1494 - LA GUERRA DI RAPALLO

Settembre 1494 – LA GUERRA DI RAPALLO

L’ANTEFATTO

Papa Innocenzo VIII, in conflitto con Ferdinando I di Napoli a causa del mancato pagamento di quest'ultimo delle “decime ecclesiastiche”, aveva scomunicato il Re di Napoli con una Bolla dell’11 settembre 1489, offrendo il regno al sovrano francese Carlo VIII; nonostante nel 1492 Innocenzo, in punto di morte, avesse assolto Ferdinando, il regno rimase un “pomo della discordia” lanciato nelle politiche italiane. A questo si aggiunse la morte, quello stesso anno, di Lorenzo de’ Medici, Signore di Firenze e perno della stabilità politica tra gli stati regionali. Pacificati i rapporti con le potenze europee, Carlo VIII, che vantava attraverso la nonna paterna, Maria d’Angiò, un lontano diritto ereditario alla corona del Regno di Napoli, indirizzò le risorse della Francia verso la conquista di quel reame, incoraggiato da Ludovico Sforza, detto Il Moro (che ancora non era duca di Milano, ma ne era solo reggente).

 

QUADRO STORICO

Con la Prima guerra italiana (1494-1495) di Carlo VIII ebbe inizio la fase di apertura delle Guerre d’Italia del XVI secolo. Il conflitto vide da una parte Carlo VIII (Re di Francia dal 1483 al 1498)

ALLEATI:

Ducato di Milano

Repubblica di Genova

AVVERSARI:

Sacro Romano Impero

Spagna 

- Alleanza dei maggiori stati italiani guidata da Papa Alessandro I, Repubblica di Venezia, lo Stato Pontificio, il Regno di Napoli ed il Ducato di Milano.

La riconquista del Sud della Penisola, già governato dalla Casata degli Angioini durante il secolo XIII, non comprendeva, nei progetti, anche la Sicilia. Quest'ultimo fatto depone a favore della tesi secondo la quale Carlo VIII non intendeva accrescere semplicemente i domini della sua Casata, ambizione comune a molte case regnanti di area mitteleuropea o anglosassone, ma farne piuttosto la base di partenza per quelle Crociate la cui eco era rinvigorita dalla cacciata degli arabi dall'ultimo possedimento spagnolo, il Regno di Granada (1492), avvenuta proprio in quegli anni. Il progetto politico della Res Publica Christiana Pro Recuperanda Terra Sancta aveva ancora presa nelle classi dirigenti europee nonostante la fine rovinosa cui andarono incontro sia la maggior parte di quel progetto stesso, sia coloro che intesero realizzarlo ben prima, intorno alla metà del Duecento.

LA BATTAGLIA DI RAPALLO

PIANA DI VALLE CRISTI

5 settembre 1494

Un evento poco conosciuto

Nell'ambito della Guerra d’Italia del 1494-1498, Carlo VIII discese in Italia il 3 settembre 1494 con un esercito di circa 30.000 effettivi dei quali 5.000 erano mercenari svizzeri, dotato di un'artiglieria moderna.

La battaglia di Rapallo fu combattuta:

- fra mercenari svizzeri, coi loro alleati genovesi e milanesi guidati da Luigi d’Orleans

- contro forze napoletane-aragonesi guidate da Giulio Orsini

In quel giorno la città di Rapallo venne invasa dalla flotta navale aragonese che sbarcò con 4.000 soldati comandati da Giulio Orsini, Obietto Fieschi e Fregosino Campofregoso per sollevare la popolazione rapallese contro Genova che era dedita alla signoria sforzesca. Tre giorni dopo (8 settembre) in città giunsero inoltre circa 2.500 soldati svizzeri che diedero vita ad uno scontro armato contro gli aragonesi presso il ponte sulle saline: tra le violenze generali e i saccheggi, si assistette all'uccisione di cinquanta malati ricoverati all'ospedale di Sant'Antonio (attuale sede del municipio) da parte degli elvetici.

MILANO, FRANCIA,NAPOLI -       FUORIUSCITI GENOVA

Gaspare da San Severino

Carlo di Brillac

 

Obietto Fieschi

 

Antonio Maria da San Severino

Guido di Louviers

Giulio Orsini  P

Galeazzo da San Severino                         Bravo

Fregosino Fregoso  FP

Giovanni Adorno                                Onofrio Calabrese

Orlandino Fregoso  P

Luigi d’Orléans                                  Tommaso da Fermo

Orsino Orsini P

Gianluigi Fieschi                                Avanzino Cassiana

Francesco Fregoso  P

Riccardo Bevilacqua

Paolo Battista Fregoso  P

Antonio di Baissay

Paolo Corso P

Angelo da Potenza 

Francesco Nardo

Piennes

Giovanni di Lagrange

Francesi/sforzeschi:

1000 fanti svizzeri, fanti italiani;

Aragonesi: 40 uomini d’arme, balestrieri a cavallo, 3000 fanti. Attacco ad una testa di ponte aragonese portato da terra e dal mare; fallimento del contrattacco aragonese.

- I napoletani perdono circa 200 uomini, mentre altri 250 sono feriti. Gli svizzeri uccidono 60 fanti rifugiatisi nell’ospedale di San Lazzaro. Per il Floro nel combattimento restano uccisi d’ambo le parti 500 uomini.

-

Porta delle Saline. All'estremità occidentale del Lungomare Vittorio Veneto si trova la "Porta delle Saline", che delimita e divide dal mare la zona pedonale del centro storico. E' l'unica sopravvissuta delle cinque porte dell'antico "borgo murato", e deve il suo nome alla vicinanza con le Saline, di cui la famiglia genovese dei Doria aveva il monopolio, che furono in attività per molti secoli nella zona pianeggiante presso la spiaggia al centro del golfo. Nella parte che si affaccia verso il centro storico, è abbellita da un altare barocco che accoglie una riproduzione della celebre icona della Madonna di Montallegro. Ha evitato la demolizione grazie a successivi restauri, al contrario delle altre porte del vecchio borgo che, nel tempo, sono state demolite.

Flotta Navale d’Aragona

La flotta franco-genovese aveva stabilito una base a Rapallo, in Liguria, per assicurare gli approvvigionamenti all'esercito di Carlo VIII e soprattutto il trasporto delle pesantissime artiglierie. In quell'occasione i mercenari svizzeri al soldo del re di Francia avevano dato prova di una brutalità inusitata quanto inutile, saccheggiando la cittadina subito dopo uno scontro con le forze aragonesi. I francesi avevano avuto quindi modo di suscitare le ire dei rapallesi e con loro dei genovesi stessi, che si sarebbero vendicati l'anno seguente.

Resisi conto, nel giro di pochi mesi, di aver fatto un pessimo affare, i principi italiani decisero di coalizzarsi, il Moro incluso, ma disponevano, tra tutti, di un esercito inadeguato quanto a dimensioni e a organizzazione. Per fortuna le Marine italiane, costantemente impegnate in duri pattugliamenti nel corso della propria lotta plurisecolare contro i pirati barbareschi, erano di ben altra pasta.

Infatti, il 2 maggio 1495, la flotta francese (sette galere, due fuste e due galeoni), comandata dal Sire de Molans si scontrò con la squadra genovese di Francesco Spinola e di Fabrizio Giustiniani, (otto galere, due saettie e una caracca).

Lo scontro avvenne all'alba, e fu una sconfitta totale per i francesi: tutte le navi vennero catturate, e, contemporaneamente, a terra, un contingente di truppe sbarcate dalla flotta genovese al comando di Gian Ludovico Fieschi e Giovanni Adorno, aiutati dai Rapallini, sbaragliarono i transalpini rimasti a terra prendendo il controllo dell'abitato. Furono così liberate trecento donne, rapite in Campania a titolo di ostaggi, mettendo altresì le mani su un fantastico bottino utilizzato, in seguito, per costruire la sontuosa chiesa dell’Annunziata, a Genova.

Il successo ottenuto venne incrementato pochi giorni dopo quando un convoglio di dodici velieri venne catturato nelle acque di Sestri Levante.

Nel bilancio della battaglia si devono considerare poi le ingenti ricchezze trasportate dalle navi dei transalpini, che comprendevano, tra l'altro, diverse donne e monache partenopee, e le porte bronzee di Castel Nuovo di Napoli. Porte che poco dopo vennero restituite, e che recano ancora, sul retro, i segni della battaglia di RAPALLO. Il resto del bottino fu distribuito tra i marinai, i soldati e i comandanti, e in parte venne usato per erigere la chiesa di Santa Maria Annunziata a Genova.

Dopo questa sconfitta la flotta francese cessò virtualmente di esistere per molti e molti anni. Ciò inoltre rese molto più precaria la situazione di Carlo VIII, che si vide costretto a ritirarsi dal momento che non poteva più contare né su vie di terra, (ora che non aveva più appoggi negli stati italiani), né su rotte di mare per i contatti con la Francia, l'approvvigionamento e la spedizione del bottino fatto in Italia, senza contare l'assenza di navi per trasportare la sua tanto poderosa quanto pesante e lenta artiglieria.

Per pura curiosità segnaliamo che in quei giorni di grande tensione nella sua Liguria, Cristoforo Colombo impegnato nel suo Secondo Viaggio nel NUOVO MONDO, si convinse che Cuba fosse un continente. Il 12 giugno 1494 si trovò di fronte all'isola di San Giovanni evangelista, a 100 miglia dalla fine dell'isola. Colombo fece firmare ad ognuno dei componenti delle caravelle un giuramento con il quale si affermava che si era giunti nelle Indie, nel continente. Nei giorni della Battaglia di Rapallo il grande Ammiraglio si ammalò e tornò a Isabela il 29 settembre 1494.

Carlo GATTI

Rapallo 20 luglio 2017

 

 

 

 


NAVIGARE TRA I GHIACCI -3 -

ROMPIGHIACCIO ATOMICO AL POLO NORD

Con decreto del Presidente russo Dmitry Medvedev  la Flotta di rompighiaccio atomico russa e le banchine di servizio sono state escluse dalla lista dei beni proibiti all’esportazione.  Il documento consente di riconvertire in società per azioni l’impresa unitaria “RosAtomFlot”, proprietaria ed operatrice  della flotta atomica. Con questo il pacchetto di controllo resterà nelle mani dello Stato.

 

La Russia è l’unico paese al mondo a possedere la flotta di rompighiaccio atomici. In particolare, hanno a disposizione sei rompighiaccio, una nave porta-chiatte a propulsione nucleare, cinque basi tecniche galleggianti di servizio. Negli ultimi tempi l’interesse per le imbarcazioni del genere è notevolmente cresciuto in relazione al prossimo sfruttamento degli enormi giacimenti di petrolio e di gas sulla piattaforma continentale artica. Sta crescendo l’interesse delle Società straniere anche per la Grande Via Marittima del Nord che consente di ridurre notevolmente il tempo per il trasporto  dei carichi  dall’Europa verso i paesi della regione Asia-Pacifico e viceversa   rispetto al loro trasporto attraverso il Canale di Suez.

 

 

I rompighiaccio oggi operativi appartengono a due classi distinte: Arktika e Taymir. I rompighiaccio atomici appartenenti alla Arktika sono utilizzati per mantenere aperti, in ogni stagione, i collegamenti con le principali città della Russia Artica. In particolare, grazie a queste navi, è possibile navigare dai grandi porti della Russia Europea (ad esempio, Murmansk e Arcangelo) fino alloStretto di Bering, passando per altri importanti porti della Siberia Settentrionale (ad esempio, Dikson e Pevek).

 

I rompighiaccio atomici della Classe Taymir, invece, sono stati costruiti per operare in acque basse, e sono solitamente usati sul fiume Enisej nella tratta che va da Dikson ad Igarka. Queste navi svolgono un ruolo molto importante, perché permettono, in tutte le stagioni, il passaggio delle navi cargo cariche di merci varie per l'approvvigionamento delle città sul fiume. Inoltre, consentono il passaggio anche delle imbarcazioni contenenti i metalli provenienti da Norilsk (che vengono imbarcati a Dudinka, a cui Norilsk, che non ha un porto, è collegata tramite ferrovia). Queste navi sono attrezzate anche per compiti antincendio.

 

Irompighiaccio atomici russi sono stati inoltre utilizzati anche per parecchie spedizioni scientifiche nell'Artico. Il 17 agosto1977 il rompighiaccio NS Arktika fu la prima unità di superficie al mondo a raggiungere ilPolo Nord . Dal 1989 alcuni rompighiaccio sono utilizzate anche per il turismo artico.

 

Complessivamente, in Russia sono state costruite dieci navi a propulsione nucleare con compiti non militari. Nove di queste sono rompighiaccio, la decima è una nave cargo con scafo rompighiaccio: la Sevmorput.

Nome

Nome in codice NATO

Tipo

Entrato

in servizio

NS Lenin

Lenin

rompighiaccio atomico

1959

NS Arktika

Arktika

rompighiaccio atomico

1975

NS Sibr

Arktika

rompighiaccio atomico

1977

NS Rossiya

Arktika

rompighiaccio atomico

1985

NS Sevmorput

Sevmorput

cargo atomico

1988

NS Taymir

Taymir

rompighiaccio fluviale

1989

NS Vaigach

Taymir

rompighiaccio fluviale

1990

NS Sovetskiy Soyuz

Arktika

rompighiaccio atomico

1990

NS Yamal

Arktika

rompighiaccio atomico

1993

NS 50 Let Pobedy

Arktika

rompighiaccio atomico

2007

IL TURISMO ATOMICO

Dal 1989 i rompighiaccio atomici sono utilizzati per crociere turistiche al Polo Nord. La crociera dura tre settimane e costa circa 25.000 $. I più attrezzati a scopo turistico sono gli ultimi due esemplari varati, la NS Yamal e la NS 50 Let Pobedy.

A cura del Webmaster Carlo GATTI

ALBUM FOTOGRAFICO

 

 

CURRICULUM VITAE PINO SORIO

 

  1. Nato a Milano il 01.1939

  2. Durante gli anni bellici abitato a Bolzano, Venezia, Voghera, Varese e Milano

  3. Terminata la guerra trasferito prima a Bari e poi a Santa Margherita Ligure nel 1948 dove ho frequentato le scuole Elementari e Medie

  4. Diplomato Capitano di Macchina luglio 1959- Nautico C.Colombo-Camogli

  5. Nota: nei periodi estivi lavorato su motoscafi Riva , Star e yacht a vela e come aiutante fotografo per l’Agenzia Publifoto di Milano

  6. Nell’estate del 1956 imbarcato come mozzo sullo yacht a vela YALI di proprietà della famiglia Leopoldo Pirelli

  7. Ai primi di settembre 1959 iniziata la mia carriera sulle navi petroliere, chimiche e trasporto metano

  8. Cantieri N.D.S.M. di Amsterdam : seguita la costruzione della petroliera CEUTA della Soc.Gulf di Philadelfia con il grado di Allievo Ufficiale di Macchina (1959-1961)

  9. Anno 1961 imbarcato da allievo ufficiale di Macchina sulla nave s.s. Marine Chemist della Soc. Marine Transport Lines e sbarcato nel 1963 con il grado di Primo Ufficiale di Macchina

  • Imbarcato sulla petroliera Liburnia della Soc.Cameli di Genova da primo Ufficiale di Macchina da fine 1963 a tutto il 1965

  • Nel 1966 fino alla metà del 1968 effettuati diversi imbarchi su petroliere della Soc.Esso (Libia, Milfordhaven, Trieste e Nicaragua)

  1. Dalla metà del 1968 a Dicembre 1969 lavorato all’allestimento delle metaniere Esso Brega, Portovenere, Liguria alla Fincantieri di Genova

  • Da gennaio 1970 a metà luglio 1974 lavorato come Field Engineer ai montaggi di tutti i macchinari prodotti dalla Worthington International : compressori alternativi e a turbina, turbine a vapore e a gas, pompe alternative e rotative, generatori di gas inerte, pompe deep well in impianti quali: piattaforme petrolifere a Dubai, raffinerie petrolchimiche, centrali elettriche, stabilimenti farmaceutici, automobilistici (Fiat, Lancia, Alfa Romeo), Pneumatici Pirelli, GoodYear e Firestone, Cartiere, Italsider, Fonderie Falk Dongo, Pietra Brescia e Delta Serravalle Scrivia, Piattaforme a Dubai, Tturbopompe del carico su petroliere, Centrale nucleare di Trino vercellese, Microfusione di Pieve Emanuele,

  • Alla fine di luglio 1974 lasciata la Worthington e ripreso a navigare sulle petroliere della Soc.Amoco di Chicago con il grado di Primo Ufficiale di Macchina e poi Direttore di Macchina

  • A dicembre 1975 entrato in Micoperi con il grado di D.M. sulle navi M26 e Pearl Marine seguendo nei cantieri navali di Fiume e Avondale New Orleans la conversione della petroliera francese Germinal in quella che sarebbe poi diventata la seconda nave gru della Micoperi, la M27.

  1. Per oltre 20 anni lavorato alla costruzione di piattaforme petrolifere in tutto il mondo di cui gli ultimi 10 anni, sempre da Direttore di Macchina sulla sscv M7000.

  • Nel 2000, lasciata la Saipem e iniziata una nuova carriera da Ispettore seguendo la costruzione di navi passeggeri nei cantieri Daewoo a Okpo nella Korea del Sud, in centrali elettriche in Irlanda del Nord (Ballylumford), rimorchiatori nei cantieri UNV di Valencia, rimorchiatori rompighiaccio nei cantieri STX di Braila in Romania, ispettore RINA nei cantieri di Chernomolsky a Nikolayev in Ukraina e nel Mar Caspio in Kazakhistan

  • Nell’anno 2011 (11 Ottobre 2011) causa incidente (tre mesi in rianimazione più altri 11 mesi di ricovero in ospedali diversi, chiuse tutte le mie attività lavorative !!!!!!

 

 

ESPERIENZE  E  SPECIALIZZAZIONI  PINO SORIO

 

  • Diplomato Capitano di macchina (giugno 1959-Istituto Nautico Cristoforo Colombo-Camogli)

  • Da settembre 1959 a gennaio 1970 imbarchi su petroliere e metaniere delle Soc. Gulf, Marine Transport Lines, Cameli, Esso, Amoco

  • Costruzione, allestimento petroliere, navi chimiche, metaniere, passeggeri, rimorchiatori, rompighiaccio, trasformazione e costruzione mezzi navali per il lavoro offshore (piattaforme petrolifere, oleodotti e gasdotti) nei cantieri navali: Fincantieri Genova-Palermo-Riva Trigoso-Trieste Monfalcone, NDSM Amsterdam, Avondale New Orleans, BeethlemSteel Baltimora, Daewoo Okpo Korea, STX Braila Romania, Damen Rotterdam, Chernomolsky Mikolayv Ukraina, Viktor Lenac Fiume, Chantiers Naval de la Ciotat Marseille, U.N.V. Valencia, Ethiad Abu Dhabi, Sembawang Singapore e Rio de Janeiro.

  • Da gennaio 1970 a fine luglio 1974 lavorato per la società Worthington di Buffalo (USA) ai montaggi e riparazioni dei

seguenti macchinari: compressori aria, ossigeno e gas,   pompe centrifughe e a pistoni, turbine a vapore e a gas in impianti petroliferi, impianti a gas inerte, raffinerie chimiche, stabilimenti automobilistici (Fiat-Lancia-Alfa Romeo), pneumatici (Pirelli – GoodYear – Firestone), farmaceutici LePetit TorreAnnunziata,  Siderurgici Italsider Genova e Taranto, Fonderie Pietra Brescia, Falk di Dongo, Delta Serravalle, Microfusione Pieve Emanuele, Alimentari (Saiwa,Cirio,DelMonte), Cartiere, Centrali Elettriche di Trino Vercellese (nucleare), Ballylumford Irlanda del Nord, SISAS (Soc.Italiana.Serie.Acetiche.Sintetiche-Pioltello Limito)

  • Titoli: Capitano Superiore di Macchina

  • Frequentato i seguenti corsi di specializzazione:

  • APT Pavia: pronto soccorso avanzato, capolancia su scialuppe di salvataggio, antincendio di base e avanzato, sopravvivenza e salvataggio, capisquadra antincendio, metodi di uscita emergenza elicotteri in mare, soccorso in mare con motoscafo veloce, operatore D.P. , Amos per Windows  (manutenzione programmata), WHMIS (Workplace  Hazardous Materials Information System), Qualified  Vibration Analyst (IRD Mechanalysis inc.)

  • Ispettore per i seguenti enti di classificazione: Lloyd’s Register, Rina, Rina Industry, A.B.S., D.N.V., BureauVeritas

  • Da gennaio 1976 a fine dicembre 1999 lavorato alla costruzione di piattaforme petrolifere con le Soc.Micoperi e Saipem in qualità di Direttore di Macchina sulle navi Micoperi 26, e Pearl Marine (trasformazione da petroliere a navi gru) e M7000 (costruzione).

 

 

Pino SORIO

Rapallo, 16 Febbraio 2015

Carlo Gatti-webmaster

 


LA TRAGICA FINE DELLA BALENIERA ESSEX

LA TRAGICA FINE DELLA BALENIERA ESSEX

ISPIRO’

 

L’AUTORE DI MOBY DICK

A partire dal 1400, i coraggiosi pescatori baschi furono i primi a cacciare le balene con agili scialuppe che, una volta arpionati i capodogli, avevano anche il compito di rimorchiarli a terra. In seguito i cetacei scelsero rotte più lontane per evitare gli agguati sotto costa e i pescatori, diventarono “marinai d’altomare” per poterle inseguire utilizzando Karake alte e potenti della lunghezza di 20 metri. Più tardi queste imbarcazioni furono sostituite dalle Caravelle dotate di maggiore manovrabilità e capacità di stivaggio. Tra il 1700 e il 1800 la caccia ai cetacei immortalata da Melville, raggiunse il suo apogeo e la tipica nave-baleniera acquisì il suo shape definitivo. I primi Sloops ad un solo albero furono costruiti e armati a Nantucket nel 1715, ma in seguito, come accadde alcuni secoli prima in Europa, le zone di caccia si estesero per tutti i sette mari. Fu così che l’Oceano Pacifico diventò la nuova meta dei cacciatori di balene, ma per superare le insidie di Capo Horn occorrevano baleniere a tre alberi di almeno 400 tonnellate, con una capacità di stivaggio idonea per affrontare campagne di pesca della durata di 3-4 anni.

 

Quando, il 6 settembre del 1841 il Charles W.Morgan (nella foto) salpò per il suo viaggio inaugurale dal porto di New Bedford, nel Massachusetts; erano trascorsi solo nove mesi da quando un’altra nave, la baleniera Acushnet aveva imbarcato per la sua prima esperienza di caccia un giovane scrittore: Herman Melville. Oggi, quel che di più tangibile resta dell’epopea delle baleniere americane è quanto di vero Melville scrisse in “Moby Dick“, e poi c’è la Morgan, ultima superstite di una flotta che contava 2700 navi dedicate alla sola caccia ai cetacei.

Ma se vogliamo farci un’idea più precisa dobbiamo salire a bordo di una qualsiasi baleniera ed ascoltare il narratore:

 

“Il ponte della nave era soggetto a rapido deterioramento vista l'azione di bollitura del grasso di balena e dello squartamento dei cetacei, effettuato con pale estremamente taglienti. All'arrivo nelle zone di caccia sul ponte principale veniva eretta una piattaforma di mattoni sulla quale erano poste grandi marmitte metalliche (in genere 2) e un recipiente di raffreddamento pieno d'acqua per cercare di limitare gli effetti del calore. Al termine della caccia, riempite le stive, il forno veniva demolito: questa circostanza era accompagnata da festeggiamenti dell'equipaggio. Le baleniere erano prevalentemente di colore nero, con una striscia bianca su entrambi i fianchi intervallata da riquadri neri, disegnati per simulare alla distanza la presenza di bocche da fuoco, onde prevenire in qualche misura attacchi”.


Nel 1820 la baleniera ESSEX, che faceva compartimento Nantucket-USA, entrò in collisione con un enorme capodoglio. La tragica storia che ne seguì, pare abbia ispirato il più celebre narratore americano Herman Melville per il suo Moby Dick.

 

 

Pollard, il comandante della Essex, era incappato in mari poco pescosi, le stive della baleniera erano quasi vuote e il grasso di balena era molto richiesto per l’imminente inverno. Dalle coste atlantiche di Nantucket era necessario passare dall’altra parte, nell’Oceano Pacifico, ma era pur sempre una sfida infernale. Nessuno era mai riuscito a doppiare Capo Horn senza soffrire le pene dell’inferno e Pollard ne ebbe la conferma, ma ci riuscì senza danni eccessivi ai tre alberi e all’attrezzatura di bordo.

Scampato il pericolo dei “Quaranta Ruggenti”, risalì per meridiano le coste spelate del Cile e poi si spinse al largo dell’Oceano verso rotte solitarie, forse mai navigate, alla ricerca del carico più prezioso che il mare poteva offrire due secoli fa: una grande balena, la cui cattura non era mai gratuita. Dopo settimane e settimane di snervante “niente in vista”, improvvisamente si sentì un urlo partire dalla coffa, il marinaio di vedetta aveva avvistato una grande famiglia di capodogli.Il comandante Pollard toccò il cielo con un dito: fece calare tre scialuppe-baleniere e ordinò agli equipaggi d’inseguire quel branco entrato, in quel periodo, nella stagione degli amori.

 

La lancia più veloce mise la prua su un enorme maschio di capodoglio che si fece astutamente raggiungere per attirare su di sé il predatore. L’esperienza dei marinai di Nantucket non fu sufficiente ad evitare la tremenda collisione che li fece volare insieme ai loro remi e alla scialuppa che nella ricaduta si capovolse e finì in pezzi sulle loro teste. Due uomini si salvarono a nuoto e furono recuperati a stento dai marinai terrorizzati delle due altre lance che accorsero immediatamente.

Il capodoglio fece un ampio giro, poi mise la ESSEX nel mirino, prese la rincorsa e si scagliò con la sua incredibile massa verso il fianco della nave-officina procurandole una “tragica” falla. L’equipaggio sotto schock non sapeva come reagire, ma la balena si.

L’enorme cetaceo riemerse nuovamente e con la stessa potenza devastante colpì ancora una volta la già ferita ESSEX colandola a picco con i marinai che non fecero in tempo a saltare sulle lance.

 

Passati 78 giorni dal naufragio, i 20 superstiti approdarono fortunosamente sulla spiaggia dell’atollo di Henderson. Purtroppo, in breve tempo esaurirono le scorte di frutta e di acqua, quindi decisero di ripartire lasciando tre compagni sul piccolo atollo nell’attesa d’improbabili soccorsi.

 

L’Oceano chiamato Pacifico dimostrò ancora una volta di essere calmo, ma letale. Un crudele destino era alle porte di quella sfortunata spedizione. I naufraghi, estremamente indeboliti e senza una attendibile posizione nautica, andarono alla deriva con le loro lance cominciando a morire di sete e di fame. La disperazione mista a follia li spinse al cannibalismo dei compagni morti e quando anche questa risorsa si esaurì, si convinsero della necessità di una terribile, estrema soluzione: uccidere un compagno, estratto a sorte e mangiarne il corpo. Così fu, perché così fu raccontato dal capitano e da Owen Chase quando, finalmente, 300 miglia al largo delle coste del Cile, una nave salvò i due sopravvissuti.

 

Il rimorso per il cannibalismo e il tragico sorteggio avrebbe segnato il resto della vita degli uomini sopravvissuti. Il resoconto di uno degli otto superstiti, Owen Chase, sconvolse il pubblico ottocentesco: in particolare colpì Herman Melville, che ne trasse ispirazione per Moby Dick, la storia della Pequod, anch'essa salpata dal porto di Nantucket.

 

L’impari lotta degli uomini di mare contro le tempeste, il freddo, le malattie, l’ombra della morte che saltella sui pennoni nell’attesa di scagliarsi sulla prossima vittima, l’impercettibile cima della sopravvivenza cui si aggrappa la ciurma disperata, altro non sono che la realistica parabola sul destino umano. Il Dio dei marinai di Nantucket li rende padroni del mare e delle sue creature, ma pone anche un limite al loro orgoglio scagliandoli negli abissi dell’oceano, oppure trasformandoli in vermi costretti a nutrirsi della loro stessa carne.

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 28 Dicembre 2014

 

 

 


LIGHT VESSELS, quando I FARI GALLEGGIAVANO...

QUANDO I FARI GALLEGGIAVANO...

LIGHT VESSEL

L’Inghilterra ha avuto una lunga storia di dominatrice dei mari, e da questa sua posizione privilegiata ha dato molte “prime idee” di progresso in campo navale.

La necessità di un battello-fanale fu discussa per la prima volta nel 1600, ma si concretizzò soltanto nel 1732 con Il primo esemplare che fu ancorato sull’imboccatura del Tamigi alle porte di Londra e portò il nome di NORE.

1845 – La 1° foto del  NORE

 

Primi anni ’70, l’ultimo NORE in disarmo

Originariamente i battelli-fanale (noti con il termine di light-ship o light-vessel) erano navi mercantili “trasformate”, ma dal 1820 furono costruite appositamente con la tecnologia del tempo. Incidenti e collisioni contribuirono a migliorare le successive costruzioni, che furono sempre più grandi e adatte allo scopo.

Il battello-fanale CARPENTARIA oggi Museo nel porto di Sidney.

All'inizio del 1900 esistevano oltre 750 light-ships in tutto il mondo con 10.000 membri d'equipaggio. I Lightshipmen ebbero una vita difficile per l’esposizione ai colpi di mare, agli incidenti di varia natura tra cui gli odiosi affondamenti subiti dai sommergibili tedeschi per sabotare il traffico nemico nella 1a e 2a  guerra mondiale.

In generale, per 5-6 mesi l’anno, la vita a bordo era di una noia senza fine, non accadeva mai nulla.  I marinai avevano i loro compiti quotidiani e molti si dedicavano a lavori manuali d’artigianato. Il nome The Light-ship Basket fu scelto poiché le ceste erano fatte a mano dagli uomini che gestivano i battelli-fanale della costa di Nantucket. Oggi, al suo posto si erge una piccola piattaforma dotata anche di elicottero.

Il nome Nantucket é forse il più citato nella letteratura marinara mondiale.

Per tutto l’800 e nella prima parte del ‘900 i battelli-fanale avevano due equipaggi composti di 6 marinai e un comandante che si alternavano a bordo per un mese. Erano accuratamente selezionati dalla Trinity House (U.K.), dovevano prestare giuramento, ed erano soggetti ad una dura disciplina di bordo. Ogni uomo aveva una Bibbia e non mancava una fornita biblioteca. Nei lunghi mesi invernali del Nord Atlantico il mestiere si rivelava molto impegnativo e pericoloso, e ci volevano 15 o 20 anni di servizio per essere promosso Master. Le vedette di un battello-fanale spesso avvistavano le navi in pericolo, ma non sapevano come allertare i mezzi di salvataggio sulla terraferma. A risolvere il problema delle comunicazioni ci pensò Guglielmo Marconi che nel 1892 iniziò i primi esperimenti-radio ottenendo da subito eccellenti risultati. Il primo messaggio radio “nave-terra” fu emesso la vigilia di Natale del 1898 dallo stesso Marconi che riuscì a mettere in contatto il faro di South Foreland (Dover) ed il battello-fanale di East Goodwin (sull’imboccatura del Tamigi) sulla distanza di 19 km.

 

Nel disegno si notano le lunghe “antenne Marconi” che scendono dalla testa d’albero. Il primo segnale di soccorso radio fu trasmesso dal marconista del battello-fanale  il 17 marzo 1899, con l’incaglio del mercantile Elba sui banchi delle Goodwins. Il 30 aprile di quell’anno, lo stesso battello-fanale trasmise un proprio segnale di soccorso, quando fu investito dal SS Matthews a causa della nebbia fitta. In numerosi porti del mondo anglosassone capita, ancora oggi, di vedere batelli-fanale lungo le banchine adibite a museo. Sono pitturati di rosso, perfettamente manutenuti e visitabili. Ma poco si sa, almeno in Mediterraneo, della loro trascorsa funzione e dei tormenti dei loro equipaggi. Al contrario, esiste una corposa bibliografia sui FARI e sui loro solitari faristi, storie che partono dagli albori della navigazione, e dopo due millenni emergono ancora con spettacolari fotografie aeree pubblicate su riviste, libri e persino sui calendari d’ogni nazione marinara che si rispetti.

La foto mostra uno degli ultimi battelli-fanale costruiti in Svezia. Si tratta del FLADEN n.29, oggi museo galleggiante ormeggiato nel porto di Göteborg (Svezia). La nave fu costruita nel 1915 e rimase in servizio sino al 1969 quando fu sostituita da un faro installato su un traliccio ben piantato sul fondo. In quegli anni e con lo stesso metodo, furono sostituiti nel mondo circa un migliaio di battelli-fanale che andarono in pensione dopo essere stati onorevolmente al servizio del traffico navale per 150 anni.

“Che funzione specifica aveva questa imbarcazione?” Innanzitutto possiamo assicurare il lettore che nessun equipaggio al mondo fu mai tanto amato dai marinai del passato come la ciurma di un battello-fanale piazzato stoicamente in mezzo al mare sotto i colpi dell’oceano. Il battello-fanale stazionava alla fonda nel punto di convergenza delle rotte oceaniche davanti ad un grande porto, ma aveva pure il compito di delimitare scogliere e bassifondi, ma nacquero soprattutto come risposta ai tanti disastri navali provocati dalle mareggiate e dalle nebbie stagionali che “storicamente” caratterizzano vaste aree interessate alla navigazione. I battelli-fanale furono quindi collocati nei punti di traffico intenso come il passaggio della Manica, il Kattegat-Skagerrak e per implementare la sicurezza della navigazione lungo le sponde Est ed Ovest del Nord Atlantico, ma anche dell’Australia. Se si considera che i maggiori scali del mondo, sono sorti all’estuario di grandi fiumi, allora s’intuisce la funzione del battello-fanale come punto di riferimento per l’atterraggio di una nave, segnalando la propria posizione (riportata sulla carta nautica) con il suo inconfondibile fascio di luce o con il temuto segnale da nebbia. Ancora oggi l’avvicinamento al porto rappresenta la fase più delicata del viaggio, per via della corrente di marea che si forma alla “barra” del fiume. Senza l’aiuto del pilota-fiume, sarebbe materia assai ardua da affrontare. L’epopea di questi mezzi ausiliari durò 150 anni e terminò alla fine degli anni ’60, quando innovative tecnologie di trivellazione permisero la loro sostituzione con fanali alloggiati su piattaforme impiantate su fondali sicuri.

Anche l’ultimo b/f AMBROSE si é convertito in Ambrose Tower-New York.

Ogni marittimo di qualsiasi generazione avrebbe qualcosa d’inedito da raccontare, per esempio, sul passaggio del Canale della Manica (English Channel o semplicemente Channel). Avventure e disavventure a causa della nebbia che acceca, paralizza e incute paura per molti mesi l’anno.

Quante navi ha salvato il b/f di Sandettie? E’ difficile dirlo. Certe cose il marinaio le cancella dalla memoria per non dover cambiar mestiere...

Il cocktail si fa ancora più micidiale quando alla nebbia si aggiunge il traffico che attraversa la Manica collegando, in tutte le direzioni, l'Oceano Atlantico al Mare del Nord e al Mar Baltico. Con il passaggio di oltre 500 navi il  giorno, il Canale è uno dei tratti di mare più pericoloso al mondo. A questo traffico sull’asse principale, si aggiungono i traghetti che fanno la spola fra Dover e Calais in direzione NW-SE. Fino all'apertura del Tunnel della Manica, questo flusso era ancora più intenso in quanto provvedeva sia al trasporto di persone che di merci, in compenso é in forte aumento il gigantismo navale. Per questo ulteriore  problema sono scesi in campo gli Stati monitorando l’intero traffico con strumenti speciali. Sia sulla costa inglese che su quella francese, esiste un collaudato sistema chiamato VTS (Vessel Traffic System). Il Servizio é attuato dalle rispettive Coast Guard che informano le navi sul traffico in corso e suggeriscono le opportune manovre da compiere. E’ risaputo infine che le super containers e le pericolose super petroliere imbarcano il Pilota-mare per superare gli spazi più critici. Finalmente, dopo tanti incidenti, collisioni, inquinamenti, si é capito che ne valeva la pena d’investire sulla sicurezza in tutte le sue forme. Non é certo passata un’eternità, ma ricordo ancora il racconto di un mio anziano comandante che oggi ha l’aria di una favola... “Era il primo dopoguerra, si navigava per due soldi e l’unico strumento di bordo era l’inaffidabile radiogoniometro... Un giorno ci trovammo immersi nella nebbia che potevi tagliare con il coltello, ma il pericolo era un altro, c’erano ancora centinaia di mine vaganti della 2° guerra mondiale e per schivarle si manovrava nel centro del Canale sperando che le altre navi  avessero  il radar e ci schivassero. Si navigava alla cieca e fischiavamo in continuazione...la Manica era un incubo!”.

Il Canale della Manica vista da un satellite

Per tante vecchie carrette di quei tempi, dover affrontare il doppio imbuto della Manica era sempre una brutta avventura. Non esistevano assistenze da terra, il radar era ancora un privilegio di pochi armatori, le radio-assistenze erano un work in progress e i segnali più affidabili erano i gabbiani ed il colore del mare che indicavano in qualche modo la distanza dagli scogli. Il comandante era sicuro della propria posizione soltanto quando avvistava o riconosceva il segnale acustico del battello-fanale. Questa assoluta necessità di fissare sulla carta nautica il “fix” (punto nave) dal quale procedere con una nuova rotta, spingeva le navi di avvicinarsi a volte anche troppo al battello-fanale e, per questa tragica necessità, non mancarono le collisioni, gli affondamenti, gli incagli, i feriti e i morti di cui abbiamo parlato.

Carlo GATTI

Rapallo, 06.01.12


STELLA MARIS - CAMOGLI

STELLA MARIS

LA FESTA DELLA GENTE DI MARE E DELLA COSTA

La prima domenica d’agosto, ogni anno si celebra a Camogli la Festa della

Madonna Stella Maris

Le cerimonie religiose che ancora oggi si praticano in tanti porti del Mediterraneo sono incantesimi, perennemente reiterati contro il capriccio delle bufere e delle tempeste. Gli ex voto di marinai scampati al pericolo parlano di quella paura annidata nel cuore degli uomini, che mai si abbandonano a cuor leggero alla perfidia delle onde. E' alla Vergine Maria, "Stella Maris", Stella del Mare, che i marinai dell'occidente raccomandano i loro carichi, e soprattutto i loro corpi e le loro anime.

Fernand Braudel

Punta Chiappa - Camogli. Opera di F. Dal Pozzo dedicata alla Madonna Stella Maris (Stella del Mare)- Il mosaico s’ispira all’antichissimo affresco ritrovato nella chiesa di S.Nicolò.

La ricorrenza fu ideata nel 1924 da Don Nicolò Lavarello, Rettore della Chiesa di San Nicolò di Capodimonte e da allora ogni anno la prima domenica di agosto si ripete.

L’intera giornata è dedicata alla Madonna protettrice di chi va per mare.


Isola di Tinetto – La statua della Stella Maris


Camogli - STELLA MARIS; Giuseppe Bozzo, 2003

olio su tela cm 120 x 80

Maria, come recita un'antico inno, è, specialmente nel mese di Maggio, invocata come "Stella Maris". Perchè la Madonna viene chiamata "Stella del Mare"? Le stelle si presentano come un segnale luminoso e posseggono un loro fascino simpatico e misterioso per tutti noi, ma per quanti operano in mare esse sono sempre state fondamentali per la sicurezza della navigazione.

Quando il cielo era limpido e la notte serena, la loro fiammella era il richiamo rassicurante per il procedere in mare ed in vista della meta desiderata. Ed anche quando il firmamento restava oscurato dalle nuvole, era motivo di fiducia il pensiero che comunque le stelle al di là continuavano ad esistere e non cessavano di mandare la loro flebile luce, anche se momentaneamente non veniva percepita.

Nel mare della vita tutti abbiamo bisogno di avere qualche stella, che ci mandi la sua luce, ci indichi il cammino, ci doni sicurezza. Quando siamo sinceri con noi stessi sentiamo che non si può vivere in una continua oscurità e senza almeno qualche certezza. La notte della mente e del cuore fa paura, suscita ansia, blocca la vita e nessuno può essere talmente masochista da voler vivere in una situazione di perenne confusione e di vuoto interiore.

Abbiamo bisogno di luce spirituale per vivere sereni, vogliamo vedere davanti a noi il cammino da percorrere, desideriamo conoscere la strada del nostro destino e la meta della nostra vita.

Maria può essere quella guida materna che la nostra vita ricerca, si presenta come la stella luminosa del mattino delle nostre giornate, è la voce di quel navigatore spirituale che indica la strada da percorrere.

“Fate quello che Gesù vi dirà”. Ecco la voce della stella, ecco l’indicazione del navigatore. Ha un nome, Maria, e dice una cosa: “Fate quello che Gesù vi dirà”.

Maria è la stella del mare della vita, che manda la sua luce solo a quanti alzano gli occhi verso di lei e sanno mettersi nel silenzio, come quando vogliamo ascoltare il silenzio delle stelle.

Solo chi sa stare in silenzio può percepire la voce dell’altro che parla, riesce ad ascoltare i propri sentimenti, ha la capacità di rispondere agli interrogativi del suo cuore e quindi riesce a dare luce al cammino della propria vita.


La Stella Maris si festeggia la prima domenica di agosto. Questa festa risale al '400 ed è dedicata alla "Stella di Mare", titolo con il quale i marinai e pescatori venerano la Madonna.

 

La sera in chiusura della festa vengono lasciati in mare da imbarcazioni o a nuoto dai bagnanti migliaia di lumini accesi, che donano uno spettacolo suggestivo e imperdibile.

Ü Dragun incendiato

Durante la festa della Stella Maris, una processione di barche ornate a festa parte dal porticciolo di Camogli per raggiungere Punta Chiappa dove si trova l'altare della Madonna "Stella di Mare".

“Vi è un incanto nei boschi senza sentiero ed è un’estasi sulla spiaggia solitaria vi è un rifugio dove nessun importuno penetra. Accanto alla profondità del mare ed alla musica del suo frangersi riesco ad amare più la natura di quanto ami l’uomo. In questi colloqui riesco a liberarmi da quanto sono o credo di essere stato per essere un’unica cosa con l’universo e sentire quanto non riesco ancora ad esprimere e che non so neppure nascondere.“

Scritto da Lord George Gordon Byron allo Stella Maris nell’anno 1821

 

Ü Dragun – Sciabecco-Galea simbolo della città di Camogli

Alla processione tra le varie barche partecipa anche Ü Dragun. Una volta raggiunto lo scoglio di Punta Chiappa viene celebrata la Santa Messa.

Significato

Nome composto da Maria e Stella. Maria deriva dall'ebraico Maryàm e vuol dire "principessa, signora", mentre Stella ha origine latina ed il suo significato è "luminosa come un astro". Può comparire anche nelle forme Maria Stella o Maristella. Stella Maris ossia Stella del mare è un antico titolo utilizzato per Maria Vergine, madre di Gesù. L'onomastico può essere festeggiato il 12 settembre giorno dedicato al Santissimo Nome di Maria oppure l'11 maggio in memoria di Santa Stella martire.

L’immagine della STELLA MARIS qui raffigurata è forse la più conosciuta a bordo delle navi

MAESTRA E SIGNORA DEL MARE

Secondo questa interpretazione il nome di Maria deriverebbe da MOREH (ebr. Maestra-Signora) + YAM (=mare): come Maria, la sorella di Mosè, fu maestra delle donne ebree nel passaggio del Mar Rosso e Maestra nel canto di Vittoria (Es 15,20), così "Maria è la Maestra e la Signora del mare di questo secolo, che Ella ci fa attraversare conducendoci al cielo" (S.Ambrogio, Exhort. ad Virgines).

Altri autori antichi che suggeriscono questa interpretazione: Filone, S. Girolamo, S. Epifanio. Questo parallelo tipologico tra Maria sorella di Mosè e Maria, madre di Dio, è ripreso da S. Agostino, che chiama Maria "tympanistria nostra" (Maria sorella di Mosè e la suonatrice di timpano degli Ebrei, Maria SS. è la tympanistria nostra, cioé dei Cristiani: il cantico di Mosè del Nuovo Testamento sarebbe il Magnificat, cantato appunto da Maria: questa interpretazione è sostenuta oggi dal P. Le Deaut, uno dei più grandi conoscitori delle letteratura tergumica ed ebraica in genere: secondo questo autore, S. Luca avrebbe fatto volontariamente questo parallelismo.

LA STELLA MARIS

NELLA POESIA
Quando nel volto di Maria il poeta Giorgio Caproni ricordava con nostalgia inquieta la fede della sua infanzia: "Nel vago della notte, io disperso mi sorprendevo a pregare. Era la stella del mare".
Oggi festeggiamo il nostro destino, che è di vita e non di morte. Maria, assunta in cielo, dice che il miracolo della Resurrezione non è privilegio divino, ma meta per tutti. La Vergine ci precede, e ci mostra la via.

Non a caso una delle metafore più usate dai poeti di ogni tempo è proprio quella di Maria stella del cielo, che indica la rotta ai naviganti.

È un'immagine che usa anche Giorgio Caproni, uno dei massimi lirici del '900. Nella sua poesia Alla Foce, la sera (Frammento su un ricordo d'infanzia), tratto dalla raccolta Il conte di Kevenhuller, si trova una Maria luminosa, che abita il cielo:

La vedevo alta sul mare.
Altissima.
Bella.
All'infinito bella
più d'ogni altra stella.

Bianchissima, mi perforava
l'occhio:
la mente.
Viva.
Più viva della viva punta -
acciaiata - d'un ago.

Ne ignoravo il nome.

Il mare
mi suggeriva Maria.
Era ormai la mia
sola stella.

È, come dice il titolo, un ricordo d'infanzia: Caproni (1912-1990) è stato un poeta in perenne conflitto con il tema di Dio, che non si è risolto in una fede positiva. Eppure la misteriosa assenza di Dio non lo ha mai lasciato tranquillo. Ma da bambino aveva fede, con un particolare affetto per la Madonna:

Nel vago
della notte, io disperso
mi sorprendevo a pregare.

Era la stella del mare.

Caproni stesso racconta della sua devozione mariana in pagine bellissime, raccolte in Il mondo ha bisogno dei poeti. Intervista e autocommenti (1948-1990):

Da bambino, volevo tanto bene alla Madonna che, quando me ne regalarono una - tutta bianca, di gesso, forse una statuina della biancoceleste Madonna di Lourdes- mi venne addirittura voglia di costruirle una chiesuola.

La madonna cantata nella poesia è frutto del pennello di un pittore francese che Caproni bambino conosceva e frequentava: Jean Bourillon, a cui sono dedicati i versi. Un giorno il poeta vide un quadro preparato dall'artista per una festa di mare, con Maria sulle onde. E gli rimase profondamente impresso. Poi la vita gli fece perdere la fede, ma rimase il ricordo di quell'immagine e del suo autore:

La tua stella, Jean,
così remotamente morto
con la mia infanzia, e in una
con tutta la tua opera...
Jean
senza fortuna...

Amico
(in gioia e in disperazione)
dei miei sussulti...

Di me:
della mia diffrazione
nel tempo che ormai mi allontana -
sempre più mi allontana -
dalla nascita e - forse -
(oh Jean!) dalla mia stessa morte...

È esperienza comune: anche in chi ha perso la fede rimane un ricordo, una nostalgia forse, almeno della materna figura della Vergine. È un'eco che non abbandona il cuore dell'uomo.

Non si può guardare a Maria che con affetto e gratitudine:

«Ciao stella del mare» mi sorprendo a dire con voce sommessa. «Ciao mio povero Bourillon, che grazie al tuo quadro, e per virtù del tuo quadro, mi costringi ancora (e te ne sono grato) a salutare Maria, come la salutavo nella mia cameretta di fantolino fidente - bella e protettrice - a capo del mio lettuccio».

LA STELLA MARIS COME EFFIGE DI DEVOZIONE DEI MARINAI NACQUE IN QUESTO EREMO di S. NICOL0’ DI CAPODIMONTE   - (foto sotto)

 





La Chiesa di San Nicolò di Capodimonte del XII secolo è situata a 97 metri sul mare lungo il sentiero che conduce dalla chiesa parrocchiale di San Rocco, 221 metri sul mare alla celebre Punta Chiappa. Qui la vegetazione mediterranea e di macchia raggiunge la sua più intensa espressione: pino silvestre, d’Aleppo, lecci centenari, querce, castagni, ulivi e poi la fragranza dei mirti, corbezzoli, eriche giganti, ginepri, ulivi selvatici, lecci nani, cactus, ginestre, caprifogli, pistacchi, alaterni, citisi, carrubi nani, melograni selvatici, timo, capperi e dovunque spunta la Isca con la quale gli abitanti del luogo fanno corde resistentissime all’acqua salata.

La chiesa romanica fu fondata, secondo la tradizione, nel XII secolo dai monaci di San Rufo nei pressi di una già presente cappella intitolata a san Romolo del 345. Abbandonata dal XV secolo per le frequenti incursioni dei pirati e trasformata in abitazione civile dopo l'editto napoleonico, fu nuovamente riaperta al culto religioso dal 1870. Tra le tracce di affreschi vi è la raffigurazione di una Madonna che protegge un'imbarcazione, la Stella Maris, ripresa nel mosaico di Punta Chiappa e oggetto di venerazione durante le omonime festività religiose.

Tutto il complesso è stato abbandonato nel XV secolo a causa delle ricorrenti invasioni dei pirati saraceni, e trasformato in abitazioni civili durante il periodo napoleonico. Gli interventi di restauro effettuati tra il 1925 e il 1926 hanno restituito alla chiesa l'originale aspetto romanico con facciata in pietra viva e portale strombato con colonnine marmoree.

L'interno è caratterizzato da una pianta a T con tre absidi e unica navata in pietra nera sulla quale sono ancora visibili tracce di affreschi. Tra questi si nota la Madonna che protegge una barca durante una tempesta: è il tema della Stella Maris ripreso sulla stele a mosaico di Punta Chiappa.

Inizio modulo

Per il mio nuovo viaggio lungo le rotte della memoria, non cerco porti idonei alla partenza o ai ritorni; non cerco nave od equipaggio. La terra, la mia, farà da porto e da riparo; e magicamente sarà nave ed equipaggio. Insieme veleggeremo, fatalisticamente sospinti da ataviche maledizioni, da fallaci certezze, da vecchie e nuove paure, alla ricerca di serene spiagge, di gioiosi lidi. Alla Stella del Mare raccomando questo singolare veliero, insieme ai corpi ed alle anime del nostro equipaggio. A mia madre rivolgo pensiero e gratitudine e a lei dedico gli esiti incerti e le possibili conquiste del viaggio; a mia moglie, come ad ogni partenza, la promessa del primo abbraccio del ritorno.

Il comandante

ALBUM FOTOGRAFICO

Uno scorcio suggestivo di Punta Chiappa

Punta Chiappa - Camogli. Opera di F. Dal Pozzo dedicata alla Madonna Stella Maris (Stella del Mare).

Madonna del Tinetto

La statua della Madonna del Tinetto mi ha fatto ricordare un episodio molto vicino al cuore anche per ricordi familiari.
La statua era stata abbattuta da una mareggiata e prima della sua ricostruzione mio figlio, che è un video artista con il nome Masbedo, aveva
girato un filmato e scattato delle foto che avevano portato ad aggiudicare a Masbedo il premio nazionale Gairo di fotografia. Il filmato, dal titolo:

"Schegge d'incanto in fondo al dubbio"

trattava della donna nella sua dimensione complessa all'interno della coppia. Per la realizzazione del filmato era servito l'appoggio della Capitaneria per posizionare l'artista sul basamento dove prima c'era la statua e la cosa era stata complicata dal fatto che avevano voluto girare anche con inquadrature di mare mosso.

(Marcello Bedogni)

Camogli nella notte della STELLA MARIS

CARLO GATTI

Rapallo, 21 Luglio 2017

 


ESTRAZIONE DI GREGGIO NEL MAR CASPIO

ESTRAZIONE DI GREGGIO  NEL MAR CASPIO

Nota del D.M. Pino SORIO:

Questo Album fotografico sarà di sicuro interesse per chi non si è mai trovato a lavorare nel Mar Caspio. Premetto che il greggio estratto in questo mare contiene una percentuale altissima di idrogeno solforato (H2S) che letale se viene inalato. Ogni volta che i rilevatori di H2S ne segnalano la presenza, tutto il personale delle ptfs deve indossare le maschere in dotazione e raccogliersi in appositi locali. I mezzi di evacuazione IBEEV (Ice Breaker Emergency Evacuation Vessel) possono trasportare fino a 180 persone + 2 di equipaggio, possono navigare sul ghiaccio e tra le fiamme, l'aria per la ventilazione interna è a circuito chiuso e viene prelevata da pacchi bombole, sono dotate di una camera di decontaminazione dove il personale vi deve transitare prima di andare a prendere il posto assegnato. Il gas H2S viene separato dal greggio e poi ripompato nel pozzo a pressione altissima. Questa operazione viene eseguita da particolari impianti costruiti dal cantiere spezzino NAVALMARE e montati su chiatte.

 

D.M. Pino SORIO

Rapallo, 11 Febbraio 2015

webmaster Carlo GATTI

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DONNE

Donne

 

E sedutosi davanti al tesoro (Gesù) osservava come la folla gettava monete nel tesoro; e tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a se i discepoli, disse loro: <In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri, poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere.>

Marco, 12,38-44

 

Questo è ciò che anch’io penso delle donne e della loro generosità.

 

Non ne ho parlato molto in questi miei ricordi, non perché, ininfluenti, abbiano attraversato la mia vita, anzi; se la vivo serena, è anche grazie alle straordinarie figure femminili che ho avuto la fortuna di incontrare, da mia madre a mia moglie sino all’ultimo sempre al mio fianco, anche in quanto ho qui scritto, ma perché, ragazzo a quel tempo, ci si soffermava meno sull’altro sesso, imbevuti com'eravamo di “fascistico” maschilismo. Avanzando negli anni, capii che, come ricordava l’affascinante attrice Michèle Morgan, sono loro <…che sempre pagano un prezzo più alto >.

 

Volendo rendere omaggio a tutte sotto una visione laica, mi limiterò a ricordare quelle del tempo di guerra perché, proprio in simili situazioni estreme, emergono le qualità essenziali; furono leonesse nel portare avanti il loro ruolo di perpetuatrici della specie.

 

E’ provato statisticamente che nove mesi dopo luttuose calamità, c’è un incremento della natalità; è l’uomo che, a fronte di tanta morte o paura, tenta, a volte anche inconsciamente, di rilanciare la vita come fa l’albero che, prima di morire, produce in un ultimo sforzo vitale, più frutti e quindi più semi, così da assicurare la continuità alla specie.

 

E’ difficile parlare di loro senza cadere nell’ovvio o nel moralismo, ma una cosa va detta: l’Italia, spaccata in due e abitata da italiani ormai fuori di senno, senza alcuno che facesse rispettare la legge, occupata da stranieri che in casa nostra si combattevano e ci combattevano, grazie alle donne, ha continuato a vivere.

 

Le famiglie, ancorchè smembrate da forzate assenze d’alcuni suoi componenti, non si sono sfasciate per loro merito e le hanno traghettate sino ai giorni nostri, sopperendo alle assenze maschili, sostituendole in casa, nel lavoro e nella scuola, rivelando una combattività fino allora insospettata.

 

Oggi, passata l’emergenza e dimenticandosi alcuni cosa seppero fare quelle donne per salvare la famiglia dallo sfascio, accompagnando per mano quei bambini sino a divenire uomini, oggi dicevamo auspicano di poter impunemente sostituire quel coagulante con non si sa quale alternativa.

 

Noi figli, nonostante crescessimo in quel caos generale che per quanto se ne parli oggi, resta inimmaginabile, siamo stati, al limite dell’impossibile, accuditi e dalle nostre madri abbiamo appreso ancora i vecchi principi fondamentali che ora, in tempo di benessere, sono messi in discussione, se non dimenticati da chi ci ha seguito. Quell'educazione si rivelò preziosa per il nostro equilibrio, facendoci sperare e stimolandoci, fin da allora, a credere e, appena possibile, a dar vita ad un domani migliore anche se, quotidianamente in quei tempi, i violenti con il loro agire, parevano smentirle e disattenderle.

 

 

All’epoca della Repubblica di Salò, negli ultimi tempi della guerra, uscendo da casa, potevi incappare in uno sconosciuto morto ammazzato in strada; era consigliabile non fermarsi per recitare anche una sola preghiera perché, con quel gesto d’umana pietà potevi, platealmente e senza neppure volerlo, dare l’impressione agli esecutori di non condividere le motivazioni di quell’uccisione; agli occhi degli altri invece, saresti stato “etichettato” e perseguito assieme alla tua famiglia, quale sostenitore della parte che lo aveva ucciso, anche se a te, quest’ultima, continuava ad esserti realmente ignota. Vicino a quei morti ho sempre visto una qualche donna pregare piangendo.

 

 

In tutto questo sovvertimento di valori umani, si possono anche capire se non giustificare, quelle donne che si dettero agli occupanti tedeschi, non certo per condivisione della loro fede politica o per accettazione ideologica della dittatura; molte v’incapparono nella ricerca di un contatto, che poi si rivelò galeotto, atto a poter liberare il congiunto appena caduto in una retata cittadina, attuata per catturare forze di lavoro da deportare in Germania a sostituire i lavoratori tedeschi inviati al fronte, o peggio, solo per eseguire una rappresaglia vendicativa.

 

Altre, irretite da promesse rivelatesi poi mendaci, pensarono di rendersi utili ai parenti “internati” nei lager (all’epoca, non si sapeva cosa realmente succedeva in quei campi) dimostrandosi compiacenti con gli occupanti sperando di, attraverso questi, influenzare i loro camerati aguzzini, per permettere almeno di far arrivare colà, aiuti e corrispondenza.

 

Questa disponibilità finiva con il “rompere il ghiaccio”, anche fin troppo, fra le parti. Gli occupanti potevano apparire, agli occhi di chi aveva bisogno di tutto per vivere che, attraverso loro, si sarebbe anche potuto tentare di alleviare le sofferenze dei loro cari “internati”. In molti casi, in quei giorni, gli occupanti parevano detenere tutto ciò che esse ritenevano vitale. In fine c’è anche l’altro aspetto che non và sottaciuto; tutti gli uomini validi erano da troppo tempo lontani da casa e, si sa, la carne è debole. A loro volta gli stessi occupanti avevano dovuto lasciare le loro famiglie, e sapevano anche che anche là quotidianamente venivano bombardate. Solo dopo si seppe cosa realmente, in quei giorni, stava succedendo in Germania; mio zio Mario, lavoratore deportato, “aggiustatore” dalle mani d’oro, seppe rendersi utile in mille frangenti. Quante volte, il giorno dopo l’ennesimo bombardamento, veniva inviato  a riassestare le case bombardate dove incontrava vedove bianche, a loro volta disponibili.

 

Finita la guerra, quelle che avevano ingiustificatamente perso la testa furono, dai partigiani, arrestate, insultate ed esposte al pubblico ludibrio, dopo essere state rasate e aver loro imbrattato con pittura il cranio nudo; venivano poi fatte sfilare per le strade e tutti si sfogavano ad insultarle o peggio.  In quelle occasioni, come sovente capita, le più implacabili accusatrici furono spesso le altre donne, quelle la cui condotta, nel frattempo, non era certo irreprensibile con gli ultimi arrivati, i “liberatori”.

 

Generalmente, le prime, venivano rinchiuse per qualche giorno in guardina e, dopo averle sommariamente processate e redarguite, rispedite a casa, additandole come <puttane >.

 

 

 

Quelle invece che si portarono, in letti del tutto simili, i “liberatori”, sono passate alla cronaca dell’epoca con l’accattivante nomignolo di <segnorine >. Entrambe però furono spinte, forse senza neppure saperlo, dalla necessità di riconfermare il trionfo della vita sulla morte, andando assieme al maschio, in quel momento, “dominante”. Questo, di massima, era la situazione che poi, caso per caso poteva anche avere altre motivazioni.

 

Non intendo dare giudizi morali perché racconto cose viste e memorizzate con gli occhi di un ragazzo cresciuto, per alcuni anni, in mezzo alla morte, al dolore, alle privazioni e alla paura; bisogna inquadrare tutto in quel particolare momento storico e psicologico in cui spesso non era facile ravvisare il bene dal male, il torto dalla ragione e il falso dal vero. Eravamo troppo affamati, terrorizzati ed assonnati per poterlo nettamente percepire.

 

E tutte le altre donne? Come sempre capita a chi, in silenzio, compie il proprio dovere, la quasi totalità soffrì a casa, tacitamente cercando, nei limiti del possibile, d’essere punto di riferimento, supplendo così anche chi era forzatamente assente; stettero, finché fu loro possibile, vicino ai propri uomini, non facendo loro mancare la propria presenza ogni qual volta ve ne fosse l’opportunità.

 

Contrariamente alla guerra “15/18”, quest’ultima portò il fronte in mezzo alle nostre case e nelle nostre strade; anche qui si poteva morire a causa dei continui bombardamenti o per mano di avversari fuori di senno, soffrendo disagi, spesso paragonabili a quelli di chi combatteva. E le donne, eterno punto di riferimento, passarono attraverso quest’immane tempesta, preparando noi ragazzi, nell’attesa del ritorno dei padri sopravissuti, ad affrontare il dopoguerra senza mai perdere di vista i veri valori dell’uomo, mai come in quei giorni così travisati e calpestati.

 

In questo ricordo è giusto accomunare le donne della gente di mare che a Genova, ed in Liguria in generale, terra di marittimi, sono sempre state numerose. Se pur allenate a lunghi periodi di forzata separazione, in tempo di conflitto quella trepidazione divenne incubo continuo perché le notizie negative o, quanto meno contraddittorie, fornite dai vari bollettini radio, che per ragioni di segretezza frammista alla propaganda, censuravano i dettagli, non indicando mai dove erano realmente avvenuti gli attacchi che stavano segnalando ne sapevano dove quel giorno stava navigando il loro congiunto. Nell’indeterminatezza, ognuna poteva pensare di aver perso il familiare e, quindi tutte indistintamente, n'erano coivolte; né contribuiva a confortarle il nostro servizio postale, cronicamente inefficiente ma che in tempo di guerra, ove possibile, lo era ancor più.

 

Quelle poche lettere che riuscivano ad arrivare, moltissime andarono distrutte per causa di eventi bellici, avevano molte righe cancellate da un impenetrabile largo segno nero, specie in quei passaggi che indicavano luoghi o date ma anche semplici espressioni di sconforto o disappunto a riprova che l’unica cosa da noi funzionante efficientemente era la censura fascista che, in questa specifica attività, faceva faville.

 

Molte volte gli scriventi tornavano prima che giungessero le loro ultime lettere ma, troppo spesso, succedeva che quelle ferali del Ministero fossero recapitate alla famiglia dai Carabinieri, magari un attimo dopo aver finito di leggere la tanto attesa lettera, consegnata poco prima dal postino tradizionale e firmata da chi, nonostante tutto, continuava a scrivere di credere in un avvenire migliore da edificarsi a fine guerra.

 

 

 

In ultimo, non posso non ricordare tutte quelle donne ebree, madri o spose che, pur di non distaccarsi dalla propria famiglia, decisero spontaneamente di imbarcarsi esse stesse sui treni che deportavano nei lager i loro cari e poi, contemporaneamente ad essi, ma in campi rigorosamente separati, soccombere.

 

Tutto quello che ho scritto è frutto di ciò che oggi rivedo come se   stessi guardando uno sfocato dagherrotipo; come quello, anche la memoria non è sempre di facile “lettura”. Posso anche aver descritto cose che, pur nella più completa buona fede, la patina del tempo che sbiadisce ogni cosa, mi può aver fatto travisare; perdonatemi, sarà l’età e l’infinito amore per questa mia Liguria.

 

Volendo fare un bilancio della mia vita devo dire che fu varia e senza insormontabili mutamenti; questo grazie alle persone che mi sono state attorno. Mio padre mi ha dato esempio di retta onestà e mia madre di profonda e partecipata fede. Per parte mia posso essere onorato d’aver vissuto accompagnato da pochi veri amici ma per me importanti, due dei quali sono oggi tumulati nel Famedio dei Genovesi Illustri a Staglieno.

 

Un solo grande, incolmabile rimpianto è quello di aver perduto, negli ultimi chilometri che mi rimangono da percorrere, la insostituibile compagnia di mia moglie. Il destino, insensibile ai miei desiderata, ha dato invece corso al proprio programma già predeterminato.

 

A tutte loro dedico questa poesia di Vito Elio Petrucci, il poeta che mi ha è stato amico per una vita:

 

FIN CHE NO TI SENTI

Fin che no ti senti

in te’na notte de lunn-a

l’ödô do limoneto

derrê a-a muagetta:

allöa l’è primmaveja.

Gh’è drento tutti i peccoei do mondo

E a coae de fâne di atri.

Allöa lìè primmaveja, pe accorzise

Che appreuvo a quello fî d’äia döçe

( o gusto ti o senti in bocca)

Gh’è o segreto de ‘na natüa

Che de peccòu in peccòu a fa cammin.

Libera traduzione: Finché non senti in una notte di luna l’odore del pittosporo dietro al muricciolo: allora è primavera. Ci sono dentro tutti i peccati del mondo e la voglia di farne degli altri. Allora è primavera per accorgersi che dietro a quel filo d’aria dolce (il gusto lo senti in bocca) c’è il segreto di una natura che di peccato in peccato fa cammino.

Renzo BAGNASCO

foto del webmaster Carlo GATTI

Rapallo, 28 dicembre 2014

 


L' AMERIGO VESPUCCI ha compiuto 80 anni ed é ancora la nave più bella del mondo

LA NAVE SCUOLA

AMERIGO VESPUCCI

ha compiuto 80 anni ed é ancora la nave più bella del mondo


Foto n.1- La Nave Scuola Amerigo Vespucci

 

Foto n.2 – Il Crest della Nave

L’equipaggio della Nave Scuola A. Vespucci è composto di 16 Ufficiali, 70 Sottufficiali e circa 200 Marinai. Durante i mesi estivi imbarca gli allievi del 1° Corso dell'Accademia Navale di Livorno per un totale di circa 450 persone. Il veliero del tipo “nave”, tre alberi a vele quadre, fu varato il 22 febbraio 1931 a Castellamare di Stabia (NA). Dislocamento: 4.150 t. Lunghezza (f.t.) 100,5 m. Larghezza (p.p.) 15,50 m. Pescaggio 7 m. Velocità 10 nodi.

 

Foto n.3 -  Il Motto della Nave Scuola Amerigo Vespucci

Il comandante del Vespucci é un Capitano di Vascello “specializzato” alla Scuola Comando di Augusta come tutti gli ufficiali che aspirano al comando di una nave militare italiana, ma non deve essere necessariamente un raffinato velista, anche se nel destino di questa Nave brillò una stella di prima grandezza che si chiamava Agostino Straulino. Questo grande Ammiraglio, insieme al genovese Nicolò Rode, illuminò la nostra giovinezza con numerose vittorie Mondiali ed Olimpiche con il Merope III nella classe Star, quando la tecnologia non mortificava ancora il talento, quando le barche avevano un nome e non una sigla. “Il vento lo devi sentire sul viso e solo allora puoi valutare”. Poche parole, ma erano il suo “credo”. Il mago del vento assunse il comando del Vespucci nel 1964 con i gradi di Capitano di Vascello e in quel periodo della Campagna di Istruzione, gli Allievi videro cose magnifiche.

Foto n.4- Notare il vento di traverso in questa foto d’archivio che fissa nella storia il passaggio a “gonfie vele” del Vespucci nello stretto passaggio che collega il Mar Piccolo ed il Mar Grande a Taranto. In quella "speciale occasione l'olimpionico Agostino Straulino era il suo Comandante.

Non era mai successo prima e neppure dopo che una nave a vela affrontasse quello stretto “passaggio” con quel vento rinunciando  al motore. Ma di Straulino si ricordano soprattutto le imprese di un celebre viaggio quando riuscì ad ormeggiare il veliero italiano a Portsmouth, Amburgo, Kiel, Helsinki, Stoccolma ed Oslo manovrando le vele e fu un vero trionfo per la marineria italiana. Si dice che la manovra sia un’arte e l’olimpionico Straulino compì la sua opera maggiore a Cowes (U.K.) quando entrò a vela ed ormeggiò perfettamente il Vespucci tra un incrociatore ed una portaerei strappando l'applauso della popolazione locale e della stampa mondiale. Dall’epoca di Straulino sono passati quasi 50 anni ed il ricordo di quel grande marinaio é entrato ormai nella leggenda ma, strano a dirsi, il suo spirito rivive ancora a bordo del veliero, reincarnato nella mente di un altro campione del vento e delle manovre veliche: il Nostromo (1° Nocchiero in Marina M.), l’ultimo dei quali resiste a bordo da ben 16 anni e quest’insolita permanenza la dice lunga sulla difficoltà  di reperire uomini capaci d’imbrigliare il vento.

A dire il vero, la Nave Scuola Vespucci naviga spesso a motore e dedica alla Scuola Velica quel numero di ore prescritto per la formazione professionale degli Allievi Ufficiali dell’Accademia. Quando ciò avviene, si spengono gli apparati di bordo e nel silenzio più assoluto rinasce l’atmosfera antica di un’epoca che non c’é più. La ciurma si nutre di vento, di fruscii, di sciabordii d’acqua che frangono lungo lo scafo obbedendo agli ordini modulati del fischietto del nostromo, il “tramite” tra la forza della natura ed il bordo che esegue le manovre per avanzare tra le onde. Il nostromo consiglia le manovre al comandante e le ordina allo stesso tempo. Avete indovinato, il nostromo é proprio come il pilota portuale di una nave che manovra nelle vicinanze e dentro un porto qualsiasi del mondo. Il più esperto in quella fase della navigazione assume il controllo della nave. Nella navigazione a vela, il nostromo diventa il suggeritore e l’operatore nello stesso tempo che non toglie il comando al Capitano di Vascello, al contrario, lo arricchisce. Da questo bel discorso s’intuisce che il rapporto tra Nostromo e Comandante non é sempre idilliaco, e un uccellino mi ha bisbigliato in un orecchio che é quasi sempre il nostromo ad avere la meglio... La sua esperienza velica é al di sopra di ogni discussione più o meno “accademica”. Ma non é soltanto una realtà dei nostri tempi, la letteratura marinara dei secoli passati ci racconta di velieri affidati a giovanissimi comandanti perfettamente integrati con nostromi veterani di Capo Horn. A questo punto vi chiederete: Ma chi comanda a bordo del Vespucci? La risposta é molto semplice! Il responsabile é sempre il Comandante, anche quando a bordo sono imbarcati numerosi specialisti-laureati (medici, commissari, ingegneri ecc...). Tuttavia, per quanto riguarda il mondo velico, il NOSTROMO ha forse 10 lauree, il Comandante lo sa ed “abbozza”. Da questo status symbol meritato sul campo, ne deriva un personaggio che rappresenta il punto di riferimento dell’equipaggio. E vi chiederete ancora: Ma é così esclusiva la maestria del Nostromo? Si! E’ un’arte carismatica molto difficile da apprendere nelle aule scolastiche e ve lo spiego con alcune cifre. La Nave Scuola  Amerigo Vespucci ha una Superficie Velica di 3.000 metri quadrati. La metà esatta di un campo da calcio. 32 sono i chilometri di cordame diviso in manovre fisse e correnti. Ad ogni curva una cima qualsiasi cambia nome e funzione. Le vele sono 26 ed ognuna funziona come un’elica a passo variabile. Tutti i sottufficiali di coperta e i marinai prendono ordini dal 1° Nostromo, il coordinatore assoluto di tutta la tela (vele), la canapa (cavi–cime-draglie) e l’attrezzatura (argani-ancore-bozzelli, pastecche, pennoni, caviglie......) Alcuni anni fa il Vespucci sfidò per sei lunghi mesi le burrasche degli oceani. L’usura del materiale impose la sostituzione di tutte le vele e buona parte dell’attrezzatura. Per il nostromo, che é anche un valente rigger (attrezzista nautico), fu un lavoro immane cui dovette far fronte per lunghi giorni insieme alla sua ciurma specializzata. Già! Ma solo lui n’aveva l’assoluta competenza e responsabilità per riprendere la navigazione in sicurezza. Molti ancora si chiedono: Perché oggi il Vespucci naviga a motore e meno con le vele? La risposta é piuttosto semplice: oggigiorno spegnere gli elettrogeni di bordo per qualche ora e andare a vela significa interrompere il funzionamento dei congelatori, frigoriferi, impianti d’aerazione, aria condizionata, circolazione acqua-servizi, potabilizzazione-acqua di mare, azzeramento degli strumenti nautici-satellitati e chissà di quanti altri apparati e servizi di sicurezza imposti dalle leggi della navigazione moderna. Navigare a vela con 350 uomini di equipaggio é diventato un lusso difficile da gestire. Pertanto, quando vedete  transitare il Vespucci con le vele avvolte sui pennoni, contenete la vostra delusione, e calcolate che il gasolio necessario per far girare il suo motore ausiliario costa meno del vento ed é più sicuro.

Foto n. 5 - Il Nostromo

Foto n.6 - Il fischietto

Il Nostromo di bordo è sempre e solo uno, è il capo supremo dei nocchieri.
Impartisce gli ordini dati dal Comandante tramite il fischio del nostromo.
 E' aiutato nel suo lavoro da un gruppo di nocchieri, muniti anche loro di fischietto. Ogni albero della nave ha un armo di uomini comandato da un nostromo subalterno che anch’egli impartisce gli ordini tramite il fischio, stando alla base di ogni albero. Questo fischietto è chiamato proprio "fischio del nostromo", generalmente è di ottone ed ha una catenina che consente di tenerlo al collo sempre pronto all'uso.
E' composto da un tubicino detto cannone, da un anello detto maniglia, attaccato all'estremità dell'impugnatura, chiamata chiglia, e di una pallina forata, detta boa, da cui esce il suono. S’impugna all'altezza della chiglia, tra pollice ed indice; con le altre dita si regolano invece l'intensità e la modulazione del suono (una nota alta e una bassa, tre toni: pieno, modulato e trillo). Ma chi é veramente il Nostromo? Il nostromo é  l’uomo rozzo e volgare che conduce la ciurma all’arrembaggio.... Da secoli questa definizione arcaica e un po’ romantica circola sui bordi e conserva  un margine di verità anche nel nuovo millennio. Se il moderno capitano marittimo ha assunto, suo malgrado,  il compito di manager aziendale e quello d’ingegnere elettronico, la figura del nostromo rappresenta tuttora la continuità, la maglia di catena che unisce e dà un senso ai lunghi capitoli della marineria dei sette  mari. Il suo ruolo é sempre lo stesso: trovare la soluzione ai problemi che il mare propone a getto e in forme sempre diverse. E’ questione di feeling, recita una canzone di Cocciante. Nel nostro caso il mare sceglie i suoi figli migliori e li chiama nostromi. Il nostromo dei miei tempi “abitava” praticamente a bordo, conosceva ogni bullone della nave, sapeva dove e come mettere le mani per impiombare (unire) due cavi spezzati, sostituiva un’ancora perduta, riparava qualsiasi avaria in coperta, tamponava falle e poi cuciva e rappezzava i cagnari che coprivano le stive, maneggiava le cime (corde) di ogni calibro con l’arte di un prestigiatore e usava gli  aghi, il paramano, le caviglie e tanti attrezzi personali avuti in eredità dai vecchi lupi di mare di Camogli, Viareggio, Il Giglio, Imperia, Carloforte ecc... Un vero corredo di utensili che portava all’altare quando sposava la nave. Già, proprio così! Il Nostromo nasceva e moriva con la “sua” nave proprio come accade ancora sulla nave Vespucci con il suo ultimo nostromo: la tradizione nella continuità. Lo sanno bene i cadetti dell’Accademia Navale di Livorno al termine del 1° corso quando salgono sullo scalandrone di legno intarsiato, e da quel momento avviene l’incontro con gli antichi dei del mare e di bordo: Nettuno, Eolo ed il 1° Nostromo. Da quel momento il Vespucci diventa il testimone del passaggio delle consegne marinare alle nuove generazioni. L’antico veliero diventa la forgia miracolosa che trasforma bamboccioni in uomini di mare; ragazzi avventurosi, in marinai consapevoli che ridurre o sciogliere le vele a 54 mt. d’altezza (albero di maestra), 50 mt. (albero di trinchetto) e 40 mt. (albero di mezzana)  su una nave che rolla e beccheggia é un compito arduo che spetta solo ai veri marinai.

Foto N.7 – I cadetti poggiano sul “marciapiede” di un pennone

Ma alla fine del viaggio il premio c’é, e si tratta del tatuaggio invisibile ed indelebile che scende dallo spirito carismatico di questa Unità della M.M. e marchia per sempre il loro essere marinai italiani. Il nostro sguardo scende lentamente dai pennoni della Vespucci e ci chiediamo: “Ma chi é il vero spirito di questa nave?” Ormai la risposta viene da sé. Il vero spirito della nave Vespucci, almeno per noi, é il NOSTROMO di bordo.

Carlo GATTI

Rapallo, 14.10.11

Si ringrazia  il Capitano di Vascello Roberto Cervino per averci ospitato a bordo della “nave più bella del mondo”.

 


IL MARE INNAMORATO

IL MARE INNAMORATO

Alcuni credono che il mare sia una cosa inanimata: un minerale. lnvece no.  E un essere vivo, con un caratterino bizzarro e bizzoso con cui bisogna fare i conti. Se i pescatori gli portano via troppo pesce, se gli uomini lo sporcano troppo con i loro rifiuti o lo soffocano con il loro petrolio, allora si altera, incomincia ad ondeggiare, a sbuffare spruzzi d'acqua e, siccome è enorme, ogni suo movimento provoca danni anche a grande distanza. In un paesino poco conosciuto sulla costa della Liguria, viveva una bambina che amava molto il mare. Era ancora piccolina, ma già brava a camminare e a parlare. Il suo posto preferito per giocare era la spiaggia, anche se sassosa e scomoda. D'estate il suo più grande divertimento era fare il bagno. Ogni volta che arrivava vicino al mare, bagnava la manina, si faceva il segno della croce ripetendo una giaculatoria che le aveva insegnato la nonna: "Ciao Gesù, io ti saluto nel più bello del Creato", poi immergeva di nuovo la mano, assaggiava il sapore del mare e diceva sempre: “Com'è buono”. Infine, se era estate, correva dentro e si lasciava afferrare dall'onda senza paura ed esclamava: “Com'è forte!”. Il mare a furia di sentirsi dire: bello, buono e forte si intenerisce, quando arrivava la bambina, regolava l'onda per non farle male, attirava le correnti per spingere al largo rifiuti e meduse, insomma si faceva più bello per lei. I pescatori locali, come tutti, ascoltavano le previsioni del tempo prima di avventurarsi a pesca e, se erano troppo brutte, se ne stavano a casa a dormire per non rischiar la pelle. Ben presto però si accorsero che, nella loro zona, si verificava un fenomeno strano. La radio annunciava: venti da sud, sud-ovest, mare forza sei, burrasche, facendoli correre a rinforzar gli ormeggi e brontolare per la perdita di guadagno. Il giorno dopo invece, dopo un inizio burrascoso, il mare si quietava, non rispondeva al vento e tutto ritornava tranquillo. “Ehi, Dario, ma hai sentito anche tu le previsioni. Non ci azzeccano proprio”. “Io metto la barca in mare" diceva Piero. Ormai è passata l'ora buona, ma andiamo lo stesso. Non si capisce più niente” rispondeva Dario con un'aria sconsolata.

I poveretti mettevano le barche in mare e per qualche ora tutto filava liscio. Finché la bambina stava sulla spiaggia, il mare faceva per lei il bello e il buono e calmava i suoi furori, ma quando lei rientrava a casa, tornava a imbizzarrirsi e ancor più si infuriava contro quei due o tre pescatori, che avevano osato sfidare la sua potenza.

Il mare vuole rispetto e se lo si prende sottogamba, c'è da pagarla cara. Cosi una volta i poveri Dario, Piero e Simone si trovarono di colpo in balia delle onde.

"Maria santissima, cosa succede?" gridava uno nella radio. L'altro a fatica rispondeva: "Presto, tiriamo su le reti. Cerchiamo di tornare in porto". ll terzo, sopraffatto dall'urlo del vento e dal mugghiar del mare, non riusciva a sentirli e, tra una bestemmia e una preghiera, tagliò la rete per affrettare il ritorno. Meglio perdere la rete che la vita, pensava con le lacrime agli occhi, senza capacitarsi di un cambiamento del tempo così repentino. Uno dopo l'altro ammaccati e grondanti rientrarono in porto, accolti con sollievo dai familiari, ma rimbrottati aspramente dalle autorità marittime, che non capivano come dei professionisti fossero usciti in mare con le previsioni catastrofiche annunciate. Inoltre non era la prima volta che lo facevano. Due sere dopo, passata la burrasca, i tre s'interrogavano ancora, davanti a un bicchiere di vino, sulle avventure vissute, anche se l'ultima era stata la peggiore. “In tanti anni non mi era mai capitato, che il mare cambiasse così improvvisamente” disse Dario. “Previsioni sbagliate, ne ho sentite tante”, riprese Piero, ma nelle realtà una cosa del genere non l'avevo mai vissuta, né sentita raccontare”. "A me è venuta voglia di cambiar mestiere” borbottò Simone, che aveva perso anche la rete. “No, dai non ti scoraggiare;” gli rispose Dario, la rete la ricompriamo con il fondo del Circolo; l'abbiamo fondato apposta per venire incontro alle vittime di incidenti che possono capitare a tutti noi, la cosa importante è che dobbiamo capire cosa è successo per non caderci un'altra volta” riprese pensieroso. “Sai, Agostina, quella bambina che sta vicino a me" disse Simone distrattamente, quando ha saputo quello che è successo, mi ha chiesto: "Perché non hai fatto una carezza al mare? Così si calmava". Beata innocenza. Per Piero fu come una rivelazione. “Accidenti, disse anche le altre volte e andata così. Il mare è brutto, poi ad una certa ora si calma, soltanto qui nel nostro golfo e, dopo qualche ora ricomincia il finimondo. "C'è qualcosa sotto!" concluse. “Cosa intendi con "qualcosa sotto"? gli chiese Dario. “Non lo so, ma dobbiamo indagare, vedere cosa succede in paese, quando il mare si calma. Non è normale”, rispose Piero. Dopo una settimana la situazione  si ripeté identica. Previsioni cattive, tutti in porto, ma invece di starsene a casa a dormire, i nostri tre pescatori di divisero i compiti dell'indagine. “Tu Dario vai in chiesa a vedere se fanno qualche funzione Particolare”, disse Piero.” Tu Simone, controlla Agostina, la tua vicina di casa. Io intanto giro un po' per il paese e per il porto e sento cosa si dice” decise Piero. Dario non era un frequentatore abituale della chiesa e ci entrò con un certo imbarazzo. La chiesa era deserta, la luce scarsa penetrava dai vetri colorati in modo uniforme. A tratti però, durante qualche schiarita, la luce si intensificava e si raccoglieva in raggi obliqui, che andavano ad illuminare, come fari, un altare laterale tappezzato di ex-voto, dove era esposta una Madonna. Dario guardò incuriosito le pareti, che circondavano l'altare: i quadretti esposti rappresentavano per lo più scene di mare in burrasca, battelli inclinati con le vele ammainate e marinai imploranti. Sì, i suoi avi ne avevano passato delle belle in mare e nei momenti più bui si erano rivolti alla Madonna per aiuto. Lui non ci credeva molto, ma capiva come potesse essere successo. Così un po' vergognoso accese una candela, accompagnando il gesto con questo pensiero: "Fa' che non succeda più»" Poi se ne uscì senza aver ottenuto le informazioni che cercava. In chiesa non c'era nessuna funzione, anzi non c'era anima viva. Simone era affacciato alla finestra della cucina, quando vide Agostina uscire di casa con secchiello e paletta, accompagnata dalla mamma. “Ma dove andate con questo tempo?” chiese. “Alla spiaggia" rispose Agostina sorridendo. “Non scherzare. Quando il mare è grosso se la mangia la tua spiaggia" insistette Simone. Dove andiamo noi è riparato, intervenne la madre, e poi ad una cert'ora si calma sempre". Simone rimase interdetto. Lì per lì non sapeva se controbattere, se seguire le due vicine o se correre dagli amici araccontare quello che aveva sentito. L'indecisione gli fu fatale, perché nel frattempo le due si erano allontanate e lui non riuscì a ritrovarle. Uscì comunque di casa e si diresse verso il porto, dove incontrò Piero, intento a chiacchierare animatamente con due vecchi pescatori in pensione. Essi sfidavano il brutto tempo pur di non mancare all'abituale appuntamento sul porto, dove erano soliti trascorrere le mattinate rievocando le avventure passate e brontolando sul presente. “Ma come  ve  lo spiegate voi questo tempo matto?' stava chiedendo Piero al più anziano dei due. “Quando ero giovane io, le mareggiate c'erano solo d'autunno. Quelle sì, che erano mareggiate. L'onda arrivava contro le pareti della chiesa e gli spruzzi bagnavano le vetrate. Così, quando eravamo in chiesa, ci sembrava di essere in barca. Più sicuri, però. Poi hanno costruito questa barriera di scogli per proteggere le fondamenta della chiesa e il mare ha preso un altro giro. Non ci capisco più niente” rispose quello. “lo so” riprese con pazienza Piero "vi ricordate se il mare era così variabile? Agitato, poi quasi calmo e poi di nuovo in burrasca nello stesso giorno?” “No, no, rispose l'altro "se era scirocco durava tre giorni, se era libeccio un giorno e una notte, poi piano piano si calmava. Il maestrale non ci dava tanto fastidio. Bastava stare all'interno del golfo, ma allora si pescava lo stesso. Non come adesso che se non andate al largo, non prendete niente". “E secondo voi, cosa può essere a rendere il mare così matto?”. Chiese ancora Piero. “Eh lo so io, lo so io, rispose il primo. La bomba atomica, gli esperimenti. Ecco cos'è. Dopo la guerra niente è stato più come prima”... concluse scrollando il capo. Intervenne Simone dando di gomito a Piero.

“Vieni al bar" disse "che ti devo raccontare una cosa". Lì, al riparo da orecchie indiscrete, gli disse in quattro e quattr'otto cosa gli avevano detto Agostina e sua madre. A Piero pareva una scemenza e mentre stavano discutendo arrivò anche Dario, che non aveva scoperto niente. Uscirono insieme e guardarono il mare: pareva un agnellino innocente con le sue piccole onde a ricciolo bianco. Uno scherzo. “Un imbroglione" gli urlò Piero vedrai che scopriremo il tuo trucco. Insieme si incamminarono verso le spiagge di levante e lì, in una piccola insenatura protetta dagli scogli, videro Agostina che giocava beatamente con i piedi nell'acqua e sua madre, che faceva la maglia. "Avete un bel coraggio voi due, incominciò Piero "a star sulla spiaggia con questo tempo”. “Vede che il mare si è calmato?" rispose la signora guardando Simone "siamo fortunate. Noi veniamo quasi tutti i giorni alla spiaggia. Quando Agostina andrà a scuola sarà diverso, ma per adesso ce la godiamo". “Buon divertimento allora» risposero i tre allontanandosi, con la testa confusa da pensieri contrastanti. Non ne parlarono più tra loro, per timore di essere presi per creduloni, però, come per un tacito accordo si misero a turno sulle tracce di Agostina. Il fenomeno del mare, che si calmava, quando Agostina era sulla spiaggia, si verificava sempre. Non sapevano che spiegazione dare, non intendevano parlarne ad altri, ma tra loro presero alcune decisioni. “Senti”, disse Piero rivolto a Simone "devi invitare Agostina sulla barca a pescare". Ma mi è d'impiccio, sei matto. Una bambina di quattro anni in barca a pescare, si ribellò Simone. “Cos'hai in mente?, chiese Dario. “Ho pensato che Agostina potrebbe essere il nostro portafortuna”, rispose Piero.  Simone, che la conosce meglio, la porta in barca due o tre volte col mare buono, per farle prendere confidenza. Un giorno, quando ci sarà burrasca usciremo tutti e tre sulla barca di Simone con Agostina e magari non ci succede niente. Peschiamo quando tutti gli altri sono in porto. Possiamo vendere   al prezzo che vogliamo, se siamo gli unici ad averlo" concluse. “Mi pare un'idea disonesta e pericolosa”, disse Dario. “E anche sciocca, esclamò Simone io non ci sto. Lasciatemi in pace! “Ohi te, che fai il cavaliere” lo rimbrottò Piero. "Ti devi ricomprar la rete. Vorrai mantenere la tua famiglia in qualche modo? Non facciamo niente di male, sfruttiamo solo un segreto, che gli altri non conoscono». In breve Piero vinse la resistenza degli altri due e Agostina fu invitata a pesca. La prima volta la mamma rifiutò, poi cedette alle insistenze del pescatore e della bambina. "Dai mamma, lasciami andare. Deve essere bellissimo stare in mezzo al mare. Anch'io da grande farò la pescatrice" insistette Agostina. “Si, la rana pescatrice" rise la madre. Per due volte Agostina uscì in barca con Simone. Il mare era calmo, i pericoli lontani e la piccolina tornò a casa orgogliosa con qualche pesce in mano. Una sera dopo aver ascoltato alla radio le previsioni del tempo, che annunciavano vento forte e mare agitato i tre si telefonarono. Piero, che era la mente del gruppo, organizzò il lavoro per il giorno dopo. Si accordarono per uscire in mare tutti e tre sulla barca di Simone con Agostina come protezione contro la furia del mare. Naturalmente dovevano ricorrere ad uno stratagemma per ingannare la mamma di Agostina. Questa parte antipatica toccò a Simone. “Buongiorno signora. Oggi è brutto tempo e non si va. Se vuole porto Agostina a fare un giretto, tanto sono disoccupato”. “Perché no?”, rispose la madre, che era indaffarata ad impastar ravioli. “La copra bene, che tira vento”, suggerì il pescatore. Una volta fuori di casa Simone disse ad Agostina: ti confido un segreto, che deve restare tra noi, per non spaventare la mamma. Ti porto in barca anche oggi. Non aver paura. Vedrai che emozione, disse sorridendo, quasi sicuro che il mare si sarebbe calmato, vedendo la barca con Agostina sopra. La bambina non rispose. Gli camminava a fianco in silenzio, preoccupata per la bugia, ma curiosa di vedere il mare in burrasca. Appena la barca con i quattro doppiò il molo del porto, si trovò in difficoltà. il mare era davvero spaventoso: era impossibile calar le reti e difficilissimo timonare. Piero e Dario, a fatica, presero Agostina sotto le ascelle e alzarono le braccia la cielo come per offrirla in voto urlando: ”Mare, mare, calmati. Guarda chi c'è a bordo!”. A quel punto scoppiò il finimondo. Il mare, vedendo che quei pazzi avevano osato sfidarlo usando Agostina come scudo, perse del tutto la ragione e si scagliò con forza contro la barca sballottandola come fosse stata una foglia secca. Agostina era sicura che se avesse potuto mettere la mano in acqua e accarezzare il mare, quello si sarebbe placato, ma lì a prua, tenuta come una polena dai due pescatori, era davvero spaventata. Incominciò a pianger e a invocare la mamma. Piero urlava a Simone: “Vira, vira. Rientriamo”. L'amico aveva difficoltà di manovra, mentre era di fianco, un'ondata più vigorosa delle altre, si abbatté sul battello spaccandolo in due. Era il naufragio, altro che pesca miracolosa. In un attimo, mentre la barca colava a picco, i tre avevano capito il loro errore. Preoccupati per la bambina, cercavano di afferrarla e salvarla, ma il mare aveva già deciso. Un'onda orlata di spuma bianca la rapì dalle loro mani, che annaspavano e la fece sparire alla loro vista. Agostina si trovò a cavallo di quest'onda anomala, che, senza mai infrangersi, galoppava veloce verso la solita spiaggetta dove amorosamente la posò a terra fradicia e piangente. I tre aggrappati ai rottami del battello intanto cercavano di galleggiare, mentre il mare s'infuriava contro di loro. Passarono un quarto d'ora lungo un secolo tra pianti, insulti e preghiere. Agostina a terra si chiedeva che fine avesse fatto il suo amico Simone e gli altri due pazzi, che l'avevano presa e sollevata e chiedeva al mare di salvarli, di avere pietà di loro. Il mare sembrava sordo quel giorno, ma dopo un po' si calmò. Adagio, adagio i tre pescatori avevano raggiunto la riva terrorizzati e ammaccati. Naturalmente non la passarono liscia. Oltre alla perdita della barca, dovettero subire un processo e furono condannati a tre anni di prigione. In prigione ebbero modo di riflettere e decisero di cambiar mestiere, perché avevano intuito che il mare non avrebbe perdonato un'altra mancanza di rispetto. Era già andata bene così.

 

ADA BOTTINI

17 Luglio 2017

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NEL MONDO DELLE PIATTAFORME PETROLIFERE

NEL MONDO DELLE PIATTAFORME PETROLIFERE

Pino Sorio racconta: "...da ex Micoperi (25 anni di collaborazione),  dopo il lavoro svolto da queste persone davvero competenti e molto speciali, sono contento che questa società si sia risollevata a tal punto da competere di nuovo a livello mondiale. La prima Micoperi, pur essendo una società a conduzione quasi familiare, è stata la prima ad entrare nel Mare del Nord (costruzione ptf petrolifere) con i mezzi più all'avanguardia (M25-M26-M27 ed infine con il gioiello M7000 con le sue due gru da 7000 tons)".

Il nostro socio Pino Sorio, DM di lungo corso e di grande esperienza mondiale nel settore delle piattaforme petrolifere e non solo, come vedremo, gratifica i nostri followers con un ampio ALBUM FOTOGRAFICO dedicato a questi "mostri" dell'ingegneria navale. Ringraziamo Pino Sorio che ci accompagnerà in questo percorso a tappe che pochi conoscono, ma che tutti sono interessati a scoprirne i segreti.

 

Saipem è oggi leader mondiale nel settore dei servizi per l’industria petrolifera onshore e offshore. La società ha cominciato ad operare negli anni '50. Durante gli anni '50 e '60 ha maturato competenze nella posa di condotte onshore, nella costruzione di impianti e nella perforazione, inizialmente come divisione dell’Eni e in seguito su base stand-alone, diventando definitivamente autonoma nel 1969. Saipem ha iniziato le attività offshore nel Mediterraneo nei primi anni '60 e ha esteso le operazioni al Mare del Nord nel 1972. La società ha iniziato ad offrire servizi all’esterno del gruppo Eni nei primi anni '60 e da allora ha progressivamente ampliato la propria base clienti, che oggi annovera quasi tutti i colossi del petrolio e le maggiori compagnie petrolifere, sia private che di stato, di tutto il mondo. Alla fine degli anni '90, con lo spostamento delle attività verso le acque profonde e in paesi in via di sviluppo, Saipem ha realizzato un piano di investimenti per adeguare alle sempre più sfidanti condizioni di mercato le capacità dei propri mezzi navali nella perforazione e nello sviluppo dei giacimenti in acque profonde, nella posa delle condotte, nel leased FPSO (Floating Production Storage and Offloading) e nella robotica sottomarina.
Saipem è stata tra le prime a dare risalto al contenuto locale sviluppando imponenti strutture nell’Africa Occidentale, nei paesi dell’ex Unione Sovietica e in Medio Oriente, ed impiegando un numero di lavoratori locali senza pari nell’industria.
Contemporaneamente al potenziamento della flotta e allo sviluppo del contenuto locale, la Società ha iniziato a rafforzare le proprie competenze ingegneristiche e di project management, per affrontare un altro importante trend verso i grandi progetti integrati di tipo EPCI e EPC, prima in ambito offshore e successivamente in ambito onshore. L’obiettivo per quanto riguarda l’offshore è stato raggiunto attraverso una serie di acquisizioni, culminate in quella di Bouygues Offshore nel 2002. Questa operazione va considerata come la più rilevante acquisizione effettuata tra società di paesi diversi in Europa nel settore dei servizi per l’industria petrolifera. Successivamente, in risposta alla tendenza del settore verso grandi progetti EPC onshore, tra cui quelli relativi alla valorizzazione del gas naturale e dei greggi difficili (quali oli pesanti, sabbie bituminose, ecc.) e al fine di rafforzare la propria posizione in Medio Oriente e la propria base clienti, nel 2006 Saipem ha acquisito Snamprogetti, una delle maggiori società di ingegneria e costruzioni attiva sul mercato internazionale della progettazione ed esecuzione di grandi impianti a terra per la produzione ed il trattamento di idrocarburi e la valorizzazione del gas naturale.

Il risultato è stato la creazione di un eccezionale contrattista, con un forte orientamento verso le attività oil & gas in aree remote e in acque profonde, leader a livello mondiale nella fornitura di servizi di ingegneria, di procurement, di project management e di costruzione, con distintive capacità di progettazione ed esecuzione di contratti offshore e onshore anche ad alto contenuto tecnologico quali la valorizzazione del gas naturale e degli oli pesanti.

Saipem ha recentemente portato a termine l’impegnativo programma di investimenti, iniziato nel 2006, volto a rafforzare ed espandere gli asset delle Perforazioni e delle Costruzioni Mare, oltre ad asset richiesti nell’ambito di progetti di rafforzamento del local content, in particolare mezzi navali d’avanguardia progettati avendo in mente le sfide che porranno la produzione e il trasporto di idrocarburi in acque ultra-profonde e in ambienti di frontiera.

Saipem è quotata alla Borsa Valori di Milano dal 1984 (in precedenza era interamente proprietà di Eni). Attualmente Eni possiede circa il 43% di Saipem.

 

 

 

(ultimo aggiornamento: 15 gennaio 2014)

 

Flotta per attività di perforazione

 

Saipem 10000

Saipem 12000

Scarabeo 3

Scarabeo 4

Scarabeo 5

Scarabeo 6

Scarabeo 7

Scarabeo 8

Scarabeo 9

Perro Negro 2

Perro Negro 3

Perro Negro 4

Perro Negro 5

Perro Negro 6 (affondata in un incidente presso la foce del fiume Congo il 1º luglio 2013)

Perro Negro 7

Perro Negro 8

Saipem TAD

 

Flotta per attività di costruzione

 

 

Castorone

 

Castoro II

 

Castoro Sei

 

Castoro 7

 

Castoro Otto

 

Castoro 9

 

Castoro 10

 

Castoro 11

 

Castoro 12

 

Castoro 14

 

Castoro 15

 

Castoro 16

 

Saipem FDS

 

Saipem FDS 2

 

Saipem 3000

 

Saipem 7000

 

Semac 1

 

S 355

 

Crawler

Bar Protector

 

Ersai 1

 

Ersai 2

 

Ersai 3

 

Ersai 4

 

Ersai 400

 

Ragno 3

 

SB 230

 

S 44

 

S 600

 

S 45

 

S 42

 

SB 103

 

S 43

 

S 46

 

S 47

 

New DSV

 

Far Sovereign

 

• Normand Cutter

 

• Far Samson

 

• Grampian Surveyor

 

• DP Reel

 

• Harvey Discovery

 

• Bourbon Trieste

 

• Miclyn Endurance

 

• Innovator 250

 

• Innovator

 

• Olympian

 

• Super Mohawk

 

• MRV

 

• Discovery/Scorpion

 

• Beluga

 

• Flexjet II

 

• Brutus

 

• Carousel

Il DM Pino Sorio racconta: "Seguono alcune foto dell'impianto per il varo in modo "Jay" (fondali fino a 3000 metri) che abbiamo installato a R'dam tra il 1998 e fine 1999 e le prove di varo fatte in un fjordo della Norvegia. Sulle foto ho inserito alcune spiegazioni. All'interno della torre erano installati tre tensionatori ciascuno con un tiro da 400 Tons, una stazione di saldatura di tipo "giostra" (brevetto Saipem)con tre macchine saldatrici a filo continuo, una sottostante stazione di controllo RX saldature ed una stazione per  eventuali riparazioni saldature. Alla base della torre a livello mare vi era una clampa idraulica per tenere tutto il peso della tubazione gia varata a mare. All'esterno della torre vi erano i bracci idraulici con clampe per sollevare le barre di tubi lunghe 45 metri dalla coperta e allinearle con la testa della tubazione già varata. I tubi venivano trasportati sulle bettoline in pacchi pre-assemblati da 5000 tons. In coperta era sistemata tutta la linea di cianfrinatura terminali tubi ed il verricello idraulico per l'abbandono a mare in caso di emergenza (condizioni meteo avverse) e successivo recupero per ripresa lavoro. Il verricello di abbandono e recupero aveva un tiro massimo di 3500 tons ed era stato costruito da una ditta della provincia di Bergamo.

 

Il primo progetto portato a termine dalla S7000 è stato il gasdotto "Blue Stream" nel Mar Nero tra la Russia e la Turchia ad una profondità di 2000 metri e con una media giornaliera di varo di 2.2 km di tubo".

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Chief Engeneer Pino Sorio a destra

In queste ultime foto si vede la fase di saldatura della barra di tubo da 45 metri alla sezione di sealine giò completata che viene fatta contemporaneamente da tre saldatrici che ruotano attorno al tubo, praticamente ogni saldatrice completa 120° di circonferenza e il tutto avviene nel tempo di meno di tre minuti. Quando si inzia a varare, il tubo completato viene fatto scendere lentamente a mare da tre tensionatori (costruiti vicino a Torino da ditta italianissima) ciascuno con un tiro da 400 tons (ultima foto).

Nella sezione VIDEO di questo sitoweb potete assistere sul Youtube SAIPEM 7000 all'operazione di saldatura parzialmente descritta in questo articolo.

Pino SORIO

 

Rapallo, 11 Febbraio 2015

 

Webmaster Carlo Gatti

 

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