SANTA MARGHERITA L. e la Guerra '15-'18
SANTA MARGHERITA
la guerra ’15 -‘18
<Santa Margherita è forse, in inverno, la stazione climatica che gli Inglesi e i Teutonici amano di preferenza affollare. Quando imperversa con la calura la torrida estate, non è italiano che non vi trascorra qualche giorno per tuffarsi nelle glauche acque del Tirreno. Si leva nel golfo di Rapallo come una ninfea voluttuosa, in una baia ridente, protetta da tutte le furie di Eolo. Santa Margherita accoglie oggidì nei suoi alberghi di primo ordine tutte le categorie degli errabondi che lasciano le nordiche case e si installano in questa riva magica che il dattero di oriente profuma, maturando >.
Trascrizione integrale nella quale é difficile ritrovarsi oggi, ma così appare nel volume <Liguria > della collana “Bellezze d’Italia” con tanto di dedica bene augurante, posta sotto il ritratto a tutta pagina in apertura del libro, firmata da Benito Mussolini; era il Gennaio del 1924.
In quegli anni, qualche italiano turista era possibile ci fosse; solo quei pochi che se lo potevano permettere erano accomunati ai nordici, compreso il brivido dell’avventura di <solcare i mari >, anche se in realtà si limitavano a circumnavigare i capi del golfo del Tigullio su motoscafi privati, gli unici che all’epoca facessero servizio a noleggio. Fino ai primi decenni del ‘900, quel golfo, com’è facile intuire, era meta di un turismo di élite, per altro anche l’unico in circolazione all’epoca, nonostante sia scritto <..non è italiano che..> nel libro menzionato.
Papà, giovanissimo appassionato di motori e di salsedine, comandava, guidava e manuteneva uno di quei battelli e accompagnava i clienti a vedere quelle che D’Annunzio, in “Elettra”, descrive come:
le rupi che nel mar di Liguria
si protendono come sfingi
coronate di fiori!
Il servizio di battelli che oggi trasportano masse di gitanti, non esisteva ancora, così come, lo abbiamo detto, non esistevano per altro neppure le “masse di gitanti” che potessero permettersi il lusso di esserne trasportati.
Ogni qual volta navigo in quelle acque, non posso dimenticare quanto mi raccontava, di quel poco che ha voluto dirci della sua vita, mio padre a proposito di una decisione, per lui giovinetto, importante.
Nel 1915, appena ventenne, decise di lasciare l’ottimo posto di lavoro che aveva presso gli stabilimenti Ansaldo per seguire, volontario, i suoi più anziani colleghi che, invece, erano stati chiamati alle armi per combattere nella “grande guerra”, già scoppiata; “grande” la si definì solo alla fine anche se, come per tutte le guerre, sarebbe stato più consono definirla “immane”.
Prese quella decisione perché aveva ritenuto ingiusto restare a casa, magari facendo pure carriera grazie alla loro assenza, anche se la Direzione dell'Ansaldo aveva per lui ottenuto l’esenzione dal servizio militare. Era ritenuto, per certe sue intuizioni migliorative della produzione, indispensabile, perché capace di risolvere problemi normalmente ovviabili solo dopo lunghi studi a tavolino; in tempo di guerra la velocità può rivelarsi decisiva.
Venuto a conoscenza che il figlio “dandy”, prediletto e viziato dalla madre, una nobildonna milanese sua assidua cliente ai tempi del cabotaggio, era stato chiamato alle armi, prese contatti con la signora stessa, ponendosi a sua disposizione.
All’epoca, per essere graduati, non era indispensabile un titolo di studio; si poteva ovviare portando in <dote > un’attrezzatura che fosse ritenuta utile per la patria in armi. Entro certi limiti, si aveva diritto ad un grado proporzionale all’apporto offerto; poteva essere valido già un cavallo, per poi salire ad una moto, un’auto, un camion, un motoscafo sino ad arrivare all’ambitissimo aeromobile, in quei tempi agli esordi.
La signora, conoscendo la serietà e le capacità tecniche di mio padre, acquistò per il figlio un motoscafo e lo equipaggiò anche con un pilota-meccanico di prim’ordine, in modo che potesse fungere da angelo custode al figlio e garantire, nello stesso tempo, un’efficiente manutenzione all’imbarcazione: papà, per l’appunto.
Subito il “signorino” fu nominato Ufficiale e aggregato al Comando della Marina a Venezia dove, libero dalla presenza vigilatrice della madre, si dette alla bella vita con i “soldi di mammà”. Mio padre avrebbe dovuto fargli da attendente-pilota ma, una volta arrivati a destinazione e trovato per “l’armatore” una comoda sistemazione al Lido, noblesse oblige, domandò e ottenne di potersi aggregare, barca al seguito, a Chioggia, con compiti operativi. D’altro canto lui era lì per combattere, purché sul mare, e questo intendeva fare. All’epoca era in auge D’Annunzio con il suo dire:
Il mare è la mia patria, la patria dei liberi.
Era spesso inviato a risalire il Piave o l’Isonzo, per missioni di guerra; appena calata la notte doveva trasportare, oltre gli avamposti austriaci, gruppi di <arditi > assalitori con il compito di neutralizzare silenziosamente, usando solo pugnali e corti cavetti d’acciaio, gli occupanti di certe postazioni nemiche che, durante il giorno, avevano dato del "filo da torcere" agli alleati. Poi, prima del rischiarare dell’alba, in ora e sito stabilito, doveva recuperarli per riportarli alla base; moltissime volte, purtroppo, il motoscafo ritornò semivuoto. Normalmente, non appena rimbarcati i presenti all’appuntamento, sfruttando la corrente discendente del fiume per ridurre al minimo il rumore dei motori, a luci spente, iniziava il ritorno fra sponde infide.
Nel tentativo di far recuperare agli arditi le perdute e intirizzite energie, preparava sottocoperta delle spaghettate; a mano a mano che le missioni s’intensificavano, sempre più spesso quel pasto caldo serviva a sedare frequenti incontrollabili tremori. L’acqua per cuocere l’attingeva direttamente dal fiume e, raccontava che, in occasione della ritirata di Caporetto, era insolitamente rossastra tanto che era difficile trovare un’ansa dove l’acqua non fosse insanguinata.
Per il suo coraggio e la sua capacità lo addestrarono per partecipare alla <Beffa di Bucari > in qualità di riserva ma, alla fine, non venne chiamato.
Suo fratello, poco più anziano di lui, era anch’esso combattente ma “fantaccino pesta fango” sul Carso; quest’ultimo, uomo di tutt’altro carattere rispetto a quello di papà, pragmatico, disincantato e da sempre un mattacchione mai ligio alle norme, aveva avviato, in prima linea, un fiorente commercio d’alcolici, arrivando persino a barattarli con il nemico, facilitato in questo dalla sedentarietà prolungata delle reciproche postazioni, tanto che certuni, pur su fronti opposti, avevano installato fra loro un certo dialogare.
La bevanda più compravenduta era la grappa che, se fraudolentamente distribuita prima d’ogni assalto in misura leggermente inferiore al prescritto, gli permetteva di commerciarne il residuato surplus.
Un giorno papà decise di dedicare un permesso ottenuto, andando a trovarlo, così da poter poi mandare notizie alla loro madre che, in ansia e in preghiera, a casa attendeva. Partì per il Carso con lo stesso spirito, ho motivo di credere, con il quale oggi partiremmo per un fine settimana fuori porta; giunto in prima linea, non faticò molto a farsi indicare in quale trincea avrebbe potuto trovare il fratello, tanto il personaggio si era fatto conoscere. Stanco del viaggio e non trovandolo si accoccolò, per attenderlo, nella “tana” che il fratello si era ricavata fra le rocce e, qui, si addormentò.
Lo svegliò un fastidioso raggio di sole che, all’improvviso, filtrò dal pezzo di sacco assurto a tenda d’ingresso; nello sbirciare, focalizzò contro luce, un Capitano che, scostata la tenda, stava entrando. L’abitudine lo fece balzare in piedi di scatto, ancorché semistordito dalla stanchezza e dal sonno, mentre tentava di qualificarsi perché si rendeva conto che, per quello, non era usuale incontrare un marinaio sul Carso senza adeguata giustificazione. Subito però riconobbe nei panni del graduato suo fratello che, con sottobraccio una botticella gli spiegò, con la più invidiabile naturalezza, che stava per l’appunto tornando da una missione “commerciale”.
Una volta dentro, si sfilò dal berretto cilindrico, tipico degli ufficiali di quella guerra e immortalato nelle foto di Vittorio Emanuele III, il re soldato, i galloni che erano formati da cerchi in passamaneria “coda di topo” dorata, tanti quanto il grado imponeva, e appendedoli ad un chiodo, tornò soldato semplice quale effettivamente era; spiegò, al sempre più trasognato e ligio fratello, che quelli gli erano indispensabili per poter liberamente circolare ad alimentare il suo commercio. Una volta appurato a quale grado apparteneva il comandante di giornata, s’infilata un cerchio in più di quanti non n’avesse l’altro, per non correre il rischio di essere ostacolato in una delle sue frequenti “missioni”.
Mentre il fratello raccontava queste “allucinanti” cose, papà avvertì crescenti fastidiosi spifferi d’aria che, all’arrivo lassù, non aveva accusato; si guardò e non potè che costatare che la sua logora divisa di panno da marina, era ormai tutta un buco, nemmeno fosse fatta di sottili fette di gruviera. La spiegazione la scoprì ben presto; durante il sonno, i topi avevano banchettato, come da mesi non capitava loro, a base di panno intriso d’olio da motore frammisto a grasso per i supporti degli assi delle eliche. Rimediata una divisa, forse tolta a qualcuno che nell’ennesimo tentativo d’assalto non aveva avuto fortuna, rientrò a Chioggia, apparentemente arruolato in un’arma che non era la medesima di quando era partito.
Così i nostri padri accettarono o dovettero accettare di mortificare i migliori anni della loro giovinezza nella speranza almeno, di contribuire a creare una Patria forte e in pace. Nel nome dello stesso ideale, altri combatterono poi in Africa ed in Spagna, non pensando che da lì a poco molti di loro, ormai non più giovani, si sarebbero trovati inspiegabilmente alleati con quelli che sino ad ieri avevano considerati nemici e, per di più, ora uniti in una nuova disperata avventura.
Renzo BAGNASCO
Rapallo, 28.12.2014
Il Romanzo della LONGITUDINE
IL ROMANZO DELLA LONGITUDINE
UNA SOLUZIONE ATTESA MILLENNI
Il buon Dio e la natura hanno dato, fin dagli albori, la possibilità al navigante di stabilire la latitudine misurando la latitudine misurando di notte l’altezza della stella Polare, oppure misurando di giorno l’altezza massima che il sole raggiunge sopralasuatesta.
Quando i Velieri si arenavano sugli scogli perché non conoscevano la Longitudine.
Per la soluzione della longitudine c’è stato invece il buio totale fino alla metà del 1700.
E’ impossibile sapere quante navi sono naufragate nei millenni per l’errata valutazione della longitudine.
Questo fantastico capitolo della storia della navigazione ha inizio, pensate, con la soluzione trovata da un orologiaio, l’inglese John Harrison che affermò:
“E’ sufficiente che ogni nave sia equipaggiata con un cronometro in grado di misurare l’ora esatta, quella di Londra per esempio, ed un semplice confronto con l’ora locale del punto dove si trova la nave, fornirebbe istantaneamente il “FUSO ORARIO”, cioè quanti gradi e primi, e dunque la longitudine della nave e quindi anche la sua distanza dal meridiano 0° convenzionale-politico di riferimento”. Ma ci mise tutta una vita per fare accettarequesto semplice concetto ai grandi astronomi del 1700".
Il Comandante Ernani Andreatta mostra il cronometro navale della “Texaco Arizona” varata nel 1949 presso il celebre Cantiere Navale Bethlehem Steel Corporation di Quincy, Massachusetts (USA)
Ci troviamo in compagnia del Comandante Ernani Andreatta, fondatore e conservatore del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari.
Comandante, nel 1999 siamo stati entrambi folgorati dal piccolo libro “Longitudine” di Dava Sobel, non tanto per l’aspetto scientifico che avevamo già analizzato al Nautico, ma per la storia “sofferta” di Harrison che ignoravamo totalmente.
E’ vero! Del piccolo libro di Dava Sobel, “Longitudine”, mi affascinò soprattutto l’argomento trattato che mi stimolò per avviare ulteriori ricerche sull’argomento che culminarono con una conferenza, della quale fui relatore nello stesso anno alla Scuola Telecomunicazioni di Chiavari.
Sicuramente abbiamo in comune un ricordo: il primo ordine che veniva impartito all’Allievo ufficiale di coperta del dopoguerra, fino all’avvento del GPS, era quello di dare la carica, ogni mattina, al cronometro di bordo.
Questo fa parte della nostra storia di naviganti. Per anni abbiamo navigato usando il sestante per trovare la posizione della nave, misurando cioè l’altezza degli astri e soprattutto usando quel famoso cronometro, da lei accennato, a cui occorreva dar la carica tutte le
mattine. Lo ritenevo un normale strumento che, come la bussola, faceva parte della strumentazione di bordo. A quel tempo non sapevo che il cronometro di bordo era stato, dopo infiniti anni di naufragi e disastri, la soluzione ai fondamentali problemi del calcolo della posizione della nave.
A pensare che Harrison era nato falegname…
John Harrison, nato falegname e non orologiaio, ebbe ragione addirittura su certi Astronomi Reali che non credevano anzi, guardavano con sospetto alla sua “piccola scatola magica”. Quel piccolo oggetto meccanico rappresentava la scoperta scientifica più importante della storia marittima e mai più avrei immaginato che dietro a quel cronometro che maneggiavo quasi con fastidio, si era consumata una durissima vicenda esistenziale per un uomo straordinario e testardo come il nostro eroe.
Spieghiamo ai nostri lettori la principale necessità di dover calcolare la longitudine.
Agli inizi del 1700, il problema di tutte le navi era il calcolo della longitudine, in pratica la distanza lungo un parallelo, da un meridiano di riferimento, e di conseguenza la posizione esatta della nave Questo era il vero problema che assillava tutti i naviganti. Agli occhi degli uomini del settecento, il mondo aveva un aspetto molto lontano da quello chegli atlanti, i mappamondi e le fotografie scattate dai satelliti ci hanno reso familiare. Non si contavano i capitani ed i loro equipaggi che avevano perso la vita schiantandosi sugli scogli avevano perso la vita perché le loro navi si erano schiantandosi sugli scogli di una costa che secondo i calcoli sbagliati dei loro piloti non doveva essere lì.
Per fortuna dei marinai, all’orizzonte apparve John Harrison il quale fornì la soluzione e la sostenne fin da subito: ogni nave fosse equipaggiata con un cronometro in grado di segnare sempre l’ora “esatta” di Londra ed un semplice confronto con l’ora locale-solare, avrebbe istantaneamente fornito il “Fuso Orario” e dunque la Longitudine della nave.
Purtroppo, trovata la soluzione teorica, si presentava un altro problema di ordine pratico: un cronometro così preciso non esisteva nemmeno sulla terraferma.
Quanto tempo impieghò J. Harrison a vincere la sua personale scommessa?
E’ la storia avvincente di quarant'anni di sforzi che furono necessari a John Harrison non solo per costruire e perfezionare quel cronometro, ma soprattutto per persuadere la comunità scientifica dell’efficacia del suo metodo, semplice e definitivo.
I grandi astronomi dell’antichità insegnarono a calcolare la latitudine, ma poi indirizzarono le loro ricerche nei meandri dell’universo. Forse la longitudine non era così importante nei limiti geografici della navigazione costiera conosciuta prima delle grandi scoperte geografiche.
Già nel 150 D.C. il cartografo e astronomo Tolomeo aveva tracciato le latitudini e le longitudini nelle ventisette carte geografiche che rappresentano una pietra miliare e un punto di riferimento importantissimo.
Per far capire meglio ai nostri lettori, ci può definire la differenza cruciale tra la Latitudine, misurata a partire dall’equatore, verso nord e verso sud e la Longitudine, misurata invece da un meridiano 0° convenzionale?
Il parallelo di Latitudine di grado ZERO vale a dire l’equatore è fissato da leggi della natura; infatti, osservando i moti apparenti dei corpi celesti, il sole, la luna e i pianeti passano quasi esattamente sopra l’equatore. L’identificazione del meridiano fondamentale Zero, invece, è una decisione squisitamente politica. Nel tempo, da Tolomeo in avanti si stabilirono come meridiano Zero, di volta in volta: le Canarie, l’arcipelago di Madera, Le Azzorre, Le Isole di Capo Verde, Roma, Copenaghen, Gerusalemme, San Pietroburgo, Pisa, Parigi, Filadelfia, prima di fissarlo, in modo universale, a Londra e precisamente a Greenwich.
L’esempio più eclatante d’errore di Longitudine ce lo diede C. Colombo che Salpò il Parallelo e credette di essere arrivato a Cipango. Ci può chiarire il rapporto tra tempo orario, longitudine e distanza geografica?
Cristoforo Colombo nel 1492 “Salpò il Parallelo” ed è fuor di dubbio che, sulla sua rotta, se non ci si fosse messa di mezzo l’America, avrebbe sicuramente trovato le Indie. Pertanto, la misura della longitudine è fortemente influenzata dall’ora e per calcolare la longitudine in alto mare bisogna sapere non soltanto che ora è a bordo della nave in un dato momento, ma anche che ora è, in quello stesso istante, nel porto di partenza o in un altro luogo di cui si conosca la longitudine. Le ore segnate dai due orologi rendono possibile al navigante la trasformazione di differenza oraria in distanza geografica. Poiché la terra impiega 24 ore per completare un’intera rotazione di 360 gradi, un’ora equivale a un 24esimo di giro, ovvero a 15° (gradi). Quindi, la differenza di un’ora tra la posizione della nave e il punto di partenza indica un avanzamento di quindici gradi di longitudine verso oriente o verso occidente. Quando in mare, il navigante, regola l’orologio della sua nave sul mezzogiorno - il momento in cui il sole raggiunge il punto più alto nel cielo, cioè lo Zenit - e quindi consulta l’orologio del punto di partenza, sa che la discrepanza di un’ora si traduce in 15 gradi di longitudine. Quegli stessi 15° (gradi) corrispondono anche ad una certa distanza percorsa. All’equatore, dove la circonferenza della terra è massima, equivalgono a mille miglia nautiche. A nord e a sud di tale linea, il valore di ciascun grado misurato in miglia diminuisce. Un grado di longitudine equivale a quattro minuti in tutto il mondo, ma in termini di distanza si contrae dalle 68 miglia all’equatore ad uno zero virtuale ai poli.
Un orologio preciso e trasportabile è stato quindi il “segreto” che ha rappresentato la vera svolta nella sicurezza della navigazione?
La conoscenza simultanea dell’ora esatta di due luoghi diversi – un pre-requisito del calcolo della longitudine - che oggi, riusciamo ad ottenere con economici orologi da polso, era una meta irraggiungibile sino a che non furono inventati gli orologi a pendolo. Ma sul ponte di una nave, che stava rollando, tali orologi diventavano pressoché inservibili perché acceleravano o rallentavano enormemente e non parliamo poi dell’influenza della temperatura tra le zone fredde e i tropici.
Possiamo affermare che la sola conoscenza della latitudine non solo fu un grande limite per i grandi navigatori, ma possiamo aggiungere che essi arrivarono dove arrivarono per “benevolenza della fortuna”?
Quasi tutti i grandi navigatori, da Vasco de Gama a Vasco Munez de Balboa, da Ferdinando Magellano a Sir Francis Drake, arrivarono dove arrivarono, volenti o nolenti, per grazia di Dio e benevolenza della fortuna. Anche il Re Giorgio III d’Inghilterra e lo stesso Luigi XIV cercarono di risolvere questo problema ed il grande James Cook fu uno dei primi esploratori a dar fiducia a Harrison con ben tre lunghi viaggi sperimentali, prima d’incontrare una morte violenta alla Hawai.
Che parte ebbero nella vicenda Longitudine i famosi astronomi dell’epoca?
Astronomi famosissimi s'ingegnarono in ogni modo e maniera per risolvere il problema del calcolo della longitudine. Ne cito alcuni come G. Galilei, Jan Dominique Cassini, Cristian Huygens, Sir Isaac Newton, Edmond Halley (lo scopritore della cometa…) ma tutti sbagliarono, perchè rivolsero i loro studi alla luna e alle stelle, forse travisati dal calcolo squisitamente astronomico della latitudine. In realtà, Galileo studiò un metodo per calcolare la longitudine, ma era complicatissimo e del tutto inapplicabile a bordo alle navi.
Non c’è dubbio che questa ricerca portò anche ad altre straordinarie scoperte come il peso della terra, la distanza delle stelle e la velocità della luce.
Comandante, ci racconti alcune tragedie marinare che furono causate dalla pessima conoscenza della longitudine.
Il problema era sempre lo stesso! Soltanto attraverso il calcolo della longitudine si sarebbe arrivati alla conoscenza della “vera” posizione della nave. Nel 1707, l’ammiraglio di Sua Maestà Sir Clowdisley perse quattro navi (su cinque), e oltre duemila uomini d’equipaggio in prossimità delle Isole Shilly a sud dell’Inghilterra (Lands End). Quando l’Alto Ufficiale scoprì con sgomento d’aver calcolato male la longitudine, era già tragedia… E pensare che un membro dell’equipaggio li aveva insistentemente avvertiti che stavano sbagliando e fu impiccato per insubordinazione.
C’è da notare che la non conoscenza della longitudine allungava i viaggi a dismisura, dipanandosi in mille episodi orripilanti di uomini uccisi dallo scorbuto e dalla sete, di spettri fra il sartiame, di approdi di navi ridotte a relitti con le chiglie frantumate sulle rocce e cumuli di cadaveri di annegati a imputridire sulle spiagge. In moltissimi casi l’ignoranza della longitudine portava un vascello ad una rapida fine. Infine possiamo aggiungere che l’incapacità di calcolare la longitudine influiva negativamente sull’economia: le navi erano costrette a seguire solo determinate rotte conosciute e così, sulle stesse rotte, si affollavano baleniere, mercantili, navi da guerra e corsari naturalmente, cadendo preda uno dell’altro.
Personalmente fui colpito dalla tragedia del Madre de Deus. Ci può raccontare brevemente quel tragico episodio?
Nel 1592, il gigantesco galeone portoghese Madre de Deus, armato con ben 32 moderni cannoni di ottone, mentre si trovava al largo delle Azzorre, di ritorno dall’India, s’imbattè al largo delle Azzorre nella flotta inglese che lo colò rapidamente a picco. Da notare che la flotta Inglese stava aspettando quella spagnola e non il Madre de Deus.
Il galeone trasportava sotto coperta ogni ben di Dio: oro, argento, perle, brillanti, ambra, arazzi, ebano, tela di cotone stampata e le preziose spezie, quantificate in quattrocento tonnellate di pepe, quarantatrè di chiodi di garofano, trentacinque di cannella e tre di noce moscata e macis. Il carico del Madre de Deus valeva circa mezzo milione di sterline che era la metà del gettito fiscale di tutta l’Inghilterra a quell’epoca.
Nel 1641 il Commodoro Anson, al comando del Centurion, perdette ben tre navi delle cinque che erano al suo comando, oltre agli equipaggi di circa 600 uomini. La sua disavventura nel passare dall’Atlantico al Pacifico, attraverso Capo Horn, fu causata dal non conoscere la longitudine quindi la posizione della sua nave, ma fu anche straordinariamente aggravata da 58 giorni di terribili burrasche.
Gli uomini migliori, insomma, perdevano l’orientamento una volta che la terra non era più visibile ed il mare non offriva nessun indizio utile a calcolare la Longitudine. A causa dei numerosi naufragi e delle perdite di uomini e navi si diffuse persino il timore, o la superstizione che alla soluzione di quel problema si opponesse qualche divieto divino.
Il Parlamento Inglese, con il celebre “Longitude Act” del 1714, stanziò l’astronomica somma di 20.000 sterline, circa 20 miliardi di vecchie lire, a chi avrebbe inventato un sistema pratico e utile per il calcolo della longitudine. Qui cominciò l’avventura di J. Harrison?
L’orologiaio inglese John Harrison, un genio della meccanica, fu il pioniere della scienza della misurazione del tempo, mediante strumenti precisi e portatili. Il tecnico dedicò la sua vita a questa ricerca realizzando ciò che Newton riteneva impossibile: inventò un orologio che, come una fiamma eterna, avrebbe trasportato l’ora esatta dal porto di partenza ad ogni remoto angolo della terra. Senza preparazione teorica né apprendistato pratico presso un orologiaio, Harrison costruì una serie di orologi quasi del tutto privi di attrito, che non abbisognavano di lubrificazione o pulizia, fatti di materiali inattaccabili dalla ruggine, in grado di mantenere le parti mobili in perfetto equilibrio reciproco, a prescindere da come, intorno a loro il mondo si impennava o rollava. Abolì naturalmente il pendolo e accostò differenti metalli all’interno del suo congegno in modo che quando un componente dell’orologio si espandeva o contraeva per variazioni di temperatura, l’altro componente ne neutralizzava gli effetti mantenendo costante il ritmo dell’orologio.
Harrison ebbe molti nemici che fecero carte false contro di lui a tutti i livelli!
Infatti, i risultati conseguiti dal nostro eroe furono vanificati dai membri della comunità scientifica, che diffidavano della “scatola magica” di Harrison. I commissari, incaricati di assegnare il premio stanziato, Nevil Maskelyne tra loro, cambiavano le regole della gara tutte le volte che lo ritenevano opportuno, così da favorire sempre gli astronomi rispetto a Harrison e ad altri meccanici. Alla fine, la precisione e l’efficienza dei cronometri di Harrison trionfarono. I suoi seguaci migliorarono la splendida e complessa invenzione con qualche modifica che consentì in seguito di produrla in serie e di diffonderne l’uso.
Il Re d’Inghilterra, un monarca illuminato, intervenne in soccorso di Harrison!
E’ vero! Nel 1773 un Harrison vecchio e sfinito reclamò, al riparo dell’ala protettiva di Re Giorgio III, il premio che gli spettava di diritto. Erano trascorsi quarant’anni tumultuosi, segnati da intrighi politici, guerre internazionali, ripicche accademiche, rivoluzioni scientifiche e crisi economiche.
La vita di Harrison fu costellata di delusioni e colpi bassi di ogni specie. Gli ammiragli e gli astronomi della Commissione per la Longitudine appoggiarono sempre apertamente il metodo delle distanze lunari di Maskelyne perché lo vedevano come lo sviluppo logico delle esperienze in mare e negli osservatori. Dopo il 1750, grazie agli sforzi congiunti dei molti che contribuirono a questa grande impresa internazionale, sembrava finalmente che il sistema fosse applicabile a bordo.
Ci parli ora della produzione dei cinque prototipi di Harrison.
Harrison costruì cinque prototipi di orologi che identificò con lae sigle H-1, H-2, H-3, H-4 e negli ultimi anni della sua vita l’H-5. Per l’H-3 soltanto impiegò ben 19 anni. Ne uscì una macchina perfetta che sgarrava di appena un secondo, dopo numerosi giorni. Durante tutti questi anni di durissimo lavoro non accettò mai altre commissioni più redditizie, ma costruì soltanto qualche “volgare” orologio per sbarcare il lunario. Soltanto il 30 novembre del 1749, Harrison lasciò il suo banco da lavoro per ricevere un’alta onorificenza che era la Copley Gold Medal, una medaglia d’oro che fu in seguito assegnata a personaggi come Benjamin Franklin, James Cook e Albert Eistein, tanto per citarne alcuni. Il penultimo di una stirpe di questi gioielli in ottone, l’H-4 ha un diametro di soli dodici centimetri e pesa soltanto un chilo e trecento grammi; sembra più un grosso orologio da taschino che non un cronometro di bordo. All’interno delle sue due custodie d’argento finemente decorate c’è la meraviglia delle sue minuscole parti con rotelle dentate che girano sorrette da rubini e diamanti per evitare l’attrito. Come Harrison sia riuscito ad inserire i gioielli nell’Orologio, rimane a tutt’oggi un mistero del quale non fornisce spiegazioni della tecnica usata, per dare alle gemme la loro caratteristica e cruciale configurazione.
L’H-4 è tuttora esposto al National Maritime Museum di Londra e attira ogni anno, assieme all’H-1- 2 e 3 circa otto milioni di visitatori.
I Cronometri di Harrison
Eccoci arrivati al primo esperimento del cronometro di Harrison. John delegò il figlio William?
Finalmente, nel 1762 ci fu la prova del nove per l’H-4. Fu imbarcato sulla nave di sua Maestà il Deptford. Sulla nave s’imbarcò il figlio minore di Harrison, William. La traversata Atlantica durò quasi tre mesi, il 19 Gennaio del 1762 il Deptford arrivò a Port Royal in Jamaica. Salì a bordo il rappresentante della commissione che doveva giudicare l’orologio di Harrison. Robinson e William Harrison confrontarono i due orologi per stabilire la Longitudine. Dopo 81 giorni di mare, l’H-4 aveva perduto soltanto 4 secondi! Ma Nevil Maskeline, l’alto prelato amico degli astronomi e nemico dichiarato del “nostro” orologiaio, per ironia della sorte, era lì ad aspettare il cronometro per giudicarne l’efficienza nel calcolo della longitudine! Le discussioni con William furono interminabili. Pensate! Il calcolo della longitudine si era ridotto ad una discussione tra un astronomo e un orologiaio su una desolata spiaggia delle Barbados.
Come si concluse il viaggio?
L’orologio ritornò a Londra, sempre ben custodito da William Harrison sul Merlin. Il viaggio di ritorno fu altrettanto disastroso per il mare in burrasca e spesso William, che soffriva il mare, doveva avvolgere l’orologio in un plaid e tenerlo al caldo col proprio corpo. Il 26 Marzo, giorno dell’arrivo a Londra l’H-4 ticchettava ancora.
Che fine fece il tanto agognato Premio?
Invece delle 20.000 sterline Harrison ne ricevette soltanto 1.500 con la scusa che, disse la commissione, “gli esperimenti finora condotti sull’Orologio non erano stati sufficienti per determinare la Longitudine”. Avrebbe ricevuto altre 1000 sterline quando l’H-4 fosse tornato dalla sua seconda missione in mare. Un certo Bliss, astronomo, che faceva parte della commissione giudicante, affermò che la cosiddetta precisione dell’orologio, era stata una “fortunata coincidenza”. Cosi, l’orologio di Harrison dovette subire ancora numerose prove e controprove sotto la diffidenza dei grandi astronomi del tempo. Poi Harrison, finalmente, sempre per intercessione di re Giorgio III riuscì ad ottenere tutto il premio messo in palio dal Longitude Act.
Ha inizio una nuova era. L’Inghilterra diventa la “Signora dei Mari”, grazie all’orologio di Harrison.
Quando John Harrison, il 24 Marzo del 1776 morì, esattamente a 83 anni dopo la sua nascita avvenuta nel 1693, egli assurse allo stato di “martire degli orologiai”. Per interi decenni era rimasto in disparte, praticamente solo, come l’unica persona al mondo seriamente impegnata a risolvere il problema della Longitudine facendo ricorso alla misurazione del tempo. Poi all’improvviso, sulla scia del successo dell’H-4, legioni di orologiai cominciarono a dedicarsi alla costruzione di orologi marini. Dopo tre secoli di “sicura navigazione” per i sette mari, la totalità degli studiosi sostiene che Harrison ha favorito la conquista dei mari da parte dell’Inghilterra, e quindi contribuito alla creazione dell’impero britannico, perché fu grazie al cronometro che le navi inglesi divennero le signore degli oceani.
Si sciolse la commissione per la Longitudine. Il cronometro, nonostante l’antipatia degli astronomi, venne assegnato a tutte le navi e, nel giro di pochi decenni, entrò negli inventari di bordo e vi rimase fino ai giorni nostri. Comandante ci avviamo alla conclusione di questo revival storico, ma prima di ringraziarla, lasciamo ancora a lei la parola per trarre alcune conclusioni.
Nel 1828 la Commissione per la Longitudine si sciolse e l’assegnazione dei cronometri a bordo passò all’Istituto Idrografico della Marina, vale a dire ai cartografi. Era un compito non da poco, dato che oltre all’assegnazione, l’Istituto era anche incaricato di ritirare e riparare i vecchi cronometri. Spesso a bordo alle navi idrografiche incaricate dei rilievi se ne potevano imbarcare anche una quarantina in modo da avere dei calcoli di longitudine più precisi. Evidentemente l’idea del cronometro aveva finito per fare breccia. L’estrema praticità dell’approccio del nostro John Harrison era stata dimostrata in modo tanto esauriente che tutta la concorrenza di astronomi e scienziati era svanita come per incanto. Una volta installatosi stabilmente a bordo, il cronometro finì ben presto nell’inventario, come ogni altra cosa essenziale compresa la bussola. La sua storia controversa insieme con il nome del suo inventore venne molto presto dimenticata dagli uomini di mare, che ne facevano uso ogni giorno.
Oggi, il calcolo della Longitudine è finalmente venuto agli onori della storia e reso finalmente giustizia a quel fuoriclasse che fu John Harrison!
Dal Corriere Mercantile del 21 Maggio 2011 apprendiamo che al Comandante Ernani Andreatta é stato assegnato il Premio Nazionale "Nonno dell'Anno". Il famosissimo riconoscimento arriva dall'Associazione "O Leudo" di Sestri Levante e la motivazione sulla targa "Un salvataggio per i posteri" si riferisce alla grande opera di salvataggio, restauro e catalogazione di migliaia di reperti marinari del Tigullio che ora sono conservati nel Museo Marinaro Tommasino-Andreatta che ha trovato finalmente ospitalità e grandi spazi presso la Scuola Telecomunicazioni delle Forze Armate, Caserma Leone di Chiavari.
Carlo Gatti
Rapallo - 23.05.11
LA GALLETTA DEL MARINAIO
LA GALLETTA DEL MARINAIO
UN PO’ DI STORIA
Le leggende dei lupi di mare raccontano che la razione giornaliera di acqua era prevista in tre litri a persona. Il cibo era costituito principalmente da patate, legumi secchi, carne salata e stoccafisso. Per anni piatto dei poveri anche sulla terra ferma ed oggi pietanza costosissima dove ti servono scagliette di stoccafisso con una marea di patate, polenta bianca, gialla e birulò e il tutto pepato a più non posso. Come nel “Cundigiun” erano sempre presenti le gallette che venivano conservate in cassoni foderati di zinco per mantenerle lontane dall’umidità, dagli scarafaggi e dai topi ma, ciò nonostante, dopo un paio di mesi di navigazione, spesso le gallette venivano “abitate” da vermi biancastri ma guai a buttarle. Si prendevano e si adagiavano, o meglio, si sbattevano più volte sul tavolo, se non sulla coperta, per esserne liberate dai vermetti e renderle così mangiabili. A bordo erano conservati anche: fagioli, ceci, fave, patate. Non mancavano l’aglio, le cipolle e il lardo che serviva necessari per fare il minestrone.
Velieri e CADRAI nel porto di Genova
Certo che non mancava il pesce pescato fresco sul posto. Cioè in mare. I marinai riuscivano facilmente ad arpionare un delfino; la carne veniva tagliata a strisce ed accatastata in un mastello coperto da dei pesi per far defluire il sangue. Dopo qualche giorno venivano messe in salamoia e poi venivano appese al sole ad essiccare. Dicono si trattasse di una squisitezza. Poi denominata “mosciame” e oggi proibitissimo. Alcuni fanno derivare il termine dal genovese “muscio” ossia persona di gusti difficili o comunque difficile da accontentare, tanto era considerato succulento.
E ora parliamo delle gallette e, nello specifico, delle gallette del marinaio.
La galletta era un prodotto a chilometro zero ma a “miglia” infinite. Era nata, come focaccina secca, quasi immangiabile se non bagnata, ideale sostituto del pane da mettere nelle zuppe e nelle insalate.
Le prime notizie risalgono al 1500 e riguardano l’uso delle gallette sui velieri, sciabecchi, galeoni ecc.
A bordo la galletta era l'unico “pane” per i marinai e si conservava per lunghi periodi. Per prepararla si usava una ricetta semplice: farina, acqua, malto, lievito di birra e sale.
Venivano infornate e cotte e la consistenza finale, era quella di una ciambellotta dura come il marmo. Le gallette a chilometro zero, venivano poi imbarcate per i lunghi viaggi. Prima dell’uso, venivano bagnate con l'acqua di mare, olio d'oliva e acciughe salate e ne veniva fuori una pietanza povera che non richiedeva cottura, non sempre possibile sulle barche dell’epoca e su quelle da pesca.
La galletta si sposava bene anche con il cibo che in contadini consumavano spesso quando si recavano nell’entroterra per falciare e fare provvista di fieno per l’invero. Non vi era casa di ogni frazione che non avesse almeno una bella mucca e il fogliame (fugiacu) e il fieno non poteva mancare in inverno.
LE GALLETTE DEL MARINAIO – OGGI
Panificio Maccarini – San Rocco di Camogli
Le famose gallette “Maccarini” servite calde
Tra gli scenari mozzafiato del Parco Naturale Regionale di Portofino e gli scorci incantevoli di località come Camogli e le sue frazioni, si respira aria di mare, di storia e di tradizione, tutte racchiuse in un unico prodotto della gastronomia locale che evoca l’antica vita di bordo dei naviganti liguri: la Galletta del Marinaio.
Incastonata tra mare e monti lungo la Rivera Ligure di Levante, Camogli sorge in riva al mare in una zona della costa compresa nel Parco Naturale Regionale di Portofino. Lo storico porticciolo e l’antica tradizione marinara contribuiscono ad ammantare di fascino le atmosfere incantate della cittadina ricca di suggestioni e di testimonianze del suo passato glorioso. Gli scorci mozzafiato e la posizione strategica rendono Camogli il punto di partenza ideale per visitare la Riviera di Levante ed i dintorni ricchi di paesaggi incontaminati che spaziano dalle cime innevate alle acque limpide del mar Ligure, e le numerose frazioni pittoresche e ricche di storia. Tra di esse merita una particolare menzione quella di San Rocco, facilmente raggiungibile percorrendo uno dei numerosi sentieri che si snodano dall’abitato di Camogli. Questo piccolo borgo vanta una posizione mozzafiato e si mostra come una splendida terrazza a picco sul mare dominata dalla bellissima chiesa di San Rocco edificata nella seconda metà del XIX secolo dai naviganti di San Rocco al posto della Cappella Campestre, ormai insufficiente ad accogliere tutti gli abitanti della frazione. Proprio lungo la strada per la chiesa, sorge lo storico panificio Maccarini dove si prepara ancora oggi la Galletta del Marinaio, una delle specialità più rappresentative della tradizione locale. Oltre a dedicarsi ai piaceri del palato, vale, però, la pena proseguire anche nell’esplorazione del territorio intraprendendo splendidi itinerari lungo i sentieri che raggiungono le più interessanti località del Monte di Portofino. Proseguendo, infine, verso il Golfo del Tigullio, una delle zone più apprezzate dai turisti di tutto il mondo, si raggiunge un’area caratterizzata dalla natura incontaminata dell’area protetta che lascia immediatamente il posto a località vibranti e vivaci come Portofino, meta prediletta del jet set internazionale, Lavagna, che custodisce uno dei principali porti turistici del Mediterraneo, Rapallo dove storia, arte e scenari da sogno si fondono in tutt’uno dalle suggestioni uniche, e Santa Margherita Ligure che, assieme a Sestri Levante, offre numerose incantevoli insenature in cui immergersi.
L’INGREDIENTE: Sono passati due secoli da quando sulle navi che salpavano dai porti liguri fecero la loro comparsa le Gallette del Marinaio. Erano tempi in cui le imbarcazioni a vela e i loro equipaggi rimanevano in mare per lunghissimi periodi, senza toccare porti, potendo contare soltanto sulle provviste imbarcate alla partenza che dovevano avere, dunque, la prerogativa di mantenersi a lungo. Proprio in quest’ottica nacque la croccante Galletta che a lungo accompagnò i marinai di leudi e pescherecci e che, soprattutto, si manteneva a lungo, anche per diversi mesi. Non è un caso, dunque, che questa croccante specialità sia diventata in breve tempo uno degli alimenti più diffusi tra gli equipaggi che potevano consumarla dopo averla fatta semplicemente rinvenire in acqua, accompagnata generalmente con le acciughe e condita con un poco di olio. Era questo il pasto tipico dei marinai. Una ricetta semplice chiamata Capponadda. Nonostante le necessità a bordo delle navi siano oggi profondamente cambiate e le comodità introdotte consentano una maggiore libertà nella scelta delle provviste da imbarcare, la Galletta non è mai scomparsa ed anzi è diventata un prodotto tipico estremamente rappresentativo della tradizione marinara che può essere gustato nella sua versione originale recandosi nello storico panificio della famiglia Maccarini, probabilmente l’unico che ancora la prepara secondo l’antica ricetta rimasta identica a quella di due secoli fa.
Le lettere di un affezionato cliente, il celebre Vittorio G. Rossi
Qui le Gallette del Marinaio sono una vera istituzione, al punto da aver fatto il giro del mondo e da essere state apprezzate da personalità illustri come Vittorio G. Rossi che ha riservato allo storico negozio dei Maccarini una dedica speciale.
Ricetta e varianti:
La capponadda originale, quella che si mangiava sulle navi, si prepara rompendo le gallette, strofinandoci sopra uno spicchio d’aglio e imbevendole di acqua e aceto per farle rinvenire. A parte bisogna spezzettare dei pomodorini, delle uova sode, e delle acciughe, aggiungendo capperi e olive. Gli ingredienti vanno poi messi in un recipiente largo, insieme al mosciame di tonno sbriciolato (o al tonno in scatola come dignitoso ripiego): a questo punto si uniscono le gallette scolate, rigirando il tutto con una generosa dose di olio d’oliva. Attenzione, gli integralisti della capponadda non tollerano l’uso della bottarga né dei sottaceti, che qualcuno ha provato a infilare nell’insalata.
Nome e nascita incerti:
Antica CAMBUSA
Sull’origine del nome della capponadda ci sono versioni contrastanti. C’è chi sostiene che il termine derivi dal latino caupona (taverna), a rimarcare la provenienza popolare del piatto, e chi suggerisce un’ipotesi più sofisticata: “capón de galea” era il nome ironico che si dava al pane duro dei marinai, richiamando la prelibata carne del cappone, appannaggio solo delle mense dei nobili genovesi. La carta d’identità della capponadda è incerta anche alla voce “luogo di nascita”: vari paesi della riviera di Levante se ne contendono la cittadinanza, neanche si trattasse di Cristoforo Colombo. È possibile che la sua prima apparizione sia avvenuta sui leudi, le imbarcazioni a vela con le quali i pescatori di Camogli andavano a pescare le acciughe in mare aperto. Proprio a San Rocco di Camogli (come a Chiavari del resto), hanno avuto l’idea di allestire una sagra della capponadda.
Una famiglia allargata?
Nonostante il nome, la capponadda non c’entra niente con la caponata di melanzane tipica della Sicilia. Di dubbia legittimità anche la parentela con il cappon magro, piatto tradizionale ligure a base di pesce e verdure con cui condivide l’origine del nome ma, a quanto pare, non della ricetta. Piuttosto, è ravvisabile un legame con la panzanella toscana, un classico “piatto di riciclo”, ideato per non buttare il pane raffermo.
Capponadda d’oltremare
Proprio come facevano i marinai della Repubblica di Genova, la capponadda ha colonizzato e imposto il proprio dominio su un territorio straniero. È infatti un piatto tipico anche di Carloforte, città fondata sull’isola di San Pietro, nella Sardegna sud-occidentale. Il motivo? All’inizio del XVIII secolo una colonia di liguri al seguito dei Lomellini, signori di Pegli, si trasferì sull’isola su invito di Carlo Emanuele III di Savoia (dal quale la città prende il nome), abbandonando l’isola della Tunisia che avevano occupato in precedenza. E sulle loro navi, c’è da scommettere, non mancava la capponadda.
GATTI CARLO
Sabato 8 luglio 2017
NAVIGARE TRA I GHIACCI - 2 -
NAVIGAZIONE NEI GHIACCI
L'amico e collaboratore Maurizio Brescia, Vicepresidente di Mare Nostrum, ci ha inviato una serie di interessanti immagini relative ad un viaggio nel Golfo di Botnia a fine dello scorso anno. Ecco il suo resoconto.
Il 28 dicembre 2009 ho effettuato una navigazione di un giorno a bordo del rompighiaccio finlandese Sampo, con partenza e arrivo nel porto di Kemi (Finlandia settentrionale). La navigazione ha avuto luogo nelle acque settentrionali del Golfo di Botnia, che divide la Svezia dalla Finlandia.
Il rompighiaccio Sampo nelle acque gelate del Golfo di Botnia
(Foto Maurizio Brescia)
Il Sampo è stato varato nel 1961 dai cantieri Wartsila di Helsinki e - sin verso la metà degli anni Novanta - ha prestato servizio con l'Autorità Marittima finlandese. Successivamente è passato in gestione alla municipalità di Kemi che,oltre ad utilizzarlo per compiti "istituzionali" in zona, lo ha destinato ad un uso maggiormente "turistico" per brevi crociere giornaliere e di durata anche più lunga. Il Sampo è lungo 75 mt., disloca circa 3.500 t. e dispone di un apparato motore diesel elettrico su due assi, composto da quattro motori Wärtsila e da quattro generatori, per circa 19.000 cv di potenza.
Alcune belle immagini del viaggio di Maurizio Brescia
La navigazione sul Sampo è davvero consigliabile a tutti gli appassionati di cose di mare. Per maggiori informazioni è visitabile il sito http://www.sampotours.com/ (anche in italiano).
Maurizio BRESCIA
webmaster Carlo Gatti
18 Ottobre 2014
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Incrociatore BOLZANO - Un recupero eccezionale
Incrociatore Pesante
BOLZANO
UN RECUPERO ECCEZIONALE
Sommergibile britannico UMBROKEN
disegno da warshipsww2.eu
La classe britannica U era originariamente stata ideata come una serie di semplici e piccoli battelli specificatamente ideati per fungere da bersagli per altri sottomarini durante addestramenti.
Le necessità di guerra videro tuttavia un interessante sviluppo del progetto per poi giungere ad una classe prodotta in gran numero che vide il culmine del suo servizio nel Mediterraneo (grazie alle modeste dimensioni e alla maneggevolezza).
La terza (ed ultima) variante della classe, di cui faceva parte anche Unbroken, aveva visto una serie di miglioramenti rispetto al progetto originale.
Molte unità di questa classe vennero poi cedute alle marine Alleate che necessitavano di rinforzare i propri ranghi: Le flotte libere in esilio di Olanda, Francia, Norvegia, Polonia, Grecia, ed infine la flotta Sovietica, ricevettero battelli in prestito.
V-2 ex-Unbroken: Questo sottomarino aveva visto un grande servizio nella Flotta Britannica, le sue vittime furono quasi tutte italiane e furono:
I mercantili Edda, Bologna, la nave-pilota F-20/Enrica, il dragamine ausiliario n°17/Milano, affondati. Danneggia inoltre il veliero Vale Formoso-II e il mercantile Titania (quest'ultimo poi finito dal sottomarino Safari).
Danneggia anche la petroliera tedesca Regina.
Il suo attacco più importante fu però ovviamente il doppio siluramento il 13 Agosto 1942 degli incrociatori italiani Bolzano e Muzio Attendolo che vennero entrambi pesantemente danneggiati.
Nelle sei fotografie che seguono appaiono, in tutta la loro drammaticità, le condizioni dell’incrociatore pesante italiano BOLZANO (12.000 tonnellate), silurato nelle Isole Egadi, il 13 agosto 1942, dal sommergibile britannico UNBROKEN. Il BOLZANO, colpito a centro nave e arrestatosi in fiamme, nonostante i locali allagatisi per l’acqua che entrava dalla falla causata dall’esplosione di un siluro, fu portato ad incagliare, con il cavo da rimorchio, dal cacciatorpediniere GENIERE nei bassi fondali di Lisca Bianca nell’Isola Panarea, e ci vollero due giorni prima che l’incendio fosse domato.
I lavori di recupero, iniziati sul BOLZANO il 18 agosto, e che si svolsero, durante cinque settimane, sotto il pericolo di attacchi di aerei e di sommergibili, furono diretti dal Comitato Progetto Navi, e con personale specializzato e attrezzature fatte affluire dagli arsenali di Taranto, Palermo e Messina, che evidentemente sapevano come lavorare bene e rapidamente, senza perdere tempo.
Il 15 settembre la nave poté essere sollevata dal fondale, e avendo raggiunto l’assetto sufficiente per affrontare una navigazione a rimorchio, l’indomani fu portata a Napoli, ove arrivò alle ore 19.00 trainata dai rimorchiatori TITANO TESEO e SALVATORE I. La navigazione di trasferimento, senza essere disturbata da nessun aereo o sommergibile nemico, si svolse alla velocità media di cinque nodi e mezzo, con l’assistenza di due cacciatorpediniere, una torpediniera e quattro cacciasommergibili.
Visto questo capolavoro di velocissimo recupero, resto alquanto scettico per quanto tempo ci è voluto per risollevare e portare via la COSTA CONCORDIA.
I lavori per risollevare il BOLZANO vennero realizzati senza disporre di una ben minima parte della sofisticata e computerizzata organizzazione impiegata sulla C.CONCORDIA della Ditta addetta ai lavori, e senza e il clamore che ha accompagnato il recupero di questa grande nave, in cui hanno lavorato tecnici provenioenti da mezzo mondo, e che ha fatto gridare al “miracolo”.
Sorvolo sulle bischerate della pericolosità del relitto per la tranquillità e gli eventuali speronamenti di Cetacei, e per la reclame, ridicola a mio parere, che si è fatta la allarmata Ministra francese, a bordo di una nave da guerra francese.
Francesco MATTESINI
webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 12 Agosto 2014
Dalle Isole LOFOTEN arrivò lo stoccafisso
Dalle isole LOFOTEN
arrivò uno dei piatti preferiti dai genovesi….
Quel naufragio alle Lofoten che ci ha regalato lo stoccafisso (Tørrfisk)
Da millenni, immensi banchi di merluzzi provenienti dalle gelide acque della zona popolata più a nord della terra, si dirigono verso mari più temperati per deporre le uova. Una parte di essi, seguendo la Corrente del Golfo, termina il viaggio di nozze nell'ambiente più adatto a riprodursi, lungo le coste del Vestfjord della Norvegia, in particolare nelle acque che circondano le isole Lofoten.
Foto n.1 Carta Lofoten
Possiamo considerare un miracolo della natura il fatto che il merluzzo lasci il suo habitat naturale e si rechi alle isole Lofoten per deporre le uova esattamente nel periodo climatico ideale per l'essiccazione, quando il gelo si ritira lasciando il posto al vento, alla pioggia ed al sole che hanno il compito di trasformarlo in ottimo stoccafisso. In questa zona, la pesca ha luogo da gennaio fino alla fine d’aprile, al termine di questo periodo, ossia in primavera, i pescatori si spostano verso il nord, sulla costa del Finnmark dove continuano a pescare il merluzzo.
Foto.2 Merluzzo in pescheria
Alle Lofoten c’è il miglior stoccafisso del mondo perché solo qui, sospinta dalla calda Gulf Stream, arriva lo “Skrei”, il merluzzo originario del Mare di Barents. Più in generale, questa tipica ricchezza dei mari nordici, per fortuna dell’umanità, è diffusa su tutta l’estensione della platea continentale dell’oceano Atlantico settentrionale, sia su quella europea raggiungendo come massime punte meridionali il golfo di Biscaglia e la Nuova Scozia, sia sul lato americano fino alle coste del Labrador e di Terranova (Canada).
Røst, l’isola dei merluzzi, dove circola un po’ di sangue italiano.
Nel lontano 1432, sulla scia delle scoperte geografiche, una Cocca (700 tonnellate) della Serenissima, comandata dal capitano veneziano Pietro Querini, solcando i freddi e tempestosi mari del nord, naufragò a Røst (oggi ha 700 abitanti), un’isoletta delle Lofoten (Norvegia), che amò definire in modo alquanto pittoresco: “culo mundi”. Mai un naufragio fu tanto prodigo di novità… e nacque col tempo un fiorente commercio e l'inizio di una nuova cucina. Nei suoi otto mesi di sosta forzata oltre il Circolo Polare Artico, Querini ebbe modo di “esplorare” un mondo ricco di contrasti: fiabesco e nello stesso tempo difficile da penetrare, dalla natura affascinante, ma dura da domare; le donne erano bionde e bellissime, più forti che furbe, erano libere e battagliere nell’attesa dei loro uomini che per mesi pescavano in mari lontani. Poi vide qualcosa di curioso, che descrisse nel suo rapporto per l'ammiragliato della Repubblica di Venezia: …I socfisi seccano al vento e al sole e perché sono di poca humidità grassa, diventano duri come legno. Quando li vogliono mangiare, li battono col roverso della mannara che li fa diventare sfilati come nervi, poi compongono butirro e spetie per dargli sapore, et è grande et inestimabile mercanzia per quel mare di Alemagna……Ma il passo delicatissimo che giustificherebbe la presenza di molte chiome brune sull’isola è il seguente: Uomini purissimi che non curano di chiudere alcuna sua roba, né ancor delle donne loro hanno riguardo e questo chiaramente comprendemmo perché nelle camere medesime dove dormivano mariti e mogli e le loro figliole alloggiavamo ancora noi, e nel cospetto nostro nudissime si spogliavano quando volevano andar in letto; e avendo per costume di stufarsi il giovedì, si spogliavano a casa e nudissime per il trar d’un balestro andavano a trovar la stufa, mescolandosi a noi.
L’essicazione del merluzzo.
Se si pensa che fin dai primordi, uno dei principali problemi dell'uomo di terra e di mare fu quello di conservare il cibo che faticosamente era riuscito a procurarsi, per il comandante veneziano dovette essere una scoperta sensazionale imparare da quella piccolissima comunità il più naturale sistema di conservazione: l'essiccamento al sole e al vento.
Nulla è cambiato dall’epoca in cui approdò la cocca veneziana nelle isole Lofoten e, ancor oggi, l'esposizione del merluzzo all’aria aperta mantiene tutte le sue caratteristiche originali: dura circa tre mesi, variando con le condizioni atmosferiche del vento e delle dimensioni del merluzzo.
Foto n.3 Filari di merluzzo al vento
L'essicamento all'aria del merluzzo artico fu concepita per la necessità che i Vichinghi avevano di trasportare sulle loro veloci imbarcazioni (drakkar), alimenti molto leggeri che potessero fornire il massimo delle energie per sfamare le ciurme addette ai remi. (100 grammi di merluzzo fresco forniscono 68 calorie, mentre lo stesso peso essiccato ne fornisce 322).
Leggerezza, facilità di trasporto e consumo senza la necessità di essere cucinato, contribuirono in maniera decisiva al successo dello stoccafisso nei secoli. Nel Medioevo, il commercio del merluzzo ebbe una così grande importanza che il Re di Norvegia per poterlo controllare completamente proibì alle navi della Lega Anseatica di salire a nord del parallelo di Tromsø. Dopo l’anno mille lo sviluppo dei trasporti delle merci via mare, fu enormemente favorito dalla possibilità di usare in cambusa lo stoccafisso che ben sostituiva la carne salata in barili, facilmente deteriorabile. All’epoca del rinascimento lo stoccafisso in Italia cominciava ad essere abbastanza conosciuto, se non diffuso, mentre il baccalà era ancora una rarità.
Si ricorda che durante il Concilio di Trento (1545-1563), tra i piatti poveri consumati dai numerosi prelati, c'era quello di stoccafisso. Oltre ai principi etici e religiosi di carattere generale, il nuovo corso stabiliva, infatti, che in materia di feste e banchetti, il mangiar di magro fosse esteso in molte altre ricorrenze, oltre il venerdì.
L’obbligo di questa osservanza significò, nel mondo cattolico, soprattutto una cucina a base di pesce. Iniziò così nel nostro Paese una progressiva importazione di pesce nordico: aringhe (affumicate), stoccafisso (merluzzo essiccato), baccalà (merluzzo sotto sale) e salmone (affumicato). Il merluzzo, come la storia insegna, fu il più richiesto dagli italiani negli ultimi cinque secoli.
La storia ci tramanda, inoltre, che anche il baccalà fu un piatto apprezzato da molti personaggi illustri e in occasioni memorabili. Si racconta che Carlo V (1530), mentre era in viaggio verso Bologna per essere incoronato Imperatore da Papa Clemente VII, si era trovato a sostare a Sandrigo (nella splendida Villa Sesso Schiavo), quando venne a sapere che i condannati a morte chiedevano, come ultimo desiderio, una porzione di polenta e baccalà; per la gran curiosità, il futuro Imperatore volle assaggiare questo piatto e rimase talmente soddisfatto da quel piatto di cucina locale da nominare “cavaliere” tutti i presenti al banchetto.
Foto n.4 Merluzzo norvegese fuori misura….
Da questo connubio, nacquero nel nostro Paese numerosi piatti di straordinaria saporosità e invitante golosità. Liguria e Veneto se ne contendono il primato, seguite dalla Sicilia, Campania e Calabria. Ancora oggi, passando nei carroggi di Genova, si può sentirne l'intenso e maschio profumo che esce prepotente, da affollate trattorie e ristoranti.
Sia il costo contenuto del prodotto che la sua facilità di conservazione, hanno contribuito, nel passato, al notevole consumo di stoccafisso e baccalà nelle classi meno abbienti.
Non a caso nei versi dell'antica poesia genovese "Pescio conca", si legge: “O loasso di povei e di mainae”, vale a dire - riferito a stoccafisso e baccalà - "Il branzino dei poveri e dei marinai". Il termine pesce conca deriva dall'uso di farlo ammollare nell'acqua. Da quelle necessità e osservanze religiose, che proibivano la carne in certi periodi dell'anno, nacquero succulenti piatti come lo “stoccafisso al verde”, “all'agliata”, lesso con le patate o con le fave “stocche e bacilli” (piatto di reminescenze Romane), "accomodato" (d'origine araba), in “buridda”, alla “badalucchese”, fritto e in frittelle, alla marinara e, non ultimo, il brandacujun, conosciuto anche in Provenza.
L'Italia acquista oggi più dei 2/3 della produzione dello stoccafisso norvegese. Il mercato italiano si divide per motivi culturali e storici, in cinque principali regioni: Veneto, Liguria, Campania, Calabria e Sicilia. Nelle altre regioni italiane lo stoccafisso è meno conosciuto. Esiste tuttavia un'antica tradizione di consumo nella zona di Livorno e di Ancona.
DALLE ANTICHE TRADIZIONI ….. In ogni paesino delle Lofoten, accanto alle case, c’è il magazzino della lavorazione del pesce dove i marinai scaricano i merluzzi e dopo la selezione delle varie specie, prende il via la lavorazione. Non ci crederete, ma la prima fase della lavorazione passa, quando è possibile, attraverso le piccole e abili mani dei bambini, che recuperano lingue e guance, vere prelibatezze (fritte in pastella) della cucina locale. I ragazzini fanno a gara per lavorare un paio d’ore il giorno dopo la scuola, così da guadagnare 30-40 euro. Durante il weekend, nelle piazze dei paesi, può capitare di assistere a vere e proprie competizioni tra agguerriti marmocchi che armati d’affilati coltelli sezionano grossi merluzzi. Si prosegue poi con il taglio delle teste e delle interiora destinate ai più poveri mercati africani, con le stesse tecniche dei Vichinghi che usavano il merluzzo come moneta di scambio. I pesci, lavati e asciugati, sono legati a coppie per la coda e messi ad essiccare per circa tre mesi su stenditoi di betulla che occupano tutto il paese. Il periodo d’esposizione del merluzzo si chiude da mille anni con il Solstizio d’estate, e il 24 giugno, il giorno di S. Giovanni, i pescatori delle isole Lofoten accendono grandi fuochi e la tradizione vuole che si cominci a togliere dai tralicci a piramide i merluzzi ormai secchi. A questo punto sono stivati in costruzioni di legno che ricordano l’epopea dei vichinghi. Qui lo stoccafisso è suddiviso in 20 diverse classi di qualità e Ë pressato in balle da 25, 45 o 50 Kg secondo i mercati di destinazione, con i nomi suggestivi di Westre, Ragno, Olandese, Bremese, Lub. Le spedizioni iniziano in luglio. In Italia arriva il migliore (3,5 mila tonnellate) insieme al baccalà (7 mila tonnellate importate nel 2005).
IL Baccalà - Un’altra storia. Le popolazioni basche del Golfo di Biscaglia (Guascogna) erano cacciatori di balene ed inseguendole verso il nord-Atlantico fino ai Grand Banks, si trovarono intrappolati tra immense colonie di merluzzi, che per catturarli bastava affondarci le mani dentro. Da quel giorno, i Baschi organizzarono campagne stagionali di pesca, ma per conservarlo, lo mettevano sotto sale come facevano con le balene, invece di esporlo all’aria che in Spagna è meno fredda che in Norvegia.
Foto n.5 Baccalà essicato
Così i Vichinghi persero il monopolio della pesca del merluzzo. Così nacque il Baccalà. Così i Vichinghi impararono dai Baschi questo nuovo sistema di conservazione del merluzzo e lo fecero anche conoscere in molte parti del mondo, ma furono poi gli americani a creare un vero e proprio business commerciale a livello planetario. Nel 1620 i Pilgrims Fathers, protestanti in fuga dall’Inghilterra, sbarcarono con la Mayflower su un promontorio del “Nuovo Mondo” che aveva un nome profetico: Cap Cod (Capo Merluzzo), che ci fa capire di quale pesce fossero pieni quei mari e furono proprio loro ad organizzare le prime spedizioni di baccalà americano verso l’Europa. Col tempo, il baccalà era scambiato con prodotti coloniali (zucchero, melassa, spezie, ecc..) e anche con gli schiavi, che erano trasportati in America per lavorare nelle piantagioni. Presto anche gli Inglesi s’inserirono in questo lucroso commercio e ci fu persino una specie di guerra del baccalà fra le navi di Sua Maestà Britannica e i veloci schooner americani che nel frattempo si erano dotati di cannoni. Ancora nell’ottocento, la classe operaia inglese sopravviveva nutrendosi di fish and chips, (merluzzo e patate). Il mercato inglese assorbe ancora oggi 170.000 tonnellate di baccalà l’anno ed è al primo posto nel mondo. Ancora di recente, nel 1973 gli Inglesi presero a cannonate gli Islandesi e nel 1994 gli Spagnoli per il controllo nelle varie zone di pascolo dei merluzzi. Identikit: gadus morhua, della famiglia dei Madidi, ordine dei Teleostei, volgarmente merluzzo, è verdastro, con delle macchiette gialle sul dorso e una linea laterale bianca lungo tutto il corpo. Il ventre è bruno. Lunghezza fino al metro e mezzo. Peso, fino a 50 kg. Perde il suo nome per com’è trattato. Se il pesce è subito pulito, messo in un barile e coperto di sale, è chiamato Baccalà, dalla parola fiamminga Kabeljaw. Questo nome è rimasto pressoché invariato in tutte le lingue Scandinave. Come abbiamo già visto, il Grand Bank, la piattaforma continentale di 3,500 kmq, rappresenta l’habitat più ricco di merluzzi al mondo e c’è un motivo: in quelle acque poco profonde, la tiepida Corrente de Golfo incontra la corrente fredda del Labrador, dando vita ad una splendida piscina particolarmente gradita ad alcune specie di pesci di cui i merluzzi sono particolarmente ghiotti. Fu il grande navigatore Sebastiano Caboto a finirci dentro e a darne notizia nel 1497, mentre cercava una rotta più a nord di quella seguita da Colombo. Un’utile precisazione: Nel Mediterraneo si pesca invece il nasello, che è una varietà di merluzzo meno pregiata e che non ha mai l’onore di diventare baccalà e neppure stoccafisso. Si mangia fresco oppure congelato. Il baccalà è un po' meno presente nella cucina genovese e ligure, sebbene siano sempre diffusi i frisceu (frittelle), all'agliata, fritto, al latte, lesso con o senza patate, con i cavoli, al verde, in zimino, in agrodolce, al forno, ripieno (anche in versione coda di baccalà ripiena). Nei secoli scorsi, il baccalà in frittelle, costituiva il mangiare veloce, ma nutriente degli scaricatori di porto. A proporli erano i frisciolae, fumose e chiassose friggitorie di Sottoripa, situate di fronte al porto antico. L'Italia e la Norvegia condividono una lunghissima storia di commercio iniziata proprio con l'esportazione del merluzzo in Italia, nelle due versioni fin qui descritte.
Carlo GATTI
Rapallo, 07.05.11
MAESTRI D'ASCIA RAPALLINI SUL LAGO DI GINEVRA
MAESTRI D’ASCIA RAPALLINI SUL LAGO DI GINEVRA
(LEMAN-GRAN LAC)
Altitudine 372 s.l.m, Lunghezza 72 km, larghezza 13 km, profondità max 309,7 mt
Lo sapevate che sul lago di Ginevra (lago Lemano) vi fu una presenza di navi da guerra? Nel XIII sec. i Savoia avevano una flotta di galee ormeggiate nei porti di Villeneuve (VD) e di Ripaille (Thonon, F). E’ accertata anche la presenza di Cantieri Navali che le costruivano servendosi di personale altamente specializzato. Le galee genovesi erano, ovviamente, il modello preferito dei Savoia che scelsero, per la loro supremazia navale, maestranze provenienti dai cantieri navali genovesi, non solo, ma é pure accertato che persino Rapallo inviò sulle rive del Lemano numerosi suoi figli tra cui due grandi specialisti: i maestri d’ascia Sacolosi ed Andreani.
Gli attrezzi del Maestro d’Ascia
Il maestro d’ascia é una professionista le cui origini affondano nell’antichità. Purtroppo di questi mitici personaggi, a metà tra l’artigiano e l’artista, ne rimangono pochi e sono introvabili. Costruire uno scafo preciso al millimetro presuppone anni di fatica e tanto amore per la costruzione navale. Esperienza, perizia e competenza sono tutti elementi che maturano nel corso del tempo, sotto la guida di maestri d’ascia più anziani, spesso nonni e padri che tramandano l’abilità nell’adoperare l’ascia da una generazione all’altra.
Vicino a Montreux troneggia il Castello di Chillon (XI Sec) il più visitato della Svizzera: 340.000 turisti/anno. La sua bellezza straordinaria, la sua suggestiva posizione sulla riva del Lago di Ginevra con le montagne a fargli da sfondo e il suo indiscutibile valore artistico affascinano proprio tutti, e non sono rimasti immuni dal suo fascino grandi poeti, letterati e artisti come Rousseau, Delacroix, Lord Byron e Victor Hugo.
Il suo ponte levatoio, i camminamenti che attraversano i bastioni e le torri di avvistamento sul Lago di Ginevra, fanno di Chillon un classico castello in stile medioevale che fu di proprietà prima dei Savoia nel 1200, poi dei Bernesi ed infine dei Vodesi. Costruito su un isolotto roccioso, la facciata rivolta verso il lago era la residenza principesca, mentre quella rivolta verso l’interno era la fortezza. Attraversando le mura del Castello, si ammirano i suoi affreschi risalenti al XIV secolo, le volte sotterranee in stile gotico, le sale di rappresentanza e la stanza da letto conservata al tempo della dominazione bernese decorate con stemmi gentilizi, le cappelle private, le armi antiche, i meravigliosi cortili e l’incredibile vista che si gode dalle torri e dai camminamenti di guardia sul Lago di Ginevra e Montreux.
Nell’archivio del castello di Chillon (nella foto) esistono i libri contabili che riportano molte notizie di questa migrazione specializzata dei nostri avi. Un’autentica sorpresa per noi rapallini un po’ curiosi... alla ricerca di qualche traccia di vecchia memoria, dove il nostro “vecchio amico” archivista descrisse la vita quotidiana militare del Medio-Evo su un lago alpino con le parole e i termini marinari storpiati dal genovese. Infatti, fin dall’inizio, molti termini tecnici utilizzati sui battelli del Lemano venivano usati dalle maestranze genovesi che lavoravano nei cantieri savoiardi. Con il passare degli anni il dialetto “marinaro” ligure prende curiosamente un accento valdese addolcendosi. I matafioni (cordame utilizzato per diminuire la superficie delle vele con vento forte) diventano “metafions” e poi “metafis”.
“Peguola”, il barile del catrame dei calafati (rendevano impermiabile lo scafo) sul Lemano diventa “pègue” e poi nel valdese pèdze.
Nel Castello di Chillon si ammirano molti dipinti di galee che, di primo acchito, destano qualche perplessità nel vederle veleggiare ai piedi di cime altissime ed innevate. Sale quindi la curiosità e si scopre che la prima galea fu varata nel 1287, era del tutto simile a quelle nostrane che combattevano i corsari nel Mediterraneo. La galea aveva lo scafo affusolato, e quando veniva lanciata a “tutti remi” (alla gran puta) mostrava la prora minacciosa come una spada “rostrata” pronta a penetrare nella fiancata del battello nemico per squarciarlo.
Questa meravigliosa galea del Lemano fu la prima di una serie di navi ancora più straordinarie. Fu annotato dal contabile del Castello di Chillon: “quando il vento era favorevole, si issavano le vele latine: due grandi triangoli fregiati delle armi dei Savoia, la mezzana ed il trinchetto e ci volevano ben duecento “aulnes” di stoffa per confezionare queste ali. (quasi trecento metri quadrati)”.
Viene ancora annotato: I costruttori navali, venuti da Genova per dirigere il cantiere, furono probabilmente spaventati dai rigori dell’inverno del Lemano per cui istallarono dei caminetti per scaldare le cabine del battello. I soldati stavano a prua. Dietro loro, una lunga passerella separava le file di rematori: il ritmo della frusta degli aguzzini stimolava lo zelo della ciurma.
La più grande galea della storia del Lemano fu varata intorno al 1300. Poteva imbarcare 380 uomini d’equipaggio: non solo rematori, ma anche arcieri, soldati e ufficiali che vivevano a bordo con tutti i loro domestici. Questa enorme imbarcazione s’allontanava dal porto alla testa di un convoglio di battelli più piccoli che avevano il compito di caricare il frutto del saccheggio di villaggi e di pacifici battelli mercantili.
Nel 1343 un devastante incendio partì dal centro di Villeneuve e il vento caldo (foehn) lo spinse verso la rada investendo la totalità delle navi. In pochissimo tempo avvenne la distruzione di una storica flotta che decretò anche la fine di un periodo storico che vide protagonista la genovesità marinara di quel tempo.
Purtroppo quei meravigliosi libri di contabilità del Castello di Chillon si fermano al 1352. I volumi più recenti sono scomparsi e, a partire da quella data, l’oblio avvolge più o meno la vita dei marinai d’acqua dolce ed i loro superbi battelli. Un oblio che durò fino all’invasione bernese “del Pais de Vaud” a metà del secolo XVI esimo.
Carlo GATTI
Martedì 17 novembre 2015
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PILOTI GÄVLE - GOLFO DI BOTNIA
STAZIONE PILOTI BÖNAN – GÄVLE
GOLFO DI BOTNIA
Il porto di Gävle si trova nella parte meridionale del Golfo di Botnia. Appare nella parte alta della cartina. Le isole Åland costituiscono la porta d’accesso al golfo. I Piloti coordinano il servizio anche dei porti limitrofi e da questa stazione le navi possono imbarcare, facoltativamente, il Pilota per qualsiasi destinazione del Botten Havet.
Il Golfo di Botnia, parte settentrionale del Mar Baltico, é un'insenatura larga da 100 a 200 km e lunga 600, con coste frastagliate fronteggiate da isole spianate dalla glaciazione quaternaria. Per i molti corsi d'acqua che vi sfociano e la scarsa evaporazione, le sue acque sono pochissimo salate e il golfo gela in inverno.
Verso la fine degli anni ’90, durante un pilotaggio nel porto di Genova, conobbi il comandante svedese Anders Nordin, il quale mi raccontò che suo padre, pilota del porto di Gävle, morì assiderato per essere caduto in mare dalla biscaglina di una nave. Negli anni successivi andai a trovare due volte i colleghi di quel distretto, in due stagioni diverse, per rendermi conto delle difficoltà oggettive del pilotaggio nel Golfo di Botnia. In estate il pilotaggio é addirittura piacevole, sia per la natura lussureggiante, sia per la luminosità ed il clima decisamente mite. In inverno il panorama cambia completamente e la navigazione é ostacolata dal freddo polare, dalla scarsa visibilità e soprattutto da formazioni di ghiacco che possono raggiungere il mezzo metro di spessore al Sud e raddoppiarsi nel nord del bacino.
Si racconta che in questa parte del mondo la navigazione sia sempre stata difficile, e addirittura interdetta per sei mesi l’anno. Questo blocco totale dei trasporti marittimi ha da sempre inciso negativamente sull’economia di questi Paesi che si affacciano sul golfo. La Svezia sfrutta ben 20 miniere di minerali ferrosi molto pregiati, le più importanti si trovano proprio nel Nord del Paese: Kiruna, Gällivare e Skellefteå. Ancora oggi, nonostante l’avvento di potentissimi rompighiaccio che hanno aperto la navigazione anche nei mesi invernali, il maggior porto d’imbarco del minerale svedese é Narvik (Nord Norvegia) dove il mare é mitigato dal passaggio della Correte del Golfo (temp. dell’acqua del mare intorno ai 6-7°) e non ghiaccia mai. E’ storicamente interessante il collegamento tra la miniera di Kiruna e il porto di Narvik tramite una linea ferroviaria di 168 km che fu costruita ai primi del ‘900 e che funziona ancora oggi. I tedeschi se ne impossessarono nel giugno del 1940 e per 5 lunghi anni di occupazione della Norvegia, sfruttarono il porto di Narvik per l’imbarco del minerale necessario a costruire armamenti bellici in patria.
LA RIVOLUZIONE COMPIUTA DAI ROMPIGHIACCIO
Con l’avvento dei rompighiaccio sempre più potenti ed attrezzati per guidare le navi, la navigazione commerciale di ogni tipo é assicurata, anche in condizioni estreme. Nel settore Nord del Golfo il ghiaccio può avere anche uno spessore molto maggiore di quello riportato, ma tende a calare spostandosi a sud. Non mi addentro nei particolari tecnici della navigazione con l’assistenza del rompighiaccio, li troverete leggendo il “rapporto” molto dettagliato del Comandante camoglino Michele Gazzale che ha avuto l’opportunità di navigare nel Golfo di Botnia in quelle condizioni. L’accuratissima descrizione di tutti gli aspetti nautici ed anche umani la trovate nell’articolo che segue questa introduzione, si chiama: “NAVIGAZIONE TRA I GHIACCI”
Le foto che seguono mostrano alcuni rompighiaccio svedesi di epoche diverse.
Rompighiaccio “THULE”
Rompighiaccio “HYMER”
Rompighiaccio “ATLE”
Luleå (nella foto) é il porto più settentrionale del Golfo di Botnia. Come si può notare, la presenza di 3 rompighiaccio moderni e molto potenti in porto, dà l’idea del lavoro che li attende nel periodo invernale. Nella foto, notiamo l’alta struttura della nave spostata verso proravia per aggiungere peso alla nave, la cui prora non taglia il ghiaccio, come erroneamente si é portati a credere, ma lo spacca scivolandoci sopra ad alta velocità.
Per vincere un determinato spessore di ghiaccio, (nei settori polari può raggiungere anche gli 8 metri), occorre un rompighiaccio di adeguata potenza e stazza. Affronteremo questo interessante argomento nel prossimo capitolo.
Come si può notare in questa tabella, se la temperatura dell’acqua di mare é di -5°, inizia subito la Zona Critica per un soggetto in buone condizioni psicofisiche, ma dopo circa 30 minuti d’immersione si entra nella Zona Letale.
In Svezia ci sono 220 Piloti di cui 6 sono donne. Nel Bottenhavet (Golfo di Botnia) avvengono circa 4.000 pilotaggi l’anno, di cui la metà si attuano nel distretto di Gävle, 200 km c.ca a Nord di Stoccolma.
I video YouTube che seguono, li potete vedere nella sezione VIDEO della Home Page di questo sito.
In questo primo YouTube vi mostriamo un piacevole pilotaggio estivo tra isolotti e villette con piscina in cui tutto appare molto “paradisiaco”.
https://www.youtube.com/watch?v=5laUCdOeTbU
In questo secondo YouTube vi mostriamo l’abbordaggio del pilota a bordo
https://www.youtube.com/watch?v=txIM8d2ZPoY
In questo terzo YouTube vi mostriamo un’interessante esercitazione dei Piloti che si tuffano in mare per collaudare “tute speciali” contro l’assideramento.
https://www.youtube.com/watch?v=LqvwnF0PrzM
In questo quarto YouTube vi mostriamo alcuni rimorchiatori-rompighiaccio in azione davanti al porto di Gävle.
https://www.youtube.com/watch?v=goCMe2PGkYI
Sjöfartsverket Gävle lotsstation - Autorità Portuale - Sede dei piloti di Gävle
BÖNAN, sede dei piloti di Gävle. A sinistra il vecchio faro del 1600 che oggi ospita il Museo dei Piloti. In centro, le abitazioni, gli uffici e la direzione del traffico. A destra un grande magazzino per le varie attrezzature. A destra (vedi foto sotto) il molo con l’ormeggio delle pilotine ed altre imbarcazioni.
La robusta pilotina d’altomare mostra la colorazione arancione tipica delle imbarcazioni di salvataggio. Notare il sistema d’imbarco del pilota. Ogni Corpo Piloti, in qualsiasi parte del mondo, sceglie il sistema d’imbarco più idoneo alle caratteristiche meteo marine locali
Questo tipo di pilotina é usata principalmente in inverno. L’elica pesca 5 metri per evitare di danneggiarsi nell’impatto con il ghiaccio.
Uno dei due operatori del Centro Direzionale che coordina il Pilotaggio del distretto.
Il vecchio faro di Bönan, oggi Museo dei Piloti, é curato e conservato con amore per raccontare la storia dei Piloti di questo distretto.
La cucina d’epoca sistemata alla base del faro.
Siamo nella seconda metà dell’800. Queste sono le prime immagini di Piloti scattate da una macchina fotografica.
Navi e Bandiere nazionali. Le navi a motore non erano ancora in alto mare...
Alla base del Faro, sono custoditi i cimeli più importanti delle pilotine di un tempo.
Il cuore del Faro. La lampada con gli specchi di riflessione della luce nei suoi vari stadi. Bozzelli e redance fanno da cornice a questa significativa rappresentazione marinara.
Vista interna del Faro. Calibrato intreccio di scale, rinforzi e sostegni di legno che offrono un’assoluta sicurezza alla vecchia struttura. Al centro penzola la vela del cutter che abbordava le navi per l’imbarco dei Piloti locali.
Siamo nel 1932. Il modello della pilotina appeso sopra la ruota del timone é un campione didattico di notevole importanza. Si nota il profondo pescaggio del mezzo per evitare che le pale dell’elica si danneggino contro il ghiaccio. Il disegno complessivo dello scafo ricorda il modello norvegese “Colin Archer” che divenne celebre per la sua adattabilità al moto ondoso oceanico. Il disegno fu adottato per la costruzione di lance di salvataggio marine e sicure. La presenza di due alberi e il boma prelude ancora al possibile impiego di tela.
Carlo GATTI
Rapallo, 17 ottobre 2014
L'AUSTRALIA dei Velieri e del Miele Ligure
REPORTAGE DALL’AUSTRALIA
IL MARCHIO DEL MIELE LIGURE TRASPORTATO DAI NOSTRI VELIERI SOPRAVVIVE ANCORA IN AUSTRALIA
Il SETTEBELLO: da Sinistra: Marco Perazzo, Daniela Cortinovis, Carlo Gatti, Enrico Tacchini, Vittorio Conti, Marco Fravega e Renzo Marson che quel giorno fu catturato dai suoi parenti che erano immigrati a PERTH negli Anni ’50.
Si erano appena conclusi i XII Campionati del mondo di Nuoto Masters a Perth-Australia (15-25 aprile 2008) ai quali partecipammo con la squadra della Rapallo Nuoto. Dieci anni prima eravamo già stati da quelle parti, precisamente a Brisbane sulla costa orientale, e ci eravamo già innamorati di quel lontano continente che festeggiava il suo primo centenario della Costituzione Nazionale con tante celebrazioni e manifestazioni tra cui il loro 1° Campionato del Mondo Nuoto Masters.
Appena terminata la nostra “missione natatoria” il nostro viaggio prese la piega turistica che avevamo concordato: Ayers Rock, Sydney, Bondi beach e Kangaroo Island.
QUI, OLTRE AL CAPPELLO A LARGHE FALDE E ALL’IMMANCABILE BOOMERANG, MI PORTAI A CASA UN VASETTO PARTICOLARE COME RICORDO DEI NOSTRI AVI.
PARTE PRIMA
L’ISOLA DEI CANGURI (Kangaroo Island, 155 km x 55 km) è situata 13 km a sud di Adelaide, capitale del South Australia ed è un paradiso naturalistico, autentico laboratorio ed archivio dell’evoluzione. Grazie all’isolamento geografico, fauna e flora prosperano tuttora in un ambiente davvero speciale perché privo della presenza di animali voraci quali dingo, volpi, coccodrilli, cinghiali, serpenti ecc.. Presso Flinders Chase si possono osservare oche e canguri e con un po’ di fortuna anche ornitorinchi. Nell’Hanson Bay Sanctuary non è difficile incontrare i koala, mentre i piccoli pinguini australi approdano di sera lungo le rocce meridionali non lontane dalle abituali dimore dei leoni marini che sono “toccabili” a Seal Bay.
foto 1- 2 Leoni Marini sulla costa meridionale di Kangaroo Island
Nella splendida grotta dell’Admiral Arch si è certi di avvistare le otarie della Nuova Zelanda. In tutta l’isola si trovano echidne, wallaby di Tammar, varani e opossum. Le balene franche australi e le balenottere minori vengono spesso avvistate da giugno a settembre.
Foto 3 - Remarkable Rocks – Si eleva su una cupola di granito a 80 metri sul livello del mare. In questi ultimi decenni, l’isola è divenuta meta di un intenso turismo.
Ma la nostra curiosità è stata soprattutto catturata dalla costa selvaggia, cinturata di scogliere e reefs, battuta dai venti antartici e dalle mareggiate che hanno modellato le rocce trasformandole lentamente in strane figure antropomorfe in continua mutazione, sirene ammaliatrici che hanno attirato i naviganti in autentiche trappole mortali. 85 relitti di velieri giacciono sui fondali intorno all’isola ed alcuni portano nomi a noi familiari: Ventura (1858) - Fides (1860) - Atalanta (1860) - Mimosa (1884) -Montebello (1906) - Vera (1915).
Foto 4 - Kingscote - Uno stormo di pellicani si sottopone al noioso “comizio” di un pescatore prima di un pasto gratis.
L’esploratore francese N.Baudin tra il 1802 e il 1803 realizzò i primi rilievi cartografici e trovò l’isola disabitata, ma fu un inglese, ben più noto, Matthew Flinders a dare il nome all’isola. Dopo di lui, una variopinta congrega di cacciatori di foche e balene, galeotti fuggiti di prigione e marinai disertori cominciò a stabilire la propria dimora sull’isola. Costoro fecero arrivare donne aborigene dalla vicina Tasmania e altre ne rapirono nel continente. In breve, Kangaroo Island si guadagnò la fama di luogo tra i più pericolosi e violenti dell’Impero Britannico. Poi, nel 1827, i criminali peggiori furono trasferiti altrove e sull’isola ritornò la pace. Tuttavia, gran parte dei coloni che occuparono le campagne dovette trasferirsi dopo qualche tempo ad Adelaide, perché l’acqua dolce scarseggiava e, proprio a questa circostanza si deve l’attuale paradiso che è costellato soltanto di pochi alberghi e aziende agricole tra le quali una, come vedremo tra poco, ci ha riservato la “sorpresa”.
L’Australia ha una storia antica che si respira soprattutto nei suoi immensi deserti centrali, dove il primitivo spirito aborigeno è rimasto intatto nel suo nucleo originale, che conta circa 200.000 unità, ma la vita nella “loro” Australia è difficile, perché sofferta pare esserne l’integrazione. Esiste poi un’altra storia, quella degli ultimi arrivati, degli europei, dei coloni e dei navigatori, che simile ad un vento costante, ti avvolge e ti riempie i polmoni durante i lunghi percorsi della sua incommensurabile fascia costiera. Alberghi, ristoranti, pubs, acquari, musei, negozi, portano i nomi storici di James Cook, Abel Tasman, Matthew Flinders, HMAV Bounty, Batavia, HMB Endeavour, HMS Sirius e di altre decine di navigatori e dei loro famosi velieri della First Fleet che qui portarono inizialmente galeotti, preti, buone donne, coloni, e poi, “forse” la civiltà.
Foto 5 - Sydney -Il celebre “ENDEAVOUR” (replica) con cui James Cook scoprì la Botany Bay (Sydney) durante il suo primo viaggio del 1768-71.
Foto 6 - Sydney - Antico Battello Fanale (senza equipaggio) “Carpentaria” che fu attivo dal 1917 al 1983 nel golfo di Carpentaria (a nord) e nello Stretto di Bass (a sud dell’Australia).
Una storia marinara che rivive intensamente non solo all’interno dei numerosi Musei Navali sparsi un po’ dovunque e sono “gratis”, ma il viaggio nella storia prosegue tra i docks con le visite guidate alle repliche dei vascelli d’epoca che sono ormeggiati a fianco di unità “navigate”, civili e militari che oggi godono di un “ammirato” e meritato disarmo. Queste darsene, spesso ubicate ad un passo dai grattacieli della City, hanno conservato stupendi angoli architettonici d’epoca coloniale; in tutto ciò traspare il desiderio di tramandare la continuità storica e di esibirla con orgoglio. In tutto ciò risaltano, volutamente, le distanze culturali e linguistiche dalla vecchia Europa e dal mondo anglo-sassone, del quale affiorano tracce e qualche radice, ma qui tutto è giovane e guarda al futuro con invidiabile ottimismo.
PARTE SECONDA
Foto 7 - Seal Bay - Uno squarcio di sole sulle scogliere meridionali di Kangaroo Island riscalda i leoni di mare e gli altri numerosi mammiferi che sono i veri protagonisti dell’isola.
Eccoci di nuovo a Kangaroo Island! La sorpresa che vi abbiamo anticipato, ci ha colto durante la visita alla Clifford’s Honey Farm, una Azienda Agricola che produce un miele particolare che si chiama: LIGURIAN HONEY. Quando spiegai che il nostro gruppo era ligure, il farmer mi diede da leggere un foglietto scritto in inglese:
Foto 8 Ligurian Honey
Foto 9 - “Prima del 1880 non c’erano api da miele a Kangaroo Island. Quando iniziarono le importazioni, tra il 1881 e 1885, l’intenzione era quella di allevare e provvedere ad una futura risorsa di Api Regine di pura razza a scopo industriale. Queste api provenivano dalla provincia Ligure e sono conosciute come Api Liguri. Nel 1885 il Governo del Sud Australia proclamò Kangaroo Island Santuario delle api e nessun’altra importazione d’api poteva essere fatta. Così oggi siamo gli ultimi eredi di questo puro miele di api al mondo, infatti l’isola è fuori del raggio di volo delle api dal continente. Il miele è prodotto dalle numerose varietà di alberi di eucalipto trapiantati sull’isola, così come alberi da Tea, Bottlebrush, Bankias e molte altre piante introdotte come la Canola che è diventata molto importante per la produzione isolana……
Aggiungiamo che in questa parte dell’Australia, per un raggio di circa 1200 km che arriva sino a Sydney, proviene circa il 45% della produzione apistica che conta circa 650.000 alveari regolarmente denunciati, con una produzione annua di circa 35.000 tonnellate di miele. L’apicoltura incide sull’economia australiana con un apporto di 65 milioni di dollari l’anno.
Purtroppo le nostre ricerche non hanno dato risultati apprezzabili, non siamo infatti riusciti a farci un’idea di come le Api Regine nostrane, con le loro “famiglie” di api, siano giunte a Kangaroo Island nel 1881 ed abbiano così dato origine ad una fonte di ricchezza che gli australiani ancora oggi ci riconoscono. Con certezza sappiamo solo che numerosi velieri liguri hanno scalato per secoli i principali porti australiani e la lista dei relitti che giacciono sui fondali intorno all’isola testimoniano, con molta tristezza, questi avvenuti commerci.
Con altrettanta certezza possiamo ricordare al lettore che il più celebre “contatto” (collisione) che si ricordi ancora oggi nella storia navale mondiale, fu proprio quello di un veliero camogliese, il Fortunata Figari che nel dicembre del 1904 fu investito dalla nave passeggeri inglese Coonjee nel nebbioso Stretto di Bass, non lontano da Kangaroo Islans. Vi furono delle vittime, ma il numero fu limitato dall’impresa straordinaria, prima ed unica nella storia, compiuta dal capitano Rocco Schiaffino che rimorchiò (a vela) la grande nave a motore e la portò in salvo a Melbourne con tutti i suoi 160 passeggeri, dopo quattro giorni di navigazione.
Foto 10 - Ecco come si presenta esternamente il laboratorio dell’apicoltore Arturo Assereto.
Delusi dal mancato riscontro storico del miele ligure a Kangaroo Island, siamo andati a trovare nel suo laboratorio di Passo Sellano per S.Quirico d’Assereto, un vecchio compagno di scuola. Ragioniere e bancario nella vita, Arturo Assereto è oggi uno appassionato apicoltore, nonché Segretario dell’AssoApi Ligure che è una Associazione culturale tra Apicoltori, Amici e Studiosi delle Api, con lo scopo di scambiarsi conoscenze e idee sul mondo delle api e dei prodotti connessi.
- Ciao Arturo! Proprio in questi giorni ho letto che le api cosiddette domestiche, a volte possono essere pericolose -
Vedi Carlo, le api pungono per difendersi se molestate, oppure quando sono orfane della Regina. In questi casi, le api più anziane si sacrificano, perchè dopo aver punto muoiono. Oggi, per esempio, sentono la burrasca e sono un po’ gnecche! Prima che tu arrivassi, mia moglie è stata punta. Le api, quando lavorano, vivono circa sei settimane, poi muoiono per stanchezza. D’inverno quando non escono dall’alveare, in certi climi freddi, possono vivere anche sei mesi.
- Il mondo delle api è davvero così antico? -
Le api non sono proprio “domestiche”, perchè hanno un comportamento “autonomo” da millenni. A Valencia-Spagna, l’archeologia ha portato alla luce un graffito che raffigura un raccoglitore di miele risalente a 9000 anni fa. Vieni ti faccio vedere le arnie, ma è meglio che ci teniamo a distanza...”.
Poco dopo è cominciato a tuonare!
Foto 11 - I contenitori del miele divisi per qualità e annate rappresentano il “bene” prodotto dalle api, ma anche la fatica ed i rischi dell’apicoltore.
Dopo avergli raccontato la mia “unica” esperienza (australiana) in fatto di miele, Arturo, che è anche un ottimo divulgatore scientifico, ha cominciato a raccontarmi, così come spesso gli capita tra le scolaresche locali, il mondo delle api, mostrandomi prima l’habitat: alberi, piante e fiori, e poi l’apiario dove si allevano e proteggono le api. Ha proseguito poi spiegandomi l’uso degli attrezzi necessari per agevolare le api in questo affascinante processo di produzione del miele.
Foto 12 - Ecco come si presentano gli alveari. Ogni arnia ha un colore diverso per facilitare il riconoscimento e quindi un facile rientro... in famiglia delle api.
“Ogni alveare (arnia) ospita una “famiglia” composta di: un’ape regina che depone nei periodi di massimo sviluppo fino a 2000 uova al giorno, di una moltitudine di api operaie (10.000-60.000) e nella bella stagione ospita anche alcune decine di fuchi (api-maschio) che fecondano la regina e poi muoiono.
Foto 13 Ape Regina
Foto 14 Ape Operaia
Foto 15 Fuco
Essi sono più tozzi, hanno la ligula molto corta e non possono raccogliere il nettare, sono privi di pungiglione. L’ape regina esce dall’arnia solo per la fecondazione e per la sciamatura che è un fenomeno naturale per cui, quando all’interno dell’alveare il numero delle api cresce oltre misura, l’ape regina se ne va per formare una nuova famiglia. La sciamatura è una festa per le api, si riempiono lo stomaco di miele e si vanno a posare su un albero in fiore. Io poi recupero questo sciame con una cassetta che contiene un vecchio favo che riconoscono dall’odore e che le attira, ed io le riporto in una nuova arnia. Tuttavia, essa abbandona la famiglia soltanto quando capisce che il “ceppo” ha già provveduto a sostituirla con un’altra ape regina.
Foto 16 - Le api operaie a raccolta intorno all’Ape Regina.
- Quanto tempo le api rimangono fuori dalle arnie? -
Di sera le api ritornano nell’alveare d’origine, nel punto che hanno memorizzato; all’interno dell’alveare, la Regina le tiene unite col suo tipico odore (feromone). Ma un fatto molto interessante è la loro abilità di termoregolazione dell’alveare. Cioè la loro capacità di mantenere in tutte le stagioni la temperatura di 35°, affinché il miele mantenga la giusta densità. In estate sbattono le ali e fanno vento, oppure vaporizzano l’acqua che non deve mai mancare; mentre in inverno si scambiano il calore rimanendo in glomere, vicine l’un l’altra. Le api succhiano il nettare che è acquoso, lo deumidificano cioè lo rendono più denso, e poi lo trasformano in miele aggiungendo enzimi, sali minerali, lieviti, vitamine che sono poi la differenza tra il miele e lo zucchero che non contiene queste sostanze.
Foto 17 - Ape che succhia il nettare con la ligula.
- E’ vero che l’ape in natura compie dei veri miracoli d’ingegneria genetica? -
Il primario lavoro “economico” dell’ape in natura non è il miele, ma l’impollinazione, che loro fanno inconsapevolmente recuperando sia il nettare che il polline dai fiori. Quest’ultimo, essendo proteina, gli serve per allevare i piccoli, ma le api si sporcano di questa polvere e la portano su altri fiori che hanno bisogno d’incrociare il polline, seme-maschile col seme-femminile che si trova nel calice. In natura vi sono poi alcune piante che hanno bisogno dell’impollinazione della stessa specie, altre addirittura, come il Kiwi, possiedono due piante: quella maschile che fa un fiore e quella femminile che ne fa un altro. Se non s’incontra il polline non nasce il frutto. Ma, come hai detto tu, l’ape provvede a risolvere questi problemi genetici.
Foto 18 - Ape impollinata
Dall’impollinazione nasce il fiore, dal fiore nasce il frutto, dal frutto il seme e quindi un’altra pianta e qui si chiude il ciclo.
Foto 19 - Ape che ritorna con il polline, visibile nella zampa posteriore
- E’ vero che il miele ligure gode di un’ottima reputazione nel mondo? -
In un importantissimo Convegno Internazionale (APIMONDIAL) che si è tenuto di recente, è stato ribadito che il miele ligure è tra i migliori al mondo per qualità, in quanto è prodotto con i fiori degli alberi, in un ambiente ancora pulito. Tra le diverse razze esistenti, la nostra Ape mellifera ligustica pare essere la più produttiva e per questa ragione è esportata in tutto il mondo. Si chiama così perché provvista di una ligula più lunga del normale. Quindi “ligustiga”, in questo caso, non sta per ligure…
- Cos’è in effetti la temuta Varroa? -
Tanto tempo fa le nostre api furono esportate in Asia e nell’Estremo Oriente, ma furono attaccate dalla Varroa, un acaro che ancora oggi sta decimando le api in tutto il mondo. Ecco, credo che proprio l’Australia e la Nuova Zelanda siano, per il momento, ancora immuni dalla Varroa”.
Foto 20 - La macchina centrifuga che serve ad estrarre il miele.
Foto 21 - Il rapallino doc. Arturo Assereto raschia la cera del telaio che contiene il favo con miele vecchio. La composizione chimica della cera d’api è fatta di una miscela di oltre 300 sostanze; gli idrocarburi, gli esteri e gli acidi sono prevalenti.
Foto 22 - Ecco come si presenta il favo destinato a raccogliere il miele depositato dalle api
Foto 23 - Ed ecco come appare un favo coperto dalle api operaie.
La nostra lezione d’Apicoltura continua ora in laboratorio, dove l’amico Assereto ci mostra con orgoglio la macchina centrifuga che serve ad estrarre il miele, e poi si sofferma sui telai e telaini che ingabbiano i favi muniti di fogli cerei che contengono le celle esagonali dove le api depositano il miele.
Foto 24 - Api operaie, uova e larve.
- Siccome non possiamo avvicinarci, ci puoi spiegare come si presenta l’interno di un’arnia? -
“Le mie arnie sono costruite per contenere dieci telai (favi), cui vengono applicati i fogli cerati per il deposito del miele. Il favo ha due facce formate da celle prismatiche, a sezione esagonale, contigue dello spessore di 25 mm. Quello che si presenta scuro ha ospitato una covata di nuove api. Sopra l’arnia si mette un’altra cassetta più piccola con nove telaini, che si chiama melario dove le api fanno scorta di miele che serve per allevare i piccoli la primavera successiva e che noi gli rubiamo senza rovinare il nido che è sotto. Le api sigillano il miele (opercolazione) con la cera da loro prodotta e che si recupera per fare fogli cerei ed anche candele. Inoltre le api sigillano le fessure dell’arnia con la propolis, una resina scura che le api ricavano dalle gemme degli alberi e che si fa sciogliere in alcool ed è un antibiotico naturale contro il mal di gola.
- Puoi dirci in breve perchè è così famosa la Pappa Reale? -
La PAPPA (o gelatina) REALE è un prodotto secreto dalle api “nutrici” che si alimentano prevalentemente con il polline, ma anche con il miele delle api operaie. E’ quindi un prodotto ad alto contenuto proteico, ad elevato numero di aminoacidi, ricca di vitamine (in particolare gruppo B), di sostanze toniche de sistema nervoso e di ormoni ricavati dal polline.
- Arturo, vorrei concludere questo viaggio nella natura con il Miele Ligure che ha ispirato questa intervista! -
Ogni zona presenta una vegetazione caratteristica, che si riflette sullo spettro pollinico del miele.
Nelle nostre zone del Levante Ligure si producono ottimi mieli, per lo più poliflora (millefiori), da fioriture primaverili, estive ed autunnali, dal mare fino agli Appennini.
Te n’elenco alcuni tipi, come esempio:
Miele d’Acacia, (Robinia) a volte macchiato dall’erica. Miele d’Erica, Miele di Tiglio, Miele Tarassico (Val d’aveto), Miele di Castagno, (e altri fiori della macchia mediterranea), Miele Melata (di Metcalfa pruinosa) o d’Abete in montagna. Miele di Corbezzolo”.
Ringraziamo il rag. Arturo Assereto per averci impollinato abbastanza da poter raccontare - con poca scienza e un po’ più di coscienza - un microcosmo naturale degno di grande rispetto e amore, specialmente in coloro, come il sottoscritto, che del miele ne fanno largo uso senza essersi mai chiesto fino in fondo quanto sia importante la difesa del nostro patrimonio paesaggistico.
Carlo GATTI
Rapallo, 30.04.11
L'ULTIMO "PRIGIONIERO" DI RAPALLO
L’ULTIMO “PRIGIONIERO” DI RAPALLO
Qualche giorno fa ho avuto l’occasione di visitare le segrete del castello cinquecentesco di Rapallo che fino ai primi anni ’50 erano adibite a carcere: sei celle in tutto. Improvvisamente, dopo tanti anni di amnesia, mi è venuto in mente quel tragico episodio che mise fine a quel luogo di detenzione umido e triste, una specie di “isola dei reclusi” dal sapore medievale, che ancora oggi emana un’atmosfera di orrore e paura pensando alle fragorose mareggiate invernali che colpiscono la vecchia struttura come colpi di cannoni. Ne parlai con gli amici della mia età e mi accorsi che nessuno di loro ricordava quel tentativo di evasione dell’ultimo prigioniero recluso che diede luogo al ferimento del guardiano. Pare che anche altri anziani rapallini abbiano rimosso quel brutto ricordo, veramente da dimenticare, tuttavia, la mia memoria ha continuato a galoppare fino a quando ho “inquadrato” visivamente un caro amico, la persona giusta e qualificata per riesumare quell’episodio da “Far west” che, a malincuore, fa parte della nostra storia cittadina.
Italo, noto commerciante di Rapallo, è il figlio di Giuseppe Pocorobba, collega del guardiano Rocco Canacari che fu ferito da un detenuto...
Prima di entrare nel vivo della vicenda, come ti spieghi che in quei primi anni ‘50 era ancora in funzione una prigione costruita nel XVI secolo?
L’istituto penitenziale di Rapallo era un “Carcere Mandamentale” ossia quasi dismesso, nel quale erano detenute le persone in attesa di giudizio per reati lievi, oppure condannate a pene fino a sei mesi.
Italo, sono passati tanti anni, so che eri un ragazzino come me, ma che di quell’avvenimento ricordi tutti i dettagli, per ragioni famigliari a te molto vicine. In questo momento penso che tutti i rapallini e rapallesi ti stiano ascoltando. Come si svolsero i fatti? Ce ne vuoi parlare?
Il detenuto usava farsi la barba con un rasoio di sicurezza che Rocco gli concedeva di usare. Fu proprio mentre riponeva il rasoio nella valigetta contenente i suoi effetti personali che si rese conto che, celata sotto la biancheria c’era ancora la sua pistola automatica. Da qui nacque l’idea della fuga… e la sua gravissima messa in opera. Giunse il giorno, in piena estate, in cui il detenuto impugnò l’arma e fece fuoco contro il guardiano con più colpi di pistola automatica. Per fortuna soltanto uno dei tre proiettili andò a segno nella nuca di Rocco Canacari fuoriuscendo dall’occhio destro devastandolo ma risparmiandogli miracolosamente la vita. Rocco, vecchia tempra di ex carabiniere resistette all’aggressore e lo respinse mentre questo lo colpiva alla testa, ancora una volta, ma con il calcio della pistola. Alla fine Rocco, sebbene fosse ferito gravemente, riuscì coraggiosamente a barricarsi nel suo ufficio.
Credeva di morire e con il dito intinto nel proprio sangue, scrisse sul grande registro giornale del carcere un messaggio alla moglie raccomandandole i numerosi figli.
Ancora oggi credo che solo la Madonna di Montallegro abbia potuto mettere la sua mano protettiva sul povero Canacari. Infatti, dopo il terzo sparo del detenuto, la pistola s’inceppò.
Il racconto della seconda parte di questa brutta storia riguarda il “salvataggio” di Rocco. La vicenda é molto meno cruda, ma forse più avvincente perché coinvolse più persone e per fortuna molto in gamba...
L’operazione di salvataggio di Rocco Canacari avvenne grazie alla reazione dei due detenuti che si trovavano nelle rispettive celle che danno sulla passeggiata. Vista la scena e capita la situazione, i due cominciarono a urlare gridando attraverso le finestre a “bocca di lupo” per attirare l’attenzione dei passanti. Fu proprio grazie a queste richieste di aiuto che fu possibile allertare le forze dell’ordine. Fu mandato in bicicletta il vigile Gabbiati a casa nostra per avvertire mio padre che subito si precipitò ad aprire le carceri, fu cos’ possibile soccorrere il povero Canacari.
Ed anche qui la Madonna lo aiutò, perché eravamo in procinto di salire sulla carrozza di “Badin” che ci doveva portare in stazione a prendere il treno per Piazza Armerina (Sicilia), paese natale di mio padre. Eravamo in piena estate ed il viaggio era stato programmato da tempo.
Lo sparatore che aveva sognato la fuga, presto si rese conto che non sarebbe più potuto evadere senza le chiavi (dei tre accessi) alla prigione e, in preda al panico, ritornò quasi subito nella sua segreta lato mare, e cadde nella disperazione più totale. Era consapevole del guaio che aveva combinato, ma ormai era troppo tardi.
A quel punto si doveva salvare Rocco che perdeva sangue copiosamente.
Rocco Canacari fu prelevato senza altri danni. Il coraggioso guardiano si riprese e, nonostante la grave invalidità, continuò il suo lavoro nelle nuove carceri costruite nel frattempo nella ex Casa del Fascio. Lavorò fino alla pensione e visse ancora per molti anni.
Un ricordo personale dell'articolista: quando lo sparatore fu prelevato dal carcere per essere trasferito altrove, dovette fare i conti con una folla inferocita che tentò di linciarlo.
Alcuni cenni storici
La costruzione del castello cinquecentesco
Chi non ha mai sentito ricordare, con un certo brivido, l'assalto di Dragut al nostro borgo? Ebbene, dietro a questo nome, che nei documenti dell'epoca è storpiato in Droguth, Draguto, Dragute, Dorghutto ed in tante altre forme, si delinea la minacciosa figura di quel Torghud che, catturato nel giugno del 1540 da Giannettino Doria nella baia di Giralata presso Aiaccio, era finito incatenato al banco dei rematori a bordo d'una delle galee genovesi del grande ammiraglio Andrea Doria.
Ed in questa miserevole condizione avrebbe certamente terminato le sue avventure se Khair-Ad-Din, il più potente corsaro barbaresco, tristemente noto col nome di 'Barbarossa', non avesse posto fine, dopo qualche anno alla sua prigionia provvedendo al pagamento del cospicuo riscatto.
Così Torghud poté ben presto riprendere ancora più spavaldo a correre il mare sotto il vessillo della mezzaluna, gettando ovunque il terrore, in una travolgente ascesa che, di successo in successo, lo porterà prima ad essere il più temuto pirata tra gli 'infedeli' e poi al governo della città di Tripoli. Una palla di cannone, infine, lo ucciderà il 25 giugno 1565 sotto le mura di Malta da lui assediata.
L'assalto al borgo
Nella primavera del 1549 Torghud "Dragut", tornato libero dalla prigionia per mano di Andrea Doria, è pronto ad iniziare una nuova serie di scorrerie. Alle prime luci dell'alba del 4 luglio 1549, le navi turche, che col favore delle tenebre si erano avvicinate alla costa, puntano rapide al cuore della baia rapallese. Gli uomini, su veloci imbarcazioni, prendono terra in tre punti: presso la Porta Saline, alla Marina delle Barche, al centro del litorale, e nel quartiere della Stella, in Avenaggi. Brandendo le armi, i pirati si gettano assetati di preda sulle abitazioni, dilagando in ogni direzione. La sorpresa è assoluta e non si riesce ad organizzare un tentativo di resistenza in qualche modo efficace. Agli abitanti, quindi, non resta che cercare la salvezza con una fuga disperata. Dai documenti si ha notizia della cattura di oltre ventidue rapallesi che, nell'agosto seguente, verranno sbarcati ad Algeri, iniziando per loro indicibili sofferenze e per i parenti il tormento di tentarne il riscatto a prezzo di enormi sacrifici. Ingenti anche i danni materiali subiti dal nostro borgo per la devastazione delle botteghe, dei laboratori artigianali, delle case.
L'assalto subìto il 4 luglio 1549 da parte del pirata saraceno, determinò i rapallesi a perorare presso il Senato genovese l'erezione di un forte a protezione della spiaggia; una delegazione, guidata da Fruttuoso Vassallo, sottopose la richiesta che, sollecitamente, ottenne l'assenso desiderato. Da quel momento, il Castello costituì, con le fortificazioni di San Michele di Pagana, Santa Margherita Ligure, Paraggi e Portofino, il sistema difensivo del golfo Tigullio.
All'inizio del XIX secolo, il castello, armato di cannoni e presidiato da una decina di soldati, mantiene la sua doppia funzione di carcere-baluardo. Dopo l'unità d'Italia, però, iniziano i grandi cambiamenti: il primo ed il secondo piano vengono trasformati per divenire sede della Guardia di Finanza, mentre il piano celle continua a svolgere il suo compito con pochi rimaneggiamenti. Nel 1958, il Comune di Rapallo diviene proprietario del forte e nel 1963 verrà avviato un primo restauro che porterà il castello ad assumere la funzione di sede espositiva.
Il castello di Rapallo, più che un castello vero e proprio, è un fortino di forma rettangolare, con una massiccia parete curva a Sud Ovest, circondato dal mare ed unito alla costa da una sottile striscia di terra. La struttura è composta da un piano destinato alle carceri, due piani superiori, una torre di coronamento ed una garitta aggrappata alla parete Nord Est. Il paramento esterno è quasi completamente in ciottoli e blocchi di pietra a spacco. Alla base, una scogliera frangiflutti artificiale difende il forte dai colpi di mare. La copertura del corpo principale è in sottili lastre di ardesia, mentre la torre termina con una copertura praticabile piana protetta da un parapetto. L'unico accesso attuale consente di accedere direttamente al primo piano attraverso una scala in muratura.
Carlo GATTI
9 Giugno 2017