto per il traffico di legname. Il pitchpine è un pino di dimensioni ridotte ma che ha un alto contenuto di resina, per questo era molto usato nelle costruzioni navali.

La passeggiata nei viottoli di Camogli alta volge al termine, ritorniamo sul Lungomare chiedendoci: "ma che albero era quello sul Castello?".=

Immagini (Archivio Ferrari): "Porto di Camogli" e "Alture di Camogli".

Bruno MALATESTA

Rapallo, 30 Ottobre 2020

 


30 ANNI FA - NAUFRAGIO DEL TRAGHETTO RO-RO ESPRESSO TRAPANI

30 ANNI FA - NAUFRAGIO DEL TRAGHETTO RO-RO

ESPRESSO TRAPANI

DAVANTI AL PORTO DI TRAPANI

Un po’ di Storia:

Roll-on/Roll-off (anche detto Ro-Ro): Locuzione inglese che letteralmente significa: “rotola dentro/rotola fuori”. E' il termine per indicare una nave-traghetto vera e propria, progettata e costruita per il trasporto con modalità di imbarco e sbarco di veicoli gommati (sulle proprie ruote), e di carichi disposti su pianali o in contenitori, caricati e scaricati per mezzo di veicoli dotati di ruote in modo autonomo e senza ausilio di mezzi meccanici esterni. Generalmente sono dotate di più ponti garage collegati con rampe d'accesso e/o montacarichi. A differenza dell'ambito mercantile dove il carico è normalmente misurato in tonnellate. Il carico dei Ro/Ro è tipicamente misurato dalle corsie in metri lineari (LIMs, Lanes in meters in lingua inglese). Questo è calcolato sommando i metri delle corsie dedicate al trasporto di semirimorchi.

NULLA MEGLIO DI UNA FOTO PUO’ SPIEGARE L’ORIGINE DEL SISTEMA DI TRASPORTO NAVALE ROLL-ON / ROLL-OFF.

Un carro armato "Sherman" sbarca su una spiaggia dall'USS LST-517, il 2 agosto del 1944 durante l'invasione della Normandia.


Dal 1964, dopo aver subito un restyling operativo, la nave nella foto fu chiamata ELBANO PRIMO - Compagnia Sarda di Navigazione Marittima – Cagliari.

Noi di una certa età ricordiamo il PRIMO Ro/Ro italiano ELBANO PRIMO, ex LST (Landing Ship Tank) 3028: Royal Navy 1946 – “SNOWDEN SMITH”(Ministry of Transport Army) – London.


Oggi quel tipo di nave si é allungato parecchio. Notare nella foto l’enorme rampa di poppa della TØNSBERG autentico ponte tra il garage e la banchina.

Dopo oltre 50 anni di attività, questa tipologia di trasporto, vede in circolazione la più grande Roll-on/Roll-off del mondo: della Compagnia (norvegese-svedese) Wallenius-Wilhelmsen. Dati: lunghezza f.t.265 mt.- larghezza 32,26 – Stazza Lorda 76.500 t. equipaggio 36. Giro del mondo in 41 giorni: toccati quattro continenti. Capacità di trasporto Auto 6.000.

Nella sezione Salvataggi e disastri del nostro sito Mare Nostrum Rapallo, abbiamo dedicato ai traghetti RO-RO naufragati o solamente incidentati (in tempo di pace) sette articoli:

M/T BOCCACCIO (Classe Poeti) - Finì in tragedia Si arenò sugli scogli

GENOVA, Tragico INCENDIO, M/n LINDAROSA

M/N MONICA RUSSOTTI, una Tragedia Evitata - Mollati i cavi dalla banchina, sbandò paurosamente e riuscì miracolosamente ad affiancarsi alla banchina di fronte…

HELEANNA - Una ferita che brucia ancora – Prese fuoco

ESPRESSO SARDEGNA. Operazione recupero e rimorchio - si capovolse a causa del mare in tempesta

MOBY PRINCE, un'altra Ustica? - collisione, incendio

L’incendio sulla NORMAN ATLANTIC – Incendio a bordo

Ne elenchiamo altri di cui ci siamo occupati in altre occasioni:

20 DICEMBRE 1987. Il traghetto Dona Paz collide con la petroliera Mt Victor nelle acque delle Filippine. Affogano 4.340 persone.

7 APRILE 1990. Un piromane appicca un incendio a bordo del traghetto Scandinavian Star nel mare del Nord, in viaggio da Oslo a Fredrikshavn, in Danimarca. Muoiono 159 persone.

16 FEBBRAIO 1993. Un traghetto sovraffollato affonda tra Jeremie e Port-au-Prince, vicino ad Haiti. Muoiono tra le 500 e le 700 persone.

28 SETTEMBRE 1994. Il traghetto Estonia affonda durante una tempesta nel mar Baltico. Muoiono 852 persone. Il mare penetrò dal portellone difettoso di poppa facendo sbandare la nave.

26 SETTEMBRE 2002. Un traghetto senegalese si rovescia in seguito a una tempesta al largo del Gambia. I morti sono oltre 1.800.

3 FEBBRAIO 2006. In seguito a un incendio scoppiato durante il viaggio del Traghetto Boccaccio nel mar Rosso, dall'Arabia Saudita al porto egiziano di Safaga, annegano oltre 1.000 persone.

21 GIUGNO 2008. Il traghetto The Princess of the Stars va in avaria e si rovescia al largo delle coste filippine durante un potente tifone. I morti sono oltre 800.

 

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LA TRAGEDIA DEL TRAGHETTO RO-RO ESPRESSO TRAPANI


Il 29 aprile 1990, alle ore 17, a 4 miglia dall'Isola Formica, nelle Isole Egadi, il traghetto fece una virata a sinistra per allinearsi all'ingresso del Porto di Trapani, ma sbandò paurosamente, forse per il distacco delle catene che tenevano fermi i TIR nel garage, per poi inclinarsi, capovolgersi e affondare, in soli 15 minuti. In quel momento a bordo vi erano 52 persone tra passeggeri ed equipaggio. 13 furono i morti, 4 marinai e 9 passeggeri, ma furono ritrovati solo sei cadaveri, e degli altri 7 rimasti intrappolati nella nave, nessuna traccia. Il comandante Leonardo Bertolino, al suo ultimo viaggio prima del pensionamento, affondò con la nave. Il relitto si trova a 112 metri di profondità.

Nel 1989 La compagnia trapanese CONATIR aveva affittato da una compagnia norvegese la nave e svolgeva con il traghetto “rinominato” Espresso Trapani un servizio di collegamento da Trapani a Livorno, imbarcando quasi esclusivamente camion e tir, e con cabine per gli autisti dei mezzi.

Proprio in quel fatidico giorno, il 29 aprile 1990, nella città marinara di TRAPANI si festeggiava San Francesco da Paola, Protettore della gente di mare, al quale la nostra Associazione MARE NOSTRUM RAPALLO dedicò un articolo cinque anni fa. Ripropongo il LINK per gli appassionati:

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=418;frank&catid=54;saggi&Itemid=160

Il bravo giornalista trapanese Mario Torrente, che visse in diretta quella tragedia, così ce la sintetizza:


L’Espresso Trapani colò a picco a quattro miglia dal porto, tra l’isola di Formica e lo scoglio dei Porcelli. Il traghetto era quasi arrivato a destinazione. Mancava meno di mezz’ora alle operazioni di attracco dopo avere attraversato il Tirreno. Ma venne risucchiato dal mare, quel giorno piatto come l’olio, in meno di 20 minuti. Sul posto arrivarono subito i soccorsi. E questo permise di salvare molte vite. Il May Day venne lanciato alle 17. Ma alle 17.17 dall’aliscafo Botticelli, che da Favignana fece subito rotta verso il punto del naufragio, comunicarono di non vedere alcuna nave tra l’isola di Formica e lo scoglio dei Porcelli. L’Espresso Trapani non c’era più. Quel pomeriggio, oltre ai mezzi della Capitaneria e tutte le altre unità di soccorso, uscirono in mare a tutta manetta i pescherecci trapanesi per recuperare i naufraghi. Il prima possibile. In 39 riuscirono a salvarsi. Fu una giornata tremenda per Trapani, che visse la sua peggiore tragedia del mare. Sicuramente degli ultimi 50 anni. La ferita è ancora aperta. Molte famiglie continuano a piangere i loro cari. Per di più senza avere una tomba dove potere portare un fiore.

Le vittime furono in tutto 13. Ma solo sei cadaveri vennero recuperati dal mare per essere portati a terra e trovare degna sepoltura. A bordo del traghetto, che quel pomeriggio del 29 aprile del 1990 tornava da Livorno con il suo carico di camion e vite, c’erano in tutti 52 persone, di cui 18 componenti di equipaggio e 34 passeggeri. Tra le 13 vittime ci fu anche il comandante Leonardo Bertolino, inabissò con la sua nave. Nell’elenco dei dispersi c’è anche il direttore di macchina Gaspare Conticello. Il suo corpo non venne mai recuperato, come quello del comandante e di altre cinque persone. Forse rimasti intrappolati dentro le cabine o in chissà quale parte dello scafo, oggi adagiato sul fondale a circa centro metri di profondità. Vicino al Maraone. Coricato sul suo fianco destro. A nulla servirono le operazioni di ricerca condotte dai sommozzatori della Marina Militare. Quei corpi non furono mai recuperati. Un dramma che ha segnato la comunità trapanese, con la sua gente di mare, nel giorno in cui in città si festeggiava San Francesco di Paola. Il Santu Patre protettore di chi va per mare. Marittimi e pescatori. Come potersi scordare una coincidenza del genere: una grande nave colata a picco portandosi con sé tante vite mentre il patrono dei naviganti è in processione nel suo giorno di festa.




L’ESPRESSO TRAPANI ormeggiato a Molo Ronciglio con la rampa calata


Il traghetto della CONATIR visto di poppa


A bordo c’era anche la moglie del comandante Bertolino, Rosa Adragna, tra i sei morti del naufragio che furono invece recuperati.

Un naufragio a quattro miglia dal porto, un traghetto che si capovolge ad una trentina di minuti dallo sbarco. Un mare liscio come l'olio, una nave quasi nuova e in perfette condizioni, una facile manovra per atterrare, per entrare in porto e attraccare al molo Garibaldi. Perché il traghetto Livorno-Trapani è finito in fondo al mare? Perchè si è inabissato quando aveva già superato il faro dopo 23 ore di navigazione? Non c'è mistero, non c'è giallo. Le ipotesi non sono molte, anzi è soltanto una: i 66 camion che trasportava il traghetto sono stati liberati dalle catene prima della manovra d’entrata in porto. Un'operazione che avrebbe provocato lo spostamento di alcuni Tir, la rottura di altre rizze (i ferri che legano gli automezzi pesanti alla nave), il capovolgimento improvviso dell'Espresso Trapani.

La testimonianza del cameriere di bordo Rosario Biondo, uno dei 39 naufraghi:

“Ero nella mia cabina, stavo ascoltando i risultati delle partite di calcio. All'improvviso ho sentito un rumore, un rumore di catene, come se stessero sganciando le rizze... e poi.... Poi in diciannove minuti esatti l'Espresso Trapani è stato inghiottito dal mare”.

La tragedia è stata ricostruita attimo per attimo dalla capitaneria di porto in un dossier che è già sulla scrivania del sostituto procuratore della Repubblica Pietro Pellegrino. Ecco cos'è accaduto nel mare tra l'isola di Levanzo e il porto di Trapani nel pomeriggio di domenica 28 aprile.

Ore 16.58 - Il comandante dell'Espresso Trapani vira bruscamente a sinistra per entrare in porto mentre il traghetto si rovescia sul lato destro.

Ore 17 - Viene lanciato il May Day. Ore 17.02 - l'ufficiale di turno alla centrale operativa della capitaneria dà l'allarme alle unità navali.

Ore 17.05 - l'SOS viene raccolto dall'aliscafo Botticelli che sta per lasciare il piccolo porto di Favignana. Il comandante del Botticelli fa scendere i suoi passeggeri e salpa verso l'isolotto di Formica.

Ore 17.06 - Anche la nave cisterna Vetor II lascia Favignana e punta verso lo specchio di mare dove presumibilmente è affondato il traghetto.

Ore 17.12 - mollano gli ormeggi le prime due motovedette della capitaneria di porto di Trapani. Ore 17.15 - la radio costiera smista l'allarme a tutte le imbarcazioni in navigazione nel Basso Tirreno.

Ore 17.17 - il comandante dell'aliscafo Botticelli non vede nessuna nave fra lo scoglio dei Porcelli e l'isolotto di Formica. Il traghetto è già in fondo al mare, scomparso in diciannove minuti.

“Quel traghetto non poteva e non doveva affondare”. L'armatore è un uomo di 49 anni che si dispera per la morte di quattro suoi marinai e di altri nove passeggeri. “In otto mesi di navigazione si era fermato solo un giorno, aveva navigato anche con mare forza otto, era una nave robusta e straordinariamente maneggevole”.

“Ma perché è affondata? Cosa l'ha trascinata fino a cento metri di profondità? L'unica spiegazione è che qualcuno abbia slegato quei camion... Certo non sono stati i marinai della mia nave. Ribatte Salvatore Di Stefano, uno dei camionisti superstiti. “Non l'ha fatto nessuno, nessuno!”.

Già! L'unico che poteva dire perché la nave abbia virato improvvisamente a sinistra inclinandosi a destra è il comandante Leonardo Bertolino. Anche lui è nell' elenco di quei sette che non si trovano. Faceva il capitano da trent' anni, la rotta Livorno-Trapani la conosceva come le sue tasche. Domenica era il suo ultimo giorno di navigazione, stava per andare in pensione. Per l'ultima traversata aveva fatto salire sul suo traghetto anche la moglie Rosa. Quando la nave è andata giù la Signora era in cabina. E' stata ripescata nel mare di Trapani.


Ricorre oggi il 30esimo anniversario del naufragio dell’Espresso Trapani, il traghetto della Conatir affondato il 29 aprile del 1990 che oggi è ancora riverso sul fianco come appare nella foto.

A mezzogiorno in punto nel porto di Trapani hanno suonato le sirene di navi ed aliscafi mentre dalla banchina il sindaco Giacomo Tranchida, assieme al consigliere comunale Peppe Virzi, ha lanciato un mazzo di fiori in mare conto dei parenti delle vittime del naufragio dell’Espresso Trapani. In occasione del trentesimo anniversario della sciagura una motovedetta della Capitaneria di Porto di Trapani ha raggiunto il punto del naufragio, dove a mezzogiorno in punto, i militati della Guardia Costiera hanno lanciato due corone di fiori in mare: una del Comune di Trapani, l’altra della Capitaneria di porto di Trapani.

A bordo della motovedetta anche il cappellano militare, per un momento di preghiera, e Tonino Gallo, che il 29 aprile del 1990 era imbarcato sull’Espresso Trapani come secondo ufficiale di macchina.

A causa delle disposizioni del coronavirus non si sono potute tenere commemorazioni pubbliche. Dalla banchina del porto di Trapani, dopo un momento di preghiera e la lettura del messaggio del vescovo Pietro Maria Fragnelli, il consigliere comunale Peppe Virzì ha ricordato i nomi delle tredici vittime. Leggendo ad alta voce i loro nomi a pochi metri dal mare. Poi il lancio dei fiori che i parenti delle vittime hanno fatto avere al sindaco Tranchida. Con il sottofondo delle sirene delle navi ormeggiata al porto di Trapani. In ricordo di quella tragedia che non potrà mai essere dimenticata.

QUALCHE RIFLESSIONE

- Durante l’approaching del traghetto ESPRESSO TRAPANI verso il porto di Trapani il mare era in bonaccia.

- Abbiamo visto in precedenza le situazioni che normalmente causano la perdita di un traghetti Ro-Ro: Incaglio, Incendio, Collisione, Avarie al portellone di poppa ed altre cause.

- Il Comandante Bertolino era una vecchia conoscenza di tutti i Piloti del Porto di Genova. aveva navigato molti anni sugli ESPRESSI di Magliveras che scalavano Genova ogni giorno. Noi Piloti sapevamo quanto quel Comandante fosse scrupoloso, affidabile ed esperto.

- A mio modesto parere, la tragedia NON può essersi consumata per l’ordine impartito dal Ponte di Comando di togliere le rizze ai camion nel garage. Purtroppo questa tragica operazione fu compiuta nel garage all’insaputa del Comandante il quale, ritenendo la nave in sicurezza, scelse una accostata adeguata a quella situazione, per lui di normalità che, invece, si dimostrò tale da far sbandare la nave di quei pochi gradi che purtroppo si dimostrarono sufficienti a far slittare i TIR a paratia producendo un’ulteriore fatale inclinazione. D'allora, in seguito a queste tipologie di tragici incidenti, l'accesso ai garage dei traghetti é proibito fino al completamento  dell'ormeggio della nave in banchina.

Alcuni flash personali

- Ricordo lo sfogo di tanti Comandanti di traghetti quando, durante la manovra, mi confidavano l’accumulo di stanchezza dovuta anche a “certe pressioni” per arrivare e partire dai porti a tutte le ore del giorno e della notte con le stesse modalità di un treno…

- Personalmente, avendo frequentato ambienti scandinavi in diversi ambiti portuali per molto tempo, posso aggiungere che proprio in quegli anni, gli equipaggi dei traghetti nordici, sottoposti a stress del tutto simili a quelli dei nostri equipaggi italiani, praticavano già allora turni di una settimana a bordo e la successiva di riposo a terra, fino alla conclusione del periodo d’imbarco. Un altro mondo rispetto al nostro… che, a tutt’oggi, è ben distante da certi traguardi. Qualcuno potrebbe obiettare: Altri mari, altre tradizioni…!

- Personalmente ho altre idee, poche, ma chiare.

Nei Paesi sopracitati, oltre ad aver mantenuto i relativi Ministeri della Marina Mercantile, dispongono anche di Tribunali Marittimi. In quelle Nazioni il MARE é amato e vissuto, i sacrifici compiuti dai marittimi sono ben conosciuti da tutti per Cultura Marinara che i media tengono vivi ogni giorno, se si pensa che ogni paese della costa, in tutto il Nord Europa, dispone di un suo specifico Museo Marinaro e sui fiumi che scendono in mare sono ormeggiate centinaia d’imbarcazioni e navi di ogni epoca che vengono regolarmente manutenute dai Comuni e dalle Associazioni Marinare locali.

Oggi esistono nel nostro Paese tanti Comandanti italiani di navi, contesi anche da molte Compagnie straniere, che trasportano da 5.000 a 10.000 persone tra passeggeri ed equipaggio ed hanno crescenti competenze che vanno ben oltre la normale funzione nautica che tutti conoscono. Il Comandante oggi, come ieri, assume funzioni di ufficiale di stato civile, di ufficiale di polizia giudiziaria, di tutore a bordo della pubblica sicurezza e di capo responsabile della polizia di bordo. Può ricevere testamento, può celebrare matrimoni ed esercitare la sua autorità su tutte le persone che si trovano a bordo della nave, vigila sull’igiene dei cibi e degli ambienti, gestisce le emergenze, possiede nozioni di tutte le leggi, conosce procedure legali, regolamenti e ruolo delle istituzioni, può requisire beni, smantellare parte della nave se necessario e disfarsi di parte del carico in caso di emergenza, ad esempio portare in salvo la nave e i passeggeri.

In assenza dell’armatore o di un suo rappresentante, può licenziare o ingaggiare membri dell’equipaggio, processare, procurarsi il denaro per completare il viaggio, può razionare i viveri se le provviste non bastano. Come capo della spedizione ha il dovere di accertarsi che la nave sia idonea al viaggio. Ma non è tutto, è tenuto per legge a precisi obblighi pubblicistici cioè: a compilare un numero straordinario di pratiche burocratiche attinenti alla spedizione: dalla dichiarazione delle provviste di bordo, alle dichiarazioni dei beni personali dell’equipaggio e all’elenco dei passeggeri. Girano il mondo, parlano le lingue principali del pianeta e sono dei veri e propri Ambasciatori che pubblicizzano tutte le risorse nazionali.

Con un simile bagaglio di esperienze importanti, questi MARINAI vanno in pensione e vengono subito dimenticati. La domanda é questa:

Perché questi esperti Comandanti non sono chiamati a dirigere i grandi e piccoli porti dove, purtroppo, periodicamente si scopre che quei posti sono occupati da civili che non hanno i titoli di studio adeguati e pertanto neppure un giorno di navigazione.

Forse non tutti sanno che nel nostro Parlamento non siede un Comandante marittimo dall’epoca di Garibaldi e di non pochi autorevoli Capitani che diventarono in seguito grandi Armatori, ma anche imprenditori navali che fondarono prestigiosi imperi nella cantieristica.

Con loro, LA MARINA era al Governo e raggiunse livelli mondiali in tutti settori legati al mare. Appartenevano a quella stirpe di navigatori che vedevano il mare come il futuro da conquistare, da esplorare, da sfruttare, mentre i popoli di terra guardano sempre alla terra come il passato da raccontare, da vivere, da conservare ….

I popoli di mare hanno sempre guardato al mare come oggi si guarda allo spazio…. Al futuro, al domani, all’avvenire, al cambiamento, alla modernità, al divenire…. Da sempre il marinaio é abituato a guardare lontano.

Cosa successe dopo? Gli STORICI dovrebbero indagare e spiegare agli italiani i motivi di questo allontanamento dalle nostre autentiche radici, un fatale distacco che oggi ci fa guardare il mare con paura e soggezione come se questo elemento fosse una strada buia, tempestosa e piena d’insidie.

Con la legge n. 537 del 1993 il Ministero della Marina Mercantile venne accorpato dal Governo Ciampi al Ministero dei Trasporti, che mutò la denominazione in Ministero dei Trasporti e della Navigazione, a sua volta accorpato con la Riforma Bassanini nel 2001 al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti perdendo la propria ANIMA…

Queste sono le RIFORME da compiere in fretta! Purtroppo non sono neppure all’orizzonte mentre si continua a mettere persone inadeguate nei posti chiave!

Ringrazio il dott. Pino Pesce per avermi ricordato il tragico affondamento della ESPRESSO TRAPANI.

Carlo GATTI

Rapallo, 30 Settembre 2020