TIGULLIO: LUNGA VITA AL RIMORCHIATORE MESSICO
LUNGA VITA AL
RIMORCHIATORE MESSICO!
UN MASTINO DEI MARI…
COLUMBIA-CANADA-FRANCIA-MESSICO furono costruiti dai Cantieri Navali Campanella di Savona nel 1956. Tra pochi mesi il MESSICO compirà 62 anni mantenendo il suo primo nome!! Un Record assoluto per una tipologia d’imbarcazioni da lavoro che non si é mai risparmiata… Dei suoi gemelli non ho notizie fresche…Credo siano stati tutti demoliti.
I francesi accompagnano la parola ABEILLE (Ape operaia) al nome del rimorchiatore. Nessuna imbarcazione può vantare un così azzeccato nomignolo che simboleggia l’affidabilità, l’operosità, lo spirito di sacrificio e l’infinita modestia che gli si richiede per rimediare a tutti gli inconvenienti che capitano a causa del cattivo tempo, degli incidenti, e anche degli errori ed orrori che ciclicamente succedono negli ambiti portuali.
Per quasi 20 anni, la classe COLUMBIA fu considerata per i 1300 Cv di potenza installata, la colonna portante della Flotta RR portuale di Genova. I quattro RR furono costruiti in previsione dell’entrata in servizio delle Superpetroliere da 300 metri di lunghezza e delle nascenti Portacontenitori da 200 metri.
Si fecero onore per la manovrabilità, potenza di macchina e peso dello scafo (pescava oltre 5 metri). Per noi fu un vero privilegio averle comandate e aver conosciuto dei "grandi marinai"!!!
Il MESSICO DAVANTI A PUNTA PEDALE (S.M.L.)
Quando ebbe il suo primo refitting per il cambiamento di ruolo: da rimorchiatore a Supply Vessel, il MESSICO subì la trasformazione della sezione poppiera: la coperta diventò una larga piattaforma adatta al trasporto di materiale di ogni tipo, ma in particolare delle PANNE antinquinamento. Gli furono inoltre installate due potenti spingarde antincendio. Oggi appartiene alla Soc. DRAFFINSUB ed opera "ancora" con il suo personale specializzato in lavori di manutenzione e sostituzione di tubi presso il depuratore di Punta Pedale-Santa Margherita Ligure.
IL MESSICO quando ritornava da un faticoso viaggio D’ALTURA… notare la mancanza del paglietto di prora, cioé la bardatura antiurto.
IL MESSICO QUANDO ERA IN SERVIZIO NEL PORTO PETROLI DI MULTEDO. Notare la vicinanza degli scafi.
IL MESSICO QUANDO ASSISTEVA IL SOMMERGIBILE TRITONE IN SERVIZIO TURISTICO NEL TIGULLIO.
La "bugna" che si vede sul tagliamare in tutte le foto, non solo contraddistingue il MESSICO dai suoi gemelli… ma, come un pugile suonato… esibisce il suo “naso rotto” quale simbolo di tante battaglie. Per la verità, quella bugna é il ricordo di un bacio intenso, ma troppo affrettato con una banchina...
Barriere antinquinamento
IL MESSICO EBBE ANCHE UN LUNGO TRASCORSO DI LAVORO ANTINCENDIO ED ANTINQUINAMENTO NEL PORTO DI GENOVA.
Il MESSICO si distinse, come gli altri rimorchiatori della sua classe, in tante operazioni di salvataggio, incendio, inquinamento ed emergenze varie, ne ricordiamo soltanto alcune:
Incendio ANGELINA LAURO il 28 agosto 1965
Naufragio LONDON VALOUR il 9 aprile 1970
Incendio ACHILLE LAURO il 19 maggio 1972
Incendio KARADENIZ il 14 luglio 1973
Esplosione HAKUYOH MARU il 12.luglio 1981
LUNGA VITA A QUESTO INDOMITO GUERRIERO ed un caro abbraccio ai Colleghi ed Amici che sono diventati uomini su quelle lamiere!!!
ALCUNE CARTOLINE DALLA RIVIERA DI LEVANTE
L’incantevole PARAGGI
Portofino sullo sfondo a destra
Il Pino di Aleppo, sul piccolo faraglione la "CAREGA", cresce sempre…
M/n ARETUSA
26 Ottobre 2017 - Santa Margherita L.
E' arrivata questa mattina alle 08 e riparte questa sera alle 20
Vedendola completamente surclassata dalle altre navi, che frequentano il Tigullio, verrebbe spontaneo sottovalutare la nave ARETHUSA con i suoi 60 metri, e considerarla come uno yacht dalla forma strana, ma in realtà è la prima classificata nel settore delle piccole navi da crociera.
Costruita nel 2008, naviga attualmente sotto bandiera di Malta. Ha una lunghezza totale di 60 mt. e larghezza massima di 11 mt. La stazza lorda è di 1206 tonnellate. Porta 52 passeggeri.
Plaudiamo al risveglio di certi operatori … ed ovviamente a coloro che ne approfittano!
Carlo GATTI
Rapallo, 26 Ottobre 2017
{jcomments on}
COSTA CONCORDIA - Ultimo viaggio
Ultime emozioni dalla Concordia nel suo viaggio finale verso la ‘cremazione’
Di Angelo SCORZA
SHIP 2 SHORE
Si è conclusa positivamente anche la Fase 2 della complessa operazione di smaltimento del grande relitto, con un trasferimento all’interno del porto di Genova, scrutato per noi dagli occhi vigili del Capo Pilota John Gatti.
Si è conclusa positivamente anche la Fase 2 della complessa operazione di smaltimento della Concordia, con un trasferimento all’interno del porto di Genova occorso post ‘estrema unzione’.
Se infatti il lungo trasferimento a Genova la scorsa estate del grande relitto dallo scoglio su cui era incagliato all’isola del Giglio, prima di essere raddrizzato nella fantastica operazione di parbuckling, può essere considerato alla stregua di un corteo funebre sul mare (la nave di fatto è stata una bara del corpo dell’ultimo disperso), il suo viaggio finale dal molo frangiflutti di Voltri sino alla banchina delle riparazioni navali che per circa venti anni ha ospitato un altro grande ‘mostro marino’ quale il famigerato Super Bacino, si può interpretare come il percorso verso la ‘cremazione’ dello scafo; che ovviamente non verrà bruciato ma tagliato in centinaia di pezzetti.
Va notato come, durante tutta l'operazione assolutamente inedita (oltretutto la nave aveva un pescaggio diverso rispetto a quando è entrata sotto la Lanterna) nei tre bacini di Genova, Prà e Multedo, le navi hanno continuate ad entrare e uscire regolarmente nel loro traffico consueto, senza accusare ritardi o disagi (il relitto si è messo pazientemente in coda), a ulteriore riprova - se mai ce ne fosse bisogno - della perfetta efficienza della macchina organizzativa italiana e genovese.
L’intensa giornata di lavori è stata per noi scrutata dagli occhi vigili del Capo Pilota del Corpo di Genova, John Gatti, che ci ha fornito questo piccolo ‘diario di bordo’ essendo in plancia alla nave. Con l’arrivo al bacino delle riparazioni navali si è completata con successo la Fase 2 del processo di demolizione del relitto italiano. Un’operazione andata tutta liscia ma molto delicata, anche se attentamente pianificata; una manovra senza precedenti con la quale, nel corso di quasi un giorno intero, il relitto della Costa Concordia ha fatto il suo ultimo viaggio in mare.
Infatti da poco prima di mezzogiorno dell’11 maggio fino alle 8.30 del 12 maggio, la nave da crociera irrimediabilmente danneggiata è stato trainato da un numero variabile di rimorchiatori portuali dela Rimorchiatori Riuniti per circa 10 miglia nel Golfo di Genova dalla diga frangiflutti nel bacino di Voltri (di fronte alla banchina dove attraccano le portacontainer brughiera) - dove era ormeggiata da metà luglio 2014, proveniente dall'isola del Giglio, dopo l’audace 'parbuckling' – fino al suo ultimo porto di scalo, presso l'ex banchina del Superbacino di Genova.
In questa posizione, proprio di fronte alla darsena in concessione dove il cantiere T.Mariotti costruisce, ristrutturare e completa nave da crociera di lusso, i ponti della Concordia dal 14 al 2 saranno smantellati in via definitiva. Quando anche questa fase sarà terminata, il mezzo-scafo sarà preparato per essere trasferito al bacino di carenaggio n. 4 per lo smantellamento finale.
L'intera operazione di trasferimento si è svolta a una velocità media di 1 nodo per la durata complessiva di circa 20 ore.
A bordo della Concordia erano solo 12 persone, tutte con una funzione chiave. Il convoglio era composto da 4 rimorchiatori e 9 altre barche, tra cui quelle deputate a svolgere interventi di emergenza, anti-imcendio, una chiatta con gru, altri rimorchiatori, navi della marina.
La fase 1 aveva comportato la rimozione di 5.700 tonnellate di materiale (mobili e strutture interne) per permettere alla nave di raggiungere il pescaggio di 15,3 metri richiesto.
La Fase 3, il cui scopo è quello di dare galleggiabilità con la rimozione dei 30 sponsons installati durante il parbuckling, prevede la preparazione del relitto per il suo trasferimento al bacino di carenaggio, situato nello stesso bacino portuale, dove la nave finirà per essere completamente smontato e riciclata durante la Fase 4. Lo smantellamento punta a rigenerare l’80% dei materiali di scarto, comprese 50.000 tonnellate di acciaio e altri metalli ottenuti dalla rottamazione.
L'intero progetto è la cura dello Ship Recycling Consortium, formato dalla società di ingegneria Saipem (51%) e dal cantiere San Giorgio del Porto (49%). Il progetto dovrebbe durare 22 mesi in totale e coinvolgere tra i 100 e 250 addetti al lavoro in ogni dato momento.
CRONACA DI UNA MANOVRA UN PO’... ANOMALA
Di John Gatti
Capo Pilota Porto di Genova
La Concordia lascia l'ormeggio Voltri-Prà
È trascorso qualche giorno dalla felice conclusione dell’ormeggio della Concordia e finalmente la confusione, provocata dalle emozioni e dal vortice di elementi da gestire in un arco temporale limitato a poco meno di 24 ore, ha lasciato il posto ai ricordi ordinati dei momenti che hanno meritato di essere vissuti intensamente.
Una manovra estremamente complessa e delicata che ha richiesto un’attenta preparazione iniziata già molto prima del nostro imbarco, perché il trasferimento di quella che era ormai solo la carcassa della nave, ha coinvolto buona parte del sistema portuale genovese, ognuno per le proprie competenze, per arrivare a sistemare tutti i tasselli dopo aver valutato, previsto e arginato ogni possibile rischio.
Nel momento in cui la Concordia ha mollato l’ultimo cavo, è cominciato l’attento studio delle reazioni del relitto: la fase più critica e pericolosa sarebbe iniziata all’imboccatura di levante del porto di Genova il giorno seguente e, fino ad allora, si doveva studiare e capire il comportamento della Concordia considerando le forze in gioco. Fin da subito essa ha risposto abbastanza bene al tiro dei rimorchiatori tendendo, però, a ‘scodinzolare’ eccessivamente per effetto del fondale.
La Concordia esce dal porto di Voltri-Prà
Durante la manovra ho preso posizione sul tetto di un contenitore, sistemato nel punto più alto, e che funzionava da sala di controllo per la zavorra e i pescaggi, mentre i due Sottocapi Piloti, Bozzo e Aste, mi riportavano le distanze e gli allineamenti rispettivamente da poppa e da prora. Vicino a me il Pilota Manganiello e l’allievo Looz mi aggiornavano periodicamente sulla velocità e sui moti traslatori. La prima parte si è svolta senza imprevisti e ci ha garantito la conoscenza necessaria ad affrontare quella che poi sarebbe stata l’ultima e più delicata fase.
Dal punto di vista tecnico, il trasferimento da Voltri/Prà a Genova è stato meno preoccupante del previsto, aiutati anche da condizioni meteomarine estremamente favorevoli. L’unico inconveniente l’abbiamo avuto nelle prime ore di navigazione, quando la corrente da levante ci ha fatto rallentare più del previsto. Abbiamo tuttavia recuperato modificando leggermente la rotta prevista. In questa fase il Pilota Di Giannantonio si è trovato impegnato al coordinamento dei rimorchiatori ed al controllo della navigazione. La posizione di attesa, a levante dello schema di separazione del traffico, è stata raggiunta prima dell’alba.
La Concordia in avamporto a Genova
Mentre aspettavamo il passaggio di tre navi, abbiamo voltato il quarto rimorchiatore e ci siamo allineati per l’ingresso sulla rotta di entrata in porto. Poco prima dell’imboccatura siamo stati raggiunti da altri quattro rimorchiatori, che abbiamo posizionato nei punti predisposti per la spinta.
Da quel momento in poi il rischio maggiore era dato dai limiti dei fondali. Il relitto pescava 15,77 metri e, in alcuni punti, avevamo meno di 40 cm d’acqua sotto le catene che cinturavano i cassoni. Dopo aver ridotto la velocità a 0,4 - 0,5 nodi, sono intervenuto più volte per correggere imprevisti ‘scodinzolamenti’, ovvero: slittamenti laterali della poppa.
Il lavoro preciso dei rimorchiatori, le indicazioni puntuali dei colleghi e la massima concentrazione di tutti, hanno permesso al convoglio di raggiungere l’avamporto, sollevando parecchio fango, ma liberi da qualsiasi pericolo d’incaglio. Una volta fermato il lungo scafo, l’ho fatto risalire in modo da trovarsi parallelo ed allineato alla banchina dove poi sarebbe stato ormeggiato. La calata è larga 200 metri ma, di fatto, l’area dragata era larga solo 100 metri e, visto che la Concordia con i cassoni raggiungeva i 65 metri, la retromarcia verso la posizione finale risultava parecchio stretta, con roccia da una parte e cemento dall’altra.
Con molta attenzione, pazienza e perizia di tutti, alla fine la Concordia è stata messa in sicurezza all’ormeggio cui era destinata con largo anticipo sull’orario previsto.
Per l’occasione, oltre al cordone di sicurezza presente in mare, era stata istituita un’Unità di Crisi che aveva sede presso la Capitaneria di Porto, presieduta dal Comandante Intelisano, che è rimasta in contatto continuo con le motovedette della Capitaneria sempre presenti sul posto, a bordo delle quali, oltre al Comandante Capurso, erano imbarcati l’Ammiraglio Melone e il Presidente Merlo.
Sono pienamente consapevole, anche rileggendo quanto scritto, che è difficile far comprendere la complessità di un’operazione di questa portata, senza scendere in particolari tecnici che richiederebbero ulteriori e ben più complesse spiegazioni. Occorre tuttavia comprendere che la movimentazione di questo relitto galleggiante, che ha perso totalmente le sue caratteristiche idrodinamiche e propulsive, ha richiesto il contributo e lo studio di numerosi specialisti: piloti, rimorchiatori, ormeggiatori e Capitaneria di Porto, nessuno escluso. I rischi legati a questo tipo di manovra erano piuttosto elevati. Basti pensare alle conseguenze che ci sarebbero state per il porto di Genova in seguito a un possibile incaglio all’interno delle infrastrutture.
Per costruire una solida professionalità ci possono volere moltissimi anni, per perderla potrebbe bastare decidere di cambiare un sistema che ancora una volta ha dimostrato di essere molto affidabile. Quando la posta in gioco coinvolge la vita delle persone e la stabilità di un’organizzazione che dà da vivere a intere città, le valutazioni da fare devono dare il giusto peso alla sicurezza, all’equilibrio lavorativo e al lato economico.
In questo momento, per come viviamo il porto noi Piloti, possiamo tranquillamente dire che il rapporto estremamente sereno e di fattiva collaborazione che unisce la Capitaneria, l’Autorità Portuale e i servizi tecnico nautici, permette di raggiungere risultati quotidiani eccezionali che, purtroppo, si palesano quasi solamente nelle occasioni in cui l’interesse mediatico sale di livello.
ALBUM FOTOGRAFICO
Merlo - Gatti - Del Rio - Fabbricatore
Ultimo sguardo sugli interni della Concordia
John Gatti (Capo Pilota Porto di Genova)
Foto di John Carlo GATTI
25 Maggio 2015
{jcomments on}
WINDJAMMER, il Canto del Cigno della Vela
WINDJAMMER
L’ultima tipologia di velieri commerciali.
Il Canto del Cigno della Vela
Nave a Palo HERZOGIN CECILIE
Nel 1849 avvenne un fatto epocale nella storia della marineria: per effetto della scoperta di ricchi giacimenti d’oro in California, si creò un flusso di emigranti, ricercatori d’oro appunto, che era disposto ad imbarcarsi su qualsiasi mezzo diretto a S.Francisco via Capo Horn; il Canale di Panama si inaugurerà soltanto nel 1914.
Nello stesso periodo gli americani “inventarono” il CLIPPER. Le flotte d’Europa volavano verso l’ovest e fu l’epoca di memorabili gare tra questi “levrieri dei mari”, di brillanti records ed exploits di Comandanti e costruttori che passarono alla storia per la loro abilità e coraggio. Da quel clima “sportivo” di competizioni nacquero anche le scommesse a livello planetario sui Clipper vincitori.
Si scoprì l’oro anche in Australia e giunse l’ora dello sfruttamento commerciale dell’Oceano Pacifico. I grandi velieri commerciali viaggiavano carichi di emigranti e si incrociavano senza sosta lungo la rotta del Capo di Buona Speranza. Le lunghe traversate spronavano i Cantieri Navali inglesi a creare un tipo di veliero adatto alle grandi rotte oceaniche.
Purtroppo, la caccia all’oro non durò molto e, di conseguenza, il flusso migratorio andò scemando, ma il salvataggio dei grandi velieri dal disarmo totale avvenne per opera del guano della costa cilena, il grano californiano, e l’esistenza in Australia di grandi territori da colonizzare. Inoltre, buoni noli erano considerati: il cotone indiano, il carbone inglese, il nitrato cileno (eccellente fertilizzante) e la carne secca della Nuova Zelanda che riempivano le stive dei grandi “carriers” (Windjammer), gli ultimi velieri commerciali che resistevano ancora alla concorrenza dei più lenti, ma certamente più economici mercantili a vapore.
Mentre la nave a vela in legno tramontava definitivamente, il suo posto veniva preso dal veliero in ferro prima, e poi da quella in acciaio. Con l’apertura del Canale di Suez nel 1869, il mondo della vela accusò un ulteriore colpaccio perché solo le navi a vapore potevano utilizzarlo evitando il periplo dell’Africa. Il lento ma costante progresso della nave a vapore ottenne in quegli anni il monopolio del trasporto passeggeri.
Nel 1890 solo il 10% del naviglio varato dai cantieri inglesi era privo di propulsore a vapore: il rimanente alberava imponenti fumaioli tra la persistente selva di alberi e sartiame.
La navigazione a vela, dopo cinquemila anni di universale pratica, veniva lentamente sconfitta dal nuovo mezzo meccanico. Già! Lentamente, perché la lotta fu aspra e durò ancora nel corso della Prima guerra mondiale, quando gli U-BOOT tedeschi ne fecero scempio con il cannone.
Riservate ai velieri d’altomare rimanevano solo alcune rotte, quelle estreme dei collegamenti con le regioni più lontane (Australia e Cile). Regioni troppo lontane per la limitata autonomia della nave a vapore.
Il grande veliero da carico-WINDJAMMER presentava ancora due notevoli vantaggi:
- non doveva fermarsi per caricare carbone
- il vento non costava nulla
Facendo presa e insistendo coraggiosamente su questi due concetti, Francesi, Tedeschi e Scandinavi costruirono velieri sempre più grandi, destinati a caricare una sempre maggiore quantità di merci. Mentre la flotta dei velieri americani andava lentamente declinando, quella inglese divenne la prima al mondo.
Entriamo ora nel mondo della tipologia windjammer usando la classica definizione: “grandi velieri da trasporto che vennero realizzati tra la fine del XIX e l'inizio del XX Secolo”.
La grande novità costruttiva: scafo in ferro, e 3 - 5 alberi armati con vele quadre. Questa configurazione dava loro un profilo caratteristico perché furono le più grandi navi a vela mai costruite, avevano grandi stazze e non pochi vantaggi:
- la costruzione in metallo rendeva sia la produzione sia la manutenzione più economica di una nave a vela in legno di pari dimensioni.
- Lo scafo era più resistente e quindi permetteva il trasporto di un carico maggiore di una nave di dimensioni più grandi.
- Il moderno concetto di costruzione in serie sfruttava i rilevanti vantaggi dati dall’economia di scala.
- Lo stesso materiale: ferro prima, acciaio in seguito con il quale venivano realizzate, era di per sé meno costoso del legno. Inoltre lo scafo risultava più sottile e quindi lo spazio interno era maggiore.
- Il disegno costruttivo tipico del windjammer mostrava una particolarità molto importante per l’impiego dei più recenti ritrovati tecnologici. Le vele erano semi meccanizzate, gli alberi erano profilati in acciaio e, quando possibile, anche le manovre e il sartiame erano in acciaio.
- Lo scafo era affilato e rendeva il windjammer molto veloce e, nonostante il peso di quattro alberi, poteva raggiungere velocità media tra 15 e 18 nodi. La Herzogin Cecilie (vedi foto) aveva raggiunto la fantastica velocità di 21 nodi.
- Ma c’era un altro aspetto economico di grande rilievo: l'equipaggio tipico di un veliero dell’epoca era composto da: comandante, secondo, nostromo, 15 marinai esperti e 5 apprendisti, mentre l'equipaggio richiesto per governare un windjammer poteva essere di sole 14 persone.
- L'armamento e l’attrezzature fornivano prestazioni migliori della goletta e poteva navigare seguendo il vento meglio di una nave a palo, ed infine era più maneggevole di una nave dotata di sole vele quadre. La capacità di carico variava tra le 2.000 e le 5.000 tons. Il tipico carico, come abbiamo già visto, era costituito da guano, legno grezzo, grano e carbone.
- Su questo sito di Mare Nostrum Rapallo, nei titoli degli articoli riportati alla fine del presente servizio, abbiamo dedicato numerose pagine a questa tipologia WINDJAMMER a cui l’Italia diede numerose e celebri Navi a Palo di grandi stazze.
A cinquantotto anni dalla tragedia del famoso veliero-scuola PAMIR è doveroso un ricordo alla memoria del Comandante Johannes Diebitsch e dei suoi ufficiali, marinai ed allievi che perirono nel naufragio, avvenuto nell’oceano Atlantico a causa del violentissimo uragano “Carrie”. Il veliero aveva un equipaggio di ottantasei uomini e solo sei di essi si salvarono. La nave a palo tedesca (windjammer) Pamir, 3.020 di Stazza Lorda, naufragò nel settembre 1957.
Nel suo ultimo viaggio commerciale via Capo Horn, avvenuto nel 1949 sotto bandiera finlandese il Pamir aveva un equipaggio di 34 persone. Gli ufficiali erano cinque (comandante, primo ufficiale, secondo ufficiale, terzo ufficiale e nostromo), 14 marinai esperti, 5 marinai semplici e 5 mozzi di coperta, cuoco, assistente di cucina, cameriere e aiuto cameriere e infine un meccanico. I tempi erano definitivamente cambiati e i grandi windjammer si assunsero il compito di tramandare l’ARTE MARINARESCA velica alle nuove generazioni di marinai e ufficiali di mezzo mondo. Gli ultimi WINDJAMMER sopravissuti navigano ancora oggi con il nome, a tutti noto, di Tall Ships.
Tutte queste innegabili peculiarità del windjammer prolungarono la vita della vela essendo questi scafi molto competitivi (sulle lunghissime distanze) contro le prime navi a vapore che non superavano la velocità di 8 nodi.
Cinque Alberi PREUSSEN
Il più grande windjammer mai costruito fu il PREUSSEN che aveva 5 alberi. Il suo dislocamento era di 11.600 tons. Nella traversata dell’Oceano Atlantico, poteva mantenere una velocità media di 16 nodi.
La produzione maggiore di windjammer avvenne tra il 1870 e 1890 poi, quando la navigazione a vapore incrementò potenze, dimensioni e velocità, cominciò il loro inevitabile declino.
ALCUNE DIFFERENZE TRA IL CLIPPER ED IL WINDJAMMER
Clipper e Windjammer vengono spesso confusi perché somiglianti nello shape, ma si tratta di due tipologie di navi molto diverse. Il Clipper era una nave progettata in funzione della velocità, mentre il Windjammer lo era per la capacità di carico e la maneggevolezza. Molti Clipper avevano una costruzione mista (legno e ferro) e velatura completa, ma una capacità di carico inferiore alle 1.000 tons. I Windjammer erano invece di costruzione interamente metallica ed avevano, come abbiamo già visto, una capacità di carico molto elevata. Al tramonto del favoloso Clipper comparve sulla scena dei sette mari il Windjammer e fu il canto del cigno del mondo della vela da carico.
SEEADLER
Durante la Prima guerra mondiale, la Marina Imperiale Tedesca, utilizzò il Seeadler che stabilì un record come ultima nave a vela partecipante ad un conflitto. L'impiego principale dei windjammer restò però quello commerciale e, sebbene considerati una razza in via d’estinzione, alcuni restarono in servizio commerciale fino agli anni cinquanta del ventesimo secolo. L’avvento del motore DIESEL diede il colpo finale ai windjammer che terminarono la loro carriera occupando una nicchia nel trasporto di merci rappresentata dai collegamenti con quei porti che non disponevano di riserve di acqua o di combustibile e in alcune zone dell’Australia nel trasporto della lana e per le isole più lontane per il trasposto del guano.
Nave a Palo SEDOV
Ai giorni nostri, il più grande windjammer esistente ancora in attività è la nave scuola russa Sedov mentre il quattro alberi Moshulu, che può vantare il titolo di più grande windjammer esistente, è stato trasformato e viene utilizzato come ristorante di lusso a Philadelphia-USA. Spesso è possibile vedere altri esemplari di queste navi durante le principali manifestazioni dedicate alle gare tra le varie categorie di TALL SHIP.
Windjammer PASSAT
Windjammer KRUSENSTERN
Montague Dawson Paintings American Windjammer Under Full Sail
Windjammer KRUZENSTERN
Volle Fahrt voraus: Die "Sea Cloud II" erinnert an die Glanzzeiten der Großsegler.
Nave a Palo FRATELLI BEVERINO
Varato nel 1882 col nome di “Glenorchy” dalla Glen Line di Glasgow, passava alla Casa Beverino che nel 1909 lo vendeva a Gioacchino Lauro passando in Pacifico col nome “Cavaliere Lauro”. Passato infine col nome “Italia” all’armatore Esposito di Meta, di ritorno dal Cile con un carico di nitrato veniva investito da un piroscafo e affondava in pochi minuti.
Nave a Palo EMANUELE ACCAME
È la nave a palo più famosa e longeva di Loano, attiva su tutti gli Oceani. Varata a La Spezia nel 1891, gemella della “Edilio Raggio”, saliva a fama internazionale nella gara del grano sotto bandiera svedese col nome di “G.B.Pedersen”. Due drammatici passaggi di Capo Horn richiamarono il suo nome su tutta la stampa internazionale, quando, alla cappa durante una tempesta, venne salvata dalla collisione di un veliero inglese dall’allarme dato dalla bambina del capitano inglese, che stava a bordo con lui. Nel 1908 veniva a trovarsi a navigare tra i campi di ghiaccio che stavano chiudendosi riuscendo a guadagnare il mare libero all’ultimo momento. Dopo il 1911 veniva venduta alla Norvegia, poi alla Svezia distinguendosi in fatto di rendimento veloce. Nell’aprile del 1937, il grande veliero veniva speronato da un piroscafo ed affondava in 20 minuti ponendo così fine a 46 anni di navigazione.
SATURNINA FANNY
Fu realizzata nel 1890 su piani del Tappani nel Cantiere Nicolò Odero di Sestri Ponente dall'Ingegnere Navale Fabio Garelli che ne diresse la costruzione. Scafo in acciaio. Stazzava 1.594 tonnellate. Venne varata il 4 febbraio 1891. Armatori Raffo & Bacigalupo di Chiavari.
“ERASMO” in seguito “Pinguin”
Varato a Riva Trigoso nel 1903 per conto degli armatori Raffo e Bacigalupo di Chiavari, fu unità veloce collezionando primati malgrado le molte tempeste nelle quali ha avuto la ventura d’incappare, in Atlantico e nel Pacifico. Venduto alla Casa tedesca Laeisz, navigava col nome di “Pinguin” e veniva demolito nel 1923 dopo aver alzato anche la bandiera francese.
Nave a Palo “REGINA ELENA” – In seguito: “Ponape” – “Bellhouse”
Armato da Casa Milesi di Genova, veniva varato a Riva Trigoso nel 1903. Allestito con cura sotto la sorveglianza di capitani esperti, condotto in campagne effettuate con passaggi veloci e con carichi di vario genere non escluso il nitrato peruviano e il petrolio in cassette, nel 1912 veniva ceduto alla Casa Laeisz col nome di “Ponape”. Catturato dagli inglesi durante la prima guerra mondiale, navigava col nome “Bellhouse” passando poi sotto bandiera norvegese fino al 1927. Lunghezza 96 metri, larghezza 13,10, pescaggio 7 metri. Scafo in acciaio, stazzava 2.365 tonnellate. Portata 3.500 tonnellate. Era uno dei più bei quattr'alberi italiano. Aveva le vele di belvedere e controbelvedere.
Nave a Palo ITALIA
Scafo in acciaio, stazzava 3.109 tonnellate lorde, 3.030 nette. Lunghezza 98,80 metri, larghezza 14,54. Immersione 7,67 metri. Era armata con doppi velacci, velaccini e belvedere.
Con la sua portata di 4.200 tonn., è stato il più grande veliero costruito dai cantieri nazionali. Varato al Muggiano nel 1903 per conto degli armatori Cavalieri Becchi e Sturlese di Genova, attrezzato a nave a palo con i ritrovati più recenti, con 18 vele quadre, randa e 12 vele triangolari, albero maestro di 50 m. , era una nave splendida alla quale, però, non ha arriso la fortuna, che gli ha decretato la breve vita di 3 anni. Due le campagne, la prima di circumnavigazione del globo; la seconda campagna tra Europa, Australia e nuovamente Europa via Capo Horn. Durante la terza campagna, 1908, diretto allo scalo cileno di Iquique, l’“Italia” arrivava verso sera sotto costa quando veniva a mancare completamente il vento lasciando le vele inerti sicché bisognava ricorrere all’assistenza di uno dei pochi rimorchiatori della zona, che non fu possibile trovare (o giungeva troppo tardi). Il mare lungo che arrivava da Sud Ovest, dagli sconfinati spazi oceanici aperti, complice la corrente, spinsero il veliero sulle rocce della costa che scendeva a picco decretandone la fine per naufragio. Sinistro successo anche ad altre navi perché, essendo il mare molto profondo, era molto difficoltoso fermare la deriva per mezzo delle ancore. L’”Italia” riusciva tuttavia ad effettuare la manovra richiesta ma troppo tardi perché la poppa, ruotando, arrivò con il timone proprio sulle rocce che aprirono una via d’acqua fatale. Non rimaneva all’equipaggio che allontanarsi con le lance di salvataggio, che venivano soccorse da alcuni pescherecci.
Nave a Palo “GABRIELE D’ALI’” gemella della “Principessa Mafalda”
Progettista e Direttore dei Lavori fu l'Ingegnere Navale Fabio Garelli.Scafo in acciaio, stazzava 2.385 tonnellate. Zavorra 800 tonnellate d'acqua.Bastimento bello e dalla linea filante, risultò essere molto veloce anche per l'ampia velatura: gabbie, doppi velacci e controvelacci erano alti uguali sui tre alberi. Tra di essi e tra il contromaestro e la mezzana dotata di randa e controranda vi erano tre vele di strallo che, con fiocco, controfiocco e trinchettina al bompresso completavano l'imponente piano velico.
Fu un’ottima unità della Casa D’Alì di Trapani, il veliero più grande dell’Armamento meridionale italiano, varato nel 1903. Passato indenne tra i pericoli della guerra, veniva demolito a Trieste nel 1923, ultima nave a palo della flotta velica commerciale italiana.
- Si RINGRAZIA l’Archivio Fotografico dell’Agenzia Bozzo di Camogli che ci ha concesso la divulgazione di un pezzo della nostra Storia Marinara.
- Articoli correlati all'argomento WINDJAMMER sul sito di Mare Nostrum Rapallo:
Sezione STORIA NAVALE
- Le vere TALL SHIPS
- The TALL SHIPS’ RACE 2007
- I CLIPPERS, le FERRARI dell’800
- Gli ARMATORI CHIAVARESI
Sezione NAVI e MARINAI
- Nave a Palo ITALIA – C. CONCORDIA, due naufragi a confronto
- Veliero TROYAN e Cap. Filippo AVEGNO, un "Manico di altri Tempi..."
- L' AMERIGO VESPUCCI ha compiuto 80 anni ed é ancora la nave più bella del mondo
Carlo GATTI
Rapallo, 4 Maggio 2005
Veliero TROYAN e Cap. Filippo AVEGNO, un "Manico di altri Tempi..."
Cap. FILIPPO AVEGNO
un “manico d’altri tempi….”
La Camogli marinara, grazie ai suoi intrepidi marinai, vanta molti “primati”. Alcuni appartengono alla “grande storia” per il loro carattere di novità nel campo armatoriale, assicurativo, sindacale, di tecnica marinara ecc…. Altri, poggiando soltanto sulla leva del coraggio e della perizia navale, non hanno avuto quella cassa di risonanza che avrebbero meritato. Tuttavia, ciò che vi racconteremo appartiene sicuramente alla “piccola storia”, forse all’aneddotica, al sentito dire… che tale sarebbe rimasto senza le “prove” dei meritati riconoscimenti che esistono tuttora.
L’impresa di Capitan Avegno trova ospitalità in questa rubrica del nostro sito per almeno due buoni motivi:
1) – E’ stata riportata alla luce da Gio Bono Ferrari in un articolo pubblicato dal Secolo XIX il 19 novembre 1937. E come sapete lo studioso camoglino è tuttora la nostra guida spirituale che ci accompagna nei percorsi della gloriosa storia navale locale.
2) - La Società Capitani e Macchinisti Navali di Camogli è un covo di Lupi di Mare. Qui si discute solo di mare, d’armatori, di navi di ieri e d’oggi, d’equipaggi, di porti, d’imprese, di manovre, di carichi e di tutto un mondo che sa di salato…e qualche volta, quando le discussioni si accendono, sembra che anche la sede sbandi e si metta a rollare e beccheggiare sotto i colpi di mare!
Oggi quindi parleremo dell’emozionante avventura di capitan Avegno che stupì la marineria internazionale della sua epoca perché ebbe una conclusione felice. Nel caso invece di un clamoroso incaglio, l’eroe di quel giorno si sarebbe coperto di ridicolo e d’immensi debiti da pagare per danni materiali ed anche morali, in termini di carriera e prestigio personale. Ma l’uomo conosceva il suo mestiere come pochi ed aveva calcolato perfettamente tutti i rischi. Pensò quindi di mettersi in cattedra e dare una lezione agli increduli capitani delle navi che si trovavano come lui alla fonda.
La data non è certa, ma quasi sicuramente fu verso la fine dell’800, quando il veliero Troyan, di 1663 tonnellate di registro, dell’armatore camogliese Luigi Mortola, al comando di Capitan Filippo Avegno di Camogli, arrivò di buon’ora nelle vicinanze di Gulfport, situato nel Golfo del Messico, a metà strada tra New Orleans e Mobile, tra le grandi diramazioni del fiume Missisipi. Erano tempi duri per la navigazione, specialmente quando non erano disponibili portolani, carte nautiche e piani nautici delle zone locali. A quanto c’è dato di capire, il porto interno era stato appena costruito e i primi velieri che dovevano inaugurarlo avevano gettato l’ancora nella rada antistante la foce del fiume, nell’attesa di essere portati all’ormeggio da un servizio di pilotaggio che ancora non esisteva.
Golfo del Messico
Al suo arrivo, il Troyan si trovò in compagnia di due velieri norvegesi, una nave francese ed un clipper americano alla fonda nella baia di Gulfport. “Nessuno dei capitani stranieri” – ci racconta Gio Bono Ferrari – “aveva voluto entrare nella lunga e stretta imboccatura che portava al porto interno per tema di gravi avarie”. Capitan Avegno, uomo “spiccio”, fece gettare a mare lo schifetto e per vari giorni scandagliò i vari canali, pericolosi davvero per i banchi di sabbia che continuamente si spostavano. E una sera, alle autorità del paese che spaventate per il discredito che poteva sopravvenire al nuovo porto, domandavano la sua opinione ed il risultato dei suoi “rilievi”, egli rispose che avrebbero tentato di navigare la fiumara e di entrare nel porto”.
Si riunì presto un “Consiglio” straordinario nella sala del Municipio, al quale parteciparono anche i capitani dei velieri europei, preoccupati per l’entrata in porto e per il ritardo delle operazioni commerciali.
Dopo la favorevole dichiarazione di cap. Avegno, prese la parola il comandante francese che era anche il più anziano del gruppo. Parlò nel nome degli altri capitani presenti e dichiarò che era cosa temeraria voler far navigare in quella fiumara dei bastimenti da 1600 tonn. come lo stesso “Troyan” camogliese e la nave francese. Terminò il suo intervento con replicati “pas possible, pas possible”!
Riprendiamo ancora il racconto con le parole di Gio Bono:
“Capitan Avegno, sicuro ormai dei suoi rilievi (che servirono poi per la Carta Nautica del luogo) attese il vento favorevole e un bel mattino, senza rimorchiatore e governando con poche vele s’inoltrò nella fiumara. Bisognava far vedere a tutti che gli italiani sapevano riuscire. La grande nave con poche vele, ma con il gran pavese al vento, andava avanti; andava! Capitan Avegno, a cavalcioni sul bompresso, scandagliava in persona le limacciose acque della fiumara. Il secondo era alla barra. E gli ordini, questa volta da prua a poppa, passavano secchi e rapidi. Quattordici camogliesi erano intenti alla manovra, agli ordini del vecchio nostromo Olivari. Tutti sapevano che si stava giocando una carta per l’onore della marina italiana; nessuno fiatava”.
“Al di sopra delle nostre teste” – raccontò più tardi il marinaio Prospero Schiappacasse – “si sentiva uno sbatacchiare di ali, era la bandiera italiana! Ce la farà ad entrare per prima tra tutte le altre bandiere del mondo?”
La nave camogliese Troyan riuscì nell’impresa, superò bassifondi e correnti contrarie ed entrò senza avarie lanciando orgogliosamente le gomene sul “vergine molo” di Gulfport e la nave ormeggiò tra gli applausi scroscianti dei presenti, incluse le Autorità. Per cap. Avegno e per la sconosciuta bandiera italiana fu un trionfo!
Cap. Avegno fu dichiarato ospite onorario ed ebbe a sua disposizione la carrozza ed il valletto dello Sceriffo ed ebbe in dono un’artistica coppa d’argento.
Il capitano camoglino, non pago della vittoria di squadra, volle lasciare un altro segno importante, questa volta personale e della solidarietà marinara. Alcuni giorni dopo, Avegno accettò la nomina di “pilota di Gulfport” e portò felicemente i quattro velieri all’ormeggio per la caricazione del legname.
Carlo GATTI
Rapallo, 19.02.12
BATTISTA BAVESTRELLO-IL CAMPANARO di RAPALLO
“Personaggi di Rapallo”
Battista Bavestrello
IL CAMPANARO
20 Apr.2017-Sala Consiliare Comune-Rapallo: presentato il 57° Raduno dei Suonatori di Campane. Battista Bavestrello é il secondo da sinistra. Il sindaco in carica, Carlo Bagnasco é il secondo da destra.
COME SI COSTRUISCE UNA CAMPANA?
L'articolazione compiuta del suono delle campane è però tanto complessa quanto la realizzazione della campana stessa. Mediamente occorrono da trenta a novanta giorni per la fabbricazione della campana. Con una sagoma di legno e ferro e con una struttura di mattoni, si dà forma all'"anima", che corrisponde all'interno della campana. Questa si copre con strati di argilla sui quali si applicano le iscrizioni e le figure in cera che formeranno la "falsa campana". Con l'applicazione di un nuovo strato di argilla si ottiene il "mantello". Mediante i carboni ardenti inseriti nell'anima si raggiunge l'essiccazione del mantello nel quale rimangono impresse al negativo le iscrizioni e i fregi (cera persa). A questo punto si solleva il mantello, si elimina la falsa campana e si ricolloca il mantello sull'anima. Il bronzo - ottenuto con il 78% di rame e il 22% di stagno - viene colato a circa 1150° in quello spazio. Si procede così alla ripulitura della campana così realizzata, prima di sottoporla alle verifiche della tonalità. Questo procedimento è affidato a sapienti artigiani depositari di antiche tecniche tramandate di padre in figlio. Le botteghe dei Marinelli ad Agnone (fin dall'anno mille), dei Clocchiatti a Campoformido, dei Picasso ad Avegno, dei Colbachini a Saccolongo e di altri artigiani veterani dell'arte campanaria, restituiscono vitalità ad una memoria pressochè dimenticata. Tradizione che non trova terreno fertile nelle nuove generazioni proiettate verso un futuro che non deve mai trascurare la tradizione.
IL SUONO DELLE CAMPANE
Testo DI F. DE GREGORI - Musica di M. LOCASCIULLI
..............................................................................................
Ho visto uomini discutere su chi doveva sparare per primo
Uomini tirare a sorte il nome dell'assassino
E ho visto uomini in fila indiana nella notte di Natale
Aspettavano fumando il suono delle campane
Il suono delle campane
Aspettavano sognando...
|
Gli uomini avvertono da sempre il fascino spettacolare sprigionato dalle campane, le cui onde sonore vibrano per le vie dei cieli e della terra da secoli e secoli. Dai rudimentali campanelli dei tempi antichi fino alle enormi fusioni usate come elemento celebrativo, quel suono ha assunto nel tempo un duplice ruolo: religioso e sociale. Lo stesso progresso sociale è scandito dall'evoluzione del loro suono. Nella liturgia cristiana, l’uso delle campane compare nel VI secolo, assumendo un ruolo centrale nelle funzioni e un'importanza architettonica e artistica nelle chiese, nei conventi e nei monasteri. Indicative sono le iscrizioni che appaiono incise nel bronzo delle campane: "Vox mea, vox vitae", "Voco vos ad sacra, venite!" (La mia voce è voce di vita-Vi chiamo agli uffici sacri, venite!)
La campana è uno strumento tanto semplice quanto carico di suggestioni, i suoi rintocchi hanno ispirato grandi compositori con il fascino di quelle note sole e pure, ma la sua forma d’arte è stata capace di suscitare elevati sentimenti e grandi emozioni anche e soprattutto nella gente comune. Da questo mondo popolare provengono i nostri maestri campanari che eseguono concerti secondo i riti e la tradizione locale: ligure, bolognese, ambrosiano e veronese che sono le più radicate nel nostro Paese.
Era l’inverno del 1982 e buona parte degli italiani si riunivano davanti al televisore per seguire in diretta la trasmissione di successo “Portobello”, che era condotta da Enzo Tortora. I rapallesi, in particolare, erano in trepidante attesa della comparsa in scena di Battista Bavestrello, conosciuto in città col nomignolo di “Bacci” il campanaro, il talentuoso musicista autodidatta che era in grado di esibirsi in solitario, in un vero e proprio concerto di dodici campane.
“Bacci” Bavestrello, al centro della foto, con Enzo Tortora durante la trasmissione televisiva Portobello
Maestro, ci parli un po’ di lei.
Sono nato a Rapallo nel 1933, ed ho iniziato a suonare le campane quando avevo poco più di venti anni. Ho fatto a lungo la “gavetta” allenandomi con le vecchie campane della Chiesa di Santa Maria del Campo, dove mio zio s’ingegnava a “suonare a cordette”, creando la giusta atmosfera di gioia e allegria durante le feste.
Quando è nata la sua attività di campanaro-concertista?
Dopo qualche anno, quelle quattro “stanche” campane furono sostituite con dodici nuove provenienti dalla ditta Picasso e, una volta appresa la tecnica del maneggio, imparai quanto di musica mi serviva per esibirmi in concerto ed anche per comporre motivi, attorno ai quali, ancora oggi, lavoro cercando per loro la forma migliore. La tecnica da me usata è quella a campane ferme: “carrilon” oppure “organo di campane a tastiera genovese”.
Prima d’ogni concerto mi alleno quattro ore il giorno per oltre un mese.
Fidenza 1988. Il campanaro rapallese “Bacci” Bavestrello, dedicò il concerto più importante della sua carriera a Papa Wojtyla.
In cinquanta anni di carriera, il mio repertorio musicale, costituito da motivi sacri e profani, è cresciuto notevolmente e lo eseguo a memoria senza spartiti. Di molti brani, come dicevo, sono anche l’autore.
Ho suonato parecchio in giro per l'Italia e amo ricordare non solo la mia partecipazione in TV nel 1982, che lei ha già menzionato e che mi ha dato una certa popolarità, ma soprattutto mi riempie tuttora d’orgoglio il ricordo di quando fui scelto, tra tanti bravi colleghi campanari, per eseguire un concerto durante la visita del Papa Karol Wojtyla a Fidenza nel 1988.
In seguito ho eseguito numerosi altri concerti in molte altre città: Chiavari, Rapallo, Genova, La Spezia, Monreale, Nicolosi, nella Repubblica di San Marino, Firenze, Milano, San Remo, Arenzano, Aosta, Rovigo, Trento, Bolzano, Ventimiglia, Reggio Emilia, Bellaria, Pioltello (MI), Vertemate con Minoprio (CO), Bovisio Masciago, Brianza, Mondovì (CN), Busca (CN) ecc.). L’ultima esibizione l’ho tenuta recentemente al Conservatorio di Genova con altri cinque colleghi.
Nel 2004 ho recitato come attore, nei panni di un campanaro e in quella di un medico nel film "L'Apprendista", un cortometraggio scritto e diretto da Giacomo Gatti.
Può descriverci la tecnica campanaria più diffusa in Liguria?
Tra le varie tecniche campanarie esistenti, una delle più antiche e diffuse in Liguria è senza dubbio quella cosiddetta ”a corde” ed è strutturata in questo modo: una catena (o corda in qualche caso) è fissata con un gancio ad una parete opposta alla campana da collegare; dalla parte opposta, tramite un altro gancio, avvicina il battaglio alla superficie interna della campana, alla metà circa di questa catena è fissata una corda che, sollecitata in senso verticale, avvicina il battaglio alla campana permettendo la percussione e quindi la produzione del suono. Secondo la maggiore o minore forza applicata, il suono sarà più o meno intenso, inoltre se il battaglio, dopo la percussione, tornerà nella posizione di partenza, la vibrazione della campana non cesserà; viceversa, se esso sarà mantenuto nella posizione di percussione, il suono sarà smorzato, ossia la vibrazione della campana si estinguerà molto presto. Grazie a questi accorgimenti, molto più difficili da applicare ad altre tecniche di percussione, il campanaro sarà quindi in grado di esprimere successioni e colori sonori differenti.
In questa istantanea di “Bacci” in concerto, si può notare l’insieme dei collegamenti che uniscono i battagli delle campane alla tastiera genovese.
Perchè lei ha adottato la tecnica a tastiera?
Mediante questa tecnica ho la possibilità di attivare un numero maggiore di note e di eseguire melodie d’ambito più esteso che non nella tecnica “tradizionale”, avendo davanti agli occhi le campane in successione e disposte chiaramente su un piano, anziché sparse nello spazio della cella campanaria. Con questa tecnica, è tuttavia più difficile eseguire accordi composti di più di due suoni o adottare accorgimenti come lo smorzato in velocità.
Può descriverci l’impianto?
Al sistema meccanico a “corde” appena descritto, è applicata una tastiera solitamente in ferro ed è fissata al pavimento. Essa presenta un numero variabile di tasti corrispondenti al numero delle campane; soltanto quando queste raggiungono il numero di dodici, si può parlare di “concerto di campane”. Per allenarmi (senza campane), uso la stessa tastiera, ma ad ogni tasto è applicato un tubo verticale di lunghezza variabile, il quale può essere costruito in legno (xilofono) oppure in metallo (vibrafono).
Cosa si prova a suonare in solitudine nella cella campanaria di una chiesa?
Il campanile è il luogo dove l’arte prende forma grazie alle melodie e di conseguenza all’arte del campanaro. Salire verso l’alto è già poesia. Le porte, le rampe di scale, l’orologio, le corde campanarie, sono l’introduzione al concerto e ultima fonte d’ispirazione. Quest’ambiente riveste quindi particolare importanza nell’elaborazione musicale. Appena chiudo la porta d’accesso al campanile, entro - per così dire - in un altro mondo, fatto oltre che di materia, anche d’odori e di colori unici. Ogni modifica di quest’ambiente da parte dell’uomo porta, a volte, ad una conseguente alterazione dell’aspetto musicale. Il richiamo dell’Angelus al calare del sole, per esempio, subisce con l’automazione le variazioni d'orario del tramonto.
Altri esempi di tali modifiche sono davanti agli occhi e nelle orecchie di tutti: si va dai campanili “virtuali”, in cui le campane registrate altrove sono diffuse con altoparlanti, alle campane automatizzate il cui sistema a telebattente, percuote la campana dall’esterno anziché con il battaglio dall’interno ed è unito, spesso, al sistema motorizzato delle ruote per il suono a distesa, per finire con la soppressione delle rampe d’accesso alla cella.
Siamo giunti al termine di quest’interessante conversazione e mi viene spontanea una domanda: è in pericolo l’antica tradizione campanaria?
Tutto ciò che ha un sapore antico, a mio avviso, è in pericolo. I giovani sono attratti dal moderno e quindi guardano nella direzione opposta alla nostra. Io credo che la nostra tradizione esisterà finché ci saranno buoni parroci che sapranno attrarre bravi giovani con la voglia di sacrificarsi per imparare, dai noi anziani, un’arte che purtroppo è faticosa, povera e in via d’estinzione. Tuttavia, devo dire che il problema mi trova più amareggiato che pessimista, infatti, noi campanari ci sentiamo un po’ abbandonati a noi stessi. Personalmente finché ho potuto ho suonato le campane con tanta fede e passione rimettendoci, il più delle volte, tempo e denaro. Oggi, da pensionato sono costretto a coltivare il mio orto per sopravvivere e, purtroppo, di sera sono stanco e non posso dedicare che pochissimo tempo al mio vibrafono (d’allenamento) che tengo in cantina.
So che il Comune di Rapallo le ha concesso un locale presso l'ex convento delle Clarisse, proprio per tramandare l’insegnamento della musica sul vibrafono ai giovani allievi, affinché l'arte campanaria non si perda. Ma se ho ben capito, lei sta dicendo che intende lasciare la sua attività?
Si! Purtroppo è così! “Picchiare” con i pestelli sulla tastiera delle campane è un esercizio ginnico duro, per il quale occorre molto allenamento da intervallare a molto riposo. Purtroppo la mia modesta economia non mi concede tempo né per l’allenamento né per il riposo. Mi creda, non spetta a me soltanto pensare a come mantenere in vita la tradizione dell’arte campanaria, tuttavia, spero che questo “messaggio” arrivi alle sensibili orecchie di chi ama veramente le nostre tradizioni. Mi creda! Fin da ragazzo mi porto addosso le nostre tradizioni come una seconda pelle, e qualora fossi un po’ aiutato, potrei ancora lottare per tenerle in vita, almeno fino a quando potrò passare il testimone a qualche giovane di talento e di buona volontà.
GATTI CARLO
Rapallo 25 Settembre 2017
A BORDO CON IL PILOTA... VTE - Genova
A BORDO CON IL PILOTA…
di John GATTI
Capo Pilota del Porto di Genova
Nelle due foto sopra: Manovra di un grande portacontenitore al VTE
Ascoltando la gente parlare di eventi che avvengono in mare, anche se, in questo caso, proprio sotto le finestre delle case dei genovesi, mi rendo conto di quanto sia sconosciuta la professione del Pilota portuale.
La colpa è soprattutto nostra. E’ nostra perché viviamo in un “mondo” a parte, perché siamo “terrestri” pur restando marittimi, perché lavoriamo in equilibrio tra efficienza e sicurezza, ma anche tra coraggio e cautela, tra presenza di spirito ed emozioni forti, tra le parole “lo faccio, o non lo faccio?”, seguite da decisioni prese in un secondo. E’ nostra perché diamo per scontato che chi ci guarda dalla finestra capisce cosa c’è dietro al movimento di una nave all’interno di un porto.
Voglio usare l’ultima, in ordine cronologico, “avventura” piuttosto eclatante discussa sulle banchine del nostro porto e riportata su molti quotidiani, ma questa volta la voglio raccontare dal “Ponte di Comando”, usando un linguaggio pratico, diretto, marinaro.
Il telefono è squillato intorno alle 23,00, e una voce ferma e decisa mi ha avvisato che la nave Cosco Africa, lunga 349 metri e di 114.000 tonnellate di stazza lorda ormeggiata nel porto di Pra-Voltri, stava strappando i cavi che la tenevano ormeggiata in banchina a causa del forte vento di Tramontana. Dall’altra parte del telefono c’era Angelo Simi De Burgis, il collega in servizio nella zona di ponente. Quella telefonata ha fatto scattare delle procedure d’emergenza, procedure scritte sulla pelle di decine di migliaia di manovre, molte di routine ma tante altre estreme. Un minuto di telefonata mi ha permesso di capire la gravità della situazione, il grado di controllo e la preparazione alla gestione di un evento che avrebbe potuto avere conseguenze disastrose.
Il tempo trascorso in macchina per raggiungere la pilotina a Multedo, è servito a raccogliere tutte le informazioni possibili, ascoltando la sala Operativa dell’Autorità Marittima, la nostra Sede Operativa e quella dei rimorchiatori. L’ingranaggio, molto ben oliato, stava girando in modo perfetto. Nel frattempo Angelo era salito sulla nave e cercava di gestire la situazione: la nave aveva strappato tutti i cavi che la tenevano ormeggiata e, in quel momento, due ancore con due lunghezze di catena ciascuna e tre rimorchiatori a spingere agguantavano la Cosco Africa a circa 70 metri dalla Costa Concordia.
Nel frattempo gli ormeggiatori ci avvisavano che anche la nave MSC Vienna si stava allargando dalla banchina rischiando di strappare i cavi. Decido di imbarcare sulla MSC. Una volta raggiunto il Ponte di Comando dispongo per filare due lunghezze in acqua per essere pronti sulle ancore, faccio preparare i cavi per rinforzare gli ormeggi e mi metto in contatto con l’Autorità Marittima, la quale mi informa che hanno predisposto l’invio di altri due rimorchiatori, uno previsto arrivare in dieci minuti, il secondo in venticinque.
Effettivamente il rimorchiatore America arriva puntuale e, quando comincia a spingere, riusciamo a recuperare sul vento, riportando la nave all’ormeggio.
A questo punto Angelo, con cui ero sempre in contatto radio, mi chiede di raggiungerlo immediatamente perché la situazione stava diventando ingestibile. Il vento superava tranquillamente i 50 nodi con raffiche a 60.
Raggiungo il collega sulla Cosco Africa e mi trovo di fronte a una situazione veramente delicata: il Comandante, di nazionalità cinese, era molto provato dalla situazione e appariva decisamente agitato; la Costa Concordia si trovava ormai a meno di 50 metri e continuavamo a perdere acqua soccombendo, di fatto, alla forza del vento. Di poppa avevamo due rimorchiatori molto potenti che spingevano a tutta forza.
Per non finire contro la C.Concordia decidiamo di mettere la macchina avanti per cercare, in estrema necessità, di affiancare la nave alla diga nel modo meno traumatico possibile. L’abilità di tutti, la sincronizzazione perfetta delle forze e una buona dose di fortuna, hanno permesso di far rimontare la poppa al vento quel tanto che ci ha permesso, una volta raggiunti dal quarto rimorchiatore predisposto dall’Autorità Marittima, di usare con decisione la macchina indietro e di riportarci, metro dopo metro, vicini al posto d’ormeggio.
A questo punto abbiamo provato a riaffiancare la nave, ma raffiche di vento di incredibile violenza ci hanno portato più volte pericolosamente vicino alle gru, per poi riallargarci dalla banchina.
La situazione era sempre più critica: il vento sembrava aumentare di intensità, la nave si stava di nuovo allontanando dalla banchina, non avevamo più cavi a disposizione e gli avviamenti della macchina erano ormai agli sgoccioli.
Era arrivato il momento del “lo faccio, o non lo faccio?”.
Mettetevi nei nostri panni: il vento freddo di Tramontana rendeva difficile anche soltanto lo stare in piedi sull’aletta del Ponte di Comando, il rischio di finire sulla Concordia o sulla diga era diventato quasi una certezza, ma la nave ce l’avrebbe fatta a raggiungere la velocità necessaria per contrastare il vento e uscire dal porto, o avrebbe vinto lui.
Il secondo a disposizione era passato, i pochi avviamenti a disposizione avevano fatto da ago della bilancia.
“Rimorchiatori fermate la spinta!” – immediatamente la nave sente il vento e riprende ad allargarsi decisamente dalla banchina – “Comandante, avanti molto adagio!” – la macchina risponde decisa, ma gli interminabili minuti necessari a prendere velocità fanno scarrocciare il bestione di 350 metri in maniera impressionante – nel giro di una manciata di secondi passiamo dal Molto Adagio Avanti all’Avanti Tutta. Puntiamo la prua sul fanaletto rosso dell’imboccatura, ma la poppa continua a cadere. Gli ordini al timoniere vengono urlati, un po’ per superare il vento e un po’ per scuotere il Comandante seriamente preoccupato. La velocità aumenta e il controllo della nave migliora. Arriviamo ad affrontare il punto più stretto con una velocità di 14 nodi! Impressionante anche per noi.
Passiamo a una quindicina di metri dal cemento del fanaletto rosso, dove accostiamo con il timone tutto a “dritta” per mettere la prua al vento. In quel momento la poppa è a venti metri dalla diga.
Pochi minuti dopo siamo fuori. Diminuiamo la macchina, e con lei cala anche la tensione. Io e Angelo ci scambiamo lo stesso sguardo carico di soddisfatta energia che ha sottolineato numerosi momenti simili a questo.
Adesso devo chiudere con una riflessione che mi sembra oltremodo superflua, ma che comunque devo fare. Alla luce di quanto vi ho scritto, tenendo conto che in questo articolo non ho sottolineato abbastanza il ruolo avuto dall’Autorità Marittima e dagli altri servizi tecnico nautici perché il punto di vista non lo permetteva, vi invito a pensare alla pericolosità di un controllo e di una gestione diversa da quella prevista e attuata oggigiorno.
Quando un tipo di lavoro prevede l’accadere di situazioni limite, non ci si può permettere il lusso di compromettere un equilibrio collaudato, proponendo gestioni private e concorrenza laddove la sicurezza umana, delle infrastrutture portuali e dell’ambiente, verrebbero inquinate da interessi economici.
Voltri Terminal Europa (VTE)
di Carlo Gatti
La MERIDIANA di Voltri
Voltri Terminal Europa PSA Voltri Pra (Voltri Terminal Europa S.p.A.) è il maggiore terminal contenitori del Porto di Genova e uno dei più efficienti del Mediterraneo, con una capacità attuale di 1,5 milioni di TEUs annui e con traffici che, ad oggi, si attestano oltre il milione di TEUs, che rappresentano il 50% del totale movimentato nell'intero Porto di Genova.
Inaugurato nel luglio 1992 con la partenza del primo traghetto della società Viamare e arricchitosi nell’ottobre 1993 con l’approdo della prima nave car carrier, l’attività del terminal contenitori, il core business del VTE, è stato inaugurato nel maggio 1994, cambiando in modo sostanziale e qualificando a livelli europei la capacità di servizio del Porto di Genova e di tutto il comparto dell’Alto Tirreno.
Il Terminal, che nel triennio 2011 – 2013 ha movimentato più di tre milioni di TEU, ha registrato il proprio record storico nel 2012, anno in cui con 1.249.000 TEU movimentati contribuì consistentemente al raggiungimento dei 2.000.000 di TEU movimentati dal Porto di Genova.
Il terminal VTE è dotato di una banchina di 1430 m, su fondali di 15 m ed è servita da 8 gru post panamax (16 rows) e da 4 gru super post panamax (18 rows). Si estende attualmente su circa 110 ettari di piazzali ed è dotato del parco reefer più esteso del Nord Tirreno (più di 1.500 reefer plugs).
Inoltre, ulteriori 30 ettari sono dedicati al Distripark di Voltri, area di servizi, che fa capo a PSA - Prà Distipark Europa S.p.A. e che consta di una torre uffici e servizi da 7.200 mq e di magazzini per 20.000 mq. Questi ultimi hanno a disposizione un'ampia area per la sosta e le movimentazioni dei camion e dei contenitori e svolgono attività diretta a soddisfare la domanda di servizio legata al consolidamento di carichi eccezionali, container fuori sagoma (OOG), Break Bulk, perizie, ispezioni, verifiche, magazzinaggio e distribuzione delle merci.
BACINO PORTUALE DI VOLTRI
La vera Storia
di Renzo BAGNASCO
Scrivo queste righe perché ne sono stato testimone interessato.
E’ bene fare una premessa che, da sola, farà capire il perché del bacino a Voltri, realizzato in zona che parrebbe inidonea in quanto soggetta a ventolate terribili, che scendono incanalate lungo la stretta valle del Turchino. Il fatto che le navi per accostare debbano invece compiere evoluzioni a bassa velocità, ne avrebbero sconsigliato la sua collocazione, non compatibile con il governo di una imbarcazione in quei frangenti.
Per fortuna ci pensano i rimorchiatori, veri <Gatti> dei mari.
Ma a tutto questo ha fatto agio il fatto che per le opere marittime i costi, alla fine, sono i più difficili da verificare. Il grande porto di Genova era terminato, Multedo, per il quieto vivere, era meglio non toccarlo e quindi per foraggiare tutti gli addetti, partiti in testa, bisognava inventarsi un qualcosa: ecco allora il bacino di Voltri dal grande impatto popolare.
Il progetto iniziale, redatto da persone altamente qualificate oggi scomparse, prevedeva un’opera gigantesca dai costi mostruosi: cosa di meglio per chi doveva finanziarsi.
In Italia, all’epoca, le ditte che potevano eseguire lavori così importanti, erano forse due, tutte fortemente ammanigliate. Le stesse, grazie ai nostri solerti e “disinteressati” Ministri, hanno anche molto lavorato all’estero, spesso finanziate da noi, sotto forma di aiuti ai paesi in via di sviluppo, un po’ come gli aerei della Piaggio “regalati” a paesi africani. Al primo guasto, quelli li abbandonavano e noi andavamo a recuperarli, imputando i costi al nostro Governo, sempre sotto la voce <aiuti al terzo mondo>.
Con queste premesse è facile capire perché si finanziò subito la diga foranea, l’opera più incontrollabile, e poi, a seguire, sarebbe avvenuto il tombamento per creare una piattaforma, appendice della terra ferma allargatasi in mare per divenire Terminal. Il progetto infatti prevedeva che il torrente Branega, il più importante del sito, fosse prolungato e canalizzato sotto al terrapieno sino a sbucare nel canale di calma a ridosso della diga e, da li, al mare. Occorreva anche individuare, raccogliere e canalizzare tutte le innumerevoli acque nere che scaricano da sempre in mare, trasportate dai vari rigagnoli, per convogliarle in un unico depuratore, mentre i vari ruscelli e rivoli che sfociavano in mare, bisognava intercettarli, canalizzarli e portarli anch’essi a scaricare di fronte alla diga. Solo dopo si sarebbe potuto interrare. A seguito di questi ostacoli irrisolti, questo canale, inizialmente non previsto, rimarrà definitivamente …..provvisorio
Subito alcuni speculatori comprarono dai contadini le colline dietro Palmaro, perché era previsto di ricavarne i terreni da poi portare direttamente nel riempimento, utilizzando teleferiche che sorpassassero l’Aurelia e la ferrovia così da non intralciare, ingorgandola, la vita del ponente cittadino. Si sarebbe evitato il disastro che poi invece ci fu, dovuto al continuo transitare di centinaia di camion al giorno provenienti dalle cave, snaturando Voltri e tutta il ponente della Città. Subito si capì che questi approvvigionamenti tradizionali sarebbero stati costosi e insufficienti: si decise anche di abbandonare l’idea di ribaltare in mare le colline retrostanti e, con una ordinanza, si impose a tutti di scaricare inerti di qualunque naturale comunque ricavati, unicamente a Voltri: da Nervi alla Val Bisagno, dal Polcevera alla Vesima, fu un via vai di automezzi e questo per anni. Immaginarsi il caos, la polvere e i disagi nella zona di arrivo, anche ai fini della sicurezza stradale. Oggi c’è il sospetto che nel caos generale, qualcuno vi scaricò pure rifiuti proibiti. All’inizio si era pensato di colmare, utilizzando solo il materiale “pulito” di risulta dalla contemporanea costruzione della famosa bretella autostradale, il cui progetto purtroppo è tutt’ora in itinere. Campa cavallo: il coordinamento non è fra i pregi di queste Amministrazioni di sinistra, sensibilissime ad evitare che i propri elettori, perché esasperati, chiedano spiegazioni.
Che abbiano le manine un po’ sporche ???? Si vive da elezione ad elezione, senza programmare alcunché.
Intanto i lavori della diga procedevano speditamente (per quelli naturalmente i finanziamenti furono trovati) mentre per il riempimento si dovette attendere anni per racimolare tutto quel materiale. Morale: i cassoni di contenimento furono posati senza lasciare i fori per lo sbocco al mare dei rivi; fra l’altro nessuno li progettò e la sponda a mare fu realizzata senza i “buchi”. Ben presto si formò l’attuale bacino di acqua putrida e stagnante, in attesa di completare il tombamento di quel tratto, che non potrà mai avvenire perche devono risolvere l’impossibile problema dello scarico libero dei torrentelli, il ricambio delle acque ed eliminando anche gli scarichi non intercettati ma che ancor oggi vi si riversano tanto che la zona non è balneabile. Penso a Stoccolma dove gli appassionati possono pescare i salmoni in pieno centro della città.
Alle obiezioni d’aver creato una cloaca si rispose: <la lasciamo aperta a levante, nell’attesa di colmarla (impossibile come abbiamo visto ) così che scarichi verso Pegli davanti a quel litorale. Al ricambio penserà il vento che soffia da Voltri >. Peccato che la tramontana pulisca solo la superficie ma non crei, così sotto costa, corrente; anzi “scopando” terra, vi trasporta pure ogni sorta di “rumenta” cittadina, stradale e ferroviaria. In compenso i rivi non tracimano perché vi si riversano liberi e incontrollati.
Ci si dimenticò però che le correnti sotto costa viaggiano da Livorno verso l’Esterel. Ne sono testimonianza i cadaveri che, caduti in mare da noi, li ritrovano poi sulla Costa Azzurra. Nel sito, quelle più a terra e meno forti, sospingono le acque da Pegli verso il “cul de sac” creato a Palmaro, esattamente l’opposto di quanto raccontato nelle Assemblee, senza creare ricambio, anzi. La corrente che loro vantavano è quella di ritorno che, partendo dall’Esterl, corre dritta e al largo, raggiungendo Livorno. Quando il popolino se ne accorse, non poté tanto urlare perche la zona, da sempre controllata dalla “sinistra”, era e doveva essere in piena armonia con il Comune e la Regione. Pegli fu sacrificata perché non “rossa”. Per calmare le ‘acque del dissenso’ promisero una fascia costiera dedicata allo sport e nel canale, nel frattempo formatosi fra il riempimento del Terminal e la costa, sarebbe dovuto sorgere un bacino per il canottaggio olimpico, installazione di cui Genova è da sempre priva. Poi qualcuno fece presente che il sito è spaventosamente ventoso, le acque dichiarate non balneabili sono sporche e rischiose per chi vi si bagnasse. Oltretutto le sponde del canale non erano regolamentari: non realizzate inclinate e sassose così da smorzare le ondine provocate dai canoisti: non sarebbero garantite pari acque in tutte le corsie dello specchio d’acqua. Allora, arrampicandosi sugli specchi, lo dedicarono al vecchio e desueto ( non olimpico)canottaggio a sedile fisso, cioè dei gozzi un po’ più snelli, cosa congeniale ai pescatori della zona.
Tutto dall’epoca è rimasto così indefinito. La verifica dei lavori non fu mai fatta perché a quelle Ditte tutti facevano riferimento e, d’altronde, chi si sarebbe immerso per verificare se il piede della diga era realmente di 15 o 30 metri: chi poteva controllare se le mareggiate, susseguitesi negli anni, avessero realmente distrutto, sparpagliandolo sul fondo del mare, il materiale utilizzato per quelle subacquee in itinere, obbligando ogni volta a doverle rifare?
Per fare queste opere si sono sacrificate le ultime belle spiagge di Genova, dopo aver tombato quelle di Cornigliano con l’Italsider: in quel sito di Prà, vi erano storici palazzi di famiglie nobili genovesi che vi trascorrevano le estati.
Per parte sua l’Anas ha fatto il resto, collegandosi con ripidi tornanti, al nuovo porto. In mezzo a tutto lo smog, prodotto dai camion obbligati a innestare la “primina” per superare quei dislivelli, si coltiva il “famoso” basilico di Prà: e poi parlano di habitat vocato !!!. Un tempo la coltivazione partiva da Coronta e finiva a Pegli, perché quella era la zona dal clima idoneo: Prà era troppo fredda e ventosa. Oggi, in serra, lo si può coltivare anche sul Kilimangiaro. Basta saperla raccontare, ma non prendeteci in giro !!
Di tutte quelle imbarcazioni da diporto che si vedono dall’Aurelia ormeggiate nel canale, più della metà sono attraccate in zona abusiva e provvisoria, oltretutto irraggiungibili da grossi mezzi di soccorso, non essendovi strade di accesso. Le più a levante sono addirittura non praticabili neppure dai pedoni, in spregio all’accesso pubblico doveroso per legge, perché chiuse da cancelli non governati; da sempre corre voce che il promotore fosse amico del Governatore Burlando.
Pare che la Capitaneria non cerchi grane: per lei non sono autorizzati e quindi ……. Inesistenti.
In Italia in troppi tengono famiglia !!
(ANSA) - GENOVA, 5 MAR - La capitaneria interviene con una nota contro la possibile concorrenza tra privati e lo fa prendendo spunto dagli interventi compiuti la scorsa notte nel porto di Prà-Voltri dove tutte le componenti portuali sono dovute intervenire per mettere in sicurezza tre navi porta container minacciate da raffiche di vento fino a 125 km orari (una ha rotto gli ormeggi). "Alla vigilia dello sciopero il dispositivo di sicurezza che ha operato in queste condizioni estreme ha dato un'ulteriore dimostrazione non solo dell'alta professionalità di tutti gli operatori dei servizi tecnico-nautici - spiega la Capitaneria - ma anche di quanto il servizio pubblico da essi reso sia importante per la sicurezza, anche ambientale e l'operatività di un porto e di quanto sia indispensabile la loro valenza di servizio pubblico essenziale". E aggiunge: "Nessun soggetto privato in posizione di concorrenza potrebbe garantire quelle prestazioni che solo la natura pubblica dei servizi tecnico-nautici, sotto il coordinamento, la regolazione e la posizione di garanzia assunta dall'Autorità marittima, possono assicurare in situazioni ordinarie e in condizioni estreme, garantendo una presenza qualificata 24 ore su 24, altissima professionalita, sicurezza, e efficienza organizzativa". (ANSA).
Il Capo Pilota John Gatti a bordo della MSC BETTINA durante l’ormeggio nello scalo di Voltri-VTE
(ANSA) - GENOVA, 20 FEB - Prima assoluta per il porto di Genova per una super porta-container da 14.000 teus. Ha attraccato oggi al Terminal Vte di Prà Voltri Msc Bettina, 366 metri di lunghezza, 51 metri di larghezza, record per il porto di Genova insieme al suo carico di 14.000 container da 20 piedi. Per il suo accosto la nave ha fatto una manovra di una tale complessità che la Capitaneria di porto di Genova l'ha definita "da letteratura marinaresca". "L'ingresso in porto di un tale gigante dei mari - ha spiegato l'ammiraglio Vincenzo Melone, comandante della Capitaneria di porto di Genova - è certo frutto delle capacità imprenditoriali di chi gestisce quel terminal, ma si avvale delle quotidiane sinergie istituzionali esistenti tra Autorità portuale, Autorità marittima e abilità dei servizi tecnico-nautici". "Non sempre - ha aggiunto Melone - competitività è sinonimo di privatizzazione, anzi, nel caso dell'ormeggio di mega-portacontainer nei porti come Genova - le cui infrastrutture necessitano di adeguamento alle nuove esigenze dello shipping mondiale - solo la presenza dello Stato, delle sue potestà di regolazione, programmazione, pianificazione, può garantire quell'efficienza, efficacia e sicurezza dei servizi che sono il vero 'sale' della competitività di un porto". (ANSA).
RIPRODUZIONE
Uno scorcio del VTE
Vento a 125km/h e superlavoro questa notte per l’autorità marittima e i servizi tecnico nautici nel porto di Genova-Pra’. Le raffiche, giunte fino a 125 km orari con una media sempre superiore ai 70 km/h a partire dalle 23, hanno comportato un super lavoro per l’autorità marittima e i servizi tecnico-nautici di pilotaggio, rimorchio e ormeggio. Gli effetti più critici si sono avvertiti nel bacino portuale di Pra’–Voltri, dove, oltre alla completa sospensione di tutte le operazioni e alla chiusura del terminal, delle tre navi portacontainer presenti, una, la Cosco Africa, è stata addirittura costretta a lasciare il posto d’ormeggio per essere portata fuori dal porto, alla fonda in posizione di sicurezza. Poco dopo mezzanotte, con la nave – di 349 metri e 114.000 tonnellate di stazza lorda – che stava iniziando a scostarsi di molti metri dalla banchina, sotto l’effetto del vento costantemente superiore agli 80km/h, nonostante le ancore in mare e la contro-spinta esercitata da quattro rimorchiatori appoggiati sul lato mare dell’unità, la Capitaneria di Porto insieme ai Piloti e agli stessi Rimorchiatori, ha deciso di portare la nave fuori dal porto, per posizionarla alla fonda in una zona più ridossata della rada di Voltri. Le altre due navi, la Msc Vienna (260 metri di lunghezza e 41.000 t.s.l.) e la Maersk Tukang (322 metri di lunghezza e 91.000 t.s.l.), ormeggiate sul lato di Ponente della banchina del terminal VTE, pur risentendo in misura minore degli effetti del forte vento – per la loro minor stazza e per il posto d’ormeggio meno esposto alla direzione del vento di ieri sera – hanno comunque avuto necessità non solo di rinforzare i cavi d’ormeggio ma anche della contro-spinta di un rimorchiatore ciascuna. Criticità rilevanti, seppur non della stessa intensità, si sono registrate anche nei bacini di Multedo e Sampierdarena, ove c’è stato bisogno solo di squadre supplementari di ormeggiatori per rinforzare gli ormeggi di alcune unità.
UN ALTRO COMMENTO
Per dare un'idea della vicinanza delle gru-Paceco alla nave ormeggiata nel porto di Voltri-VTE e quindi dell'impossibilità di mettere bitte alte ed idonee, o altri sistemi che possano tenere legata la nave alla banchina, allego queste foto che meglio di tante parole spiegano la situazione.
Pista dell'Aeroporto
Porto di Voltri. Sullo sfondo l'Aeroporto.
Perché hanno costruito un porto così? Ecco la spiegazione: causa la presenza dell'aeroporto, la cui pista é perfettamente allineata con la banchina del VTE, le gru non possono raggiungere una certa altezza per ragioni di sicurezza. Quindi le gru/Paceco installate al VTE sono del tipo più basso, con meno sbraccio, la distanza gru-nave é minima per una necessità operativa, quella di poter lavorare sui container più distanti (lato sinistro della nave, vedi foto), quindi i cavi d'ormeggio guardano tutti in verticale e le bitte sono quelle tradizionali. Quando c'è il vento famoso dal Turchino, la nave si allarga, i cavi si spezzano e succedono i guai di due giorni fa...
Carlo GATTI
Rapallo, 8 Aprile 2015
Il TRATTATO DI TORDESILLAS
IL TRATTATO DI TORDESILLAS
Dall'avventura di Colombo alla nascita del colonialismo
Il 12 ottobre 1492, dopo sessantanove giorni di navigazione, Cristoforo Colombo gettava l’ancora della sua caravella, la Santa Maria, presso l’isola Guanahani (futura isola di San Salvador). Fu così che, nel tentativo di raggiungere via mare il Catai ed il Cipango (le attuali Cina e Giappone) per una nuova e inesplorata via, l’ignaro navigatore fece dono alla Spagna e all’Europa del Nuovo Mondo. Cristoforo Colombo era nato a Genova nel 1451. Eccellente navigatore, si era stabilito in Portogallo, appassionandosi alle esplorazioni e studiando un modo più rapido per raggiungere via mare il Cipango e altre terre sconosciute e colà raccogliere l’oro necessario per una nuova crociata contro i turchi. Intorno al 1484, aveva proposto il suo progetto al re del Portogallo; al rifiuto del sovrano, Colombo si era rivolto ai monarchi di Castiglia e Aragona. Il primo rifiuto dei re spagnoli, nel 1487, non scoraggiò Colombo, che pochi anni dopo, nel pieno fervore della guerra di riconquista cristiana della Spagna, riuscì ad accordarsi con i reali per il finanziamento dell’impresa. Era la primavera del 1492. Il 3 agosto di quello stesso anno Colombo salpava verso Occidente da Palos con tre imbarcazioni: la “Niña”, la “Pinta” e la “Santa Maria”. Dopo una sosta alle Canarie, l’8 settembre la piccola flotta iniziava la traversata dell’Oceano Atlantico.
Dopo il rientro di Colombo in Europa, avvenuto nel marzo 1493, papa Alessandro VI (Rodrigo Borgia), si ritrovò a dover dirimere le rivendicazioni territoriali dei sovrani iberici: al Portogallo infatti avrebbero dovuto spettare tutte le terre sul parallelo delle Canarie, in base ad un accordo fra quel regno e la Castiglia di una decina d’anni prima. La scoperta delle Indie da parte di Colombo e il nuovo assetto politico della penisola Iberica (dove Castiglia e Aragona s’erano unite nel nuovo regno di Spagna) entravano in conflitto con quel trattato e rischiavano di spaccare la cristianità. Rodrigo Borgia dovette mediare fra le pretensioni di Giovanni II di Portogallo e quelle di Sovrani Cattolici di Castiglia e Aragona, ed emanò una serie di documenti, tra i quali il più importante è la bolla Inter cetera del 4 maggio 1493. Il documento è contenuto nel Registro Vaticano 777 dell’Archivio Segreto Vaticano. La Inter coetera (di cui esistono due redazioni) venne retrodatata, nella sua versione definitiva al 4 maggio, anche se composta, spedita e registrata solo alla fine del giugno 1493. Con quel documento, definito anche “bolla di partizione”, il papa – in virtù dell’autorità apostolica sulle terre occidentali dell’ex Impero Romano, esercitata in forza delle prerogative attribuite ai papi dalla falsa donazione di Costantino – concedeva ai sovrani spagnoli il possesso di tutte le isole e le terre scoperte e di quelle che sarebbero state scoperte in futuro, a Ovest di una linea di confine ideale Polo Nord/Polo Sud, idealmente tracciata a circa cento leghe dalle isole Azzorre e dalle isole di Capo Verde.
Con questo atto il pontefice delimitava il dominio marittimo e coloniale di Spagna e Portogallo. Il papa chiedeva poi ai sovrani di provvedere al più presto all’invio di missionari cattolici che operassero per convertire alla vera fede di Cristo le popolazioni indigene. Nel documento papale s’incontra fra l’altro l’esplicito riferimento alla missione svolta da Cristoforo Colombo (chiamato nella bolla Cristoforus Colon), “uomo particolarmente degno e assai raccomandabile, nonché capace di compiere una così grande impresa”, incaricato dai sovrani spagnoli “di cercare non senza fatiche e pericoli certe isole lontanissime e terre mai scoperte prima”.
L'intervento del Papa nella questione fu giustificato alla luce della Donazione di Costantino. Il documento (di cui è stata peraltro provata l'inautenticità) includeva nel lascito di Costantino alla Chiesa, tra le altre cose, le isole della parte occidentale dell'Impero Romano. All'epoca si riteneva che le nuove scoperte fossero semplicemente delle isole (ci si rese conto solo più tardi che si trattava invece di un nuovo continente): di qui, presupponendo di intendere l'Oceano Atlantico ricompreso nella "parte occidentale dell'Impero Romano", la giustificazione dell'arbitrato papale.
Altra interpretazione vuole invece che l'intervento papale, forte dell'autorità acquisita grazie alla guerra santa di matrice cristiana e alle crociate servisse a legalizzare la posizione di Portogallo e Spagna su territori inesplorati, selvaggi e abitati da pagani , dove la loro pretesa di legittimità era labile: fintanto che le operazioni militari si svolsero nella penisola spagnola, con lo scopo di ripristinare la Christianitas, non fu avvertito minimamente dalle monarchie iberiche nessun bisogno di avallo da parte di un potere superiore, cosa che invece, divenne indispensabile con le nuove scoperte geografiche.
La divisione tracciata dalla bolla, comunque, non fu equa. La Spagna influenzò pesantemente la decisione, che di fatto escluse il Portogallo dall'America (Alessandro VI era di origine spagnola). La ragione per cui la bolla favoriva la Spagna fu individuata nel servizio che la nazione spagnola rendeva, o avrebbe reso, alla Chiesa di Roma. Il dettato della bolla alessandrina fu poi superato dal Trattato di Tordesillas, nel 1494, che spostò la linea molto più ad ovest, permettendo al Portogallo di reclamare il suo dominio sul Brasile.
PREMESSA
La bolla Inter Coetera,* di papa Alessandro VI, scritta il 3 maggio 1493, su richiesta dei Re Cattolici di Spagna, è uno dei documenti più importanti della chiesa cattolica rinascimentale, poiché con esso non solo si sanziona giuridicamente la nascita del colonialismo internazionale dell'Europa occidentale, ma si inaugura anche il moderno colonialismo ideologico e culturale del cattolicesimo romano, allora strettamente legato a quello ispano-portoghese. A dir il vero, la bolla nacque per rivedere un trattato di spartizione imperiale circa le isole dell'Atlantico (isole già conosciute e ancora da conoscere), già stipulato, senza mediazione pontificia, nel 1479, tra Spagna e Portogallo, ad Alcaçovas (in virtù del quale la Spagna poté assicurarsi solo le Canarie).
Con la scoperta dell'America (che allora si pensava fosse la Cina), la Spagna decise di non rispettare quel trattato e, rivolgendosi direttamente al papa, sperava di evitare una guerra col Portogallo e di stipulare un nuovo trattato.
Il Portogallo, infatti, riteneva che proprio in virtù di quel trattato, le terre scoperte da Colombo gli appartenessero di diritto e, poiché la sue proteste presso la corte spagnola non avevano ottenuto alcun risultato, aveva allestito una flotta da guerra che doveva seguire Colombo nei futuri viaggi per occupare con la forza gli eventuali nuovi territori.
La bolla di Alessandro VI è quindi un documento più importante del trattato di Alcaçovas, poiché, essendo scritta dopo la scoperta dell'America, riguarda per la prima volta dei territori planetari, per quanto solo alcuni decenni dopo ci si convincerà dell'esistenza di un nuovo continente. La bolla, d'altra parte, non perderà valore neppure dopo tale acquisizione geografica, benché i successivi trattati di Tordesillas (1494) e soprattutto di Saragozza (1529) costituiranno delle notevoli precisazioni che i portoghesi vorranno fare a loro vantaggio. Saranno piuttosto le nuove potenze europee capitalistiche: Olanda, Inghilterra e Francia, a rendere inutile una qualunque mediazione pontificia.
TRATTATO DI RORDESILLAS
La divisione del nuovo mondo tra spagnoli (a sinistra del meridiano) e portoghese (a destra del meridiano)
Il TRATTATO DI TORDESILLAS fu firmato il 7 giugno 1494 tra i re Cattolici di Spagna e Giovanni II di Portogallo, sotto l'egida del papa Alessandro VI, quindi confermato dal papa Giulio II, fissava una linea di delimitazione circa a 2000 km a Ovest delle isole del Capoverde: i territori situati all'Est di questa linea, conosciuti e sconosciuti, sono attribuiti al Portogallo, quelli dell'Est alla Spagna. Chiamato anche “trattato di ripartizione del mondo”, veniva a regolare, dopo i trattati di Alcoçavas (1479) e di Tolède (1480), la rivalità dei due paesi impegnati “nelle grandi scoperte”.
Versione portoghese del trattato di Tordesillas, folio 1 recto, Biblioteca Nazionale di Lisbona.
Certo è che la chiesa non avrebbe mai prodotto questo documento se il colonialismo portoghese (già sotto la sua "protezione") non avesse avuto concorrenti di sorta: il documento infatti ha lo scopo di dirimere una controversia territoriale emersa tra i due principali paesi colonialisti di quel periodo, che la storia ha voluto fossero cattolici. Esso ha pure lo scopo d'impedire che altri Stati cattolici vogliano diventare colonialisti nelle stesse terre già occupate. La spartizione viene assicurata dalla chiesa non solo sulle terre già scoperte ma anche su quelle da scoprire.
Come disse il gesuita Giovanni Botero, teorico della "ragion di stato", la chiesa romana si sentiva in dovere di riconoscere i possessi coloniali mondiali alle due nazioni europee che più avevano lottato contro ebrei e musulmani, cioè che più avevano manifestato il proprio integralismo politico-religioso.
Se il contenzioso fosse sorto tra un Portogallo cattolico e una Germania protestante, probabilmente non ci sarebbe stata alcuna mediazione pontificia, non foss'altro perché non ne sarebbe stata riconosciuta l'universalità da entrambe le parti. Se invece il contenzioso avesse coinvolto altri Paesi europei di religione cattolica, quest'ultimi, disposti certo a riconoscere l'universalità etico-religiosa della chiesa romana, non altrettanta disponibilità avrebbero manifestato per la pretesa universalità politico-giurisdizionale. E la chiesa post-medievale, dal canto suo, non sarebbe stata in grado di rivendicarla. Gli stessi sovrani iberico-lusitani gliela riconoscevano più che altro in maniera formale, in quanto, sul piano pratico, era la chiesa che doveva adattarsi alla forza delle loro armi. Già ai tempi di Sisto IV, che cercò d'imporre alla Castiglia vescovi di sua nomina, Isabella vi si oppose energicamente, anche se poi accetterà la proposta dello stesso papa di ripristinare l'antico tribunale dell'Inquisizione, gestito dalla corona (1481).
Qui appare evidente che la Spagna intendeva servirsi della mediazione pontificia per darsi una patente di legalità nel caso in cui l'opposizione del Portogallo alla “bolla” avesse dovuto costringerla a dichiarargli guerra.
La storia comunque ha voluto che a legittimare il moderno colonialismo internazionale non fosse un'istituzione laica ma religiosa. Questo a prescindere dal fatto che le successive legittimazioni (laiche o a-cattoliche) conterranno aspetti colonialistici assai più anti-democratici del contenuto complessivo della bolla in oggetto.
Quadro storico
L'Inter Coetera venne scritta in un momento di grave crisi morale per la chiesa di Roma. Le uniche vere preoccupazioni dei pontefici parevano essere quelle di proteggere i loro parenti e di abbellire Roma con edifici prestigiosi.
Sul piano politico invece la situazione sembrava offrire alla chiesa una qualche possibilità di rivalsa, almeno nell'ambito dello Stato pontificio, dopo i 70 anni della cosiddetta "cattività avignonese" e dopo la nascita e lo sviluppo del movimento conciliarista (che negava al papato la priorità sul concilio, trovando, in questo, molti appoggi da parte dei governi laici).
Con grande tempismo politico, la chiesa di Roma seppe approfittare della richiesta bizantina di aiuti militari contro l'invasore ottomano, per imporre alla chiesa ortodossa, nel concilio di Ferrara-Firenze (1438-39), il riconoscimento della giurisdizione universale del pontefice. Il fenomeno conciliarista occidentale sembrava aver perso, d'improvviso, una qualunque giustificazione d'esistere.
Con la fine del "piccolo scisma d'occidente" (1439-49), che fu praticamente l'ultimo tentativo del conciliarismo d'imporsi restando nell'ambito del cattolicesimo, la Curia romana riprenderà totalmente il controllo della chiesa. Centralismo, fiscalismo e mondanità saranno poi le cause che scateneranno la Riforma protestante.
Tuttavia, il decreto d'unione non venne accettato dalle comunità ortodosse, che alla delegazione, rientrata a Costantinopoli, fecero sapere di preferire la dominazione turca a quella latina. Né il papato riuscì a organizzare una potente crociata antislamica, per imporre il decreto, agli ortodossi, con la forza. Ormai i tempi non invitavano più gli occidentali a impegnarsi in crociate neo-medievali. Senza considerare che nei confronti del mondo bizantino, l'occidente cattolico non ha mai nutrito alcuna simpatia.
Questo, benché, proprio a seguito di quel concilio, i teologi, i filosofi e i maestri di greco della delegazione che decisero di restare in Italia, contribuirono non poco allo sviluppo dell'Umanesimo e del neo-platonismo, nonché alla diffusione della lingua greca e a un rinnovato interesse per le tradizioni bizantine. Tanto per fare un esempio, un'opera fondamentale come quella del Valla sulla falsa Donazione di Costantino (1440) sarebbe stata impossibile con i soli strumenti della filologia.
Inoltre, le possibilità di fare affari, per i mercanti, si stavano lentamente spostando verso le nuove rotte coloniali portoghesi o verso il Mare del Nord, dove dominavano le città della Lega Anseatica. In fondo l'obiettivo principale delle crociate medievali (e cioè quello di aprirsi uno spazio autonomo nel mercato mediterraneo, per commerciare in tutta Europa i prodotti orientali), i mercanti l'avevano raggiunto da un pezzo.
E' vero che la parte del leone, in quell'impresa bisecolare che costò immani sacrifici, l'aveva praticamente fatta Venezia (che costringerà Genova a rivolgersi verso il Mediterraneo occidentale e i traffici ispano-portoghesi); ed è anche vero che proprio a seguito della spinta ottomana, Venezia era stata costretta a rivolgersi verso i porti del Nordafrica, della Siria, dell'Egitto. Ma è anche vero che, nel complesso, la borghesia occidentale (si pensi anche a quella, sempre più legata alla manifattura, di paesi come Olanda, Inghilterra e Francia) stava vivendo un momento di crescente benessere. Per cui il papato non poteva più contare sulle stesse motivazioni sociali che nei secoli precedenti avevano spinto migliaia di persone a combattere per la "giusta causa" del colonialismo.
Probabilmente, se dopo la caduta di Costantinopoli (1453), gli spagnoli non avessero avuto il coraggio di attraversare l'Atlantico (emulando, in questo, il coraggio portoghese di scendere sotto l'equatore), la borghesia occidentale (Venezia esclusa) non avrebbe potuto disinteressarsi, con così relativa facilità, dei traffici mediterranei (lo dimostra la discesa di Carlo VIII in Italia, ma gli stessi aragonesi nel Mediterraneo svolgeranno sempre una politica antiveneziana). D'altra parte fu anche l'atteggiamento monopolistico di Venezia (che a questi traffici non vorrà rinunciare neppure dopo il 1453) a indurre le borghesie degli altri paesi a cercare nuovi sbocchi per le loro merci e soprattutto altre fonti (meno costose) per le loro materie prime.
Il papato, quindi, in questa seconda metà del XV sec., deve tener testa a tre avversari di tutto rispetto: 1) la crescente laicizzazione dei costumi e dei valori (soprattutto nell'area di cultura umanistica e rinascimentale: fenomeno, allora, tipico degli intellettuali); 2) l'emancipazione socio-economica della borghesia, che vuole rinnovare profondamente la struttura e l'ideologia della chiesa cattolica (da qui prenderà le mosse il movimento riformistico); 3) l'affermata autonomia politica dei sovrani cattolici, che vogliono agire senza dover rendere conto ad alcun contropotere, senza cioè dover temere che l'arma della scomunica possa bloccare ogni loro iniziativa.
Il papato è ancora potente economicamente, anche se politicamente il suo potere lo esercita soprattutto, in maniera diretta, senza la mediazione del sovrano cattolico, nell'ambito del proprio Stato. Illusosi di aver superato la minaccia del movimento conciliarista, e relativamente soddisfatto della fine dell'impero bizantino, il papato non sospetta neanche lontanamente che tutte le idee conciliariste ed ereticali verranno riprese, di lì a poco, dalla grande Riforma protestante, e che in Europa orientale la Russia degli zar si farà carico di proseguire il conciliarismo della chiesa bizantina.
Alessandro VI (1492-1503)
Papa Alessandro VI rappresenta un esempio davvero illustre (ma i suoi successori, Giulio II e Leone X, non gli furono da meno) del livello di corruzione morale e di prepotenza politica della chiesa romana di quel periodo.
Di origine spagnola, Rodrigo Borgia venne nominato cardinale a soli 25 anni; salì al soglio pontificio per simonia; ebbe cinque figli, tra i quali Cesare e Lucrezia, dei quali erano noti la spregiudicatezza morale e politica; fece di tutto, senza però riuscirvi, a ricavare in Romagna un dominio per il figlio Cesare; dilapidò il patrimonio della chiesa per arricchire i propri familiari, anzi, fu il primo a trasformare la corte pontificia in reggia principesca, strutturata in modo tale da mettere in risalto la venerazione rituale riservata alla dinastia; fu responsabile della morte per impiccagione e rogo del predicatore domenicano Girolamo Savonarola, al quale aveva offerto la porpora cardinalizia pur di farlo tacere. In conflitto con gli aragonesi per i diritti su alcuni feudi nel regno napoletano, preferì prendere le loro difese (perché li considerava più deboli) contro i francesi che con Carlo VIII erano scesi in Italia per occuparla. Si sospetta infine che sia stato avvelenato.
Questo, in sintesi, l'identikit dell'autore della bolla che stiamo per prendere in esame.
Il testo
Il testo, che è il primo di una serie di quattro bolle, dedicate tutte al medesimo argomento: Inter coetera, del giorno dopo, Dudum Siquidem (26.09.1493) e Eximiae devotionis (16.11.1501), esordisce affermando due cose: 1) "la fede cattolica" (e non ortodossa, benché anche questa pretenda di far parte della "religione cristiana") va diffusa in ogni luogo; 2) "i popoli barbari" (cioè non-europei o comunque tutti coloro che non appartenevano a una delle tre religioni monoteistiche: cristiani, ebrei e islamici. "Barbaro" infatti è un epiteto pesante, che la chiesa cattolica riferiva soprattutto ai popoli "pagani", "politeisti" o "idolatri"): questi popoli vanno "vinti" (sottinteso: militarmente) e poi "condotti alla fede" (spada e croce sono indissolubili).
Il testo poi prosegue elencando i fatti e i motivi dai quali la chiesa di Roma può, secondo ragione, far dipendere la concessione del riconoscimento giuridico delle nuove proprietà spagnole in America (che ancora si pensava fosse la Cina).
1) Imparzialità assoluta del pontefice, eletto "col favore della clemenza divina (senza nostro merito)". Questa frase di Alessandro VI, che appare più volte, può essere stata ispirata da due diverse preoccupazioni, non antitetiche ma complementari: anzitutto quella di delegittimare una delle accuse più gravi che a quel tempo gli intellettuali progressisti gli muovevano (e per la quale il Savonarola verrà giustiziato nel 1498): l'accusa di simonia. In questo senso la sottolineatura del pontefice potrebbe anche stare a significare che, essendo la cathedra Petri un'istituzione divina, che prescinde dalla personalità o dalle caratteristiche soggettive di chi la occupa, ogni sovrano, di conseguenza, era tenuto ad accettare la bolla senza discuterla, proprio perché scritta da colui che, attraverso Pietro, rappresentava la volontà di Dio.
Il secondo motivo della precisazione può essere stato invece più etico e meno politico, anche se ugualmente importante. Probabilmente Alessandro VI -essendo di origine spagnola- aveva bisogno di difendersi in anticipo dall'inevitabile insinuazione d'aver compiuto un favoritismo nei confronti dei "Re Cattolici" (titolo, questo, ch'egli conferirà ai sovrani di Spagna nel 1494).
2) Spontanea iniziativa del gesto ecclesiale: la concessione del riconoscimento giuridico viene fatta -dice il papa- "per nostra pura liberalità", "non dietro richiesta", "a titolo di favore". Qui si possono precisare alcune cose: anzitutto, secondo il diritto ecclesiastico allora vigente, tutta la terra (come pianeta) apparteneva al Cristo e, quindi, essendone il vicario, al papa, il quale così poteva concederla in usufrutto ai sovrani di religione cattolica; in secondo luogo, una terra non posseduta da un sovrano cattolico veniva considerata "senza proprietario", anche se essa era rivendicata da un proprietario non-cattolico; in terzo luogo, il principio della "donazione delle terre scoperte" tutti i pontefici precedenti ad Alessandro VI l'avevano applicato alle conquiste dei portoghesi.
3) Il "favore" di cui parla il pontefice non va inteso in senso giuridico ma morale. La concessione veniva fatta riconoscendo ai sovrani cattolici (in particolare Alessandro VI si riferisce a Isabella di Castiglia) i sacrifici ("fatiche, spese, pericoli") sostenuti contro i saraceni. Questo è dunque, per la chiesa, un modo di ricompensare (senza obblighi legali) quella nazione che più si era impegnata, per la fede religiosa, sul piano militare, politico ed economico. La "conquista" del Nuovo Mondo non era che il premio per la "riconquista" cattolica della Spagna.
Alessandro VI, in particolare, afferma che se la Spagna era arrivata "seconda" sulle stesse terre che i lusitani avevano scoperto o conquistato per altre vie (si ricordi che l'America corrispondeva alla Cina), ciò non doveva penalizzarla nella spartizione delle colonie, poiché il ritardo era dovuto a un fattore contingente assai importante: la Riconquista.
4) D'altra parte - dice ancora il pontefice - i sovrani spagnoli non solo hanno desiderio di diffondere la fede cattolica, ma hanno anche l'esigenza di doverlo fare in modo legittimo. Il "santo e lodevole proposito" di evangelizzare tutta la terra (questa espressione viene ripetuta più volte nel testo) è, secondo la chiesa, il motivo principale che giustifica il colonialismo ispano-portoghese. Non c'è ragione, quindi, di non concedere in dono e "in perpetuo", cioè anche agli eredi e successori dei sovrani spagnoli (a prescindere cioè dal tipo o dalla qualità dell'evangelizzazione), il favore in oggetto.
5) Anche il giudizio su Colombo è estremamente positivo. Benché l'avesse conosciuto solo attraverso la Lettera a Santàngel, Alessandro VI lo chiama "nostro diletto figlio": forse per suggerire l'idea, conoscendo la "religiosità" del genovese, che il colonialismo era nato sotto buoni auspici e che avrebbe continuato a dare buoni frutti se l'interesse della corona di fosse strettamente unito a quello dell'altare. O forse il pontefice voleva far leva sull'origine italiana di Colombo per dimostrare che indirettamente la chiesa di Roma aveva concorso alla scoperta dell'America.
Non dobbiamo infatti dimenticare che questa bolla non è solo un documento con cui si concede il favore del riconoscimento giuridico della conquista, ma è anche un documento con cui, in cambio del favore, si chiede un compenso relativo agli interessi della chiesa.
L'interesse della chiesa
Alessandro VI non si era servito solo della Lettera a Santàngel, per scrivere la bolla, ma anche di altre fonti non citate. Nella Lettera infatti non era stato detto che gli indigeni fossero vegetariani. In ogni caso, ch'essi siano così o anche "numerosi", "pacifici" e "ignudi", ciò per Alessandro VI non rappresenta più di una mera curiosità folclorica.
La vera caratteristica che gli preme sottolineare è che il loro "monoteismo" primitivo, ingenuo, istintivo, va perfezionato col cattolicesimo, che, unico al mondo, è in grado di "educare ai buoni costumi". Qui il pontefice dà per scontato che le conversioni degli indigeni siano già relativamente facili.
Il pontefice ricorda anche la guarnigione lasciata da Colombo a Navedad, ad Haiti, e senza volerlo si contraddice laddove afferma, dopo aver parlato di "indios pacifici", che la "torre ben munita" doveva essere difesa dai cristiani contro gli indios.
In effetti, al pontefice non interessava approfondire il discorso sulle civiltà indigene: gli bastava credere (in fede o per convenienza non importa) in ciò che Colombo aveva scritto circa la scoperta di "oro, spezie e moltissime altre cose preziose". Anche per lui era del tutto normale unire profitto e fede.
La chiesa giustificava il profitto in nome della fede; la Spagna lo giustificava servendosi della fede: la differenza era minima. In fondo la chiesa di Roma aveva le stesse esigenze della Spagna: recuperare nel Nuovo Mondo ciò che non poteva più sperare di ottenere (o addirittura di conservare) in Europa, soprattutto sul piano politico ed economico. La Spagna voleva diventare una grande potenza europea restando sostanzialmente feudale, mentre molte altre nazioni stavano diventando borghesi: e ciò la costringerà a cercare uno sbocco "salvifico" nel Nuovo Mondo. La chiesa, che non poteva più contare sulle proprie forze, cercava di ridiventare una grande potenza appoggiandosi al colonialismo della Spagna. Questa si limitava a usare la fede come uno strumento ideologico al servizio della conquista militare e politica; quella invece credeva che la fede, come ideale religioso, potesse sopravvivere politicamente soltanto su nuove basi economiche.
Il papa concesse il favore tracciando una linea retta (raya) dall'Artico all'Antartico, cento leghe a ovest delle isole di Capo Verde (al largo dell'attuale Senegal), assegnando al Portogallo tutte le nuove scoperte a oriente di quella linea, e alla Spagna tutte quelle a "occidente e mezzogiorno".
In cambio di questo favore, il papa chiederà ai Re Cattolici: 1) che istruiscano per l'America dei missionari qualificati, capaci di evangelizzare nel miglior modo possibile; 2) che vietino a chiunque di recarsi nelle Indie "per commercio o altre ragioni" (ad es. per scopi missionari), "senza speciale permesso vostro", altrimenti il soggetto subirà la scomunica latae sententiae, cioè immediata.
La chiesa, insomma, convinta che il sovrano spagnolo non voglia aver a che fare con possibili recriminazioni da parte di altre potenze commerciali e marittime europee, chiede anche che non vi siano, sul nuovo terreno missionario, rivali nella predicazione.
A dir il vero, appena tre anni dopo la pubblicazione della bolla, Enrico VII, re d'Inghilterra, violò la raya cogliendo come pretesto il fatto che nel divieto del papa si erano citati l'ovest e il sud ma non il nord. Convinto che Colombo avesse scoperto un'isola e non le Indie, e che queste potessero essere scoperte con una rotta più settentrionale di quella di Colombo, il re favorì la spedizione del veneziano Giovanni Caboto, che partì da Bristol giungendo in Labrador, Terranova e Nuova Scozia. Anche Caboto sarà però convinto d'aver scoperto una parte dei domini del Gran Khan. Probabilmente non scoppiò una guerra, in quell'occasione, solo perché il successore di Enrico VII, Enrico VIII, si disinteressò dell'America, vedendo che non si realizzavano i profitti previsti. Tuttavia i commerci continuarono, anche se i mercanti inglesi, con capitale a rischio, per un certo periodo di tempo non poterono colonizzare o lasciare depositi stabili nelle colonie.
Piuttosto fu il Portogallo che non soddisfatto della bolla del pontefice, pretese, col trattato di Tordesillas, di spostare la raya di altre 170 leghe a ovest: cosa che poi lo porterà ad annettersi il Brasile.
Grazie dunque ai sovrani cattolici, il papato poté approfittare della situazione per far valere la propria autorità morale e giuridica, mostrando, in particolare, che senza la sua mediazione legittimante, non sarebbe stato possibile proseguire in modo "corretto" la gestione politica ed economica delle colonie acquisite. Il pontefice, tuttavia, doveva essere ben consapevole che se il Portogallo non avesse accettato le proposte indicate in questo documento, una guerra contro la Spagna sarebbe stata inevitabile, poiché egli non avrebbe avuto la forza d'impedirla. La guerra poi scoppierà un secolo dopo e porterà il Portogallo a una disastrosa rovina.
1502 - PLANISFERO DI CANTINO CON IL MERIDIANO DI TORDESILLAS
Il più antico ed importante reperto pervenutoci dall’epoca delle Scoperte Geografiche é la Carta del mondo di Alberto CANTINO, un diplomatico italiano residente a Lisbona che la ottenne nel 1502 dal Duca di Ferrara. Fu interamente copiata senza autorizzazione. Essa comprende le ultime informazioni geografiche basate su quattro serie di viaggi:
Cristoforo Colombo ai Caraibi, Pedro Álvarez Cabral in Brasile, Vasco de Gama seguito da Cabral in Africa Orientale e India, e i fratelli portoghesi Gaspar e Miguel Corte-Real (1450-1501..) in Groenlandia e Terranova. Eccetto C. Colombo, tutti gli altri navigarono sotto la bandiera portoghese.
Contesto: Scoperta dell’America
Trattato: Bilaterale di TORDESILLAS (Spagna) firmato il 7 giugno 1494
Mediatore: Papa Alessandro VI
Firmatari: Ferdinando II d’Aragona, Isabella di Castiglia, Giovanni di Trastàmare, Giovanni II del Portogallo.
Lingue: Spagnolo – Portoghese.
Il caso delle isole Molucche
Spagna e Portogallo continuarono a rivendicare le isole asiatiche delle Molucche sotto la propria rispettiva sfera d'influenza. Le isole ricoprivano una grande importanza nel commercio delle spezie. Questa contesa si risolse nel 1529 con il trattato di Saragozza.
Carlo GATTI
Bibliografia:
- Enrico Gavalotti – Homolaicus – Sezione Storia – Modena
- STORIA in rete
- Tordesillas.webarchive
Rapallo, 8.4.2015
I FRATI delle Shetland consegnavano la POSTA ai marinai dei velieri
I FRATI E LA POSTA DELLE SHETLAND
UN VECCHIO RITO
La fantasia e la realtà qualche volta si confondo
STORIE D’ALTRI TEMPI
La rupe che innalza il faro-Monastero verso il cielo, è ricca di suggestione e ricorda una mano divina intenta a sollevare la fiaccola della speranza e della libertà. Il faro è alto oltre cento metri sul livello del mare ed è pressoché inaccessibile. Non vi sono scale o sentieri e ciò che oggi si chiama “ascensore” in passato era una semplice cesta che saliva e scendeva a forza di braccia.
Il rustico e primitivo sistema è diventato un montacarichi che utilizza numerose pulegge, ma la prudenza consiglia di sollevare soltanto una persona alla volta e che naturalmente sia gradita ai frati, perchè soltanto loro, con la loro forza sempre meno vigorosa, possono compiere le due operazioni: virare e devirare.
L’attrezzatura marinaresca non manca, perchè i naufragi dei velieri incauti o sfortunati che finiscono tragicamente sulle scogliere intorno al faro, non sono rari ed avvengono ad ogni seria tempesta.
Cavi, bozzelli, pastecche, pompe per l’acqua, utensili d’ogni tipo, pezzi di vele, cordami e pitture, legname, mobili, suppellettili ecc… riempiono ogni volta i magazzini del faro, così tanto, da somigliare più alle stive dei velieri caricati “alla marca” che ad un eremo di frati solitari. Molti di questi reperti sono bruciati per cucinare e riscaldare gli ambienti, la parte più pregiata viene invece ripulita, ingrassata e riattivata per essere utilizzata nella vita quotidiana della piccola comunità.
La risalita al faro è molto pericolosa per la sua ripidezza, e se l’eremo esiste ancora dopo le numerose insidie subite, si deve proprio all’inaccessibilità dell’uomo che porta con sé, quasi sempre, il vizio piratesco di rapinare e distruggere. La sua sicurezza non è quindi minacciata, ma il riposo più sereno per i frati avviene solo quando un confratello è di vedetta. Il dover montare di vedetta al faro sotto il cielo stellato, a similitudine dei naviganti sui velieri sperduti nell’oceano, è così diventata una curiosa consuetudine. Il frate guardiano decide i turni di guardia in base al tempo atmosferico ed agli impegni quotidiani d’ogni confratello.
Un chiostro Carmelitano
Durante il lungo inverno, le tempeste e le burrasche fanno strage d’imbarcazioni in tutto il Nord Atlantico e accade talvolta che, in quella zona, i frati Carmelitani siano i primi ad avvistare lance di salvataggio, zattere semiaffondate con marinai aggrappati a tutto ciò che galleggia. Spesso sono i primi a lanciare i segnali di soccorso ai porti vicini, mentre in altre occasioni si calano addirittura in mare per salvare i naufraghi svenuti e assiderati che rischiano di sfracellarsi sugli scogli.
Questa dedizione dei frati agli uomini di mare, per una strana assurdità, è spesso associata all’incredibile fama d’avvoltoi e spazzini del mare che si portano addosso. Dei frati si raccontano perfide bugie, poche verità e qualche strana leggenda, come quella secondo cui avrebbero difeso il Monastero dai pirati con lancio di macigni, usando anche archi con frecce avvelenate, olio bollente ecc… che sarebbero diventati ricchissimi trafugando tesori da navi naufragate nei loro dintorni, che terrebbero in ostaggio donne salvate dalla furia selvaggia del mare, che sarebbero incalliti contrabbandieri di liquori, tabacco, pietre preziose e così via…
Insomma, potere, sesso e denaro sarebbero gli ingredienti più usati per insaporire di pettegolezzi i banchetti di non pochi signorotti di terra che vedono nei preti, frati e naviganti i discendenti di puttanieri, contrabbandieri e ladroni. Altri dubitano invece che la loro storia risalga alla conversione d’antichi bucanieri e galeotti condannati al remo e poi graziati da Dio con un morbido naufragio sullo scoglio...
Screditare e diffamare dei poveri Carmelitani scalzi, in una vasta area “riformata” com’è l’intero Nord Europa, sembrerebbe fin troppo facile e del tutto scontato. Ma è altrettanto pensabile che alcune popolazioni di queste latitudini, che non hanno proprio nulla da spartire con la fede cristiana, siano infastidite dall’immane e coraggiosa sfida che questi “poveri cristi” lanciano, senza un lamento, a quella natura inospitale che nell’immaginario collettivo è domata soltanto dalle razze indigene.
E’ vero! I vichinghi e i loro discendenti sono, da sempre, specializzati nella lotta contro la natura avversa e sono forti e coraggiosi sia in mare che in terra, ma cadono in errore coloro che affermano, per esempio, di non aver nulla da imparare da un nugolo di fanatici frati omosessuali…!
Dei frati Carmelitani scalzi, certa gente teme forse la sconosciuta umanità, il carisma, l’amore sincero, la parola di conforto, l’aiuto spirituale che donano ai naviganti. In mare, infatti, vive e lavora da sempre una razza un po’ speciale, che prova sempre ad aiutarsi nel buono e nel cattivo tempo. Questa stravagante verità è testimoniata dal detto universale:
L’Umanità si divide in tre categorie:
I Vivi, i Morti e i Naviganti
Il biglietto da visita “ecumenico” dei frati cattolici del monastero è, paradossalmente, rappresentato da una rustica targa di legno che riporta una frase pronunciata da un famoso tedesco luterano, ed è in bella vista per chi approda alla darsena dello scoglio.
“L’Europa è nata in pellegrinaggio e la sua lingua materna è il Cristianesimo”
J.W.Goethe
I Frati e la Posta
Le malelingue esistono dalla notte dei tempi, ma stranamente ristagnano sulla terraferma e mai sul mare, dove la solidarietà è più praticata che promessa. I naviganti adorano quei dodici frati che gli indicano sempre la via di casa; ma tanto affetto risale anche ad una vecchia pratica che si perde nei ricordi più remoti dei marinai della vela e che ora vi raccontiamo.
Se il tempo è sereno, il veliero in arrivo dall’America avvista la scopa luminosa del faro a moltissime miglia di distanza e s’avvicina bordeggiando a cuor leggero verso quella magica luce bianca. Nell’attesa dell’alba, temporeggia navigando a spirale per capire il giro del vento e della corrente intorno al Monastero, evitando con maestria d’incagliare sulle sue secche. Infine ammaina la lancia che, cautamente, dirige verso la piccola darsena. Da questo momento, a bordo, iniziano a battere le campane e se il vento allontana i rintocchi, sparano qualche colpo di falconetto (cannoncino di piccolo calibro) per attirare l’attenzione. I frati rispondono con i gravi rintocchi delle grosse campane che spuntano da ciascun lato del campanile, poco al disotto della lanterna. Suonano a festa in segno di saluto. I marinai s’arrampicano sulle sartie cantando inni di gioia e rimangono a lungo con le gambe divaricate sui marciapiedi dei pennoni, aggrappati alle vele gonfie di vento. In questa cornice di pura poesia, comincia il rito della posta. Quando il montacarichi scende dalla rupe, s’avvicina il momento più atteso dall’equipaggio del veliero e l’ansia si trasforma in autentica felicità. I frati consegnano le lettere al capo-barca e ritirano la posta dei marinai da spedire alle famiglie.
Ma La scialuppa non viaggia mai vuota verso il faro...
Gli equipaggi dei velieri che solcano abitualmente queste latitudini difficili, sono molto generosi e considerano quei frati come gli avamposti delle loro famiglie che sperano di vedere al più presto.
Dei religiosi conoscono nomi, abitudini, gusti, punti deboli e ben sanno quanto un po’ di tabacco, una torta fresca ed una bottiglia di Rhum, siano graditi al Convento, che non lesina benedizioni, preghiere e qualche canto gregoriano che, si sa, sono un po’ difficili da imparare...
Il servizio che i Carmelitani prestano come faristi, non è retribuito con denaro, ma il Comune da cui dipendono, invia loro, settimanalmente, l’occorrente per sopravvivere e curarsi, e con lo stesso cutter che li collega alla terraferma, l’Ufficio Postale spedisce al Frate Guardiano la posta destinata agli equipaggi dei velieri. Persino i grandi e piccoli armatori approfittano della loro disponibilità per consegnare le istruzioni del viaggio ai loro comandanti: porti di destinazione, noli, tipi di carico, cambio equipaggio, rifornimenti ecc…
Navigare necesse est... ma a volte ne vale la pena!
Per chi proviene dal largo, il faro-Monastero appare come una nave vista di prora, che al posto del Jack (l’asta della bandiera sulla prua) mostra il faro che, a sua volta, sembra un minareto ai mussulmani ed un campanile ai cristiani; insomma, è un esempio architettonico di sincretismo religioso, una costruzione sui generis, che offre un misto di sacro e profano, che non è arte pura, ma è sicuramente funzionale, e per chi giunge ai suoi piedi all’alba oppure al tramonto, ricorda un rosso palcoscenico dove si esibisce un Illustre Mago disceso dall’alto e venuto da lontano.
Carlo GATTI
Rapallo, 16.02.12
Tratto dal romanzo “Il Giustiziere di Narvik”
Ediz. Magenes Milano 2012
CANCARONE E VINO NAVIGATO
CANCARONE E VINO NAVIGATO
Quando nel 1956 feci il mio primo imbarco da mozzo su una piccola vinacciera, sentii che l’equipaggio chiamava sia il vino di bordo sia quello trasportato, con un nome curioso e suggestivo: CANCARONE. Ma nessuno a bordo conosceva l’origine di quel nome che mi ricordava i profumi della darsena e dell’angiporto di Genova. Ero un ragazzo, ma con un ramo di parentela nel basso Piemonte… per cui mi accorsi subito quanto fosse imbevibile quel liquido che non sembrava ricavato dalla fermentazione del mosto d’uva.
Mio cugino Francesco Fidanza dal Venezuela mi telefona: "alcuni gorni fa mi e’ venuto in mente: la parola CANCARONE che a bordo veniva servito nella classica caraffa di vetro, la raffinatezza era che veniva servito ‘freddo di frigorífero'. Nonostante tutto, si svuotava... e si poteva vedere la macchia rosso scura che lasciava quel liquido chiamato Cancarone. Poi, gli armatori meno spilorci, il giovedi e la domenica ci donavano il vino in bottiglia (con il tappo di sughero ) che era la versione di LUSSO dello stesso cancarone, in effetti se ne bevevi due gotti, ti veniva il mal di testa..."
L'amico Nunzio C. ricorda che alla fine degli anni '40, prima dell'avvento in Italia della Penna a sfera (la famosa biro), molti marittimi usavano il CANCARONE come inchiostro per scrivere a casa...
“La colpa é del mare mosso e delle vibrazioni del motore – mi spiegavano – che non permettono il deposito delle 300 sostanze di cui é composto il vino”.
Per una volta tanto la famiglia caino di bordo: “il cambusiere”, veniva assolto insieme ai suoi collaboratori della sezione cucina.
Tempo addietro trovai persino la definizione di questo strano nome: VINO CANCARONE
CANCARONE
Non è un tipo di vino né un nome. Si usa soprattutto in Liguria, la dizione si rifà ad un brano del celebre scrittore sanremese Italo Calvino per indicare un vino scadente, che costa poco e vale meno.
In certi ambienti viene usato anche un altro nome:
TRAGLIA
Qualcosa di scarsa qualità, generalmente riferita a vino o alcolici in generale. In un impeto di internazionalizzazione è stato anche sostituito con l’inglesismo "cancaron".
Espressioni collegate: "E’ una traglia" - "Che vino molto “cancaroni!"
Sono proposte di Max (Kroy), area genovese in particolare di Rapallo.
Nel novembre del 1932, entrò il linea il CONTE DI SAVOIA che fu il primo piroscafo a essere dotato di enormi giroscopi stabilizzatori per diminuire il rollio ed il beccheggio in caso di maltempo. Da quel giorno anche i SOMMELIER DA CANCARUN fecero un salto di qualità...
LA NOVITA’
Dopo tanti anni di oblio, é ritornata di moda un’altra definizione che però certifica un’altra tipologia di vini, questa volta di buona qualità:
VINO NAVIGATO
Albenga: La sezione di archeologia sottomarina, ospitata nel Palazzo Peloso Cepolla, pregevole edificio del primo Seicento, è sorta nel 1950 in seguito al ritrovamento, sui fondali dell'isola Gallinara, di una nave oneraria degli inizi del 1 sec. a.C. Nel Museo, in corso di risistemazione, sono esposti resti dello scafo, e materiali recuperati durante le varie campagne di scavo, e soprattutto un gran numero di anfore vinarie, collocate secondo la disposizione originaria del carico.
L’interno dell’anfora da vino era impermeabilizzato con pece e resine, da cui il termine "vino resinato", mentre l’imboccatura veniva chiusa con un tappo di sughero spalmato di pece ma anche da appositi tappi di ceramica sigillati con calce o pozzolana.
Portofino/Santa Margherita Ligure. Quelle anfore pescate il 27 maggio 2016, alla fine hanno condotto al vero tesoro: una nave da carico romana del II – I secolo a. C., affondata al largo di Portofino. Le anfore, riportanti i bolli del generale Lucio Domizio Enobarbo indicano con esattezza la loro provenienza, la fornace e lo schiavo che le aveva realizzate. Vista la loro grandezza, da subito si era ipotizzato che facessero parte di un grosso carico di vino di una nave di notevoli dimensioni.
Questi reperti archeologici della nostra regione, dimostrano che la storia del Vino Navigato si perde nella notte dei tempi e ci raccontano di quel vino ligure che viaggiava tra le sponde del Mediterraneo sulle navi onerarie romane e non solo, quando una su tre affondava a causa del Mistral, e le sopravvissute naufragavano prima o poi sulle coste della Riviera a causa del libeccio. Non é quindi un caso, che in seguito a questi naufragi esistano tante anfore recuperate che oggi rivivono nei nostri musei.
Non solo anfore potremmo dire, ma anche qualche segreto che oggi riemerge in forma direi turistica e commerciale.
Ma di cosa si tratta?
Si dice che furono i “marangoni genovesi” (sommozzatori e palombari, provetti nuotatori di superficie e in apnea, famosi fin dal 1300) a localizzare numerosi relitti romani recuperando le anfore che erano rimaste indenni dalle mareggiate. I nostri avi che erano più interessati al contenuto che alle anfore-container dell’epoca, fecero una interessante scoperta: quel vino navigato e invecchiato per un destino avverso… era migliore di quello di terra. Ma come spesso succede in questa terra ligure un po’ arcigna e impregnata dei “si dice…manaman”, certi segreti rimasero sepolti sul bagnasciuga dei porticcioli, forse all’interno di qualche calata privata e protetta, tana e patrimonio di pochi fortunati intenditori! Tuttavia qualche fuga di notizie ci fu nella lunga e variegata storia locale che poi si é tramandata attraverso piccoli cunicoli fino ai giorni nostri!
Ecco, improvvisamente rispuntare i primi esperimenti di vino, (anche champagne pregiato, si dice…), che viene affondato ad oltre 50 metri di profondità per essere conservato, anche un anno intero, in gabbie opportunamente ancorate e accarezzate dall’acqua di mare pulita e mai mossa, con poca luce e tanti profumi sconosciuti tra i mortali che vivono in superficie.
E’ inutile girarci intorno… Oggi il termine Vino Navigato, é abusato e copiato per ovvi scopi pubblicitari e turistici, ma non vanno dimenticati i secoli di fatica, sudore e rischi di navigazione: unici elementi che conferivano, in maniera naturale, un gusto davvero speciale al vino. Sulla scia di quanto detto, il nostro pensiero corre innanzitutto al RICORDO dei nostri Leudi, ai quali abbiamo già dedicato un’ampia rassegna di saggi e articoli sul Sito di Mare Nostrum Rapallo.
L’ultimo Leudo di Sestri Levante: Nuovo Aiuto di Dio
RICORDI di quando il vino era una specie di santo “pellegrino” che viaggiava via mare in botti di rovere sui Leudi, una tipologia di imbarcazioni in uso in tutto il Mediterraneo fino alla fine del Novecento.
Il LEUDO fa parte della nostra storia e della nostra tradizione. Quest'imbarcazione aveva il compito di trasportare tutti i generi di prima necessità, a partire soprattutto dal vino.
Tradizionali erano gli scambi con l'Isola d'Elba, ma anche con la Sicilia e la Corsica.
L’ultimo Leudo rimasto è il "Nuovo aiuto di Dio" di proprietà del dottor Gian Renzo Traversaro presidente dell'Associazione "Amici del Leudo" che è stato restaurato e ha potuto riprendere il mare nel 2011.
Sul "Nuovo aiuto di Dio" imbarcò Agostino Ghio "Giustinin" (Ancora d'Oro nel 1961) che fu anche timoniere di Guglielmo Marconi sulla celebre Elettra.
“Nel 2012 – racconta il dott. Traversaro - in una delle riunioni invernali per le opere da eseguire, mi è balenata un'idea, forse pazza, ma interessante: riprendere i commerci con il Leudo ed in particolare quello del vino con l'Isola d'Elba e l'isola del Giglio”.
Una bella notizia di questi ultimi anni riguarda quindi il ritorno al passato… Da questa antica tradizione, il vino Navigato riprende le vie del mare nostrum a bordo della bombata coperta del primo LEUDO restaurato da appassionati privati. Ascoltiamone il racconto di un anonimo testimone:
“Quel vino rischiava di non essere prodotto a causa del mancato varo del Leudo Nuovo Aiuto di Dio determinato da problemi tecnici, ma un gesto di solidarietà ed amicizia, tipica delle buone tradizioni marinare, ha salvato la situazione! È stato il Leudo Zigoela, capitanato dal patron della Compagnia delle Vele Latine, Roberto Bertonati, a trasportare il prezioso nettare degli dei. Il ricavato della vendita del vino, apprezzato da consumatori ed esperti, servirà per rimettere in sesto il Nuovo Aiuto di Dio.
Così il 29 settembre 2014 il benemerito Leudo Zigoela è salpato dal golfo di La Spezia alla volta di Vernazza, nelle Cinque Terre, custodendo nel suo ventre il vino della Cantina Sassarini.
Dopo aver preso contatti con alcune cantine produttrici dell’Isola d’Elba, abbiamo trovato due bottifici ancora attivi a Marsala che ci hanno fornito le botti per il trasporto. Ad attendere l’arrivo delle botti, non solo presenziava il sindaco Vincenzo Resasco, ma anche i ‘vinacceri’ Andrea e Daniele Ballarini e i rappresentanti dell’ Associazione Amici del Leudo Ugo Rocca e Giordano Veroni. Nel Settembre del 2012, quarantaquattro anni dopo l’ultimo viaggio commerciale che fu appannaggio proprio del Nuovo Aiuto di Dio, è stata riaperta “La Via Dei Leudi”.
Andrea Ballarini, imprenditore, ristoratore e socio degli amici del Leudo ci informa che: i progetti per il Vino Navigato di quest’anno sono ambiziosi. Alla “Stella Maris”, che farà affinamento in botte immersa nelle acque del nostro mare, si affiancheranno due nuovi prodotti che vedranno la luce grazie ad una collaborazione con il Museo di Sestri nella persona del direttore Fabrizio Benente.
STELLA MARIS IL VINO DEL LEUDO “NUOVO AIUTO DI DIO”
L’armatore Gian Renzo Traversaro parlandoci del naufragio del Leudo predecessore il "Nuovo Aiuto di Dio", avvenuto all’altezza delle secche di Vada, ci disse che durante quel triste epilogo, si seppe di anfore e botti di imbarcazioni affondate che avevano perfettamente mantenuto, se non addirittura migliorato il gusto de loro prezioso carico. Nacque un’idea. Ce la può raccontare?
“Certamente! Con un attento studio sulle botti e sui tempi abbiamo voluto creare una cosa unica immergendo in mare per sei mesi una serie di botti in una località segreta a Sestri Levante.
Il legno agendo da membrana osmotica ha poi regalato al vino altre note preziose facendolo acquistare in struttura e sapidità.
Fu scelto un nome speciale: “Stella Maris” un punto cardinale della devozione dei nostri marinai fin dall'antichità; in ebraico antico significa anche “goccia di mare”.
Ma per avere contezza del tempo che passa, andiamo ancora un po’ indietro e leggiamo che nel 1876 Bartolomeo Bregante iniziò a commercializzare il cosiddetto "vino navigato" lungo le rotte del Mediterraneo con una piccola flotta di Leudi.
Il Maestro d’Ascia Antonio Muzio detto anche “Tunin Capetta”
Di nuovo messo in secco nel 2013 per lavori all'albero maestro il leudo, costruito dai maestri d'ascia sestresi nel 1923, e' tornato a veleggiare. 'Il nuovo aiuto di Dio' che trasportava vino tra la Sardegna e l’Elba fino alla fine degli anni '50, in estate raggiungerà il porto di Marciana Marina (Elba) seguendo l'antica rotta dei vinacceri.
Dimensioni principali del “NUOVO AIUTO DI DIO”
Lunghezza fra le Pp. ................................................................ | mt. 14,670 |
Lunghezza fuori tutto ............................................................. | mt. 15,320 |
Larghezza massima fuori Fasciame Ponte Coperta ............ | mt. 4,680 |
Larghezza massima fuori Ossatura Ponte Coperta ............. | mt. 4,550 |
Larghezza massima fuori Fasciame Orlo Impavesata......... | mt. 5,300 |
Altezza P. Coperta dalla L.C. alla Retta Baglio .................. | mt. 1,050 |
Bolzone ..................................................................................... | mt. 0,750 |
Immersione massima dalla L.C. sulla Pp. AV. .................... | mt. 0,850 |
Immersione massima dalla L.C. sulla Pp. AD. .................... | mt. 0,930 |
Di ritorno a Sestri, il vino veniva trasportato in botti di legno della capacità di 600/800 litri e veniva caricato sia nelle stive che in coperta.
Prima delle mareggiate invernali i Leudi venivano tirati a riva. Oltre all’equipaggio partecipavano a questa manovra anche i passanti ed i turisti.
Unico esemplare esistente di ‘Argano a mano’ per virare il Leudo a riva.
(Museo Marinaro Tommasino-Andreatta. Foto C.Gatti)
I Leudi normalmente trasportavano fino ad un massimo di 300/500 botti che venivano gettate in mare con la stessa tecnica di sempre: spinte verso terra, tra lo stupore dei turisti festanti, da qui venivano rotolate sulla spiaggia per essere caricate e destinate all’imbottigliamento.
Il vino così prodotto e maneggiato in questo microcosmo costiero delle nostre parti, prese il nome di NAVIGATO in quanto assunse caratteristiche importanti nei gusti, dovute alla salsedine ed al "legno" della botte che, assieme ai continui movimenti durante il trasporto, ne definiscono in maniera unica ed antica il sapore. Un prodotto difficile, ma sicuramente unico in tutto.
Quando un Leudo era carico, la linea di galleggiamento era molto bassa.
Il Leudo era una imbarcazione molto stabile ma non era veloce. Era preferibile navigare con il vento a favore perché cambiare il bordo della vela era una manovra complicata.
CARLO GATTI
Rapallo, 7 Settembre 2017
ENRICO MILLO, UN EROE CHIAVARESE
ENRICO MILLO
UN EROE CHIAVARESE
Enrico Millo di Casalgiate (Chiavari, 12 fe bbraio 1865 - Roma, 14 giugno 1930) è stato un politico e militare italiano.
D'Annunzio e l'ammiraglio Millo a bordo dell'Indomito
MILLO (Millo di Casalgiate), Enrico. – Nacque a Chiavari il 12 febbr. 1865 da Gustavo conte di Casalgiate e da Luigia Anguissola di Altoè. Allievo della Regia Scuola di marina di Napoli dal 5 nov. 1879, proseguì il suo iter formativo presso la Regia Accademia navale di Livorno nel 1882.
In quegli anni eseguì le prescritte campagne addestrative a bordo della pirofregata “Vittorio Emanuele”, del trasporto “Città di Napoli” e della goletta scuola «Chioggia». Il 1° ag. 1884 divenne guardiamarina del corpo dello stato maggiore generale e un mese dopo si imbarcò sull’incrociatore “Amerigo Vespucci”, sul quale rimase per otto mesi, per poi passare sull’ariete corazzato “Affondatore” e, nel dicembre del 1885, sulla pirofregata corazzata “Ancona”.
Il 31 dic. 1885 al M. fu riconosciuto, per decreto reale, il diritto di portare il titolo di nobile dei conti di Casalgiate. Promosso sottotenente di vascello il 1° nov. 1886, l’anno successivo fu destinato a bordo dei trasporti “Città di Napoli”, “Conte di Cavour” ed “Europa”, con i quali ebbe modo di operare nel Mar Rosso; per tale attività gli fu computata la partecipazione alla campagna d’Africa del 1887. Dopo altri imbarchi, il M. divenne tenente di vascello il 1° nov. 1889. Il 15 ott. 1896 sposò Clelia Ranieri Tenti. Il 15 dic. 1898 fu nominato cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia e il 1° sett. 1900, dopo quasi sedici anni di continui imbarchi, ebbe il suo primo incarico a terra in qualità di capo sezione al ministero della Marina a Roma; il 1° genn. 1901 fu promosso capitano di corvetta.
Nel numero del giugno 1901 del periodico Rivista marittima pubblicò un interessante articolo intitolato Manovra delle artiglierie. Energia idraulica od elettrica? nel quale egli sosteneva l’impiego di quest’ultima.
Il 16 genn. 1903 il M. tornò a navigare, dapprima come comandante della torpediniera “118 S” e poi sul caccia «Fulmine». Il 6 nov. 1904 fu destinato di nuovo al ministero della Marina, dove, il 16 luglio 1905, ebbe il grado di capitano di fregata. Dopo aver servito brevemente sulla vecchia corazzata “Lepanto” come sottocapo di stato maggiore della divisione, dal 16 apr. 1906 fino al 14 nov. 1907 fu comandante in seconda della nave da battaglia “Benedetto Brin”, per poi svolgere per circa sette mesi la funzione di capo divisione al ministero della Marina.
Nominato comandante del trasporto “Volta”, il Millo ebbe modo di segnalarsi durante i soccorsi alle popolazioni sinistrate dal terremoto che il 28 dic. 1908 aveva colpito Messina e altri centri vicini, meritando una medaglia di bronzo.
Il 24 genn. 1909 divenne cavaliere dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro e il 26 giugno successivo ebbe il comando della cannoniera “Volturno” con la quale svolse una crociera nel Mar Rosso e nell’oceano Indiano, salpando da Venezia il 1° luglio.
Durante la navigazione egli cannoneggiò la popolazione del villaggio di Borch in Somalia, che si era mostrata ostile agli Italiani; appoggiò l’opera dei connazionali residenti in quell’area; fece eseguire rilievi topografici della foce dei fiumi Giuba e Scebeli; disincagliò un piroscafo britannico che si era arenato a Nimu; soccorse la popolazione di Zanzibar durante un’epidemia di vaiolo ottenendo un’alta decorazione dal suo sultano; fece costruire un pontile a Mogadiscio e infine, dopo aver riorganizzato il servizio delle comunicazioni via etere dell’intera colonia, sovrintese all’installazione di una potente stazione radiotelegrafica in quest’ultima località.
Mentre stava operando nelle acque dell’oceano Indiano, il 1° febbr. 1910 il M. fu promosso capitano di vascello e il successivo 6 novembre divenne ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia. Lasciato il comando della “Volturno” il 22 novembre, egli rimpatriò e, per l’attività svolta durante la permanenza in Africa, il 26 genn. 1911 fu nominato commendatore dello stesso Ordine. Destinato per la terza volta al ministero della Marina, questa volta come capodivisione, vi rimase fino al 26 sett. 1911 nell’imminenza della guerra italo-turca, allorché fu destinato sull’incrociatore corazzato “Vettor Pisani” come comandante e capo di stato maggiore dell’Ispettorato siluranti.
Incr. Corazzato Vettor Pisani
Torpediniera d’altomare SPICA. Anno 1905
Rivestendo quest’ultimo incarico egli pianificò, impiegando cinque torpediniere, la violazione dello stretto dei Dardanelli, avvenuta nella notte fra il 18 e il 19 luglio 1912, alla quale prese parte personalmente imbarcandosi sulla “Spica”. L’azione, che aveva come scopo principale l’attacco alle grandi navi da guerra ottomane che si trovavano nello stretto, non conseguì i risultati sperati in quanto le torpediniere furono scoperte dalle sentinelle avversarie prima che potessero lanciare i loro siluri e costrette a ripiegare a causa dell’intenso tiro delle batterie sistemate lungo le sponde dello stretto.
Il Millo venne comunque ricompensato per questa impresa, con la concessione della medaglia d’oro al valore militare, la promozione a contrammiraglio per merito di guerra e inoltre, per l’impegno dimostrato già in precedenza come capo di stato maggiore dell’Ispettorato siluranti, ottenne la commenda dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro.
Terminato il conflitto italo-turco, il 21 ott. 1912 divenne direttore generale degli ufficiali e del servizio militare e scientifico al ministero della Marina e un paio di mesi dopo ufficiale dell’Ordine mauriziano. Fu ministro della Marina dal 29 luglio 1913 al 13 ag. 1914 e in tale veste si impegnò per mantenere alta l’efficienza della forza armata dopo il massiccio impiego che ne era stato fatto nel corso della guerra contro l’Impero ottomano; il 3 sett. 1913 fu nominato senatore.
Il 28 dicembre successivo ottenne il titolo di cavaliere di gran croce decorato del gran cordone della Corona d’Italia e il 21 maggio 1914 quello di grande ufficiale dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, entrambi per motu proprio del re Vittorio Emanuele III.
Dal 16 sett. 1914 al 16 apr. 1915 fu comandante della Regia Accademia navale di Livorno. Poco prima dell’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra egli tornò a navigare ottenendo dapprima il comando della divisione navale speciale e poi quello della divisione esploratori.
Svolgendo quest’ultimo incarico fu elogiato dal viceammiraglio Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, comandante in capo dell’armata navale: il 1° e il 7 giugno 1915 per le missioni offensive condotte in Adriatico e il 13 ag. 1915 per come aveva organizzato la temporanea occupazione dell’isola di Pelagosa.
R.N.Conte di Cavour
R.N. Conte di Cavour
Il 10 ott. 1915 ottenne il comando della Ia divisione della Ia squadra, navigando sulla moderna corazzata “Conte di Cavour” e meritandosi un nuovo elogio dal comandante in capo dell’armata navale per come si era adoperato per organizzare la base passeggera di Valona;
il 17 maggio 1916 divenne responsabile della II divisione imbarcandosi dapprima sulla nave da battaglia “Vittorio Emanuele” e poi sulla “Regina Elena”. Svolgendo tale incarico il Millo, il 1° giugno 1916, fu promosso viceammiraglio e il 29 dicembre successivo, con motu proprio del sovrano, divenne commendatore dell’Ordine militare di Savoia per l’attività svolta durante il conflitto. Il 14 febbraio 1917 fu nominato comandante in capo del dipartimento marittimo di Napoli e, terminata la guerra, rivestì la delicata carica di comandante in capo militare marittimo della Dalmazia e delle isole Curzolane dal 15 nov. 1918 al 22 dic. 1920, periodo nel quale ebbe serrati contatti con G. D’Annunzio in seguito all’occupazione di Fiume.
Dal 6 apr. 1921 al 4 dic. 1922 fu presidente del Consiglio superiore di Marina, ottenendo in questo periodo il titolo di cavaliere di gran croce dell’Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro. Collocato in posizione ausiliaria a sua domanda per anzianità di servizio, fu iscritto nella riserva navale dal 1° genn. 1923 e lo stesso giorno divenne commissario del governo per il porto di Napoli, di cui ben conosceva i problemi per avervi prestato servizio nell’ultima parte del conflitto da poco concluso.
Il 1° dic. 1923 fu promosso viceammiraglio di squadra, grado poi convertito in quello di viceammiraglio d’armata. Il 15 genn. 1926 fu richiamato temporaneamente in servizio e destinato presso l’amministrazione centrale della Marina mercantile, e il 30 luglio successivo divenne ammiraglio d’armata.
Il Millo morì a Roma il 14 giugno 1930.
Enrico MILLO Capitano di Vascello
Medaglia d'oro al Valor Militare
Con perfetti criteri militari preparò una spedizione di torpediniere allo scopo di silurare possibilmente la flotta nemica. Assunto personalmente il comando della squadriglia, diresse la difficile impresa conducendola di notte con eroico ardire per ben 15 miglia sotto l'intenso fuoco delle numerose artiglierie costiere fino a riconoscere la piena efficienza delle navi nemiche. Ricondusse la squadriglia completa al largo, manovrando con mirabile calma e perizia marinaresca sempre sotto il fuoco nemico. Dardanelli, 18 - 19 luglio 1912
• Medaglia d'Argento Benemerenze Terremotati (terremoto 1908);
• Commendatore dell'Ordine Militare di Savoia (1915-1918).
Campagne Militari (sopra e sotto)
Benemerenze - Elogi - Decorazioni
Imbarchi
Carlo GATTI
Rapallo, 8 Aprile 2015
Si ringrazia:
- l'Associazione IL SESTANTE di Chiavari
- Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari