RMS OLYMPIC, gemella fortunata del TITANIC
LA STORIA DELLA RMS OLYMPIC
GEMELLA DELLA TITANIC
L’RMS OLYMPIC, a New York, il 21 giugno 1911
OLYMPIC, Transatlantico inglese della Compagnia White Star Line Royal Navy
Cantiere: Harland and Wolff, Belfast.
Impostata: 31 marzo 1909 – Entrata in servizio: 14 giugno1911 – Radiata: 1934
Demolita: 1934
Caratteristiche generali: Lunghezza: 269 m - Larghezza: 28 m – Altezza: 52 m
Pescaggio: 10.5 m – Velocità: 23 nodi – Equipaggio 899
La RMS Olympic era la nave gemella del RMS Titanic e della HMHS Britannic. Si può dire che fu la "'sorella fortunata'" delle tre, in quanto fu l'unica a seguire una sorte normale ed a non affondare. Fu anche la prima a essere costruita, inaugurando quindi la "Classe Olympic" della rinomata WHITE STAR Line. La Olympic e il Titanic erano praticamente identiche in lunghezza, larghezza e altezza, tranne il Britannic che era lungo 275 metri e largo 29; l'unica differenza esteriore significativa era la metà anteriore della passeggiata del ponte A, che sul Titanic e sul Britannic era coperta aumentandone conseguentemente la stazza di circa mille tonnellate.
La nave fu disegnata da William Pirrie, presidente della Harland and Wolff, e dall'architetto navale e capo progettista, Thomas Andrews.
Fu concepita per dominare le rotte atlantiche, insieme alla gemelle Titanic e Gigantic, e contrastare le nuove navi della compagnia rivale CUNARD LINE, RMS Lusitania e RMS Mauretania . Al momento del completamento in bacino, sarebbe stata la nave più grande del mondo.
Nacque così l'idea dellaClasse Olympic.
La costruzione dell'RMS Olympic, era finanziata dall'armatore statunitense John Pierpont Morgan con la sua società International Mercantile Marine Co. Venne registrata presso ilporto di Liverpool ed assegnato il numero ufficiale di vascello 131346 e sigla telegrafica "MKC".
Il progetto era ambiziosissimo. Avrebbe dovuto essere uno scafo lungo 269 metri e largo 28. Alto 53,3 metri con un pescaggio di 18. Ma non solo: l'Olympic (come le gemelle) doveva essere una nave lussuosissima, con ogni comodità all'interno, ogni sfarzo possibile. Questo valeva anche per la terza classe, la quale era molto più abitabile di qualsiasi pari classe delle altre compagnie navali. Ma soprattutto stazzante all'incirca 46.000 tonnellate (contro le 31.000 circa del Mauretania, in quel momento la più grande del Mondo).
Tra le altre cose, avrebbe dovuto avere al suo interno, sul ponte D, una piscina, risultando così la prima nave nella storia a possederla. Ed ancora una palestra, un bagno turco, ed un campetto di squash.
La propulsione era a Vapore, perciò un piroscafo, con quattro cilindri contrapposti invertibili a triplice espansione (macchine alternative) più una turbina Parson a bassa pressione. Le macchine alternative dell'Olympic e del Titanic restano le più grandi mai costruite, occupavano quattro piani in altezza sviluppando quasi 38 MW (51.000 CV) di potenza e muovevano le due eliche laterali. La turbina muoveva la sola elica centrale, la quale faceva confluire l'acqua direttamente sul timone.
Le caldaie erano ben 29, ognuna con un diametro di cinque metri, bruciando circa 728 tonnellate di carbone giornalmente.
La velocità massima era di 23 nodi (43 km/h), inferiore alla velocità del Mauretania (26/27 nodi), la più veloce del Mondo.
Fu sempre oggetto del debutto della nuova stazione radio, che raggiungeva una portata di ben 400 miglia (650 km), con le antenne che erano collocate sui due alberi maestri ad un'altezza di 60 metri e distanti tra loro 180 metri (in caso di emergenza, il generatore elettrico poteva essere sostituito da un generatore diesel).
Il ponte lance era dotato dalle nuovissime gru "Welin", progettate dallo stesso Andrews, in grado di sostenere complessivamente 32 scialuppe di salvataggio e ammainarne 64, ma fu bocciata tale proposta perché si riteneva che la nave avrebbe dato un'immagine di insicurezza con tutte quelle scialuppe sui ponti, e poi perché erano antiestetiche, perciò, alla fine furono montate soltanto 16 scialuppe.
Alla consegna il transatlantico costò circa 7 milioni di dollari (400 milioni di dollari odierni), una spesa enorme, coperta da un'assicurazione, che pagava nel caso di gravi incidenti (affondamento) della Nave durante il suo servizio.
L'Olympic rappresentava un vanto per la White Star Line, che voleva dimostrare di cosa era capace e scalzare la rivale Cunard una volta per tutte.
La Costruzione
Venne deciso di costruire in contemporanea Olympic (prima) e Titanic (poi), così fu realizzato un grandissimo cantiere con impalcature altissime, per poter ospitare i Transatlantici, mentre la terza nave, Gigantic, verrà realizzata una volta ultimata la prima. Visti da prua, alla Olympic spettava il posto di destra, al Titanic quello di sinistra.
La chiglia venne impostata il 16 settembre 1909 . Poche settimane dopo, anche il Titanic veniva impostato a sua volta. Venne impiegata molta forza lavoro per la costruzione delle due navi gemelle. La priorità era la Olympic, infatti venne impiegata più manodopera su questa nave piuttosto che sul Titanic.
L'Olympic venne varata il 20 ottobre 1910 , pochi mesi prima della gemella. Fu portata nel bacino di carenaggio per essere completata nelle sue sovrastrutture, dotata dei caratteristici 4 fumaioli, con i classici colori della White Star Line, installati i motori, le caldaie e le eliche. Il 1911 fu portata per la prima volta in mare per le prove di collaudo. Queste andarono a buon fine e, così, si poté far entrare l'Olympic in servizio.
Gli interni dell'Olympic
È stata la prima nave della sua classe su cui siano stati inaugurati una serie di interni di lusso che non si erano mai visti prima. Decorazioni di ogni genere, grandi scalinate, ogni comodità ed anche ogni eccesso che ci si poteva permettere. A differenza di quanto avvenuto fino ad allora, anche la terza classe era piuttosto comoda. Infatti, se paragonate con le navi delle altre compagnie, la 3ª classe della Olympic valeva, se non completamente, quasi una seconda delle altre navi rivali.
L'entrata in servizio
Compì il suo viaggio inaugurale il 14 giugno 1911 al comando del capitano Edward Smith, lo stesso che avrebbe condotto il Titanic nel suo unico viaggio. Il transatlantico stupì tutti arrivando a New York dopo 5 giorni, 16 ore e 42 minuti (non era il primato assoluto, detenuto dal Mauretania), senza neanche accendere tutte le caldaie, cosa che sarà fatta, invece, sul Titanic). Anche questa prima traversata, però, non fu del tutto indenne da problemi: la Olympic infatti stava per affondare unrimorchiatore durante le manovre nelporto di New York.
Durante il naufragio del Titanic
La Olympic, nel giorno del fatale scontro con l'iceberg della gemella, era anch'essa in navigazione, sulla tratta opposta, ovvero New York-Southampton, ma lontanissima dal luogo dell'incidente. La nave si trovava a circa 930 Km dal luogo della collisione con l'iceberg del Titanic. La Olympic ricevette i segnali di SOS e si tenne in comunicazione col Titanic e con le altre navi perché era dotata di un telegrafo estremamente potente, allora viaggiò addirittura a 23 nodi, per tentare di raggiungere la gemella, ma non poté fare nulla per salvare i passeggeri del Titanic poiché era troppo lontano ed il tempo non bastò. Considerando che, oltretutto, l'Olympic era già carico di passeggeri per giungere in Inghilterra, sarebbe stato difficile ospitare i naufraghi, poiché il Titanic era a sua volta pieno di passeggeri.
Arrivò sul luogo del disastro a mattino inoltrato quando ormai il Carpathia aveva concluso le operazioni di salvataggio. Il capitano di quest'ultima considerò l'idea di trasferire i superstiti del Titanic sulla nave gemella, così da preservare la Cunard Line da un costoso ritorno a New York, ma abbandonò l'idea sia perché la vista della nave da parte dei superstiti non doveva essere molto gradita, sia per evitare loro un ulteriore stressante trasbordo in pieno oceano.
Le operazioni post-Titanic
Dopo il disastro del Titanic, la Olympic fu richiamata immediatamente dalla compagnia. Si decise subito di intervenire aumentando la sicurezza della nave: fu così portata nel bacino di carenaggio dove passò oltre sei mesi. Subì un importante riallestimento: il doppio scafo venne esteso anche alle fiancate e fu aumentato il numero dellescialuppe di salvataggio. Con queste modifiche, inoltre, raggiunse la stazza di 46.359 tonnellate, il che significò la riconquista del titolo di nave più grande del mondo strappandolo al Titanic (46.328 t), mantenuto fino al varo, nello stesso anno, della SS Imperator.
Diversamente dalla Olympic, sulla gemella Gigantic, che, però, visti i fatti del Titanic, fu rinominata Britannic, dato che era ancora in costruzione, vennero fermati i lavori e modificato, fin dal principio, il progetto della nave. Terminati i lavori nella primavera del 1913, la Olympic riprese il mare, sempre sulle rotte del Nord Atlantico.
Nel 1914 un temporale ruppe alcune vetrate della sala da pranzo di prima classe, ferendo alcuni passeggeri ed il Commissario di bordo.
Il tentativo di recupero della HMS Audacios
Anche dopo l'inizio della guerra la Olympic continuò ad effettuare il servizio civile. Si decise, però, come fatto sul Lusitania, di colorare i fumaioli totalmente in nero. Il 27 ottobre 1914, durante il viaggio verso New York, la Olympic si trovò a dover attraversare un campo minato. Venne avvisata dalla HMS Audacios, che poco prima era stata colpita da una mina. La Olympic recuperò i passeggeri ed in seguito provò a trainare la nave in panne, ma tutti e tre i tentativi fallirono. Alla fine sull'Audacios si verificò un'esplosione e la nave viene abbandonata al suo destino.
La conversione in nave trasporto truppe
Poco tempo dopo, la Olympic fu ormeggiato a Belfast, dove rimase ferma per quasi un anno. Poi la Royal Navy, dopo l'affondamento del Lusitania, iniziò a requisire anche navi di grosse dimensioni. Il Mauretania e l'RMS Aquitania divennero navi ospedale. Stessa sorte toccò alla gemella Britannic, ancora prima di essere completata nei cantieri.
La Olympic, al contrario, fu requisita come “Nave Trasporto Truppe”, con una capacità di 6000-7000 uomini: pertanto, una volta terminato il Britannic, fu riportata in bacino per poter essere adattata al nuovo ruolo di guerra.
La neve fu dotata di armamenti come cannoni di bordo e fu modificata per adempiere al meglio, nel suo nuovo ruolo.
L'affondamento del Britannic
Purtroppo la guerra fece vittima anche l'altra gemella dell'Olympic. Infatti il Britannic fu affondato da una mina navale nei pressi dell'isola di Ceo. Così la Olympic rimase l'unica nave della sua classe.
Il cambio di colori
Durante questa funzione, la Olympic riuscì a sfuggire ad un sottomarino nel novembre del 1915, schivò due siluri e passò indenne un bombardamento da parte di un aereo bulgaro nel gennaio del 1916.
Nel 1917 fu ridipinto lo scafo con classico Camuffamento Dazzle. Nel 1918 fu nuovamente ridipinta con un diverso schema di Colori.
L'affondamento dell'U-103
Nei due anni successivi, compreso quello appena citato, gli attacchi da parte di sottomarini alla Olympic furono quattro. Ma la nave riuscì nella storica impresa di affondarne uno, l'U-Boat U-103 .
Infatti, nelle prime ore del 12 maggio 1918, l'U-Boat 103, era pronto per colpire l'Olympic a poppa, con 2 siluri. L'equipaggio però fallì, così l'Olympic avvistò il nemico ed iniziò la controffensiva. Nello scontro ravvicinato, la nave ebbe ragione sul sottomarino. L'Olympic attaccò ed affondò il sommergibile, prima con un cannone di bordo e successivamente creando una falla con una delle sue eliche. il sottomarino affondò portando con sé 9 vittime, mentre 31 membri si salvarono. L'Olympic non si fermò per recuperare i superstiti, ma proseguì verso Cherbourg , dove era diretta. Questi furono salvati dalla USS Davis e portati in Inghilterra come nemici di guerra.
Fu un risultato eccezionale, perché, di fatto, l'Olympic conquistò un'ottima reputazione, risultando così l'unica nave mercantile a riuscire in quest'impresa. Fino al 1918, anno di restituzione alla sua compagnia, ha trasportato la bellezza di 119 000 uomini e conquistando così il nome di "Vecchio Baluardo" (In Inglese Old Reliable).
Ripristino a nave civile
Tra il 1919 ed il1920 la nave entrò in bacino per essere ripristinata al servizio civile. Durante questi lavori vennero trovate delle crepe nell'opera viva e si pensò a dei siluri, probabilmente due, rimasti inesplosi al contatto con lo scafo.
Ritorno al servizio passeggeri
La nave ritornò sulle rotte oceaniche nel 1920 e nei successivi quindici anni effettuò centinaia di traversate. Charly Chaplin se ne servì ogni volta che fece ritorno in Inghilterra, nel '21 e nel '31.
L'incidente con la Fort St. George
Il 22 marzo 1924, nel porto di New York, l'Olympic fu protagonista di un nuovo incidente con un'altra imbarcazione. La controparte del fatto fu il piroscafo Fort St.George (che, nel 1935 verrà ceduto al Lloyd Triestino col nome di Cesarea e successivamente di Arno). Quest'ultimo stava scendendo il North River, a velocità sostenuta, ed aveva previsto di passare dietro al codone di poppa dell'Olympic. Ma la sua velocità, definita successivamente eccessiva, fece finire l'imbarcazione, contro il timone della grande nave, strusciando lo scafo e danneggiando le sovrastrutture. Dal canto suo, l'Olympic, subì dei danni. Inizialmente si pensava a danni di poco conto, invece, con un’attenta verifica, si riscontrarono danni ingenti alla zona poppiera. Per questo motivo questa, fu interamente sostituita.
Nel processo che si tenne successivamente all'incidente, la colpa fu data al Fort St. George. L'Olympic, finite le riparazioni, tornò in servizio.
La crisi del '29
In seguito allacrisi del 1929 , i passeggeri che solcavano le rotte dell'atlantico, diminuirono drasticamente. L'Olympic non fece eccezione. La nave venne affiancata nelle rotte oceaniche, prima dal Majestic e poi dal Britannic (che portava lo stesso nome dellagemella affondata nel1916 ) e dal Georgic.
Un grosso problema, comunque, derivava dal fatto che oramai, l'Olympic, nonostante le manutenzioni e le migliorie del caso, risultava oramai un transatlantico superato, se confrontato con navi come il Rex, più potente e tecnologicamente avanzato.
Nel 1933, molti interni della nave vennero ridipinti in verde, uno di questi fu proprio la grande scalinata.
Nel 1934, il governo inglese impose alla White Star Line e alla Cunard Line, la fusione. Come tutte le imbarcazioni della compagnia, anche l'Olympic entrò a far parte di questa nuova realtà.
L'incidente con la Nantucket
Il 15 maggio 1934 la Olympic speronò ed affondò la piccola nave americana Nantucket Lightship LV-117 uccidendo tutto il suo equipaggio: alcuni membri sul colpo, altri morirono successivamente in ospedale.
Disarmo e demolizione
Pochi mesi dopo la Olympic fu posta in disarmo. Nel marzo del 1935 fece il suo ultimo viaggio a New York. Prima di essere venduta, fu privata degli eleganti interni e fu demolita insieme alla nave della compagnia rivale RMS Mauretania.
Questa demolizione, servì a finanziare la costruzione delle nuova nave ammiraglia della Cunard, ovvero la RMS Queen Mary.
A cura di
Carlo GATTI
Rapallo, 25 Marzo 2015
Bibliografia: Web Archive WP
ALBUM FOTOGRAFICO
di PINO SORIO
L''Olympic libero e pronto per il varo, il Titanic in fase di rivestimento del fasciame esterno
L'Olympic pochi istanti prima del VARO, le eliche vennero inserite in bacino
Seguono tre foto del VARO della nave.
Il 20 Ottobre 1910 l'Olympic viene varato sarà l'unica a non subire l'affondamento, ma il disarmo nel 1935.
Il 10 ottobre 1910 l'Olympic vine trasferito in bacino per il montaggio delle Eliche
Il Bacino di carenaggio poco prima dell'allagamento per consentire l'uscita del Titanic
Il Convogliatore delle caldaie dell'Olympic
Il Rotore della Turbina dell'Olympic pronto per essere imbarcato
Imbarco Caldaie
L'Incastellatura di una Valvola di scambio dell'Olympic
Il 9 Novembre 1910 sull'Olympic s'imbarcano le 29 Caldaie
Il Motore dell'Olympic
Il Casing della Turbina dell'Olympic
Il NASO (fiuto) del "Barcacciante" da rimorchiatore
IL NASO DEL BARCACCIANTE
Alla fine degli anni ’50, la meteorologia scolastica dell’Istituto Nautico era limitata ad un’ora settimanale. Questo fatto la dice lunga su quanto era ancora agli albori, quella che oggi è una scienza tutt’altro che compiuta... Qualche anno fa, con un po’ d’ironia, circolava una mezza verità: “Il Servizio Meteo dell’Aeronautica indovina soltanto il 40% delle previsioni. Se invertissero le previsioni, indovinerebbero almeno il 60%....” Chi ha navigato per i sette mari, sa perfettamente che è difficilissimo prevedere il tempo nel Mediterraneo, per la semplice ragione che si trova geograficamente tra due continenti con caratteristiche climatiche opposte. In questo grande lago, praticamente, avvengono continui ed improvvisi miscugli di alte e basse pressioni, che spesso assumono velocità che anticipano o ritardono i fenomeni meteo annunciati. A metà degli anni ’90, un giovane comandante americano di un container piuttosto grande aveva perso una lancia di salvataggio nel centro del “Golfo Leone”. Quando arrivò a Genova, stordito e malconcio a causa dei danni subiti, disse al pilota Charly: “…superata la Rocca di Gibilterra, credevo d’essere arrivato finalmente indenne, dopo una traversata atlantica tempestosa, invece mi sono infilato in una pressure-cooker (una pentola a pessione) che mi aspettava per esplodere…”. Nel Nord-Europa i bollettini del tempo sono in grado di prevedere, non soltanto i venti, le piogge le nevicate ecc…, ma anche gli orari in cui inizieranno e cesseranno questi fenomeni. Sappiamo che certe performances non dipendono dalle singole organizzazioni nazionali, ma da una serie complessa di parametri legati alla geografia climatica locale. E’ risaputo, infatti, che i dati raccolti dal cielo (sonde, satelliti, aerei ecc..), dalla terra e dalle navi, vengono elaborati da Centri Meteorologici specializzati di alto livello scientifico e poi sono trasmessi nell’etere a tutti i Paesi del mondo. Ma sulle nostre coste, purtroppo, le libecciate sono sinonimo di antiche e recenti tragedie, che oggi evitiamo di rievocare, anche perché sappiamo benissimo che la nostra gente se le porta dentro come un marchio.
Da questo breve ma necessario preambolo, s’intuisce che la gente che è nata, vive e lavora sulle nostre coste, ha i piedi ben piantati sul bagnasciuga della pentola a pressione e, sicuramente a causa di un’atavica sfiducia nella debole scienza-meteo, preferisce osservare direttamente i “segnali premonitori del tempo locale” con grande attenzione, mentre porge soltanto un orecchio un po’ distratto alle previsioni del tempo della RAI, assimilandole, spesso, all’oroscopo del giorno…
Genova, porto del vento.
Ruggero Tiengo, da anziano barcacciante quando, presto la mattina, montava di guardia sul suo rimorchiatore a Ponte Parodi, annusava in silenzio la sua arena, in cerca di segnali sul “tempo che farà.” Dall’inclinazione del piccolo scalandrone che poggiava tra la banchina e la poppa del rimorchiatore, capiva anche al buio contro quale vento avrebbe lottato quel giorno. Se esso era molto inclinato a causa delle acque basse, era il segnale di “alta pressione” e Rugge indossava un cagnaro imbottito contro il gelido vento di tramontana. L’aria tersa e pulita accendeva tutte le luci di Genova, in un’unica grande Lanterna che andava incontro alle navi per portarle in porto, proprio come un rimorchiatore. Rugge amava il suo lavoro e il suo equipaggio, mentre il rimorchiatore era la sua seconda casa. Ma Rugge aveva anche un altro amore segreto: il vento di tramontana, che con le sue raffiche induceva Comandanti e Piloti ad attaccare più rimorchiatori. Di essa diceva: “Cara Tramontana! Vento amico, che fai paura a chi non ti conosce, facci lavorare e porta tanti soldi ai nostri armatori, ma anche a noi!” Se invece lo scalandrone di bordo era poco inclinato a causa delle acque alte, era il segnale di “bassa pressione”. Rugge non aveva dubbi, lo scirocco era nell’aria, anzi lo sentiva già sotto i piedi, perché u sciocu u l’intra in te ogni recantu du porto e ti u senti cumme a corrente elettrica…. Rugge si affacciava in coperta e lo vedeva nelle boe leggermente abbattute. Anche l’odore dell’aria era diverso. Lo scirocco veniva da lontano, era intriso di salsedine e portava suoni di catene, gavitelli e paglietti di gomma che stridevano al contatto. Le luci del porto erano un po’ annebbiate e a volte formavano globi che volavano insieme ai gabbiani che volteggiavano in agguato all’interno del
porto rimescolato dalla corrente. I rimorchiatori erano agitati e sembravano impazienti di scorrazzare liberi di legare le navi in banchina. Quando poi si accendevano le luci di bordo, si accentuava il gioco cromatico, ed improvvisamente si potevano misurare le sensibili oscillazioni degli alberi che piano piano svelavano gli arcani misteri della notte. Rugge annusava sempre l’aria come per dire: “A mi, de musse nu me ne cunta nisciun. Sentu l’oudu de l’aggiu, u l’è un vapore cu vegne dall’Egittu”. Rugge aveva ragione. La sciroccata in arrivo, spingeva verso Genova l’odore del carico di aglio, che arrivava mezza giornata prima della nave… Rugge prendeva il primo café in cucina, e quando saliva sul ponte di comando, cominciava la giornata di lavoro colpendo con un una ditata il barometro "U Juan" - dalla lettura dell’antico strumento, tanto caro ai naviganti, otteneva la conferma che il suo computer cerebrale aveva elaborato in modo esatto tutti i dati immagazzinati. “Ti vediee Juan che al sorgere del sole tutti ne daian ragion.” Ed infine, Rugge rendeva grazie al suo fiuto di barcacciante, accarezzando il quadretto della Madonna della Guardia.
Se osservate un rimorchiatore d’epoca e vi sforzate di paragonarlo ad una bruttissima barca a vela, forse commettete un errore di fantasia, ma non vi sbagliate di molto. Il suo corpo centrale, formato dalla tuga e dall’altissima ciminiera, funziona esattamente come una vela. Il suo comandante lo sa e, quando ha la macchina ferma e gli avviamenti di macchina limitati, deve prevedere esattamente la posizione che il suo RR via via, assumerà rispetto alla nave ed alla banchina. Si tratta di un lavoro complesso che diventa stressante quando il vento di tramontana scende dalle alture a 20/30 nodi di velocità, oppure quando la sciroccata persa lo investirà sopra e sotto la linea di galleggiamento. Quando gli avviamenti venivano eseguiti manualmente, il personale di macchina diventava il miglior giudice del suo Comandante. Rugge era un gran velista dentro ed era molto calmo, faceva pochi avviamenti e tutti a bordo lo adoravano. Sapeva prendere il vento e insegnava: “Poppa al vento meno vento”. Alla partenza di una carretta dal Porto Nuovo, Rugge si faceva sotto per ultimo, con un solo abilissimo avviamento indietro, si portava vicino alla nave, fermava la macchina, prendeva il cavo e poi si faceva spingere dalla tramontana, al segnale del Pilota metteva in moto con il cavo già teso. Una volta mi disse: “Charly, oggi non si usa più, ma ai miei tempi, quando una nave usciva storta dal bacino di carenaggio, la si raddrizzava con la scia di una smacchinata….” Il “naso del barcacciante” sta tutto nel fiuto del vento, nello sfruttare i refoli, i rebighi, persino i rimbalzi ed i giri che si formano tra i magazzini di ogni calata. Non è da tutti trovare sempre il vento e prenderlo dal lato giusto per farsi abbattere dalla parte più conveniente. Un qualsiasi manovratore conosce alla perfezione gli effetti del timone e dell’elica di una imbarcazione tradizionale nella marcia indietro, ma con il vento forte questi effetti cambiano e ci vuole l’artista per ricondurre la barca all’obbedienza.
Rugge, guardava spesso verso i monti e diceva: “Se l’è negro a tramontann-a preparate a-a burriann-a “. E quando gli chiedevo: “ A Rugge cumme o l’è u tempu doman?” - Con voce ferma e convinta rispondeva: “Portofin u l’è scuo, cieuve seguo!” - Rugge non sbagliava mai le previsioni, neppure quando credevo d’averlo preso in castagna. “Rugge, oggi c’è uno strano scirocco, fa freddo. Cose u l’imbelinn-a u tempo?” “ Mia Charly, Sciocu freido ghe neve vixinn-a, u nu faià rimm-a, ma ti a casa staseia nu ti ghe vae!” Belin se aveva ragione Rugge! Dopo qualche ora si mise una nevara che mi costrinse a rimanere a bordo per due giorni!
Ciao Rugge ! So che da lassù ti sembreranno strani i rimorchiatori di oggi che girano come trottole e se ne fregano del vento… anzi forse ti verrà male a chiamarle ancora “Barcacce”… ma, credimi, il naso del Barcacciante è sempre allerta perché “de mainae ghe n’è ciu pocu.
Carlo GATTI
Rapallo, 10.02.12
IL GIGLIO DI MARE
IL GIGLIO DI MARE
IL RE DELLE DUNE
Sulle spiagge crescono e sbocciano i fiori??
La spiaggia, non è solo una distesa di sabbia o ciottoli, ma un complesso ecosistema, in cui vive una vegetazione testimone di raffinate strategie adottate dalla vita per occupare tutti gli spazi possibili anche i più ostili. A questo tipo di vegetazione appartiene il Giglio di mare (nome scientifico Pancratium maritimum) tra le piante più ornamentali e belle da ammirare sui litorali sabbiosi. Il suo areale di distribuzione è esteso a tutte le regioni del mediterraneo ma in Italia è una specie rara, o è divenuta tale, a causa della rarefazione continua del suo habitat. In Liguria, la fascia di terra che progressivamente portava alla fine della spiaggia chiamata duna non esiste più, ora ci sono gli stabilimenti balneari, la passeggiata, le strade, le case e i parcheggi.
All’incirca sino al dopoguerra su quasi tutte le spiagge della costa ligure si poteva ancora ammirare la fioritura dei gigli di mare, una testimonianza la possiamo trovare negli scritti di Camillo Sbarbaro risalenti al maggio del 1945 a Spotorno: “E’ fiorito sulla spiaggia il giglio di mare; scendo a coglierne; dalla strada un passante mi grida lì tutto è minato”.
Alcuni esemplari hanno tentato o sono riusciti a rifugiarsi in zone più protette o dove per alcuni fattori le caratteristiche di naturalità necessarie alla loro sopravvivenza si sono mantenute.
Il giglio di mare il cui nome in greco significa tutta forza, faticosamente cerca di resistere come dimostrato da studi condotti dall’Università di Genova, in tre siti in Liguria: a Cavi di Lavagna (sembrerebbe piantato da Lord George C. Byron) a Varigotti e tra Ceriale e Albenga.
IL GIGLIO DI MARE
Il giglio della sabbia, lo conosci?
fragile più di ogni altro,
s'alza solo dove il tempo s'arresta,
lì, presso la scogliera immensa,
più d'un giorno non dura,
breve come il miraggio
della maga anche lei sola,
le bestie la cerchiano e le rupi,
brune ancelle nella sosta
tra il gioco della palla e i panni stesi
del fiore e di parole riempirono i canestri,
anche al naufrago appare
e lo consola.
Umberto Piersanti
L'albero delle Nebbie
Credevo di essere un uomo di mare a tutto campo per l’interesse che ho sempre sentito per tutto ciò che si muove in mare e sulla costa, ma la mia presunzione ha subito un duro colpo quando ho ricevuto questa fotografia dal mio amico Nunzio Catena di Ortona.
Giglio di mare (Pancratium maritimum)
Pancratium maritimum è una pianta profumatissima, perenne bulbosa, con fusto alto sino a 40 cm e ampie foglie lineari. I fiori, da 3 a 15, bianchi e lunghi fino a 15 cm, sono riuniti in infiorescenze ad ombrella; si aprono tra luglio e ottobre. I fiori hanno un profumo intenso e persistente di giglio, che diventa percepibile principalmente durante le notti d'estate senza vento. E’ facilmente coltivabile, ma richiede una posizione molto soleggiata e un terreno sabbioso molto ben drenato. Ha bisogno di estati calde per indurre la fioritura, mentre una fioritura timida può avvenire in climi più freschi. Tollera temperature fino a circa -5°. La propagazione avviene per seme o divisione dopo la fioritura. Piantine possono fiorire nel loro terzo o quarto anno di vita.
Il frutto é una capsula contenente semi neri lucidi di forma irregolare. I semi galleggiano, cosicché la disseminazione avviene anche tramite le correnti marine!
Cresce sui litorali sabbiosi del Mar Mediterraneo e del Mar Nero, dal Portogallo, Marocco e lee Isole Canarie fino a est in Turchia, Siria, Israele e Caucaso. Può essere osservato anche nella Bulgaria meridionale e nel nord della Turchia e sulle coste della Georgia nel Mar Nero, dove la specie è minacciata di estinzione
In Italia lo si può osservare sulle dune costiere di Veneto, Liguria di Ponente, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Abruzzo, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna.
Progetto Giglio di Mare
Il suo habitat ideale è sulle dune sabbiose, in posizione retrodunale. Pianta protetta a rischio di estinzione per la scomparsa dei siti idonei per il suo ciclo vitale, per il calpestio estivo dovuto al turismo, per la recisione del fiore. Dichiarata specie vegetale protetta ai sensi della Legge Regionale n°56/2000 che ne vieta il danneggiamento, l’estirpazione, la distruzione e la raccolta.
UN PROTOCOLLO PER LA CONSERVAZIONE DEL GIGLIO MARINO.
Il giorno 19 Ottobre 2012 tra il CRISBA (Centro Ricerche Strumenti Biotecnici nel settore Agricolo-forestale) dell’ISIS “Leopoldo II di Lorena” e l’Associazione “Terramare”, è stato firmato un protocollo d’intesa fra i due soggetti per la raccolta di alcuni campioni di seme di Pancratium maritimum finalizzata alla propagazione della specie in modo tale da produrre un numero sempre più consistente di piante da destinare alla messa a dimora nelle aree dunali maremmane.
Il CRISBA ha attivo ormai da alcuni anni un programma di propagazione da seme autoctono di questa specie, finalizzato alla reintroduzione in ambiente delle piante ottenute; ad oggi sono state effettuate molteplici piantumazioni nelle dune del territorio provinciale con alte percentuali di attecchimento delle piante messe a dimora. L’Associazione Terramare collabora a queste progetto e ne ha ampliato le finalità attivando con il CRISBA un piano di monitoraggio e mappatura del Giglio di mare nel nostro territorio.
Si tratta di un’iniziativa, svolta in collaborazione anche con Treart Srl, ISIS “Leopoldo II di Lorena” e Provincia di Grosseto, alla quale ciascuno di voi può partecipare segnalando l’avvistamento di uno o più esemplari di Giglio di mare nelle nostre dune!
I dati raccolti, una volta verificati, arricchiranno una mappa satellitare interattiva che consente di monitorare la diffusione della specie vegetale in Maremma e di conoscere lo stato di salute delle nostre dune.
Riporto una interessante spunto dal web:
Caro……
il Pancratium maritimum produce centinaia di semi, molto ben visibili perché grandi come un fagiolo. Se sei talmente preoccupato per la possibile scomparsa di questa specie, puoi attivarti andando a raccoglierne in buona quantità, prima che si secchino al sole inutilmente, e cominci a sotterrarli nella sabbia nei punti chiave come da tempo faccio anch'io. Ci sarà quindi chi ruba le piante e chi la andrà a ripiantare.....
E' molto semplice quindi poter fare qualcosa per aiutare la natura nel suo difficile cammino di sopravvivenza, basta muovere le gambine e spremersi un po' di sudore....
Una rimarchevole inziativa:
21 Apr 2017
Chiavari: la colonizzazione del Giglio Marino
Questa mattina ha preso l’avvio il progetto di colonizzazione del giglio marino, con la piantumazione delle specie in via di estinzione sul litorale chiavarese.
Il Comune di Chiavari, in attuazione del “Progetto di Utilizzo Comunale delle Aree Demaniali Marittime”, approvato nel 2015, in accordo con le previsioni del Piano di Tutela dell’Ambiente Marino e Costiero e secondo le indicazioni della D.G.R. 129/2011 del Settore Ecosistema Costiero della Regione Liguria, sta favorendo la rinascita della vegetazione spontanea costituita da psammo-alofile (da psammos e alos che significano sabbia e sale), cioè di quelle piante esclusive o quasi degli ambienti marini, ormai estinte sui nostri litorali (tra le quali il bellissimo Giglio Marino (Pancratium Maritimun), nella spiaggia posta in aderenza al Porto Turistico, e sottostante la passeggiata a mare Lungo Porto Don Giussani, in particolare nella fascia più prossima al mare del sistema dunale.
A tale fine, l’Amministrazione Comunale ha realizzato due aiuole (di mq. 300 e mq. 375 ciascuna) che hanno uno scopo dimostrativo, teso a diffondere la conoscenza della biodiversità e il rispetto per la natura.
In particolare, le aree riservate alla vegetazione psammofila spontanea sono state realizzate con materiale prelevato dalla spiaggia originaria o proveniente dalle operazioni di dragaggio per la realizzazione della nuova darsena, comunque evitando ghiaie e materiale grossolano.
Sono state leggermente rialzate rispetto al piano spiaggia e compartimentate mediante fascinature in modo che favoriscano la stabilizzazione del materiale, e creino artificialmente una duna embrionale nella quale possa insediarsi la vegetazione pioniera, e al contempo delimitino e segnalino l’area.
Verranno posti, per ciascuna aree, dei cartelloni esplicativi indicanti gli obbiettivi di salvaguardia e i divieti vigenti.
Una volta realizzate le aree verranno individuate graficamente su cartografia almeno in scala 1:2000 e detto inquadramento cartografico, ed ogni successivo aggiornamento, verrà inviato al Settore Ecosistema Costiero della Regione Liguria.
L’area verrà costantemente mantenuta attraverso interventi di ripristino della delimitazione in fascinatura e della cartellonistica e soprattutto attraverso un costante servizio di pulizia manuale da eventuali rifiuti e vegetazione infestante.
Il Comune eseguirà un monitoraggio delle aree, consistente almeno in un reportage fotografico da realizzarsi una volta l’anno nel periodo da maggio a settembre.
Collaborazione con l’Università di Genova
Volendo accelerare il processo di colonizzazione della vegetazione in maniera attiva, il Comune di Chiavari ha instaurato una collaborazione di tipo scientifico per il monitoraggio botanico dell’area con il DISTAV, (Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e della Vita), presso l’Università degli Studi di Genova, rappresentata dal Prof. Mauro Mariotti, per la conservazione dei fiori di spiaggia, per la specifica consulenza scientifica, il supporto al reperimento del materiale e la predisposizione di specifici indirizzi per la gestione.
Progetto con le scuole
Questa mattina, il progetto ha preso avvio mediante la piantumazione delle prime specie da parte di Studio Gardenstudio e dei giardinieri comunali, con la partecipazione degli studenti delle scuole di Chiavari.
Questo è stato possibile grazie alla collaborazione con Il Laboratorio Territoriale Tigullio (gestito dalla Cooperativa Terramare), che ha realizzato un percorso didattico sviluppato con le Scuole secondarie di primo grado del Comune di Chiavari, con il coinvolgimento di due classi.
Presenti alle operazioni di piantumazione l’Assessore all’Ambiente Nicola Orecchia, la Dott.ssa Isabella De Benedetti e Nicolò Mora dell’Ufficio Demanio Marittimo del Comune di Chiavari, il Prof. Mauro Mariotti dell’Università degli Studi di Genova (DISTAV) la Dott.ssa Elena Montepagano del Settore Ecosistema Costiero e Acque, Dipartimento Territorio, Ambiente, Infrastrutture e Trasporti della Regione Liguria, nonché gli studenti e le insegnati delle classi IE della Scuola Secondaria di Primo Grado Ilaria Alpi Istituto Comprensivo Chiavari II e la IIB della Scuola Secondaria di Primo Grado “Della Torre” Istituto Comprensivo Chiavari I, ed il Dott. Giacomo Goria, dello Studio Sciandra & Associati.
Così dichiara l’Assessore Orecchia: “Siamo molto soddisfatti di questo progetto ambientale che si prefigge di diffondere la conoscenza della biodiversità ed il rispetto per la natura, con una particolare attenzione alle specie di vegetazione marina spontanea delle psammofile, ormai estinte sul nostro litorale, cui appartiene, ad esempio, il bellissimo Giglio Marino, che vorremmo potesse tornare ad abbellire le nostre coste. Ringraziamo per la preziosa collaborazione tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questa iniziativa…
- La modernità ha fallito. Bisogna costruire un nuovo umanesimo altrimenti il pianeta non si salva.
(Albert Einstein)
Credo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare.
(Andy Warhol)
Grazie a Dio gli uomini non possono volare e devastare il cielo come hanno fatto con la terra.
(Henry David Thoreau)
Su questa spiaggia di Ortona (Abruzzo) oggi, 31 luglio 2019, é stata scattata la fotografia che tutta Italia e, forse tutto il mondo, sogna di poter avere sotto i propri occhi: una prateria di profumatissimi e rari GIGLI DI MARE.
Si dà il caso, che proprio in questo periodo, e proprio per questa spiaggia, verrà decisa la sorte di questo magnifico RE DELLE DUNE. Sul suo destino incombono richieste d’impianti balneari che ne decreterebbero l’estinzione.
La ridente località abbruzzese ha una grande responsabilità:
vincere una guerra di civiltà!
Tutta Italia é con voi!
Carlo GATTI
Rapallo, 11 Agosto 2017
S-7000 - SABLE ISLAND, NUOVA SCOZIA, Canada
La S-7000 nel Porto di Halifax, Nuova Scozia, Canada
SSCV S7000: PROGETTO SABLE OFFSHORE ENERGY - NUOVA SCOZIA - CANADA
L’installazione delle piattaforme per l’estrazione del gas del giacimento di SABLE (capacità 85 miliardi di metri cubi) è cominciata con l’arrivo nel porto di Halifax della sscv S-7000 a marzo 1998 per sollevare due Jacket e trasferirli direttamente dal cantiere di costruzione al suo ponte. Non ci sembra fuori luogo segnalare l’interesse e l’eccitazione che la S-7000 ha suscitato sia nel pubblico che nei media durante la sua permanenza nel porto. Fino alla mezzanotte si potevano vedere moltissimi curiosi, spesso intere famiglie, che si trattenevano in prossimità del terminal del traghetto sfidando il clima canadese, per ammirare la colossale nave e scattare fotografie; i genitori portavano i loro bambini a vedere in che modo le due gigantesche gru movimentavano i “piccoli” Jacket”. Con riferimento all’impatto complessivo creato dalla presenza nel porto di Halifax della gigantesca S-7000, John Brannan, Direttore Generale della Sable Offshore Energy Inc. ha dichiarato: “l’arrivo della S-7000 è una importante pietra miliare nella vita del progetto Sable. Da tre anni aspettavamo questo giorno, questo evento fa sapere a tutti che il progetto Sable da 3 miliardi di dollari è in pieno sviluppo”. L’operazione di carico dei Jacket, al pari dell’entrata e dell’uscita dal porto sono stati notevolmente pubblicizzati dai giornali e dalle TV locali. Gli abitanti della Nuova Scozia erano sorpresi e stupiti di trovarsi nel porto, quasi a contatto delle loro case, una nave di simili dimensioni. I Jacket sono stati quindi trasportati nel campo offshore, in prossimità di Sable Island (300 chilometri al largo della Nuova Scozia) ed installati. La profondità dell’acqua era di 24-28 metri, il peso dei Jacket era pari a 1700 tonnellate. Le strutture consistono in Jacket standard del Golfo del Messico con gambe inclinate e strutture da saldare. Il lavoro in se stesso non sembrava difficile, se non per le condizioni meteorologiche. In effetti il maltempo ha creato notevoli difficoltà durante l’installazione.
La S-7000 lavorava, in pescaggio ridotto, in posizionamento dinamico, con grandi superfici esposte ai venti e rigide limitazioni per le onde.
Temperature estremamente rigide, grandine e nebbia, hanno rappresentato ulteriori ostacoli per lo svolgimento uniforme e continuo delle attività in mare. In marzo in queste aree il tempo può peggiorare rapidamente e la S-7000 è stata costretta a interrompere spesso il lavoro; il tempo totale di inattività per cause meteorologiche ha rappresentato circa il 45%, una percentuale che per la S-7000 è da considerarsi del tutto insolita.
Perfino il sistema automatico di posizionamento dinamico della nave è entrato in crisi a causa delle misurazioni di velocità del vento, che erano nello stesso momento di zero nodi al livello del mare e di 50 nodi a livello delle gru. Altre condizioni meteorologiche del tutto particolari sono state rappresentate dalla presenza di venti a 60 nodi con nebbia fitta oppure dalla pioggia gelata che creava l’accumulo di grandi quantità di ghiaccio a contatto dei cavi delle gru. Fortunatamente quest’ area era priva di iceberg. L’esperienza è risultata molto utile per le future installazioni previste nel 1998 e 1999. La S-7000 ha lasciato l’area il 18 di aprile per far rotta verso il Mare del Nord per svolgere altri compiti; forti venti e onde, questa volta di poppa, hanno contribuito a rendere più veloce il viaggio di ritorno.
STORIA DI SABLE ISLAND
La Sable Island è la sommità di un vasto accumulo di sabbia e ghiaia originariamente depositato dai ghiacciai in ritiro del Wisconsin tra 16000 e 45000 anni fa nei pressi del Sable Island Bank, un plateau sommerso poco profondo ubicato in corrispondenza del margine esterno della piattaforma continentale.
Maree, correnti e venti hanno rimescolato questi detriti glaciali, con la rideposizione di granuli di antica sabbia di quarzo, granato e magnetite sul banco in vicinanza dell’attuale Sable Island. Questa montagna di sabbia, che si estende fino ad una profondità di circa 40 metri sotto il livello del mare, poggia su un substrato che in questi ultimi tempi è stato intensamente perforato per i suoi giacimenti di idrocarburi. La Sable Island presenta problemi fisici dovuti al fatto che in prossimità dell’isola scorrono due importanti correnti oceaniche: la corrente calda del Golfo proveniente dal sud e la corrente fredda del Labrador proveniente dal nord. La miscelazione dell’aria calda e dell’aria fredda che accompagnano queste correnti crea fitti banchi di nebbia che coprono l’isola per circa 125 giorni l’anno. La nebbia e le forti correnti unitamente ai frequenti violenti temporali contribuiscono a confondere i calcoli e a vanificare gli sforzi di molti comandanti ed equipaggi. Nel corso dei secoli le pericolose condizioni meteorologiche dell’isola hanno provocato numerose vittime, una quantità di naufragi e la perdita di molti carichi. Nell’edizione aggiornata del 1972 di una mappa di Sable Island è indicata la posizione di almeno 200 relitti noti entro 3-5 miglia di distanza dall’isola. Nel 1801 l’amministrazione della Nuova Scozia aveva deciso di creare una stazione di salvataggio permanente per aiutare i naufraghi, e nel 1872, dopo che si era verificato l’incagliamento del piroscafo S.S.HUNGARIAN (230 vittime), erano stati eretti dei fari per permettere l’avvistamento delle secche. Oltre ai pochi residenti, i cavalli (vedere foto) sono gli unici mammiferi terrestri presenti su Sable. Gli altri abitanti dell’isola sono rappresentati da grandi colonie di foche grigie, da numerose specie di uccelli e da alcuni organismi che non si trovano in nessun altro luogo del mondo. I cavalli selvaggi di Sable continuano a rappresentare un mistero. Presentano caratteristiche del Berbero nord-africano, ma si continua a discutere animatamente sulla loro discendenza e su chi li abbia portati per primo sull’isola. Nel 1960, dopo animati dibattiti, il Governo del Canada ha modificato una sua precedente decisione di vendere i “pony” e ha approvato delle leggi intese a proteggere i cavalli da qualsiasi interferenza.
Oggi Sable Island continua ad ospitare alcune decine di mandrie che vagano in quest’isola bellissima ma poco conosciuta. (vedere foto)
L'isola di Sable è stata scoperta dal navigatore portoghese João Alvares Fagundes che era il capo di una spedizione che esplorò la regione negli anni 1520 - 1521, anche se ci sono molte notizie contrastanti circa il primato della scoperta.
SABLE INFO
• Piattaforme di Thebaud, Venture, North Triumph (1998-2004) : peso totale : 24.000 tons costruite in tre fasi Profondità mare : 29 metri
• Piattaforma di compressione gas costruita nel 2004
• Deck Integrato 6801 tons
• Jacket 2780 tons, totale pali di fissaggio 3100 tons
• Passerelle di unione piattaforme e tubazioni varie 600 tons
• Il Sable project ha una produzione giornaliera da 140 a 175 milioni di metri cubi di gas naturale e 32000 metri cubi di gas liquido
• Spectra è l’operatore dei due gasdotti Maritime e Northeast che trasportano il gas LNG da Sable ai mercati del Nord America
• PIPELINES
• Le linee interne di collegamento tra le piattaforme vanno dai 5 ai 55 km con un diametro fino a 457 mm, sono usate per collegare le piattaforme con il centro di raccolta di Thebaud.
• In totale sono circa 175 km di tubazioni di collegamenti installati
• Il gas ed il gas liquido dall’Isola di Sable sono trasportati attraverso due gasdotti sottomarini dalla piattaforma di Thebaud agli impianti di terra nell’area Country Harbour. Il gasdotto è lungo 225 km con un diametro esterno di 609 mm. Il percorso del gasdotto è stato scelto per evitare zone di pesca ed altri siti sensibili
• La posa del gasdotto sottomarino del valore di 250 milioni di dollari è stato fatto dalla nave posatubi Solitaire della Soc.Olandese Allseas (vedi foto)
• Tutte le tubazioni sottomarine sono state rivestite con cemento e protette con un sistema anticorrosione
• Il Sable Offshore Energy Project (SOEP) si trova vicino all’isola di Sable, da 10 a 40 km a nord del limite dello Scotian Shelf, al largo della Nova Scotia, in acque con profondità da 20 a 80 metri
• Il SOEP è formato dai sei campi di gas di Venture, South Venture, Thebaud, North Triumph, Gleneig e Alma che contengono circa 85 miliardi di metri cubi di riserve di gas. Il progetto di Sable ha una previsione di durata fino all’anno 2025. Il gas dai giacimenti di Sable, tramite un gasdotto sottomarino, viene inviato al Country Harbour Area nella Contea di Guysborough dove viene lavorato. Nel 1990 Goldboro era stato selezionato come terminale orientale del Maritimes & Northeast Pipeline che lo collega all’impianto gas del Sable Offshore Energy Project (SOEP). Il gasdotto inizia in Goldboro dove è già stata approvata la costruzione di un nuovo terminal di ricezione LNG. Il SOEP include un impianto terrestre di frazionamento del gas (Goldoro Gas Plant). L’impianto, nella Contea di Guysborough occupa una superficie di 45 ettari ed ha la capacità di lavorare 17 milioni di metri/cubi al giorno.
• Goldboro è stato classificato come l’Energy Hub della Nuova Scotia, e le previsioni sono che dal 2018 possa diventare il terminal di esportazione per l’LNG
THEBAUD
Thebaud è usata come centro raccolta del gas. North Triumph e Venture sono state sviluppate come piattaforme satellite che inviano il gas alla piattaforma di Thebaud. Il complesso centrale di Thebaud consiste di due piattaforme collegate da una passerella. La piattaforma più grande ha alloggi per circa 40 tecnici offshore di produzione e personale di supporto. La seconda e più piccola delle due piattaforme assiste i pozzi e gli impianti di processo e raccoglie e deidrata i gas che arrivano da tutti i campi di produzione
NORTH TRIUMPH E VENTURE
Queste piattaforme sono normalmente operate via satellite senza personale. Tuttavia, solo in caso di emergenza,è previsto l’invio a bordo di personale. Le piattaforme incorporano le strutture delle teste dei pozzi e i macchinari di processo per separare l’acqua dal gas.
ALBUM FOTOGRAFICO
Nuova Scozia, Il Primo Ministro
Halifax, Pilot's Pub
S-7000, I "Riggers"
Rowan Gorilla - Halifax
S-7000, Caricazione dei Jackets: VENTURE e NORTH TRIUMPH
S-7000 - Halifax
Sable Island - Conservation Oil and Gas
Sable Island - Horizontal Drilling
S-7000 - Sable Island
Sable Island
Sable Island
The Galaxy II-Jack-up Rig prior to deployment on the Sable Field
The lifting of the Venture Jacket bu one of the S-7000 cranes
The Venture Jacket being installed offshore
ALBUM FOTOGRAFICO - NATURA
HALIFAX NUOVA SCOZIA - CANADA - SABLE ISLAND -
I CAVALLI DI SABLE ISLAND
PINO SORIO
Rapallo, 2 Marzo 2015
webmaster Carlo Gatti
BOMBARDAMENTO DI BARI - Cronaca di un Disastro
BOMBARDAMENTO DI BARI
Cronaca di un Disastro
La storia del Bombardamento di Bari é un gravissimo episodio della Seconda guerra mondiale che appartiene, ormai da 72 anni, soltanto alla cronaca. La stessa Marina USA considera quella tragedia un grande disastro militare, secondo solo al bombardamento di Pearl Harbour! Tuttavia, molti segmenti di quel disastro sono tuttora segreti, quindi ignorati dalla GRANDE STORIA.
Dopo l’8 settembre 1943, i tedeschi si erano trasformati da alleati in nemici. L’Italia era tagliata in due. Solo il Sud era in mano agli Anglo-Americani. La terribile pioggia di bombe lanciate dalla Luftwaffe colpì la città di Bari e il suo porto, la sera del 2 dicembre 1943. Vi furono mille vittime tra militari, alleati e civili. Il Comando Alleato tenne segreta l'esplosione di una nave USA carica di YPRITE.
Qualcuno ai massimi vertici militari disse: «Morivano e non si sapeva perché»
Con l’arrivo degli Alleati, che lentamente risalgono la penisola, il porto di Bari è diventato il porto strategico più importante, sia per l’organizzazione logistica dell’VIII armata inglese sul fronte adriatico, sia come base per il rifornimento di carburante della XV Air Force. Il suo Comando si trova nell’aeroporto di Manfredonia, da cui si dirama una rete di oleodotti che veicola 600 mila litri di carburante alla settimana verso gli aeroporti di Foggia, Gioia del Colle e Grottaglie. Da questi aeroporti partono gli aerei che bombardano non solo il Nord e Centro Italia ancora occupate dai tedeschi, ma anche i punti nevralgici della Germania. Comandante è il generale americano James Doolittle, l’artefice del bombardamento di Tokyo del 18 aprile 1942.
Il pomeriggio del 2 Dicembre, la città assiste ad un ampio volo di ricognizione di un Me.210 della Luftwaffe, ad una quota di 23.000 piedi. Il suo compito è quello di fotografare l’area urbana, il porto e l’aeroporto.
All’esperto pilota tedesco, il tenente Werner Hahn, non sfugge di sicuro il molo di “Levante” brulicante di navi e merci ammassate in banchina, come neppure le numerose navi all’ancora in attesa di ormeggiare in banchina per le operazioni commerciali. Sembra impossibile, ma l’Autorità Portuale, ossia il Comando Inglese, ritiene improbabile un attacco della Luftwaffe e compie un drammatico errore di valutazione.
Gli aviatori tedeschi si preparano per l’attacco
L’ordine é arrivato. Si parte.
Il sole è tramontato da due ore, il cielo é sereno, il mare é calmo. Un insignificante spicchio di luna sovrasta il Salento. Il porto di Bari è illuminato a giorno come se la guerra fosse da un’altra parte. Eppure il centro radar ha registrato i reiterati voli di un ricognitore tedesco, anche nei giorni precedenti la fatale incursione.
Improvvisamente, alle ore 19,25, suonano le sirene dell’allarme aereo. Gli aerei si trovano 30 miglia a NE di Bari.
Gli aerei tedeschi in arrivo sono 105, quasi tutti Junkers Ju-88, i bimotori da bombardamento più diffusi e collaudati; alcuni sono partiti dall’aeroporto di Ronchi dei Legionari, vicino a Monfalcone, gli altri da due aeroporti in Grecia, vicino ad Atene. Alle 19.30 gli aerei provenienti dai Balcani, sono sulla città.
Il cielo di Bari viene coperto da milioni di piccole strisce di stagnola (Chaff), che mandano in tilt i sistemi radar. Immediatamente i fari della contraerea del porto e dell’aeroporto squarciano il buio della sera, creando effetti cromatici mentre vengono a contatto con la stagnola. L’avvicinarsi cupo e assordante dei bombardieri tedeschi, cattura lo sguardo incredulo della gente che cerca disperatamente un rifugio. Le prime bombe colpiscono l’area urbana, ma l’obiettivo sono le numerose navi presenti in rada e ormeggiate in banchina.
Tutte le luci si spengono, cadono le prime bombe ed é un susseguirsi di esplosioni. La scena infernale é illuminata dai candelotti appesi a piccoli paracadute che scendono lentamente rivelando il disegno del porto e le quaranta grandi navi da carico alla fonda. I piloti tedeschi puntano le loro armi sulle navi della classe “Liberty” cariche di munizioni; ma ce n’é una che ha un carico molto pericoloso, anzi letale, si tratta della John Harvey, nelle sue stive sono presenti 90 bombe all’Yprite, un gas venefico e letale che trovò il suo primo utilizzo bellico sui campi di battaglia della Grande Guerra 1914-18.
Il nome di questa unità USA sarà per sempre legato all’unico episodio di guerra chimica della seconda guerra mondiale; un disastro le cui conseguenze si faranno sentire per più di mezzo secolo.
La contraerea posta a difesa dell’area portuale è presente in modo massiccio e si difende penetrando il cielo con i suoi 37mm traccianti. Questi proiettili, sviluppano lunghe linee colorate grazie ad una carica di magnesio inserita nel codolo della granata. Presto si delinea nel cielo una rete colorata che nulla può fare contro l’immane potenza di fuoco della Luftwaffe.
Alcune bombe centrano le navi sulle quali si sviluppano incendi che producono fiamme e volate di fumo nero a tutte le altezze. Altre cadono in mare sollevando colonne d’acqua biancastre che ricadono fragorose creando onde rapide e violente che strappano i cavi delle navi attraccate.
Il bombardamento é molto preciso, si direbbe chirurgico! Per fortuna, in soccorso della città portuale ormai disperata e agonizzante, si muove un VENTO DIVINO, credo sia difficile definirlo in altro modo. Questo imprevisto ALLEATO, all’improvviso, cambia direzione e spinge il fuoco, le fiamme e i fumi tossici verso il mare, mentre i bombardamenti non hanno ancora raggiunto la loro massima intensità. I quartieri dell’angiporto sono già impregnati di aria inquinata dagli incendi e, man mano che il bombardamento s’intensifica, le esplosioni si susseguono a velocità e a cadenza costante, come se fossero telecomandate a intervalli regolari. Alcune navi avvolte dal fumo si abbattono su un fianco e spargono nafta in mare che subito prende fuoco e si spande nell’area portuale, dove lance, zattere, salvagenti, legni informi e suppellettili galleggiano sostenendo naufraghi e corpi privi di vita.
Il “sacro vento” aumenta d’intensità e spinge sempre più lontano le nuvole tossiche dal centro abitato. Alcune navi cariche di ordigni esplodono insieme agli equipaggi tuonando per molte miglia di distanza.
In questa foto la JOHN HARVEY - La nave USA tipo Liberty, responsabile di una strage che ebbe lunghe ripercussioni sulla salute di tanta gente per i successivi 50 anni.
Alle 19,50 una bomba tra le tante colpisce l’obiettivo più pericoloso in quel momento: la liberty John Harvey, arrivata nel pomeriggio. Nelle sue stive sono stipate 2000 bombe M47A1 all’Azoiprite, dal peso di 45 chili ciascuna, per un totale di 91 tonnellate di Yprite utilizzato per la guerra chimica. Il gas denominato anche mustard per il suo colore simile alla mostarda era proibito dal trattato di Ginevra. La nave esplode e molti dei suoi numerosi ordigni sono proiettati in alto e scoppiano innescati dell’enorme temperatura. Il potente aggressivo chimico precipita inquinando le acque portuali.
In questa foto si nota l’effetto del VENTO DELLA PROVVIDENZA che spinge i venefici fumi verso il mare salvando la città da un destino dalle dimensioni catastrofiche.
Le bombe all’Yprite che non scoppiano a bordo, si squarciano depositando il prodotto tossico sul fondale del porto. Il gas “mustard” si miscela alla nafta incendiata, il fumo prodotto diventa un potentissimo veleno. Si disse che queste bombe dovevano essere utilizzate per contrastare un’eventuale attacco chimico tedesco.
Quel “velo mortale” che si forma sulla superficie delle acque avvelenate del porto, ustiona la pelle dei naufraghi avvelenando i loro polmoni. Degli 800 militari che vengono ricoverati e curati in modo superficiale al Policlinico gestito dal Comando Neozelandese per ustioni e ferite, ben 617 risultano intossicati dall'Yprite, ma i medici ignorano la causa per molti giorni. Per la stessa ragione, muoiono 250 civili. L'ultima vittima morirà un mese dopo il bombardamento, tra atroci dolori.
Alle 23 le sirene danno il cessato allarme.
Si contano le navi distrutte: 28
5 statunitensi: John Bascom - John Harvey - John L.- Joseph Wheeler -Samuel J.Tiden – John L.Motley.
5 inglesi: Devon Coast – Fort Athabaska – Fort Lajoie – Lars Kruse - Testbank
3 norvegesi: Bollsta - 1920 – Norlom -
11 italiane: Ardito – Cassala – Corfù – Frosinone – Genepesca II – Goggiam – Inaffondabile – Luciano Orlando – MB 10 – Porto Pisano – Volodda - Barletta
2 polacche: Puk - Lwòw
1 Francese: Aube
Non meno di quarantamila le tonnellate di materiale perduto.
TESTIMONIANZE
Le sofferenze e gli effetti del gas vengono raccontati dai superstiti, gli americani cercano invece di mettere tutto sotto silenzio. Non vogliono che si sappia del carico di armi vietate dalla convenzione di Ginevra.
“Le navi, specie quelle che erano lungo il molo foraneo di levante“ - scriverà Augusto Carbonara, che era in città e vide scardinata dal bombardamento la finestra della sua camera da letto, “furono sorprese d’infilata dalle bombe tedesche. Erano tanto vicine che le bombe cadute in acqua furono molto poche. Alcune navi bruciavano, altre affondavano, altre, incendiate, rotti gli ormeggi, andavano alla deriva, avvicinandosi alle navi non colpite. Le navi che nella stiva trasportavano esplosivi dapprima si incendiarono e poi finirono per deflagrare e colpire tutto il porto e anche molte case della città vecchia. I vetri delle abitazioni di mezza Bari andarono in frantumi”.
La sorpresa dell’attacco e l’ignoranza del carico presente sulla Harvey causano i danni più gravi. La maggior parte dei marinai è in franchigia. Cinema e teatri - il Piccinini, il Petruzzelli, l’Oriente, il Margherita, il Kursaal - sono aperti e pieni di inglesi e americani; al Margherita, ribattezzato Garrison Theatre, si proietta “Springtime in the rockies”, con Betty Grable e John Payne. I militari più alti in grado si trovano al vicino Barion, trasformato in Circolo Ufficiali.
Gli italiani no. “Al momento dell’attacco, dal comandante agli ufficiali, ai marinai” - racconterà Oberdan Fraddosio, che quel giorno era l’ufficiale di guardia - “eravamo tutti in Capitaneria o sul posto di manovra delle ostruzioni retali alla testata del molo foraneo di levante. Non esistevano rifugi antiaerei. Non esistevano mezzi di protezione personale che non fossero vecchie maschere antigas inutilizzabili e inutilizzate. Perfino gli elmetti erano in numero inadeguato. Tutti rimasero ai loro posti fino alla fine dell’incursione”.
Il porto, come altre basi navali, ha sull’imboccatura una rete che viene aperta parzialmente per il passaggio di una nave. “Il Comandante” - racconterà ancora Fraddosio - “mi ordinò di eseguire una ricognizione nel bacino portuale portandomi fino alle ostruzioni. Nel percorrere le acque del bacino passammo molto vicini a navi che bruciavano e sulle quali esplodevano ancora le cariche dei cannoncini e delle mitragliere. Dovevamo tenerci sopravvento per evitare di essere avvolti dal fumo denso e acre degli incendi”. Quello che sembra fumo non è soltanto il fumo degli incendi; è anche il vapore dell’iprite”.
“Tra le navi” - racconterà ancora Augusto Carbonara - “fu colpita e incendiata anche la John Harvey, quella che, con altro materiale esplosivo, trasportava le cento tonnellate di bombe con l’iprite. I marinai rimasti a bordo tentarono con ogni mezzo di domare il fuoco, ma inutilmente, e dopo mezz’ora l’incendio si propagò alla stiva. Non ci volle molto che la nave saltasse in aria con tutto il suo carico e tutti gli uomini, compresi quei pochi che conoscevano la verità sul carico. Da quel momento cominciò l’inferno”.
“La maledetta Mustard” - dirà ancora Carbonara - “si mescolò alla nafta venuta fuori dalle petroliere affondate e formò un velo mortale su tutta la superficie del porto. Coloro che dalle altre navi si lanciavano in acqua furono ben presto zuppi della maleodorante sostanza. I vapori dell’iprite si spargevano intanto su tutto il porto; bruciavano la pelle e intossicavano i polmoni dei sopravvissuti”.
“All’ospedale neozelandese - scriverà Carbonara - “cominciarono ad arrivare i primi feriti. Molti, più che colpiti dalle esplosioni, erano provati dall’effetto del gas vescicante. Ma non si sapeva che fosse stato il gas a provocare tali effetti, perché, sul momento, nessuno lo intuì. Non vi erano vestiti di ricambio e pertanto non fu possibile cambiare d’abito i soldati che erano caduti nelle acque del porto. Chi non poté cambiarsi di sua iniziativa rimase quindi con gli abiti zuppi d’iprite, che non solo agì sulla pelle, ma fu assunta attraverso le vie respiratorie.
I primi inspiegabili collassi si ebbero dopo cinque o sei ore dalla contaminazione. Dopo, seguirono le prime morti, quasi improvvise, di gente che qualche minuto prima sembrava stesse per riprendersi. Tutti avevano la pelle piena di vesciche. Sulle ascelle, l’inguine e i genitali le pelle si staccava come avviene per le ustioni più gravi”.
Il giorno dopo, alcuni medici cominciano a intuire qualcosa. Un capitano della sanità si reca dalle Autorità Alleate per chiedere l’esatto contenuto delle navi colpite. Si telegrafa alle Autorità dei porti USA da cui le navi erano partite, ma nessuno dà o vuole dare una spiegazione; e anche in futuro la risposta non arriverà mai. Quante le vittime? Sarà impossibile calcolarne il numero; sicuramente intorno a un migliaio tra civili e militari. Oltre ai morti per le bombe e per i crolli, oltre ottocento militari sono ricoverati per ustioni o ferite; di essi 617 a causa dell’iprite. A Bari ne moriranno 84 e molti in altri ospedali italiani sia, ma anche in Africa del nord e negli Stati Uniti dove verranno trasportati.
I civili sono almeno 250. Nella città vecchia sono crollate alcune vecchie case e una di esse, non ricostruita, creerà una piazzetta al fianco della sacrestia della cattedrale. Nella parte nuova della città crollano tre edifici; due tra via Andrea e via Roberto, vicino alla chiesa di San Ferdinando, un terzo in via Crisanzio nei pressi della manifattura dei tabacchi.
“Ma se il bombardamento” - racconta Paolo de Palma, un altro testimone della tragedia di Bari - “non si trasformò in un vero e proprio massacro per i cittadini baresi lo si deve al vento che si mise a spirare verso levante, evitando così un pericolo devastante. Forse fu San Nicola che volle ancora una volta tutelare la sua città”.
Su esplicite pressioni di Winston Churchill, verrà scritto: ”Morti a seguito di ustioni dovute ad azione nemica. Il porto di Bari verrà chiuso per tre settimane”.
Per la gravità del disastro, quello di Bari è conosciuto come il peggior disastro navale della seconda guerra mondiale dopo l’attacco di Pearl Harbor in cui le navi demolite furono parimenti 17.
Molti interrogativi rimangono ancora senza risposta.
Chi ha studiato a fondo il bombardamento di Bari si chiede:
- “I tedeschi sapevano del carico presente sulla Harvey?”
- “Il bombardamento fu davvero una casuale operazione pianificata contro un porto in mano nemica, oppure essi conoscevano i segreti che si trovavano al suo interno e la tragedia che ne sarebbe scaturita?
- “I cieli del Mediterraneo ed in particolare quelli dell'Italia del sud erano a quel tempo dominio incontrastato dell'aviazione Alleata, la quale poteva schierare quasi 3000 velivoli, mentre l'Asse poteva a stento schierarne 500. Com’é possibile che una forza di 105 bombardieri non sia stata intercettata da alcun caccia dell'USAAF o della RAF? Né dai radar che pure avvistarono più volte un ricognitore Me.210 volare sulla città e sul porto?”
- Dal relitto della USS John Harvey siano state recuperate molte bombe d’aereo inesplose, ognuna delle quali contiene 30 Kg di Iprite, C’é chi sospetta che siano state affondate nel basso Adriatico e che non siano mai più state recuperate.
|
|
Career (USA) |
|
Name: |
SS John Harvey |
Builder: |
North Carolina Shipbuilding Company-Wilmington
|
Yard number: |
56 |
Way number: |
2 |
Laid down: |
6 December 1942 |
Launched: |
9 January 1943 |
Completed |
19 January 1943 |
Fate: |
Bombed in Bari, 1943. Scrapped 1948.
|
CARATTERISTICHE: |
|
Class & type: |
Type EC2-S-C1 Liberty ship |
Displacement: |
14,245 long tons (14,474 t) |
Length: |
441 ft 6 in (134.57 m) o/a 417 ft 9 in (127.33 m) p/p 427 ft (130 m)w/l |
Beam: |
57 ft (17 m)[1] |
Draft: |
27 ft 9 in (8.46 m) |
Propulsion: |
Two oil-fired boilers-Triple expansion steam E.
2,500 hp (1,900 kW) Single screw |
Speed: |
11 Knots (20 km/h; 13 mph) |
Range: |
20,000 nmi (37,000 km; 23,000 mi) |
Capacity: |
10,856 t (10,685 long tons) (DWT) |
Crew: |
81 |
Armament: |
Stern-mounted 4 in (100 mm) deck gun for use against surfaced submarines, variety of aircraft guns |
In seguito alle tragiche conseguenze del bombardamento, Bari fu la prima città da cui partirono gli studi sugli effetti delle bombe chimiche sulle persone.
Carlo GATTI
Rapallo, 14 Gennaio 2014
COMMENTO
Leggendo il saggio sul Bombardamento di Bari mi tornano in mente alcuni ricordi di quando avevo 6/7 anni. Finita la guerra ci eravamo trasferiti tutti in un paesino sul mare, Santo Spirito, a pochi chilometri da Bari. Ricordo che a quel tempo le spiagge e le campagne erano piene di proiettili, spaghetti di ballistite ed altri materiali bellici abbandonati. Con i miei fratelli e altri compagni di scuola andavamo a raccogliere questi pericolosi reperti e poi ci divertivamo a confezionare dei razzi che una volta accesi partivano verso l'alto come dei piccoli missili. Ogni tanto, purtroppo, arrivavano notizie di agricoltori che erano “saltati in aria” mentre aravano i campi a causa di esplosioni innescate da mozziconi di sigarette gettati inavvertitamente a terra. Anche se ero ancor più piccolo, ricordo che durante la guerra abitavamo a Masnago, vicino a Varese perchè mio padre era ufficiale di cavalleria ed era di stanza a Varese. Quando lui non c'era, gli prendevamo i proiettili di scorta della sua pistola di ordinanza e ci divertivamo a metterli sulle rotaie del tram e sentire i botti che facevano quando scoppiavano perchè schiacciati dalle ruote. Purtroppo a quei tempi non c'erano i pc, la tv e per divertirci e passare il tempo dovevamo pur inventarci qualcosa. Beata incoscienza!!!
PINO SORIO
Il rimorchiatore d'altura BRASILE nel MISTRAL !
Il rimorchiatore BRASILE nel MISTRAL
Il sole era appena tramontato e già calava la seconda notte del nuovo anno di qualche tempo fa….Charly ed il suo equipaggio alla “mala fuera” avevano a rimorchio una vecchia draga di ottanta metri, che una ditta specializzata nella costruzione di pipelines gli aveva consegnato a Sines in Portogallo, per trasferirla a Genova.
Il rimorchiatore Brasile, sul quale il “rapallino” era passato al comando da meno di un anno, era il più elegante della flotta genovese e siccome aveva una potenza eccessiva per quel lungo guscio semi vuoto, lo trainava visibilmente scocciato, con autosufficienza. Abituato com’era ai rimorchi di navi importanti, il mastino si sentiva sprecato, proprio come certe signore aristocratiche che un po’ si vergognano di trascinare il loro amato bastardino che indugia ad annusare …
La depressione era scivolata via verso levante, lasciando il consueto mare lungo e montagnoso da libeccio, ma i bollettini meteo di allora erano ancora più “precari” di oggi… e non solo la davano in ritardo sulla nostra zona, ma nelle ultime emissioni erano ancora lontani dall’annunciare il maestrale che già spingeva verso l’alto, quasi in verticale, il pennino del barografo di bordo.
Charly era nervoso, il golfo che gli si apriva davanti era chiamato “LEONE” fin dall’antichità, per le terribili ferite che ha sempre procurato agli sconsiderati marinai che hanno osato sfidarlo nella sua zona centrale, ma che pur tuttavia avevano avuto la fortuna di poterlo raccontare.
Già dai tempi del mitico Ulisse, il marinaio sa che deve “salutare” questo golfo infame, facendogli un profondo inchino. Questa è la prima lezione che s’impara uscendo dal Nautico. Il Leone vuole essere riverito, accarezzato e adulato dalle spiagge della Catalogna fino a quelle oltre Tolone e viceversa. Soltanto con questa miserevole “sviolinata” si può prevedere il giorno del ritorno a casa.
Ma questo discorso “marinaresco” si faceva arduo per un rimorchiatore che aveva trecento metri di cavo d’acciaio fuoribordo, col quale disegnava una catenaria verso il fondo di oltre 20 metri. Il Brasile pur essendo infinitamente piccolo, aveva quella notte lo stesso problema di pescaggio di una gigantesca petroliera, che certamente non si sarebbe mai sognata di andare a sfiorare gli scogli per cercare ridosso…mentre Charly se voleva portare il suo rimorchio a destinazione, aveva l’obbligo d’inventarsi un rifugio per non finire azzannato dalla belva che annunciava il suo arrivo ruggendo a grandi balzi.
Charly mise la prora in terra e cominciò a cercare affannosamente i piani dei porticcioli vicini alla frontiera franco-spagnola, ma non li trovò, e dai cassettoni della sala nautica uscirono soltanto inutili carte generali di navigazione. Mentre il barometro continuava a salire, cominciarono a ringhiare le prime raffiche di MISTRAL. In un attimo il mare si coprì di creste minacciose. Dagli strumenti di bordo, Charly si rese conto che i fondali erano in rapida diminuzione, allora diede l’ordine di accorciare il cavo di rimorchio, mise la prua nel vento ed iniziò l’atterraggio.
”Non avevo scelta!” - Raccontò in seguito Charly - “Al buio e senza carta nautica, decisi d’infilarmi, alla “gran puta”, nel buco naturale che in quel preciso momento avevo davanti al bittone di prora.
Ma questa volta sarei entrato senza chiedere il permesso all’autorità del posto, per non incorrere in qualche probabile “divieto” legato all’assoluta impraticabilità….. Mi era già successo e da quell’esperienza negativa imparai l’arte di arrangiarmi!”
Collioure (dipartimento del Roussilion), era il nome della piccola località, a me sconosciuta, che vedevo sul radar come ultima spiaggia. Mano a mano che mi avvicinavo notavo che il vento tendeva a cambiare direzione, come se le folate cercassero un trampolino di lancio sul promontorio a levante del paese, per poi scendere in picchiata e mitragliare a raffica, quasi di traverso, l’entrata del porticciolo.
Per “sentire” la vera forza del Mistral, misi la prora nella sua direzione e mi resi subito conto che la nostra potenza di macchina era del tutto insufficiente a vincerlo. La draga era alta e faceva vela. S’avanzava con il freno a mano tirato.
Davanti all’imminente pericolo di scarrocciare sulla scogliera di sottovento, scappai da quella trappola accostando a sinistra, con la macchina avanti tutta. Acquistai immediatamente velocità e nel guadagnare l’imboccatura, la vidi mentre apriva lentamente i suoi oscuri sipari e, dallo sfondo di questa specie di presepe, fuoriuscivano le tenui luci policrome che disegnavano la passeggiata, un bastione illuminato e poi un’altra spiaggia più piccola a levante.
Nella rapida accostata sottovento, il convoglio acquistò il necessario spazio vitale, presi le ultime misure e subito dopo ci trovammo quasi a toccare con la prora la base del torrione che sosteneva il fanale verde d’entrata; mentre la poppa della draga lambiva l’estremità dell’antemurale che aveva alla sua estremità il fanale rosso. Gli ostacoli erano illuminati dai nostri potenti proiettori e, da terra, per qualche nottambulo sbucato dai caruggi, in cerca di vento fresco per smaltire la sbornia delle feste… si trattò d’uno spettacolo emozionante!
In quella “adrenalitica” posizione, i brividi mi correvano lungo la schiena, ma l’agognato ridosso era lì, e noi ci tuffammo nel porticciolo compiendo una curva secca a sinistra per smorzare l’abbrivo e avvolgere il convoglio su se stesso, ma anche per diminuire il raggio della frustata in rotazione. Sfiorammo una cinquantina d’imbarcazioni ed ostacoli vari, senza fare il minimo danno e quando riuscimmo a compattarci, riscontrai che nell’attacco di rimorchio, non solo si era spezzata una catena della patta d’oca, ma si era dissaldata la sua lunga benna che ora brandeggiava lateralmente, trattenuta soltanto da sottili ritenute d’acciaio.
Le battaglie “navali” precedenti avevano indebolito la vecchia draga che, sotto le luci dei fari, appariva sbandata e più abbassata.
All’interno del porto, le luci natalizie illuminavano un’incantevole baia, ma solo verso l’alto, poichè all’altezza della nostra visuale operativa, vi era una linea d’ombra e lo spazio sembrava ancora più ristretto.
Metà dell’equipaggio saltò sulla draga, rifece gli attacchi di rimorchio, poi riportò il rimorchio a pochi metri dalla poppa del Brasile che, inforcato su due ancore smisurate, guardava ormai beffardo, dalla gabbia sicura del porto, il Leone che s’aggirava libero e assetato di sangue nella sua savana salata.
L’equipaggio quella notte fece miracoli e ne uscì vincitore! Ingaggiò un vero corpo a corpo con il Mistral che entrava a raffiche, scoppiettava da tutte le parti, abbatteva le palme e sollevava polvere e sabbia, polverizzandola con l’acqua di mare, per farne aghi taglienti.
A causa dell’ansia accumulata, nessuno andò a dormire e con il chiaro fummo sorpresi da una visione nostrana: le imbarcazioni che avevamo minacciato di strage, erano Leudi di taglia piccola, ma perfettamente simili a quelli delle nostre parti.
Leudi - Catalani nel porticciolo di Collioure
Il marinaio Stea, che è di Sestri Levante esclamò: “Emmu sbagliou rotta, semmu arrivee in rivea!”
Stea aveva ragione! Eravamo entrati in un pezzetto della nostra Riviera di levante: c’erano i Leudi, le palme allineate sulla passeggiata, le torri bastionate e sullo sfondo le case colorate che salivano sulle colline. Un pezzo della nostra terra si era specchiata, a seicento chilometri di distanza, sull’altra sponda del Mediterraneo.
Il Capitano del Porto di Collioure inizialmente non si fidò del mio rapporto verbale, e mandò una pattuglia a controllare la rada interna per presentarmi il conto dei danni. Ma fu deluso! E quando mi convocò nel suo ufficio, trovò anche il modo, molto simpatico, di contraccambiare le mie bottiglie di Chivas con un cartone di vasetti di acciughe preparate alla catalana e mi disse:
“Comandante, qui ci stiamo chiedendo come avete fatto, questa notte, ad entrare in porto.
Sa! Da queste parti, di Mistral ce ne intendiamo…!
Leudi-Catalani dei primi del ‘900
Qui sono nati i Catalani (così vengono chiamati i Leudi da queste parti) con l’albero storto a calcese per inchinarsi al Mistral. Qui siamo tutti marinai e provetti pescatori fin dall’antichità. Qui peschiamo, prepariamo a mano ed esportiamo le migliori acciughe del mondo….” Lo interruppi per spiegare…:
“Capitano, anche dalle mie parti peschiamo e mangiamo le stesse acciughe, che sono pescate da almeno due secoli con i Leudi, che però sono stati costruiti dai nostri cantieri rivieraschi!
Il Capitano, trattenendo un ruggito, mi fissò duro negli occhi, mi ricordò il Mistral… e allora ripiegai sulla diplomazia…..
“Che strano! Nessuno ha mai pensato di gemellare i nostri paesi, che sembrano costruiti e pitturati dallo stesso artista, con lo stesso pennello?”
“Non lo so!”
Rispose abbonacciato il graduato.
“Si vada a fare un giro nel paese e vedrà spuntare i Catalani sui portoni delle case, sui piatti di maiolica e ceramica, sui ferri battuti dei cancelli, sui pavimenti delle piazzette. I Catalani sono il nostro patrimonio culturale!
Tra poco le farò assaggiare il famoso vino di Bonyuls e sono sicuro che ritornerà a Collioure da turista con la sua famiglia. Ma per quanto riguarda il “pittore”, deve sapere che qui è nata la scuola di Matisse, Derain, Dufy e Parquet.”
Mi raccolsi in silenzio e pensai ad alta voce:
“Anche in Liguria i Leudi sono un patrimonio culturale-marinaro e di artisti son piene le fosse…!”
Allora?
“Qui, charchedun u cunta de musse!”
Ma il Capitano del porto era una persona davvero simpatica, e quando mi portò nel bar più vicino per farmi assaggiare il Bonyuls, brindammo alle nostre tradizioni marinare e decidemmo di lasciare agli storici di “mestiere” la responsabilità di stabilire la primogenitura del Leudo!
Quando in tarda mattinata ritornai a bordo intontito dai troppi bicchieri di Bonyuls, mi rivolsi all’equipaggio e dissi:
“Qui, charchedun u cunta de musse!”
Carlo GATTI
10.02.12
GIUSEPPE PETTAZZI UN RAPALLESE DA RICORDARE!
Ing. GIUSEPPE PETTAZZI
Un rapallese da ricordare
L'INGEGNER GIUSEPPE PETTAZZI REALIZZO’ NEL 1938 LA STAZIONE DI SERVIZIO FIAT, OGGI SIMBOLO UNESCO
Sopra: l’inaugurazione della Fiat Tagliero ad Asmara il 28 Ottobre 1938. Presenti le massime autorità gerarchiche del tempo. A sinistra, in completo scuro, si riconosce il Duca Amedeo di Savoia-Aosta, l’Eroe dell’Amba Alagi, che il 3 Marzo 1942 morirà a Nairobi, prigioniero degli Inglesi. Medaglia al Valor Militare.
La Rai nazionale si è interessata alla Fiat Tagliero di Giuseppe Pettazzi con due filmati tratti da due trasmissioni della Grande Storia di Paolo Mieli e Massimo Bernardini. Altri edifici di quel tempo, sempre in Eritrea sono fotografati in altre località come “Dire-Daua”, “Dessiè”, “Gondar”, “Mogadiscio”, “Adis Abeba”. Sono altresì rappresentate tramite fotografie panoramiche, le “Torri Balilla al mare e sulle Alpi” che vengono proposte come colonie Fiat per bambini con slogan come: “attraverso le miriadi e miriadi dei vostri figli si ha la certezza assoluta della continuità nei secoli della nostra “Patria”.
Per quest’ultimo edificio, la rassomiglianza con la nostra Colonia Fara di Chiavari è straordinaria, non solo nella struttura centrale ma anche nelle due terrazze laterali. L'accostamento tra la Ex Colonia Fara e le nuove costruzioni nell'Ex Cantiere Navale, è giustificato dalle architetture razionaliste e variegate della zona Preli, e anche molto criticate, come riportato dalla stampa locale.
Sopra: da ”Il Corriere della Sera” del 12 Luglio 2017, articolo di Guido Santevecchi
Progettazione della Fiat Tagliero, con i timbri originali degli uffici asmarini
Luigi Frugone
... e parte della sua libreria
Sono sotto gli occhi di tutti gli arrotondamenti dei terrazzi per creare una architettura "razionalista" simi- lare a quella della “Torre Fara”, e avendo conosciuto una persona che ha moltissimi libri di Futurismo, Art Decò e Razionalismo cioè il Signor Luigi Frugone chiederemo a lui un suo giudizio ed un commento da profondo e appassionato conoscitore dell'argomento.
Questa nuova conoscenza è straordinariamente significativa ed emozionante per aver riportato di attualità l'opera della Fiat Tagliero di Giuseppe Pettazzi. Pensate .... due persone che in parallelo si interessano della stessa cosa per anni e si appassionano all'argomento ma che non si conoscono affatto, anche se uno sapeva che l'altro esisteva e viceversa. Ma l'incontro ad una cena degli "Amici del Monte" ha creato il contatto. Ecco che Frugone, con una immagine straordinaria presenta subito una inedita Colonia Fara e uno ZEPPELIN che gli sorvola intorno!!! Naturalmente lo Zeppelin non è mai passato a Chiavari, ma “Photo-shop” sì.
Dopo questa emozionante presentazione, nel totale disinteresse, si sono scambiati subito i propri “ritrovamenti”. Frugone aveva disegni inediti con timbri colorati originali che ha ottenuto dal Municipio di Asmara .... e dall'Ufficio Storico del Museo Fiat di Torino, senza sapere, per anni, che i figli di Pettazzi erano a 50 metri dai suoi innumerevoli libri di futurismo. Chissà cosa ne avrebbe pensato Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del Futurismo che fu la prima avanguardia storica italiana del Novecento.
Filippo Tommaso Marinetti
Una foto da lui proposta della Colonia Fara
Inoltre Andreatta aveva una serie di foto avute dalla famiglia Pettazzi che Frugone non possedeva. E' stato uno scambio disinteressato e assolutamente culturale! E' storia recente che, gli autorevoli quotidiani nazionali e locali hanno finalmente portato alla luce lo straordinario lavoro degli Architetti e degli Ingegneri Italiani che progettarono un’urbanistica citata come “esempio mondiale di architettura modernista”. Si viene altresì a sapere che il Politecnico di Milano formerà tecnici eritrei per il restauro del patrimonio culturale e architettonico di Asmara, nell’ambito di un progetto finanziato con quasi 300.000 euro dall’Unione Europea. Lo ha precisato l’architetta Susanna Bortolotto dell’ateneo milanese, contattata da askanews dopo che l’Unione Europea ha riferito del coinvolgimento del Politecnico nel progetto intitolato “Capacity building for safeguarding Asmara’s historic urban environment”. Bruxelles ha infatti annunciato di recente il via libera a un finanziamento di 297.721,87 euro per le attività di valorizzazione e tutela del patrimonio di Asmara, “unico al mondo”, che fa della capitale eritrea la “città modernista del continente africano” candidata a diventare patrimonio Unesco. Ed infatti l'Unesco, nella sua sessione annuale in corso a Cracovia nel Giugno 2017, ha dichiarato Asmara Patrimonio dell'Umanità, inserendola nella lista World Heritage. La capitale dell'Eritrea è il primo sito del Paese africano a entrare nel Patrimonio, come "città modernista d'Africa", in riferimento alla sua struttura urbanistica, che porta la firma degli architetti italiani della fine dell'Ottocento e soprattutto del Ventennio.
Il progetto, presentato dall’Asmara Heritage Project e dalla municipalità di Asmara, prevede il completamento del “Con- servation Master Plan” della città e un corso per la conservazione, tutela e valorizzazione del patrimonio edilizio e attività che incentivino la consapevolezza e il coinvolgimento dell’opinione pubblica. L’Asmara Heritage Project implementerà parte del progetto in collaborazione con il Politecnico di Milano”, si legge nella nota diffusa dall’Unione Europea. “L’affascinante capitale dell’Eritrea – ha concluso Bruxelles – con un perimetro storico di circa 4.300 edifici censiti all’interno di un’area di 480 ettari, potrebbe anche diventare presto il primo sito Unesco Patrimonio dell’umanità dell’Eritrea”. E naturalmente quale sarà il simbolo di questo progetto, senza dubbio la Fiat Tagliero dell’Ingegner Giuseppe Pettazzi.
Ed ancora.... ricevo un Email da Luigi Frugone in cui ci parla di una mostra a Parigi presso l'Ambasciata Eritrea per perorare la causa di Asmara e delle sue architetture come “patrimonio dell'Umanità” con la Stazione di Servizio Fiat Tagliero, naturalmente, come simbolo più significativo. L'esposizione art deco di Asmara è stata inaugurata a Parigi all'ambasciata dell'Eritrea. Sua Eccellenza Hanna Simon, ambasciatrice dell'Eritrea in Francia, ha aperto l'esposizione. L' Ambasciata ha dichiarato che l'esposizione si svolge con il tema "Asmara: la città dei sogni". Questa mostra vuole attirare l'attenzione internazionale e le persone di cultura per visitare questa città e aiutarla a preservarne l'eredità. L' esposizione vuole contribuire al dibattito sulla valutazione del modernismo classico, la globalizzazione dell'architettura moderna, il suo valore storico e gli effetti sull'urbanistica.
Tuttavia, Asmara è l'unica grande città al mondo dove tutta una varietà di movimenti architettonici sono riuniti insieme. Pertanto, Fiat Tagliero, ideata e costruita da Giuseppe Pettazzi è diventata un pò il simbolo di Asmara e di tutta l'Eritrea, e vediamo la sua immagine riportata sulle magliette e sulle borse per farla conoscere al mondo. L'immagine di questa modella è stata fornita da Lugi Frugone, così come una serie di Magliette che arriveranno al più presto dall'Asmara con corriere internazionale. Riportiamo qui di seguito gli articoli dei quotidiani La Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Giornale, Il Secolo XIX e il Nuovo Levante.
La famiglia Pettazzi è certamente grata a questi quotidiani che hanno voluto portare alla luce una storia ormai dimenticata, ma che andava certamente ricordata anche in memoria di chi ha perso la vita e di chi, al di la di ogni convinzione politica ha così tanto sofferto in certi periodi della propria esistenza. Perchè sono principalmente quelle ali di cemento che hanno fatto volare Asmara, capitale dell'Eritrea, fino al riconoscimento più alto, quello del patrimonio dell'UNESCO.
E se non fosse stato per questa improvvisa notorietà globale che ha travolto Asmara, di certo pochi si ricorderebbero di Giuseppe Pettazzi, Ingegnere di origine piemontese che dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, scelse Rapallo in Liguria come rifugio in cui custodire e conservare il passato, nel tentativo, dopo cinque anni di prigionia in India, di ricostruirsi un futuro.
S.E. Hanna Simon, ambasciatrice eritrea in Francia, che ha aperto l’esposizione Art Decò di Asmara, inaugurata a Parigi all’ambasciata eritrea.
Progetto World Heritage. Asmara “città modernista d’Africa
Alcuni gadget per l’evento Unesco
Nella zona dove stanno sorgendo le nuove costruzioni della Società “Gli Scogli Srl”, il cantiere navale Gotuzzo vi costruì e varò oltre 125 velieri oceanici. Per comprendere come appariva il litorale all’epoca eroica della vela possiamo guardare il dipinto di Amedeo Devoto riportato qui sotto, raffigurante la stessa zona, nel 1919, quando ben cinque velieri erano contemporaneamente in costruzione. Sulla destra, il Cantiere Navale dei Gotuzzo, edificato nel 1912, dopo oltre cinquant’anni di lungaggini burocratiche, con uno stile assolutamente armonico rispetto al territorio.
Sotto: da “La Repubblica” del 17 Luglio, articolo di Massimo Minnella.
VITA E COERENZA DI GIUSEPPE PETTAZZI
“FORTUNATO SOPRAVVISSUTO” - “RAPALLINO DI ADOZIONE”
PARTECIPÒ NEL 1941 ALL'EROICA DIFESA DI CHEREN IN A.O.I. NEL BATTAGLIONE "UORK AMBA"
Giovanna Calissano, nata ad Alba conobbe Giuseppe Pettazzi a Rocchetta Tanaro. Soltanto dopo la guerra, nel 1947 si unirono in matrimonio. Rapallo diventò la loro residenza.
Giuseppe Pettazzi, ingegnere civile, nato a Milano, era di origine piemontese.
Durante la guerra in Africa Orientale (A.O.I.) era Sottotenente degli Alpini.
Le origini piemontesi
Giuseppe Pettazzi, di professione ingegnere civile, allo scoppio della seconda guerra mondiale si trovava in Africa Orientale Italiana e fu uno dei pochi sopravvissuti del Battaglione Alpino “UORK AMBA” durante la presa di Cheren in Eritrea da parte degli Inglesi.
Proveniente da una famiglia medio borghese di origine piemontese, era nato a Milano il 3 Maggio 1907. Dopo la guerra, nel 1947, diventa Rapallino di adozione. E’ uno dei tanti che, negli anni 30, ha dovuto fare delle scelte fondamentali e spesso si è trovato coinvolto in avvenimenti o battaglie sanguinose o situazioni di prigionia faticosamente vissute e sopportate, a volte assurde, specie se viste con gli occhi di oggi. Pettazzi, nonostante tutto, può ritenersi un “fortunato sopravvissuto”.
Aveva un carattere estremamente equilibrato, di grande livello etico e morale e certamente pacifico e sicuramente era un uomo coerente. Ma si trovò, dai trenta ai quarant’anni, a vivere un decennio di spaventosi cambiamenti e tragedie, e così, nell’età in cui un uomo è nel pieno delle sue capacità fisiche e professionali, venne coinvolto in quel momento che viene ora definito come il “Colonialismo Italiano”.
Dopo la maturità classica che consegue nel 1925, Pettazzi si iscrive alla facoltà di ingegneria di Torino dove ne esce laureato nel 1931 dopo aver interrotto gli studi per il servizio militare nel ‘28 a Bra dove frequenta il Corso Allievi Ufficiali per Alpini e ne esce Sottotenente, in caso di richiamo.
Il primo impiego, come ingegnere civile, è presso l’impresa ing. Sapelli di Ciriè, specializzata nei calcoli del cemento armato, con lavori in loco in industrie locali, e per il genio militare, alla frontiera Francese, Cesana, Sestriere, e galleria di Monte Rotta presso Bardonecchia. Nel 1935 lavora con l’impresa Zolla di Milano che ha depositi di carburanti a Gozzano e quindi con l’impresa Carlo Grasso di Torino sempre nel settore per il quale si era laureato e cioè ingegneria e progettazione civile.
Sotto: Giuseppe Pettazzi all’Asmara, con la sua “Balilla” quando era titolare dell’impresa di costruzione omonima. In pochi anni, ad Asmara, prima della tragedia scatenata da Mussolini con la perdita dell'A.O.I., aveva già progettato e costruito molti importanti edifici e strade.
Africa Orientale Italiana – L’Italia Decò
A questo punto nella vita di Pettazzi c’è una svolta che condizionerà molta parte del suo futuro. Come Ingegnere civile verso la fine del 1936 va a lavorare in Africa Orientale, in Eritrea, per cercare di avere un miglior futuro professionale sull’onda del grande esodo verso questi possedimenti del regime di allora. In quegli anni le colonie Italiane rappresentano per molti professionisti e non solo, uno sbocco importante di lavoro. Per molti giovani sono una strada aperta verso nuovi orizzonti di grandi speranze che si concretizzano presto con il grande bisogno di infrastrutture, come vengono ora chiamate, le strade, i ponti, gli acquedotti, le fognature ecc. in un paese dove non c’era nulla di tutto questo.
Un Esempio dell’archittetura “decò” di Asmara
Da un giornale del dopoguerra del 2007: la Fiat Tagliero progettata da Pettazzi é ancora in piedi.
Sotto: Una sfilata delle Giovani Italiane a Rapallo. Con la camicia bianca si nota Giovanna Calissano che prima della guerra era già residente a Rapallo.
Sotto: Una immagine del 1952 dei coniugi Pettazzi ormai Rapallini di adozione e non più “furesti”
In Eritrea, all’Asmara, esercita la libera professione proprio nel settore dell’ingegneria civile e le sue doti di progettista anticipano e interpretano perfettamente quella tendenza che potremmo chiamare “l’Italia Decò” in terra d’Africa. E’ giovane e lo spirito imprenditoriale come le capacità professionali non gli mancano e così attraverso una propria impresa di costruzioni si tiene al passo con il grande sviluppo urbanistico della città coloniale probabilmente anche favorito dall’impulso imposto dal regime di allora. Tra i progetti da lui portati a termine, uno di questi, la stazione di Servizio della Fiat Tagliero lascerà un’impronta particolare sia per la sua architettura innovativa e moderna che per una leggenda ancora adesso tramandata di generazione in generazione dagli Eritrei dell’Asmara.
Una rivista d’arte e cultura del 2007, “Luoghi dell’infinito” parlando di un viaggio all’Asmara nel 1991 in un articolo riporta testualmente: La guerra trentennale era finita. (proprio in quell’anno infatti era caduto il potere dittatoriale comunista di Menghistù). Il paese era libero e Asmara si risvegliava nella sua tranquilla e sorprendente bellezza. Fuori dall’aeroporo i Taxi in attesa di quei primi viaggiatori erano ancora Fiat 1100 dal colore azzurro arrugginito. Per strada vedevi circolare improbabili Balilla grigie che andavano a passo d’uomo. Ci fermammo al primo bar aperto: si chiamava Duca d’Aosta e il tassista mi offrì un cappuccino e una pasta. Il barista aveva i capelli bianchi: “Benvenuto”, disse in Italiano. La macchina scivolò poi davanti ad un distributore di benzina che assomigliava ad un ae- roplano. “Fiat-Tagliero” annunciava con orgoglio la scritta rosso sbiadita che sovrastava la torretta centrale.
Fiat Tagliero all’Asmara Autostazione Aeroplano
Mi raccontarono, è Andrea Semplici che scrive autore di queste righe, che l’ingegnere che aveva avuto l’ardire di progettare nel 1938, quel garage futurista dovette puntare una pistola alla testa del capomastro per convincerlo a togliere le impalcature che sorreggevano gli oltre 16 metri delle “ali”. Chissà se Giuseppe Pettazzi, il progettista, lo fece davvero! Quel che è certo che “l’Autostazione-Aeroplano” sembra, dopo oltre settant’anni dall’inaugurazione, ancora pronta al decollo. E continuando: l’Italia fascista aveva cancellato dalla geografia politica l’Etiopia, unico paese libero dell’Africa, e Mussolini voleva trasformare il volto di quelle terre. Asmara, fino al 1935 era una tranquilla città di una lontana provincia coloniale sulle coste del Mar Rosso. Ma alla vigilia dell’invasione dell’Etiopia conobbe un sussulto. Vi arrivò di tutto, “oltre che a bravi professionisti come Pettazzi” approdarono anche migliaia di soldati, coloni, avventurieri, braccianti, operai, poveri d’Italia. Era la retrovia della guerra che Mussolini avrebbe scatenato alla fine del 1935.
Sotto: Dal libro “Gli Alpini” – Storia –Reparti – Adunate- Eroi – 2014 e 2015- Edizione Gribaudo. Proprio per la sua breve vita il Battaglione UORK AMBA é poco conosciuto. Dal numero dei caduti, come leggiamo, é certamente uno tra i più eroici proprio per la straordinaria difesa di Cheren. Giuseppe Pettazzi, col grado di Sottotenente si può definire un “fortunato sopravvissuto” perché pochi giorni prima della resa di Cheren era stato ricoverato in ospedale ad Addis Abeba per una ferita alla mano che si era infettata. Durante la battaglia fu anche lievemente ferito alla testa.
“Divina geometria”
In meno di sei anni divenne il teatro di ogni possibile e radicale sperimentazione architettonica e urbanistica. Divenne la palestra in libertà dell’”Art Decò” delle linee futuriste, del modernismo. Il risultato? “Una divina geometria” azzardò anni fa Eugenio Lo Sardo, ispettore del Ministero dei beni culturali e ricercatore pignolo di quella stagione urbanistica. “Gli Italiani crearono un capolavoro dell’Art Decò. Asmara possiede la maggior concentrazione al mondo di architetture anni trenta. Gli Italiani hanno costruito con eleganza e stile. Hanno modellato una capitale abbagliante, moderna, internazionale. Sono più di quattrocento gli edifici asmarini censiti come piccoli capolavori del Decò. (foto sotto)
Negli anni a seguire, dopo la seconda guerra mondiale, l’edificio della Fiat Tagliero è stato più volte sulle pagine di giornali specializzati o settimanali o quotidiani. E’ interessante citarne alcuni per capire l’ambiente “urbanistico” in cui si viveva in questa colonia Italiana. Ma è il supplemento “Venerdi”, del quotidiano “La Repubblica” del 5 Dicembre 2003, in un articolo di Marc Lacey, che, è proprio il caso di dirlo, scatena le “ire” di Giovanna Pettazzi, ora scomparsa, con una lettera indirizzata al direttore Dott. Ezio Mauro dove si definisce, in questa accorata precisazione, “ottantaquattrenne, vedova dell’Ingegner Giuseppe Pettazzi deceduto nel 2001 all’età di novantaquattro anni”. Ne riportiamo volentieri alcuni commoventi “frammenti”: “la prigionia per sei lunghi anni in India, scrive, riferendosi al marito, posero temine alla sua attività svolta per troppo breve tempo in Asmara dove tuttavia rimane la Stazione di Servizio FIAT TAGLIERO che fu inaugurata nel 1938 dal Duca Amedeo D’Aosta, chiamata e conosciuta come “l’aeroplano” per la struttura a sbalzo con due ali tese di un’apertura di sedici metri (NON di tre metri, come legge inorridita sull’inserto) nuovo particolare questo, “tanto pietoso, quanto assurdo”!
Mio marito mai dovette ricorrere alla minaccia delle armi!
E continua rimarcando che da altri giornali come il Touring è stata definita come una costruzione “unica al mondo”! ma dice anche che: “mio marito mai dovette ricorrere alla minaccia delle armi (!!!) per persuadere gli operai a togliere le impalcature fatte per sostenere la massa di cemento in attesa che si solidificasse.... ............Poi parla del rapporto di affezione che c’era tra suo marito anche con la manovalanza indigena ... concludendo: quindi la citazione della minaccia delle armi (pistola o quant’altro) è falsa e pretestuosa!
Mio marito continua era “un puro, un onesto, mite, ma fiero”, che mai avrebbe commesso una azione così riprovevole nei con- fronti di chicchessia, tanto meno di una manovalanza che stimava, a cui era sinceramente affezionato. E quando lesse questa affermazione rimase profondamente indignata.
Firmato Giovanna Calissano vedova Ingegner Pettazzi.
Sotto: Le torri Balilla al mare e sulle Alpi. Per quest’ultimo edificio, la rassomiglianza con la nostra Colonia Fara di Chiavari é straordinaria, non solo nella struttura centrale ma anche nelle terrazze laterali.
Le opere del giovane Ingegner Pettazzi all’Asmara sono naturalmente riprodotte sui giornali del regime di allora come nel “Bianco e Rosso”, giornale del dopolavoro aziendale n. 5 del Maggio 1939, dove nella pagina ”La Fiat nell’Impero” in un disegno stilizzato viene rappresentata la Stazione Fiat dei Fratelli Tagliero in veduta prospettica da due differenti lati. In entrambi i casi è chiaramente indicato: “progetto e direzione lavori Dr. Ing. Giuseppe Pettazzi, Impresa Costruzioni Asmara”.
Altri edifici di quel tempo, sempre in Eritrea sono fotografati in altre località come “Dire-Daua”, “Dessiè”, “Gondar”, “Mogadiscio”, “Adis Abeba”. Sono altresì rappresentate tramite fotografie panoramiche, le “Torri Balilla al mare e sulle Alpi” che vengono proposte come colonie Fiat per bambini con slogan come: “attraverso le miriadi e miriadi dei vostri figli si ha la certezza assoluta della continuità nei secoli della nostra “Patria”.
Per quest’ultimo edificio, la rassomiglianza con la nostra Colonia Fara di Chiavari è straordinaria, non solo nella struttura centrale ma anche nelle due terrazze laterali. Dopo l’8 Settembre 1943 continua e si aggrava la tragedia italiana per mancanza totale di ordini e disposizioni con il conseguente sfascio del già debole apparato difensivo e offensivo. Nel dopoguerra, con la loro scellerata amministrazione, ci pensano gli Inglesi a portare via tutto. Selassiè trasferisce in Etiopia quanto rimasto e Menghistù (che era Etiope) con la nazionalizzazione dà il colpo mortale. E l’articolista aggiunge: in questo ultimo mezzo secolo l’Eritrea è stata la cenerentola del mondo, dimenticata da tutti anche da quegli Italiani che si gloriavano della loro “colonia primogenita”.
Forse dimentica che proprio gli Italiani sono tornati da quei posti o da altre Colonie come anche la Libia, spogliati di tutto o scusando la licenza, “con una mano davanti e una di dietro” ! Non parliamo poi di quelli che anche se “fortunosamente sopravvissuti” sono tornati a casa dopo 5 anni di prigionia come l’Ing. Pettazzi catturato dagli Inglese a Cheren nel 1941 e rimpatriato nel Dicembre del 1946 dopo che la guerra per l’Italia era finita il 25 Aprile del 1945. Nel 1997 l’Italia è stato il primo paese a riconoscere lo stato Eritreo con l’unico ministro degli esteri presente il giorno della dichiarazione di indipendenza il quale dichiara: “al di là delle sofferenze del colonialismo, l’Italia ha lasciato una grande impronta del suo lavoro, della sua presenza, della sua civiltà”.
Sotto: Giuseppe Pettazzi all’Asmara in divisa da Sottotenente degli Alpini appena richiamato dopo l’inizio del conflitto della Seconda guerra mondiale. Da lì a poco, in Africa Orientale Italiana, verrà scatenata una cruenta battaglia con la perdita totale di questa colonia. Cheren e l’Amba Alagi furono gli ultimi baluardi della resistenza italiana.
Altre opere dell’Ing. Pettazzi all’Asmara
Giuseppe Pettazzi, nei suoi pochi anni di permanenza all’Asmara partecipa, per quello che è dato di sapere, anche ad altri importanti lavori come progettista. Ne citiamo alcuni: oltre all’edificio già descritto della Stazione di Servizio Fiat dei Fratelli Tagliero, con le “sue ali da airone”, progetta e costruisce l’officina riparazione e magazzino ricambi sempre Fiat e si occupa anche di importanti lavori stradali come la strada di arroccamento di “Adigrat”, nel primo tronco “Adigrat-Passo Alequà”.
Quindi progetta e porta a termine per la ditta Berti la Tagliero alimentari e per Leopoldo Belli i saloni di vendita della Upim-Rinascente. Da notare che la stazione di servizio Fiat-Tagliero viene inaugurata alla presenza del Duca Amedeo D’Aosta, l’eroe, di lì a pochi anni dell’Amba Alagi.
Si arriva così al 15 Agosto 1939 quando Pettazzi si concede una licenza in Italia e parte da Asmara con viaggio in aereo e tappe a Kartoum – Tripoli – Bengasi – Roma per giungere a Rocchetta Tanaro (AT) che era la casa dei suoi genitori, Ubaldo e Maria.
Giusto per sedersi al tavolo della vittoria Mussolini porta l’Italia allo sfascio totale. Di lì a pochi giorni, il 3 Settembre 1939, Hitler scatena, con l’invasione della Polonia quella che sarà una tra le più sanguinose e spietate guerre della storia che, sulla terra, sui mari e nei cieli, coinvolgerà tutto il mondo. L’Italia, per decisione di un solo uomo, nell’affannosa e assurda rincorsa di gloria, e “per sedersi al tavolo della vittoria” come più volte raccontato a giustificazione di quella disastrosa guerra, per sua parte, pagherà un prezzo altissimo trascinandosi anche in una cruenta guerra civile con il grande dilemma di ogni Italiano che era quello, dopo l’8 Settembre 43, da quale parte schierarsi, o meglio se rimanere coerenti cioè fedeli al regime oppure tradire, cioè “badogliare”. Giuseppe Pettazzi, proprio nel settembre del 1939, viene richiamato dalla sorella Franca che era giunta in Asmara pochi mesi prima, non pensando che la guerra avrebbe avuto poi quegli sviluppi disastrosi anche per le colonie Italiane. Ma proprio nel Settembre del 39, mentre sta per ripartire dall’Italia diretto in Eritrea, accade un altro fatto che avrà una influenza importante per la sua futura esistenza.
I lavori di costruzione per la strada di collegamento tra “Adigrat e Passo Alequà” in Africa Orientale italiana diretti dall’Ing. Pettazzi. Durante i 56 giorni di combattimenti per la conquista di Cheren da parte degli Inglesi, questa strada, nella gola di Dongolas fu ostruita da pesanti massi fatti crollare dall’esercito italiano per impedire l’ingresso a Cheren.
Una cartina della zona di Cheren tenuta sin quasi all’annientamento da parte del Battaglione UORK AMBA che scrisse una delle ultime e più tormentate pagine della nostra storia coloniale. La maggior parte dei caduti sono sepolti, spesso senza nome, nel bianco cimitero di Cheren che conserva anche le spoglie di molti amici di Pettazzi caduti in battaglia.
La bussola originale usata dall’Ing. Pettazzi che faceva parte della sua attrezzatura in Asmara che é ancora utilizzata da suo figlio Ubaldo per le gite in montagna. E l’orologio che Guido Rovaro Brizzi, suo compagno di prigionia, gli donò in punto di morte pregandolo di portarlo ai suoi genitori. Cosa che fece al suo ritorno in patria, ma i genitori di Brizzi vollero che Pettazzi lo conservasse in ricordo del loro figlio. Alla morte di suo marito, Giovanna Calissano disse ai figli: “ed io continuo a caricarlo… fatelo anche voi…”.
Sotto: L’ingresso del Paese di Rocchetta Tanaro dove Giuseppe Pettazzi si conobbe con Giovanna Calissano. Le loro tombe sono uno vicino all’altra nel riposo eterno.
L’incontro sulla diligenza con Giovanna Calissano
Sulla diligenza chiamata del “Giaun” davanti alla casa della “Rita”, proprio a Rocchetta Tanaro, incontra con lo sguardo ... una persona. Uno di quegli sguardi che rimangono impressi per sempre. Occhi che si incontrano e che in qualche modo si promettono! Sono diretti entrambi alla stazione, lui per prendere a Torino il biglietto dell’aereo che lo avrebbe riportato all’Asmara dalla sorella, e lei per andare a Rapallo. Gli occhi che incontra, splendenti, chiari, verdi, sono di Giovanna Calissano, quella che poi nel 1947 diventerà sua moglie che era originaria di Alba. Ma i suoi genitori avevano delle terre a Rocchetta Tanaro per questo il destino fu complice! E li fece incontare. Nelle sue memorie scritte a mano in un piccolo diario, con quella meravigliosa calligrafia di un tempo, lei, racconta così quell’incontro: Vedo tutto Papà, bello, sorridente col suo spolverino color sabbia, saltare sul predellino della diligenza già al completo. Da allora si accese nel cielo la stella del nostro destino che ci riservava silenziosamente l’una per l’altro, per sette lunghi anni di tacite speranze e di sogni che apparivano irrealizzabili..... Non è dato di sapere se in quell’incontro si “dichiarano”, ma sicuramente si parlano e soprattutto si penseranno l’un l’altra per “sette lunghi anni”. Non è approccio retorico, a quel tempo si usava così!
Nel Maggio del 1940, Pettazzi, che si trova in Eritrea, viene richiamato in servizio militare come Sergente allievo e poi Ufficiale al ventunesimo battaglione fanteria di Asmara. Deve abbandonare tutto, sogni, progetti e azienda di costruzioni. Più tardi lascerà la procura dell’azienda a sua sorella Franca. Verso la fine di Maggio il suo gruppo viene trasferito ad Adis Abeba e prende posizione sulla prima linea difensiva del Campo di Aviazione di Adis Abeba.
Viene incaricato dal Comando Difesa di rilevare questa prima linea difensiva. Lavoro che viene eseguito con i pochi strumenti tecnici di allora, principalmente con una bussola graduata gonio- metricamente, ancora conservata e usata dal figlio Ubaldo per le sue gite col CAI–Club Alpino Italiano e una rolletta decametro. Suoi aiutanti sono tre soldati del suo stesso gruppo.
Sottotenente degli alpini per la difesa di Cheren – Una pallottola gli attraversa il cappello Nel Dicembre 1940 viene nominato Sottotenente e così, acquista, cioè compra con i suoi soldi, il suo cappello da Alpino all’Unione Militare di Adis Abeba. Lo stesso cappello di Alpino che orgogliosamente riuscirà a portare a casa anche dopo la prigionia in India, attraversato, durante i combattimenti, da una pallottola che gli provocò una leggera ferita. Il buco, rammendato, con “ago e spago” è ancora visibile nella parte alta del cappello. Lo stesso cappello, che non abbandonerà mai, altrettanto orgogliosamente, con dignitosa fierezza, lo indosserà nei raduni degli Alpini ai quali non mancava mai, dopo la guerra, per tanti anni, sino alla sua scomparsa che, ricordiamo, è avvenuta all’età di 94 anni nel 2001. Non solo, organizzerà, all’interno di questi raduni, il 24 e il 25 Maggio 1967 in quella che è ormai diventata ormai la “sua Rapallo” una grande adunata dei Reduci di Cheren riportata dai giornali dell’epoca.
Sotto: Dopo l’8 settembre 1943 per la scissione tra “collaboratori e non cooperatori” Pettazzi viene trasferito al campo 25 riservato ai “non cooperatori”. Sul suo cappello di alpino sono cucite le targhette metalliche di appartenenza al campo 25 e una medaglietta coniata dopo la prigionia con la seguente scritta: “L’ONORE HA PER TESTIMONIO LA PROPRIA COSCIENZA E PER DIFENSORE IL CORAGGIO” – SALO’ 1952 – CAMPO 25 – NON COOPERATORI. La sua coscienza, evidentemente non venne mai meno né durante la prigionia, né dopo.
Sotto: Il cappello daAlpino del Sottotenente Giuseppe Pettazzi. Lo indossava in Africa Orientale Italiana per la difesa di Cheren. E’ ancora evidente (particolare in alto a destra) la cucitura fatta con lo spago in seguito ad una pallottola che gli provocò una lieve ferita alla testa. Fino alla sua scomparsa lo indossò sempre con orgoglio specialmente nei raduni del dopoguerra.
Sotto: Il villaggio di Cheren teatro, nel 1941, di una sanguinosa battaglia con intorno tutti i morti dove era attestato il battaglione UORK AMBA. Fu l’ultimo baluardo prima della perdita dell’A.O.I. Giuseppe Pettazzi, dopo i cinque anni di prigionia in India mal volentieri ricordava quei momenti terribili specie subito dopo la liberazione. Nomi inconsueti come Cima Forcuta, Dologorodoc, Dekameré, Adi Ugri, Omo Bottego, Nolisò, Gimma e infine Cheren e Amba Alagi…
Il battaglione Uork Amba (montagna d’oro)
Col grado di sottotenente, Giuseppe Pettazzi, viene assegnato al Battaglione UORK AMBA schierato sull’Omo Bottego con il comando a Nolisò sulla strada per Gimma. Gimma, sarà l’ultimissimo caposaldo Italiano a cadere in mano agli Inglesi addirittura anche dopo l’Amba Alagi. Ma è anche giusto ricordare che quei “poveri soldati Italiani”, già male equipaggiati con armi antiquate della prima guerra mondiale, e senza mezzi, erano dei dimenticati da Dio e dalla Patria, senza appoggio aereo, senza rifornimenti, non solo di armi e munizioni, ma anche di viveri, acqua, medicinali e quant’altro poteva servire in una guerra senza tregua.
Il 26 marzo del 41, il Comando Supremo Italiano è costretto a porre fine alla resistenza nella zona di Cheren. Tre medaglie d’oro, 500 morti e centinaia di feriti attestano il sacrificio del battaglione sulla cima Forcuta e sul Dologorodoc. I resti del “Uork Amba”, un centinaio di uomini e due ufficiali, per sottrarsi alla cattura percorsero 100 Kilometri di zona montana per arrivare ad Asmara. Da qui proseguirono su Massaua dove combattono ..... l’ultima battaglia.
È il primo di Aprile 1941. Su una forza complessiva di 1000 uomini, dopo due mesi di combattimenti ne rimasero incolumi solo 130 mentre oltre 300 furono i caduti.
Giovanna Calissano ricorda... gli amici di Papŕ Citiamo alcuni valorosi Alpini dell’ “Uork Amba” per ricordarne la memoria, come leggiamo nelle note di Giovanna Calissano che è un po’ la nostra guida storica e cronologica: Tenente Colonnello Peluselli, ......... . il Capitano Romeo, .......... il Tenente Luciano Orlando, .......... il Tenente Marcello Bressan, .......... Smaniotto, .......... poi aggiunge.......... le diapositive da noi viste in casa di Romeo a Belgirate sono ora in mano di Bressan, ricorda.
Ci è sembrato giusto ricordare alcuni pezzi di storia di quella eroica e sanguinosa, “ultima battaglia”, per la difesa dell’Africa Orientale Italiana con postazioni strategiche prima perdute, poi riconquistate e poi perdute definitivamente.
Tra il 24 febbraio e il 4 marzo gli alpini dell’Uork Amba tennero sia le Cime Biforcute che il monte Panettone. Il 28 febbraio Cheren, Dekameré e Adi Ugri vennero sconvolte dal terrificante bombardamento di tre successive ondate di aerei, e il 4 marzo le truppe d’assalto inglesi occuparono il monte Tetri di dove, nel corso della successiva notte, vennero ricacciati dai carabinieri e dal battaglione Uork Amba che vi era stato prontamente inviato. E il 15 marzo iniziò la nuova terrificante battaglia che vide il sacrificio e l’eroismo degli alpini dell’Uork Amba come pure dei bersaglieri, dei carabinieri, degli artiglieri, granatieri e cavalleggeri, dei genieri e dei fedelissimi ascari. Sui nostri reparti piovvero, in poche ore, oltre 32 mila granate; il combattimento che seguì durò quindici ore, ininterrottamente. Il successivo giorno, 16 marzo, la lotta continuò furibonda e tutti i nostri reparti furono superiori ad ogni elogio. L’Uork Amba, attestato sul Samanna, fu ancora ammirevole. Il sottotenente Bortolo Castellani, da Belluno, cadde meritandosi la medaglia d’oro al valore militare. Anche Pettazzi è nel mezzo di questa bolgia infernale e partecipa a questa impari lotta! Le condizioni di vita durante queste battaglie erano inumane, specialmente per il tanfo e la puzza emanata dai cadaveri dei soldati caduti e dagli animali putrefatti. Il terreno roccioso e il caldo insopportabile non consentivano di scavare delle fosse per seppellirli.
L’articolo del Secolo XIX con la foto del Labaro della sezione di Rapallo dei reduci di Cheren. Era presente tra gli altri la vedova della medaglia d’oro Bruno Brusco. Un telegramma della duchessa Anna d’Aosta, vedova di Amedeo, l’eroe dell’Amba Alagi ricordava la loro inalterata fedeltà e riconoscenza alla memoria del marito.
Sotto: Il sacrario dei Caduti della divisione Cunense al Colle di Nava con la targa dedicata a Pio Viale ucciso in prigionia dagli Inglesi. Uno dei tanti amici che Giuseppe Pettazzi ha perduto durante la guerra in A.O.I. per la difesa di Cheren.
Una ferita alla mano che si infetta salva la vita a Giuseppe Pettazzi
Chissà, viene da domandarsi, se a questo punto prese in mano... “quella pistola” !!! Giuseppe Pettazzi, intorno al 20 Marzo, pochi giorni prima della perdita di Cheren, riporta una ferita alla mano che, invece di guarire, per le disastrose condizioni igieniche, si trasforma in una dolorosa piaga tropicale. Viene trasferito agli ospedali di Elabereth e assistito dal dott. Vandelli e da Zio Miro, che era il Dott. Casimiro Simonetti,
suo cognato avendo sposato la sorella Franca, già in Asmara e a quel tempo crocerossina. all’ospedale di Asmara. Il 17 marzo era caduto il generale Orlando Lorenzini mentre, col cappello
d’alpino in testa, dirigeva l’azione contro il Dologorodoc; alla sua memoria venne conferita la medaglia d’oro. Gli eroismi furono innumerevoli e sovrumani, ma all’alba del 27 marzo i reparti italiani, con l’Uork Amba in retroguardia, lasciarono Cheren:
Cheren era perduta .... per sempre ... . era l’inizio della fine! Dopo 56 giorni di combattimenti i no- stri soldati tra Italiani ed Ascari Eritrei a Cheren erano 45 mila e ne morirono 12.147;
21.700 riportarono ferite e mutilazioni; non vi fu un solo disertore italiano né eritreo. Gli alpini dell’Uork Amba erano 916. Dei 21 ufficiali, 5 sono morti e 14 gli spedalizzati; tra i 55 sottufficiali i morti furono 18 e i feriti spedalizzati 26; degli 840 uomini di truppa ne morirono 300; ne vennero ricoverati per ferite 420.
In totale le perdite furono di 783 su 916: l’86 per cento! Dopo essersi attestati ad Ad Teclesan, i pochi alpini rimasti validi raggiunsero Zàzega e, il 31 marzo, l’Asmara; il primo di Aprile passarono per Nefasit e Ghinda e infine a Massaua dove combatterono fino all’8 aprile per la disperata difesa di quella città; i sopravvissuti proseguirono per Decameré ed Agordat per concludere sull’Amba Alagi a fianco degli altri magnifici soldati del Duca d’Aosta.
La vita del Battaglione alpino «Uork Amba», era durata soltanto cinque anni ma rimarrà indelebile nella storia d’Italia. il battaglione aveva lasciato sul terreno, tra morti e feriti, 783 uomini su 916; questo gli valse due medaglie d’oro al valor mi- litare. Con la fine del conflitto in Africa il battaglione fu sciolto.
Per l’esercito inglese fu un grande successo. Nei tre mesi di guerra fece prigionieri oltre 230.000 uomini, anche se in alcune zone la resistenza italiana continuò nei mesi seguenti. In Italia, il bollettino di guerra n.348 del 19 maggio diede la notizia della caduta dell’Amba Alagi e della cattura del Duca d’Aosta e del suo seguito dopo “una resistenza oltre ogni limite”.
Ancora caduti, tutti amici di Pettazzi
Nell’ultima decade di Marzo cadono sulla linea di difesa di Cheren, quota Forcuta, i Sottotenenti Brusco, medaglia d’oro, ..... Bortolo Castellani, medaglia d’oro, ...... De Maria, ...... Giuseppe Masocco di Agliano d’Asti, ...... ..Trealdi, tutti amici di Pettazzi ricordati dalla moglie nel suo piccolo diario che continua, raccontandoci altri preziosi momenti di quelle tragedie.
Dei sei Sottotenenti in linea di combattimento Pettazzi è stato l’unico superstite e si salvò perché ricoverato in ospedale. Il 1 Aprile 1941 cade l’Asmara e il Sottotenente Pettazzi viene fatto prigioniero dagli inglesi nella stessa data. Nonostante tutto, come ripetiamo potè rite- nersi “un fortunato sopravvissuto”.
La guerra per lui è finita e forse dovrà ringraziare quella ferita alla mano, addirittura quella piaga tropicale e il successivo ricovero in ospedale, se ha potuto uscire vivo da quell’inferno!
Sotto: Il cimitero di Cheren dove é sepolto e identificato Bruno Brusco anche lui sottotenente degli Alpini come Pettazzi. Nelladifesa di Cheren, Pettazzi fu l’unico a salvarsi dei sei sottotenenti del Battaglione UORK AMBA.
Sotto: I poco veritieri giornali del Regime Fascista, riportavano spesso notizie del tutto infondate sulla reale situazione in Africa Orientale e non solo. Ma in realtà la difesa di Cheren fu un capitolo di straordinario eroismo da parte del Battaglione UORK AMBA. Il battaglione aveva lasciato sul terreno tra morti e feriti 738 uomini su 916. Questo gli valse due medaglie d’oro al valor militare.
Cinque anni di prigionia in India
I primi quattro o cinque mesi da prigioniero degli Inglesi li passa a Kartoum, località Ondurman sul Nilo. Poi viene trasportato in India a Bophal, località bassopiano di Bairahar: campo di stoppie con pioggia, fango, poca acqua. Gli alloggi sono poche tende malconce e strappate piene di buchi. La località di Bophal nel 1984 sarà teatro di una spaventosa tragedia provocata dall’Union Carbide India Ltd filiale indiana dei giganti della chimica americana per una accidentale fuoriuscita di gas altamente tossico. I morti furono tra otto- mila e diecimila secondo il Centro di ricerca medica indiana, oltre venticinquemila, secondo Amnesty International.
L’uccisione di Pio Viale ricordato nel Sacrario di Nava
Quella sera in particolare, nel campo 28, mentre cantavano in gruppo nei pressi dei reticolati, le guardie Inglesi spararono, uccidendo, il Capitano Pio Viale. Nel sacrario dei caduti a Nava, vicino a Pieve di Teco, c’è anche il suo nome, e del Capitano Cesare Rossi. Pettazzi nell’attiguo campo 25 sentì le fucilate e il mattino seguente seppe la notizia. Il cimitero dei campi era a Darham-Salam una località poco lontano.
Fino a tutto il 1943 il sottotenente Pettazzi rimane prigioniero nel campo 28; i campi erano quattro: 25, 26, 27. 28 di 2500 prigionieri ciascuno.
La malaria curata con “pork & soia”
Cinque anni di prigionia in India
I primi quattro o cinque mesi da prigioniero degli Inglesi li passa a Kartoum, località Ondurman sul Nilo. Poi viene trasportato in India a Bophal, località bassopiano di Bairaghar: campo di stoppie con pioggia, fango, poca acqua. Gli alloggi sono poche tende malconce e strappate piene di buchi. La località di Bophal nel 1984 sarà teatro di una spaventosa tragedia provocata dall’Union Carbide India Ltd filiale indiana dei giganti della chimica americana per una accidentale fuoriuscita di gas altamente tossico. I morti furono tra otto- mila e diecimila secondo il Centro di ricerca medica indiana, oltre venticinquemila, secondo Amnesty International.
L’uccisione di Pio Viale ricordato nel Sacrario di Nava
Quella sera in particolare, nel campo 28, mentre cantavano in gruppo nei pressi dei reticolati, le guardie Inglesi spararono, uccidendo, il Capitano Pio Viale. Nel sacrario dei caduti a Nava, vicino a Pieve di Teco, c’è anche il suo nome, e del Capitano Cesare Rossi. Pettazzi nell’attiguo campo 25 sentì le fucilate e il mattino seguente seppe la notizia. Il cimitero dei campi era a Darham-Salam una località poco lontano.
Fino a tutto il 1943 il sottotenente Pettazzi rimane prigioniero nel campo 28; i campi erano quattro: 25, 26, 27. 28 di 2500 prigionieri ciascuno.
La malaria curata con “pork & soia”
Un’altra immagine del Battaglione UORK AMBA al quale l’alpino Pettazzi era molto legato. UORK AMBA in lingua eritrea significa “Montagna d’oro”
L’8 Settembre 43 Pettazzi è a letto con la febbre per la malaria, e conseguente dissenteria bacillare curata con “pork and soia”. Dopo l’otto settembre 1943 per la scissione tra “collaboratori e non cooperatori” Pettazzi viene trasferito al campo 25 riservato ai “non cooperatori”. Sul suo cappello di alpino sono cucite le targhette metalliche di appartenenza al campo 25 e una medaglietta coniata dopo la prigionia con la seguente scritta: “L’ONORE HA PER TESTIMONIO LA PROPRIA COSCIENZA E PER DIFENSORE IL CORAGGIO” - SALO’ 1952 – CAMPO 25 – NON COOPERATORI”. La sua coerenza, evidentemente non venne mai meno né durante la prigionia, né dopo.
La vita è molto dura in India, non ultima l’inedia del prigioniero che vive soltanto nella speranza della fine della guerra e della conseguente liberazione. E’ una debilitazione morale spa- ventosa oltre che fisica per la scarsità di cibo, di acqua, di confort e non meno importante di affetti.
La guerra finisce in Europa il 25 aprile 1945 ma per quei prigionieri di liberazione non se ne parla. Eppure con una radio clandestina, ascoltata di nascosto, i prigionieri lo sanno che la guerra è finita. Ma le proteste sono inutili. Nel 1946, Pettazzi e le altre migliaia di Italiani sono ancora prigionieri anche se le restrizioni vengono un po’ allentate. Evidentemente quei prigionieri sono dimenticati dal governo italiano che stenta a riprendere le fila della normalità anche in patria. Il 25 Aprile 1946, ad un anno esatto della fine della guerra, per un’ultima volta gli viene ancora ostinatamente richiesta la firma se confermava “fedeltà alla monarchia o ai badogliani o alla Repubblica Sociale”.
Tutto il campo 25 restò fedele alla Repubblica Sociale Italiana mentre chi non le confermava fedeltà, le cosidette “maddalene”, passarono nei campi “badogliani”, in una parola, nel campo dei traditori. Gli americani, dopo l’otto Settembre del 43 coniarono addirittura un nuovo verbo: “to badogliate” col significato di “tradire e tergiversare, in una parola essere inaffidabile”. Il riferimento ai comportamenti del Maresciallo Badoglio era più che evidente.
25 Dicembre 1946 – Il prigioniero di guerra n. 87.418 torna a casa
Finalmente, ai primi di Dicembre del 1946 viene comunicato che il rimpatrio sarà effettuato tra pochi giorni. Il 13 Di- cembre 1946, finalmente, trasferimento a Bombay dove avvenne la partenza su una nave trasporto truppa il “Tamaroa”. Navigazione da Bombay a Napoli con vitto di broda e gallette; qualche cipolla elargita dagli indiani, alloggiamenti qualche amaca, brande a castello, per i più il nudo pavimento.
Tutti vengono sbarcati a Napoli il 22 Dicembre 1946. Poi trasferiti a Roma il 23 in pantaloni di tela e cappotto verde- violento con una toppa romboidale nera sulla schiena per indicare la posizione dell’individuo che la portava, cioè il “prigioniero di guerra”. Il “darry”, parola indiana che era il nome di un piccolo stuoino, dove venivano raccolti anche gli effetti personali, più una piccola cassetta di legno con nome, cognome e “P.O.W.” cioè:
Prisoner of war “prigioniero di guerra numero 87.418” - Altezza 1,87 - Peso 50 Kg.
A Roma subisce poi l’interrogatorio per le generalità di appartenenza al reparto e altre notizie sulle circostanze della cattura da parte degli Inglesi e conseguente prigionia. Viaggio da Roma a Rocchetta Tanaro nei disastrati treni di quel tempo. Finalmente, il 25 dicembre 1946 arriva a casa. Era alto un metro e ottantacinque cm. e pesava soltanto 50 Kilogrammi!
Dopo un po’ di giorni di ambientamento e di buona cucina piemontese, sotto lo stretto controllo alimentare del dottor Casimiro Simonetti, di Zio Miro, quel sogno che lo aveva accompagnato per tanti anni finalmente si realizza. Giovanna Calissano, già viveva a Rapallo dove insegnava lettere al Collegio delle suore Orsoline, che era lo stesso istituto che aveva frequentato da bambina.
Il coronamento di un sogno
Sabato 25 Gennaio 1947, Giuseppe Pettazzi “finalmente”, si incontra con Giovanna Calissano proprio a Rapallo, che diventerà la loro città di adozione. ...dopo avermi scritto una lettera ai primi dello stesso mese... annota lei! Il 3 Settembre 1947 Giuseppe Pettazzi e Giovanna Calissano si sposano a Rapallo nella stessa Chiesa delle Suore Orsoline. Il matrimonio viene celebrato dal Cardinale Siri di Genova che era stato professore di Religione e preparatore spirituale di Giovanna durante tutti gli anni dell’Università. Il cardinale fu ben lieto di celebrare il matrimonio, ma come unica condizione aveva richiesto che fosse officiato in forma strettamente privata alle ore sette del mattino. Sempre dal piccolo diario leggiamo .....raggiungimento di un sogno lungamente e segretamente accarezzato...
Un orologio .... da caricare sempre .....
E’ sempre Giovanna Calissano che scrive: Guido Rovaro Brizzi, geometra che lavorò con Papà, prima di morire in ospedale durante la prigionia volle consegnare a Papà il suo orologio pregandolo di portarlo ai suoi genitori. Appena tornato in patria Papà li cercò e andò a consegnare l’orologio: ma essi vollero che lo conservasse lui. E Papà lo portò sempre al polso.... Ed io continuo a caricarlo....fatelo anche voi....rivolgendosi ovviamente ai figli.....
Rapallini di adozione .... Non più “foresti”
Giuseppe Pettazzi e Giovanna Calissano riprendono faticosamente la vita normale e diventano entrambi Rapallini di adozione. A Nava vicino a Pieve di Teco, hanno la loro casa di campagna che sarà la meta estiva, per tanti anni, di felicissime e indimenticabili vacanze con i figli piccoli ai quali cerca di insegnare certi valori e soprattutto l’amore per la montagna perché dentro, è rimasto un .... “Alpino”, Un alpino del Battaglione UORK AMBA.
Rimangono sposati per ben 54 anni. Nel dopoguerra, col suo cappello da Alpino acquistato in Adis Abeba, lacerato da una pallottola il cui strappo è stato malamente rammendato, Giuseppe Pettazzi non manca mai alle adunate annuali del suo corpo. Anzi nel 1965 organizza a Rapallo una riunione dei “Reduci di Cheren” e così continuerà a portare rispetto alla sua Bandiera e al corpo degli Alpini. Con orgoglio sfila per le vie delle città nei raduni che si susseguono in tutta Italia, ogni anno. A Vicenza nel 1991 durante il 64mo raduno il Battaglione UORK AMBA sfila per la città con un suo striscione in ricordo soprattutto dei caduti e di quei valori di Patria che lui non ha mai dimenticato. Pettazzi è là, nel mezzo, il più alto tra tutti, a reggere questo ultimo lembo di storia, di valori, di eroismo.
Sotto: la casa di campagna al Colle di Nava, a circa 1000 metri di altitudine, sarà per molti anni meta di felici e indimenticabili vacanze dei coniugi Pettazzi con i quattro figli piccoli. Il secondogenito Ubaldo ne continua la cura e la manutenzione, molto impegnativa, data anche la notevole estensione del terreno circostante.
I reduci di Cheren sfilano a Vicenza nel Maggio del 1991. Giuseppe Pettazzi é al centro, il quinto da destra che con orgoglio indossa ancora il suo cappello da Alpino.
BATTAGLIONE ALPINI UORK AMBA: Avendo in programma la guerra d'Etiopia, il 31 dicembre del 1935 il Comando Generale dell'esercito costituì la 5a Divisione Alpina Pusteria, formata da due reggimenti alpini, uno di artiglieria e due battaglioni strutturati, oltre a una compagnia mista genio. L'anno dopo, nel corso della battaglia del Tembien, il 7° Battaglione, guidato dal tenente colonnello Ferdinando Casa, ebbe un ruolo di primordine nella conquista del massiccio dell'Uork Amba ("Montagna d’oro") e da allora fu chiamato “Battaglione Alpini Uork Amba”. Alla fine delle ostilità, i componenti del battaglione prolungarono la ferma e furono integrati con altri complementi provenienti dall'ltalia: fu l’unica unità alpina in Africa Orientale. Con la fine del conflitto in Africa il battaglione fu sciolto.
Dal matrimonio sono nati 4 Figli: Cecilia (nata nel 1948), Ubaldo (nel 1950), Simonetta (nel 1954) e Metella (nel 1959). Poi nasceranno anche ben 8 nipoti: Francesco e Matteo, Chiara e Federica, Alessandro, Letizia, Raffaele e Laura. Giuseppe Pettazzi scompare a Rapallo l’8 di Ottobre 2001. La moglie, Giovanna Calissano lo segue l’8 di gennaio 2007. Entrambi sono sepolti a Rocchetta Tanaro; sono tornati là dove si erano in contrati tanto tempo prima, nel 1939, là dove era nato, in pochi attimi, un sentimento che durò tutta una vita. Era bastato uno sguardo! Per tanti anni si erano scritti e moltissime lettere non arrivarono mai a destinazione ma molte recuperate furono sempre conservate e custodite come un prezioso tesoro: sulla busta che le conteneva c’era scritto ...“nostro lungo quotidiano epistolario che sarà con noi e solo per noi per sempre”!... Giovanna Calissano in Pettazzi è stata sepolta con le “sue lettere” raccolte in una “bustina rossa” .... Entrambi ora, riposano in pace .... uniti per sempre... Nella documentazione, il cui contenuto, mal destramente cerchiamo di consegnare a chi gli ha voluto bene e perché no, alla storia, troviamo spesso dei bigliettini scritti dalla signora Giovanna Calissano in Pettazzi .... perchè i miei figli ricordino!
Sotto: La famiglia di Giuseppe Pettazzi e Giovanna Calissano, al completo con i quattro figli, nel giorno della prima comunione di Simonetta. Da sinistra Ubaldo, Simonetta, Giovanna Calissano, il vescovo di Chiavari Francesco Marchesani con davanti Metella, Franca Pettazzi, Giuseppe Pettazzi, Cecilia e un comunicando compagno di Simonetta. Franca Pettazzi, sorella di Giuseppe, 1939 si recò come crocerossina, dove conobbe e sposò il dottore Casimiro Simonetti (zio Miro), medico radiologo.
In punta di piedi, con rispetto, speriamo di avere esaudito il suo desiderio.
Ernani Andreatta con la consulenza di Simonetta Pettazzi Immagini di Famiglia Pettazzi, Ernani Andreatta e Luigi Frugone Bibliografia: Documentazione fornita dalla Famiglia Pettazzi
Sulla vita di Giuseppe Pettazzi sono disponibili anche due DVD del Museo Marinaro “Tommasino-Andreatta” di Chiavari con filmati storici dell’epoca e le voci narranti di: Stefano Schiappacasse, Barbara Bernabò e Nicola De Gregorio.
DAL VOLUME DI ARRIGO PETACCO
“QUELLI CHE DISSERO NO” (Ed. Mondadori)
Per informazioni: andreattaernani@libero.it - tel. 335 392.601
L'8 settembre 1943, quando dopo 1201 giorni di guerra il maresciallo Pietro Badoglio annunciò la firma dell'armistizio con gli Alleati, circa seicentomila soldati italiani si trovavano rinchiusi nei campi di prigionia che inglesi e americani avevano allestito in varie nazioni del mondo, dall'Egitto all'Algeria, dalla Palestina al Kenya, dal Sudafrica all'India, e persino alle Hawaii.
"Ma tu con chi stai, con il duce o con il re?" Fu il dilemma di fronte al quale si trovarono i nostri soldati, colti di sorpresa dall'annuncio della resa senza condizioni accettata dall'Italia e dalla conseguente fuga di Vittorio Emanuele III a Brindisi: dopo avere combattuto per anni contro un nemico preciso e riconosciuto, bisognava scegliere, all'improvviso, se passare o no dall'altra parte della trincea. Di questa massa enorme di giovani una cospicua minoranza scelse di non "tradire", ma gli storici, sia per la scarsità delle fonti ufficiali sia per la "delicatezza" politica dell'argomento, non se ne sono occupati che in maniera superficiale: ancora oggi, gran parte delle notizie utili a una ricostruzione di quegli anni ci giungono da pagine autobiografiche o dai resoconti memorialistici dei protagonisti. Molti dei quali, avendo risposto di no al- l'appello di Badoglio a rientrare in patria, anche per non subire odiose discriminazioni, preferirono il silenzio.
Pochissimi libri restituiscono voce e memoria ad alcuni di loro. Uno di questi uomini che dissero "no" fu Giuseppe Pettazzi che noi abbiamo voluto ricordare raccontandone la storia e le circostanze in cui si trovò coinvolto.
ERNANI ANDREATTA - Simonetta Pettazzi e famiglia
Rapallo, 4 Agosto 2017
webmaster Carlo Gatti
M(S)7000, ORGOGLIO ITALIANO SUI MARI
M-7000 - ORGOGLIO ITALIANO SUI MARI
La M7000 nacque nel lontano 1986 nei cantieri di Monfalcone e fu fortemente voluta dall'allora proprietario della MICOPERI, il Dr. Makaus. Sebbene a conduzione familiare e senza aiuti statali, la Micoperi è stata quella società ad entrare nell'offshore del Mare del Nord con i mezzi più moderni. La M7000 è stata progettata nel 1985, iniziata la costruzione nel 1986 e consegnata nel 1987. Le due gru sono dell'American Hoist, come progetto, però costruite in Italia dalle Officine Reggiane. Il colpo d'ingegno del Dr. Makaus, per battere la concorrenza, è stato questo:
siccome le compagnie petrolifere nell'assegnare i progetti davano la preferenza a quelle società che disponevano sul mercato dei mezzi di sollevamento più potenti (costruzione di moduli ptf più pesanti e quindi minor tempo nello start up della piattaforma), dato che a quel tempo anche gli americani della McDermott stavano costruendo una sscv con due gru da 6000 T, chiamata DB6000, il Dr. Makaus nel firmare il contratto per le gru si fece promettere dall'American Hoist che la notizia da divulgare sarebbe stata che anche le due gru per la Micoperi sarebbero state da 6000 T. Quindi tutto il mondo dell'Offshore sapeva che sul mercato ci sarebbero state due nuove unità da 6000 T.
Quando furono presentati i due progetti all' O.T.C. (Offshore Tecnology Conference) di Houston il Dr. Makaus svelò a tutto il mondo che le sue gru non erano da 6000 bensì da 7000 lasciando tutti di stucco.
Purtroppo, dopo qualche anno dalla sua entrata in servizio, nel 1989 iniziò la crisi dell'offshore e tutte le Soc. Petrolifere ridussero drasticamente i progetti (in particolar modo nel Mare del Nord). La Micoperi, non avendo grosse riserve, dovette dichiarare fallimento e la M7000 fu messa in disarmo a Rotterdam. Fu una fortuna che la Saipem la acquistò (cambiando il nome nell'attuale S7000 e grazie alle sue immense risorse nel corso degli anni la fece diventare quella che è oggi.
La DB6000 fu acquistata dagli olandesi dell'Heerema diventando l'attuale THIALF e venne potenziata portando le due gru a 7100 T. C'è però da fare una precisazione a favore della S7000. Mentre la THIALF ha una capacità di sollevamento di 14200 T con il braccio delle due gru a 31.2 metri, la S7000 ne può sollevare solo 14000 ma con un braccio a 42 metri.
Il THIALF ha sei propulsori retrattili da 5.5 MW per mantenersi in D.P. mentre la S7000 ha:12 eliche (4 azimutali da 4.5 MW + 2 retrattili da 5.5 MW + 4 retrattili da 3.5 MW + 2 bow thruster da 2.5 MW)- Il THIALF ha 12 ancore da 22.5 tons con cavo d'acciao da 2500 metri per un diametro di 80 mm mentre la S7000 ha 12 ancore da 40 tons con 3500 metri di cavo d'acciaio per un diametro di 96 mm. Potenza totale installata sulla S7000: 75 MW a 10 KV
Impianto zavorra composto da 54 casse per un totale di 109.000 tons - 4 pompe zavorra da 6000 mc cad. - 2 impianti ROV (Remote Operated Vehicol) per lavori subacquei fino a 3000 metri di profondità
Per concludere si può dire che, mentre le gru del THIALF sono già state modificate portandole da 6000 a 7100 T, quelle della S7000 hanno ancora margine per essere potenziate portandole a 8000/8100.
Pino SORIO
ALBUM FOTOGRAFICO
Pino SORIO
18 Febbraio 2015
Webmaster Carlo GATTI
LE PRIME NAVI DELLA STORIA FURONO BATTEZZATE SUL NILO
LE PRIME NAVI DELL STORIA FURONO BATTEZZATE SUL NILO
Il Nilo veniva considerato come una via tra la vita, la morte e l'oltretomba. L'Est era visto come un luogo di nascita e crescita, l'ovest come il luogo della morte, così come il dio Ra, il dio del sole, che nasceva, moriva, e risorgeva ogni volta che attraversava il cielo. Tutte le tombe vennero situate pertanto ad ovest del Nilo, da cui partire per l’oltretomba, ossia la meta finale per tutti.
Lo storico greco Erodoto scrisse che l’Egitto fu il dono del Nilo, e in un certo senso può essere vero. Senza le acque del fiume Nilo per l'irrigazione, la civiltà egiziana sarebbe stata probabilmente di breve durata. Il fiume fornì il limo e gli elementi per rendere vigorosa una civiltà, e ha contribuito molto alla sua durata che si snodò per 3.000 anni.
In origine l’Egitto era chiamato dai suoi abitanti: “To-Mera” (la terra del triangolo “Mr”). Questo simbolo geometrico era ritenuto sacro, perchè era, ed è ancora l’emblema delle nostre scienze matematiche e fra le sue applicazioni c’é la mappatura del cosmo e la sua proiezione sulla Terra: a certi astri corrispondono, ad esempio, le piramidi costruite appunto in Egitto.
Dal triangolo “mr” si possono ricavare i valori trigonometrici di tutti gli angoli da 1 a 360 gradi, perchè 36° sono 2/5 di un angolo retto e 1/10 di un’intera circonferenza. Oltre che essere un utile strumento di misurazione e rilevazione, esprimeva anche la sezione aurea, che è un rapporto fra numeri o dimensioni diversi, ed è espressa matematicamente dalla famosa serie di Fibonacci dove partendo da uno e sommando i numeri successivi si ottiene 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89 eccetera e dove il rapporto fra due di questi consecutivi numeri dà sempre il risultato di 1,618. E’ per questo che si usa il termine “Intelligenza Divina”, perchè sembra che la natura sia stata creata da un Grande Architetto e Matematico.
“Visto dall’alto l’Egitto, entro i noti confini, si presentava quindi come un rettangolo molto allungato, simile ad una colonna, entro il quale, col Nilo e l’estuario, un meraviglioso fiore cresceva a rappresentare l’Armonia e la bellezza dell’Universo. Fu così che, ad immortalare questi concetti e queste realtà per l’eternità originò l’idea della “COLONNA”. Le colonne ed i colonnati, con i loro splendidi capitelli, la parte ridondante fino al confine estremo di 31° 30′ Nord, da quei remoti tempi dei creatori della civiltà, hanno ornato ed ornano i monumenti di tutto il mondo, a testimoniare i sentimenti di omaggio e ammirazione per la perfezione del Cosmo e del suo Spirito Divino”.
Questa premessa di carattere scientifico ci fa capire in parte, quanto ancora oggi – specialmente nel settore dell’arte navale – il mondo intero abbia un debito storico verso la civiltà antica egizia.
Gli egizi furono, infatti, i primi marinai della storia ed inventarono le navi per il trasporto fluviale. Dopo circa 2 millenni i romani inventarono le galere, navi robuste che montavano uno sperone per offendere meglio le navi nemiche. Questo tipo di navi continuò ad essere usato fino alla prima metà del '700.
NAVI EGIZIE ANTICHE
Seguono alcuni profili di navi egizie che mostrano lo sviluppo del disegno e della progettazione navale attraverso i secoli. (sito di riferimento: mitidelmare.it )
1) - Nave egizia del Regno Antico - V Dinastia – 2550 a.C.
2) - Nave egizia del Regno Nuovo XVIII Dinastia – 1500 a.C.
3)- Nave egizia da cerimonia Anno 1800 a.C.
4) -Nave egizia in legno - Anno 1700 a.C.
Piramide di Cheope
LA BARCA SOLARE DI CHEOPE
La barca solare di Cheope vista di prora
La barca solare di Cheope, una delle imbarcazioni più antiche del mondo, fu scoperta nel 1954 dagli archeologi egiziani Kamal El-Mallakh e Zaki Nour nella piana di Giza, in una fossa sul lato sud della Grande piramide.
La Barca Solare di Cheope vista di poppa. Si notano i due remi-timone
Barca Solare di Cheope, primo piano dei cinque remi della sezione prodiera, lato sinistro.
Barca Solare di Cheope. Sezione centrale e Cassero.
Barca Solare di Cheope. Il Cassero centrale visto da poppavia.
Barca Solare di Cheope. Parte della chiglia vista dal basso.
Serviva a condurre il faraone nell'oltretomba. Racchiusa in una camera ermeticamente sigillata, la barca era scomposta in 1224 pezzi, il cui legno si è conservato intatto per più di 4600 anni.
Gli elementi della barca furono trasportati in un vicino magazzino, dove venne intrapresa una grandiosa opera di restauro e di paziente “rimontaggio” della nave che durò oltre vent'anni. Il risultato del lavoro fu una barca lunga oltre 43 metri, con cinque file di remi per lato, più due a poppa, con funzione di timone. Dal 1982 il grande e prezioso reperto è esposto in un museo progettato e creato appositamente dall'architetto italiano Franco Minissi che lo sistemò a fianco della Grande piramide di Cheope.
Per chi si accinge a visitare Giza, conosciuta al mondo perchè ospita le tre famose piramidi della IV dinastia, ecco come si presenta esternamente il Museo della Barca Solare di Cheope, racchiusa in una stravagante capsula spaziale, costruito nel 1982 dall’architetto italiano Franco Minissi. Il museo è stato collocato nello stesso sito in cui, nel 1954, venne alla luce un’imbarcazione tra le più antiche del mondo per opera di un’équipe di archeologi egiziani. L’imbarcazione, realizzata in cedro del Libano, misura 42 metri di lunghezza ed è dotata di cinque remi per lato. La ricostruzione ha permesso l’unione di ben 1200 pezzi in quattordici anni di lavoro. Il legno si è conservato intatto per oltre 4600 anni.
L’utilizzo pare sia stato quello di trasportare il corpo del faraone Cheope dalla sponda orientale a quella occidentale del Nilo, per meglio dire dal mondo dei vivi a quello dei morti. Alcuni segni sul legno lasciano intendere un uso in acqua prima del seppellimento. Tuttavia gli egittologi ancora non sono concordi sull’uso e soprattutto sul significato simbolico dello smontaggio e della tumulazione.
Barca Solare di Cheope. Una delle cinque Fosse rinvenute.
In totale, cinque fosse di "barca solare" sono state scoperte nei pressi della Grande Piramide di Cheope, e altre cinque vicino a quella di Chefren, ma soltanto la prima di esse fu ricostruita con tutti gli attrezzi nautici, remi, cime e cabina ed è esposta, come abbiamo già visto, nel museo che si trova a sud di Cheope (nella foto).
Interrogativi senza risposta
- Quale era la reale funzione di queste imbarcazioni?
Gli studiosi se lo chiedono dal giorno della loro scoperta, purtroppo inutilmente.
Nei rilievi dell'antico Egitto sono spesso raffigurate barche di quel tipo. In unatomba di Deir el Bersha è stato trovato un modello di barca che reca la riproduzione di una mummia in viaggio verso la sepoltura. Gli egittologi propendono nel credere che anche Khufu sia stato trasportato verso la tomba su un'imbarcazione funeraria simile (in effetti sembrerebbe che la barca sia stata usata in navigazione).
- Per quale motivo sarebbe stata sepolta a così poca distanza da un'altra barca dello stesso tipo rinvenuta nel 1984?
- Perché tagliarla in 1224 pezzi invece di seppellirla intera?
Nessuna risposta certa, se si considera che le “barche solari” sono presenti fin dalle prime Dinastie e si ritrovano anche nella IV; mancano, invece, completamente nella III (Huni), e nel primo sovrano della IV dinastia (Snefru).
Allo stato attuale delle conoscenze, legate alla casualità dei ritrovamenti archeologici, l'egittologia non è in grado di dare risposte certe.
Carlo GATTI
Rapallo, 9 Gennaio 2015
Nostra Signora di BONARIA
NOSTRA SIGNORA DI BONARIA
Protettrice dei Naviganti e degli Emigranti, diede il nome a
Buenos Aires
La capitale dell’Argentina Buenos Aires fu fondata definitivamente nel 1580 con il nome di Ciudad de la Santísima Trinidad y Puerto de Nuestra Señora de los Buenos Aires. La città fu battezzata con questo nome in onore della Madonna di Bonaria venerata a Cagliari in Sardegna. Nella capitale argentina si trova una basilica, eretta nel 1911 dai frati Mercedari, dedicata a N. S. de los Buenos Aires, la cui festa, come nel capoluogo sardo, si celebra il 24 aprile.
Il nostro mai dimenticato Lucio Mascardi era un esperto di “emigrazione ligure”, perchè lui stesso era emigrato da bambino con la sua famiglia in Sud America. Lucio amava l’Argentina, il Plata, il tango, il calcio genovese in Argentina e spesso raccontava della nostalgica devozione degli emigranti italiani alla N.S. di Bonaria.
“La fine del secolo vide l'affermarsi della vocazione portuale di Buenos Aires col miglioramento delle infrastrutture portuali e ferroviarie. Fu proprio in quel periodo che si formò il quartiere della Boca, abitato in massima parte da marinai genovesi immigrati. Ancora oggi gli abitanti della Boca si chiamano xeneizes, (genovesi in dialetto genovese) e la scritta xeneizes appare sulle magliette della gloriosa squadra calcistica del Boca Juniors. Il XX Secolo vide poi il consolidarsi dell'immigrazione europea che, con la seconda e la terza generazione, faceva ormai parte della classe dirigente. Buenos Aires crebbe con le caratteristiche di una grande metropoli ed il porto fu un punto d’arrivo e partenza per transatlantici carichi di persone e merci. Poi tutto cambiò con la seconda immigrazione, verificatasi nella seconda metà del secolo, quando comparvero sulla scena argentina persone provenienti da altri paesi del Sud America e dell'Asia. L'accoglienza sociale di queste nuove minoranze etniche fu però diversa e le comunità in questione faticarono ad inserirsi nel tessuto sociale argentino.
PATRONA MASSIMA DELLA SARDEGNA
Il Santuario di N.S. di Bonaria - Cagliari
La leggenda – narrava Lucio – risaliva al 25 marzo del 1370, quando una nave proveniente Spagna verso l'Italia, s’imbattè in un’improvvisa e violenta tempesta. Nell'estremo tentativo di salvare l'equipaggio, il capitano della nave diede ordine di gettare in mare tutto il carico. Questa fu la sorte anche di una pesante e grande cassa, di cui s’ignorava il contenuto, che fu gettata per ultima. Appena questa toccò l’acqua, la tempesta si placò. Cercarono invano di recuperarla, ma essa cominciò a navigare autonomamente e sulla sua misteriosa scia rimorchiò la nave stessa verso la costa, senza che nessuno riuscisse a governarla. Approdò ai piedi del colle di Bonaria, dove frattanto si era radunata una piccola folla di curiosi che aveva assistito da lontano all'odissea della nave in mare. Ancora una volta, vanamente, tentarono di trascinare a riva per aprire quella cassa misteriosa, sino a quando, chiamati da un ragazzino, giunsero sulla spiaggia alcuni padri Mercedari del vicino convento che non ebbero alcuna difficoltà a portarla in secco e solo allora notarono che su di essa era inciso lo stemma del loro ordine. La trasportarono sino al convento sul colle e l'aprirono altrettanto facilmente. Dentro vi era la statua della Madonna con il bambino che mostrarono ai presenti, che presto diventarono folla. Fu il primo atto di venerazione verso Nostra Signora di Bonaria”.
La chiesa del convento ospitò il simulacro, divenendo da allora il Santuario della Madonna di Bonaria. Solo nel XVIII secolo iniziarono i lavori di costruzione della grande basilica che oggi affianca il santuario.
La navicella d’avorio tanto cara ai marinai.
Un tempo, gli uomini di mare si recavano al Santuario per conoscere la direzione del vento che spirava al largo dell’isola. La preziosa informazione nautica era fornita da una misteriosa navicella d’avorio appesa ad una cordicella in un angolo del santuario, proprio di fronte alla statua della Madonna. Questo misterioso ex voto “senza tempo” sembrava indicasse, con la posizione della prora, il pericolo di burrasche. Ai capitani in partenza per il lungo corso, la navicella consigliava sempre la rotta più sicura.
Ma oggi, nel nuovo millennio, la navicella indica sempre la direzione del vento? Forse! Di sicuro si sa solo che racconta ancora la storia di una devozione sincera. Quella del popolo del mare. Oggi le navi compiono soste brevi, il tempo è tiranno e i marinai rinnovano quel rito di fede soltanto nel cuore quando mettono la prua verso l’orizzonte.
La statua della Madonna di Bonaria fu incoronata il 24 aprile 1870, per volere di papa Pio IX.
Il 13 settembre 1907, per volontà di papa Pio X, Nostra Signora di Bonaria fu proclamata:
Il 7 settembre 2008 anche Benedetto XVI, in visita pastorale a Cagliari, ha presieduto una concelebrazione eucaristica sul sagrato della basilica di Bonaria. Alla fine della messa, prima di recitare l'Angelus, il Santo Padre ha rinnovato l'affidamento della Sardegna alla Madonna, ha onorato il simulacro della Vergine di Bonaria con il dono di una Rosa d'Oro e ha sostituito l'antica navicella d'argento, che ornava il candeliere che la statua reca nella mano destra, con una nuova in filigrana d'oro.
Carlo GATTI
Rapallo, 10.02.12