NAVIGARE TRA I GHIACCI -1 -

NAVIGARE TRA I GHIACCI

Premessa. La nave effettua viaggi dai porti del Mediterraneo diretta verso quelli della Finlandia passando attraverso la Manica, il Canale di Kiel ed il Mar Baltico. Viaggi lunghi fino ad arrivare ad Oulu nell’estremo Nord del Golfo di Botnia: un mare stretto mediamente 110 miglia, tra la Svezia e la Finlandia, sgombro dai ghiacci della banchisa solamente da fine Maggio a metà Novembre. Il Golfo è lungo circa 440 miglia che si estendono per N-NE dal parallelo 60° fin quasi a 66° N.

Fu verso la fine del mese di aprile 2009 che ebbi il battesimo del ghiaccio; imbarcato con il grado di terzo ufficiale di coperta sulla Oil/Chemical Tanker Acquamarina battente bandiera italiana (12003 ton. Summer dwt.; 6600kw di potenza apparato motore) appartenente alla Società di Navigazione Finbeta S.p.A. di Savona: destinazione Oulu, piccolo porto in fondo al Golfo di Bothnia, lat. 65°31' N long. 25°32' E, con un carico di prodotti chimici per l’industria finlandese.
Provenienti dal Mediterraneo, dall’inizio di aprile già si respirava aria di primavera; rimasi piuttosto sorpreso quando, transitati attraverso il canale di Kiel, fummo informati sia dall’Agenzia del luogo che dai Bollettini meteorologici della presenza, sulla nostra rotta, di zone di ghiaccio con spessore non inferiore a 80 cm!
La salinità, già bassa nel Mar Baltico, decresce ancor più verso Nord nel Golfo di Botnia. La temperatura dell’aria scende di molti gradi sotto lo zero.
La navigazione fu tranquilla fino al traverso di Markeskallen Light con ingresso nel Golfo, rotta per Nord, attraverso il passaggio di Sodra Kvarken. Circa 20 miglia prima del transito per Nordvalen, in contatto con Bothnia VTS, via VHF ch 67, ricevemmo le coordinate di una serie di punti (waypoints) da seguire: ci allarmammo un poco, ciò significava che le acque non erano sicure per la navigazione. Avendo già navigato in questi mari, in stagioni diverse, avevo avuto modo di constatare le eccezionali condizioni di visibilità spesso verificabili e, dopo il tramonto, mentre rilevavo il primo ufficiale impegnato per la cena, il Comandante, salito sul ponte di comando a dare un’occhiata, mi fece notare, sulla nostra dritta, una lunga striscia bianca all’orizzonte, confusa con il cielo nuvoloso: era il riverbero dello strato di ghiaccio ammassato sulle coste finlandesi, come riscontrabile dalle carte del ghiaccio ricevute via meteo-fax: eravamo a oltre 30 miglia dalla costa ed era il segno che ci stavamo avvicinando all’area pericolosa: l’azzurro mare cambiava colore diventando grigio-verde, l’assenza di brezza ne rendeva la superficie di apparenza oleosa.
Non passarono più di due ore, a circa 14 nodi, quando avvistammo, all’orizzonte, i potenti riflettori del rompighiaccio di sentinella: attendeva noi. Informato il Comandante, fu avvisata anche la Macchina affinché potesse dare tutta potenza disponibile per evitare di rimanere presi dalla morsa del ghiaccio.
Contattati dal rompighiaccio (icebreaker), ricevemmo istruzioni di procedere, a tutta forza, nella sua direzione, rimanendo stand-by pronti per l’ascolto sul suo canale di servizio: ogni icebreaker è in ascolto sul VHF Ch 16 e in MF 2332 kHz, ma utilizza un canale differente per le operazioni con la propria assistita o il proprio convoglio per non interferire nel traffico delle radiocomunicazioni sempre intenso. I Canali di lavoro sono facilmente ricavabili dalle pubblicazioni nautiche o dalle carte meteo del ghiaccio dove si trovano, continuamente aggiornate, le posizioni di tutti i rompighiaccio in servizio e, in ultimo, dalle informazioni visualizzate attraverso l’A.I.S.
Nel momento in cui entrammo in contatto con il primo ghiaccio di una certa consistenza, ma piuttosto fragile, con mia sorpresa, data la poca esperienza in materia, notai che la nostra traccia, sul ghiaccio, era chiaramente evidenziata dal Radar, senza dubbio un grande aiuto quando ci si deve mettere nella scia del rompighiaccio. Sceso il buio e accesi tutti i proiettori che illuminavano la traccia, conducemmo navigazione a vista, seguendo il rompighiaccio che individuava, grazie all’esperienza del suo capitano, gli strati di ghiaccio più facili da spezzare.
Un carico di lavoro pesante per il nostro Comando e tutto l’equipaggio: la navigazione sotto guida può durare molte ore e giorni interi durante gli inverni più rigidi e il ghiaccio scende a basse latitudini, lo “stridolio” del ghiaccio che scorre lungo lo scafo non permette un tranquillo riposo.

Ho sperimentato che il momento più critico si verifica quando, per le eccezionali condizioni meteo, il passaggio compreso fra l’icebreaker e la propria nave si richiude senza darti la possibilità di navigare a distanza di sicurezza: allora il rompighiaccio è costretto a prendere la nave a rimorchio: bisogna avere particolare attenzione e abilità nelle manovre quando l’icebreakear si “infila” sotto la prua della nave per formare un corpo unico (v. figure). Si diventa, praticamente, il timone dello stesso rompighiaccio; non bisogna dimenticare di rispondere con un’accostata opposta alla direzione verso cui l’icebreaker vuole dirigere: spesso il Comandante dell’icebreaker chiede un aiuto per agevolare la propria accostata.
Ovviamente si tratta di un aiuto nel dirigere la prua perché in quanto a potenza non c’è confronto fra i loro 15/16 MW e i nostri 6600 KW.

Nota del webmaster:

In questo modello del rompighiaccio SAMPO, (foto di Maurizio Brescia) si nota a poppa l'apparato descritto e disegnato nel presente articolo. Qui sotto riportiamo l'ingrandimento.

Sotto certi punti di vista è divertente manovrare nel ghiaccio, devo ringraziare il Comandante G. Russo: per la sua fiducia, ho imparato a stare al timone nella scia del rompighiaccio e, soprattutto, a non rimanere bloccato: può sembrare facile, ma bisogna imparare qualche accorgimento …! È questione di attimi!
La manovra per sbarcare il pilota, ricordo, è stata sorprendente, non mi era mai capitato di vederlo sbarcare, a piedi, sul ghiaccio ed “imbarcare” sulla pilotina costituita da una motoslitta!
Non sempre l’esperienza può bastare in certe situazioni: impossibile dimenticare l’ultimo imbarco, con un inverno più rigido rispetto agli ultimi anni, quando in uscita dal porto di Rauma (Fl), sempre dietro al rompighiaccio, lasciato il pilota, riuscimmo a navigare, forse, per un paio di miglia: poi la potente mano della Natura ci fermò. Il Comandante Failla, con l’esperienza di una brillante carriera svolta a battere questi mari, rimase sul ponte non so quante ore nel tentativo di trovare un varco in una direzione qualsiasi pur di liberarci, manovrando di macchina e timone, ma quando, oltre a noi,

Posizione di sicurezza ICEBREAKER in funzione di rimorchiatore

 

Vista Dall'alto

Sistema NAVE-ICEBRTEAKER in manovra

altre due navi, a poca distanza ebbero lo stesso problema, comprendemmo che, forse, non c’era più una via apribile: il ghiaccio si era compattato molto bene; non ci restava che chiamare l’icebreaker e rimanere in attesa. Non è piacevole rimanere in balia del ghiaccio!
Arrivò il rompighiaccio che, con la sua potenza da gigante dei mari, ci avvolse come in un materno abbraccio e, dopo un paio di evoluzioni intorno per rompere il ghiaccio, ci accolse, come la chioccia con i suoi pulcini, e in convoglio, ci fece raggiungere acque più libere. Proseguimmo da soli cercando il passaggio più sicuro attraverso gli strati di ghiaccio più sottili: più con l’abilità dell’uomo di mare che attraverso la strumentazione, io sto cercando di acquisirla e, vi assicuro, è un’esperienza indimenticabile che segnerà la mia vita per sempre!

 

Al termine della interessante conferenza gli studenti di V classe rivolgono domande.

1) Con quali criteri il V.T.S. dà le rotte ed i punti di accostata?
Risposta: in base alle varie carte meteo-oceanografiche di previsione e di situazione nelle diverse zone: sono proprio gli stessi icebreaker in stand-by, i rompighiaccio in attesa, che fanno il servizio di scorta verso ogni porto di destinazione. Icebreaker proprio alla deriva nel ghiaccio, in alcune zone strategiche, come potrebbero essere i passaggi ristretti di Nordvalen o più semplicemente ai limiti della “banchisa”, dove il ghiaccio inizia ad essere troppo compatto per una navigazione senza scorta. Nel bisogno i rompighiaccio vengono a scortare le navi ed aprire la via a chi non resta “impantanato”. Gli icebreaker danno ai VTS informazioni dirette. Le accostate possono arrivare a 30° o 40°. Quando in zona il vento viene dai quadranti orientali l’accumulo di ghiaccio è lungo la costa svedese; troviamo i WP più vicini alla costa finlandese; e viceversa con i venti occidentali.

2) A che distanza la nave segue il rompighiaccio di guida? Qual è la velocità di manovra?
Risposta: la velocità, diciamo, è sempre la massima possibile; noi avevamo una velocità con macchine “Full Ahead”(tutta forza avanti) di 14 nodi; non succede quasi mai che venga richiesto di procedere più lentamente, a meno che non si stia procedendo in convoglio … allora tutte le navi si devono adeguare a quella che ha la velocità minore, o comunque con potenza motore inferiore. Ecco!! ciò che chiede talvolta il comandante dell’icebreaker, quando si arriva in area di operazioni e prima di iniziare il convoglio: è proprio la potenza dei motori e la massima velocità della nave. Una curiosità: è capitato di ricevere la richiesta di attendere qualche ora fermi nel ghiaccio, o di aspettare l’arrivo del convoglio “in discesa” dal mar di Bothnia, o di attendere un'altra nave in modo da unirci al convoglio “in salita”. La distanza tra nave e rompighiaccio che guida una sola nave non supera 1000 metri. Il Capitano dell’icebreaker ed il Comandante della nave sono in continuo contatto radio. Se la nave ha difficoltà a mantenere la velocità perché il ghiaccio tende a ricompattarsi in breve tempo, i due Master concordano per navigare più vicini e mantenere una adeguata velocità minore: l’icebreaker si avvicina alla nave riducendo temporaneamente la velocità più di quanto l’abbia ridotta la nave. Dopo aver ridotto il corridoio di transito tra le due unità, il rompighiaccio si porta alla stessa nuova velocità della nave. Il minor tempo di transito della nave è tale da anticipare il processo di ricompattamento; la nave sfugge alla morsa della pack. Per la sicurezza del convoglio la brevità dell’intervallo vale, in tal caso, più della lunghezza del convoglio.

3) È difficile far rimanere la nave nel varco, lo stretto canale aperto dell’icebreaker? Chi sta al timone, il marinaio o l’ufficiale?
Risposta: alla seconda domanda risponderò dopo. Non è facile spiegare come intervenire per rimanere nel corridoio di transito aperto dal rompighiaccio, manovrare per non andare a strisciare il pack sotto l’azione del vento. Si è guidati dall’intuito; è necessario agire correttamente e prontamente col timone. Non sempre si riesce; c’è la corrente, talvolta; ma la corrente è subdola, non si vede. Non è piacevole portare la nave (anche se contro volontà) a strisciare contro il ghiaccio e udire lo “stridio” delle lamiere ed avvertire il rischio di traversare la nave, possibile preludio di finire attanagliati dalla banchisa.

4) Se la nave è presa dalla morsa del ghiaccio come agite? La nave ha il doppio scafo?
Risposta: la prima preoccupazione del comandante è quella di avvertire il direttore di Macchina. L’elica non deve essere bloccata dal ghiaccio; deve sempre girare perché deve smuovere l’acqua d’intorno. Se la nave ha l’elica a passo fisso si deve far girare molto lentamente l’elica, cioè con i giri (al minuto) al minimo. Se la nave ha l’elica a passo vario si mette il propulsore a passo zero. Tutte le chimichiere sono costruite col doppio scafo.

5) È importante conoscere lo spessore del ghiaccio?
Risposta: si. L’indicazione dello spessore del ghiaccio, nelle varie zone, è contenuta nelle cartine meteofax, e in quelle che si trovano sui siti internet, per le navi che hanno il collegamento con la rete; in generale il VTS, durante il contatto via VHF, dà un'indicazione sullo spessore massimo del ghiaccio; informa sulla situazione generale che si troverà lungo la rotta per il porto di destinazione. Qualche volta lo strato supera 1 metro. Sappiamo che l’acqua marina di circolazione del raffreddamento viene dalle prese: basse o alte. Se la nave, in zavorra, navigasse con le prese alte e rimanesse nell’abbraccio del pack non andrebbe incontro ad altri problemi a condizione che sia stato fatto un preventivo maggiore zavorramento per evitare l’occlusione delle prese da parte della morsa del ghiaccio.

6) Ha mai incontrato lastroni di ghiaccio isolati e non segnalati?
Risposta: se il lastrone di ghiaccio è grande, è raro che sfugga all’avvistamento e … alla segnalazione, sempre doverosa da parte di una nave. L’incontro capita spesso, verso la fine della stagione, quando il ghiaccio si disperde e inizia a dividersi in parti; perciò si naviga sempre coi proiettori accesi di notte, proprio per cercare di avvistare ed evitare il più possibile i pezzi più grossi. È vero che la nave è classificata ICE Class, ma è meglio non fidarsi; scontrare un pezzo di ghiaccio alla massima velocità non è molto … bello; meglio evitare, se possibile. Sovente si fanno accostate su accostate pur di evitare il ghiaccio!

7) Ha mai incontrato, in altri mari, un iceberg?
Risposta: no. “In altri mari” è precisazione corretta. Gli iceberg hanno un’origine precisa: si staccano dai nevai delle montagne alte, scoscese; scendono a valle e finiscono in mare, come ad esempio (lo saprete tutti) le terre della Groenlandia ed altre. Il Golfo di Bothnia è circondato da terre pianeggianti o quasi. Meglio così, un problema in meno. Ma non è esclusa la possibilità, con altri viaggi, di fare la conoscenza!

Cari giovani, le incombenze dell’Ufficiale a bordo sono numerose. Seguire alla lettera le procedure come da “check list” … le “continue Ispezioni delle maggiori Compagnie Petrolifere” … l’ufficiale rischia di perdere l’altro aspetto della professionalità, anche se poco conosciuto e riconosciuto, ma non per questo meno importante dei tanti controlli. Intendo dire non si deve perdere di vista l’importanza dell'esperienza vera dell'uomo di mare. Da Allievo non ho mai perso occasione per tenermi stretto il timone, sapendo che certe esperienze avrei rischiato di non poterle più provare direttamente. Rispondo alla domanda in sospeso. Di norma il marinaio è al timone. Ma non bisogna dimenticare che l’ufficiale è responsabile della guardia. Egli è motivato se nel tirocinio di allievo ha acquisito esperienze preziose; tra cui, ripeto, saper stare al timone (col consenso del Primo e col pretesto di dare al Marinaio un po’ di riposo …). Solamente così, da ufficiale, si è pronti a dare un tempestivo suggerimento al timoniere o rilevare il marinaio poco esperto in particolari frangenti. L’Ufficiale, nel servizio di guardia, non sta al timone perché già occupato a mettere i punti nave sulla carta nautica, seguire la navigazione e a intrattenere comunicazioni VHF con l’icebreaker, ovviamente col Comandante a sovrintendere. Solamente l’ufficiale che ha conoscenza dei problemi e possiede il senso della professionalità nell’emergenza va oltre la routine e sa fronteggiare una situazione difficile.

 

 

a cura dell’Ufficiale di Navigazione II

Michele Gazzale

Rapallo, 14 ottobre 2014

 

 

Mi complimento con il Comandante Michele Gazzale, camoglino DOC, per questa cronaca in diretta di "navigazione sul ghiaccio". Non solo é raro capitare con la nave nel Golfo di Botnia, ma é altrettanto raro che un ufficiale racconti in modo così dettagliato e avvincente questa sua esperienza, la quale é sicuramente degna di essere diffusa, con la presente documentazione fotografica e grafica, presso tutti gli Istituti Nautici Italiani.

Webmaster Carlo Gatti

 

 

 

 


CANAL DU MIDI

CANAL DU MIDI

NAVIGANDO CON IL RE SOLE...

La cartina mostra i canali navigabili che collegano il Mediterraneo all’Atlantico: Canal du Midi (241 Km) - Canal de Garonne (193 km) - L’estuario della Garonna che collega Castets-en Dorthe a Bordeaux (57 km)

Il Canal du Midi Costruito sotto il regno di Luigi XIV, dal 1666 al 1681, fu considerato il più moderno progetto idraulico del mondo che aprì la strada alla rivoluzione industriale. Nel 1996 fu inserito nell'elenco dei Patrimoni dell'Umanità dell'UNESCO.

Il Canale della Garonna é certamente il meno celebre dell’asse Mediterraneo-Atlantico, ma la scoperta della sua storia e del patrimonio delle regioni che attraversa, merita il viaggio. La sua costruzione risale al 1860.

La navigazione sull’estuario de la Garonne verso Bordeaux é affascinante, ma soggetta a maggiori difficoltà nautiche (venti, correnti e onde di marea). Occorre esperienza, prudenza e rispetto delle regole prescritte dall’Autorità.

Dal Mediterraneo all’Atlantico

 

Realizzare il sogno di collegare l'Atlantico al Mediterraneo...

Sin dall'antichità era stato elaborato un gran numero di progetti volti allo scavo di un canale di collegamento dei due Mari, ma per realizzarlo ci volle la fortuita combinazione dell’unione di tre personaggi formidabili: il Re Sole Luigi XIV, il suo ministro delle finanze Colbert* ed un ingegnere caparbio come il Riquet**.

L’opera idraulica avrebbe risparmiato ai francesi la circumnavigazione della nemica Spagna con un risparmio di 3.000 Km (circa un mese di navigazione).

Inizialmente il canale fu utilizzato prevalentemente da chiatte a vela di piccole dimensioni, con alberi facilmente abbassabili, per il commercio delle granaglie e del vino Bordeaux verso la riviera francese e l’Italia ed ebbe un incremento strepitoso. La nuova via d’acqua fu sfruttata anche per scopi militari da imbarcazioni che trasportavano truppe e armi. Verso la metà del XVIII secolo , furono utilizzati anche i cavalli per rimorchiare battelli da carico fino all'avvento dei mezzi a vapore che iniziarono nel 1834.

Nel 183 8 fu registrato il passaggio di 273 navi, sia per trasporto di merci, sia di quello passeggeri, e il suo utilizzo continuò fino all'avvento delle ferrovie nel 1857 .

 

L’architetto di quest'opera riuscì a coniugare la sua grande funzione tecnica con il rispetto del paesaggio. Una prodezza tecnica e un'opera d'arte integrata  nella grande varietà dei paesaggi attraversati.

La rapida evoluzione tecnica dei trasporti terrestri, marittimi e aerei, non incise affatto sul traffico commerciale sul Canal du Midi che durò fino al 1980. In seguito, a causa della persistente siccità della fine degli anni ’80, iniziò a diminuire per cause naturali, cessando quasi del tutto.

La frequentazione del canale, iniziata negli anni sessanta del XX secolo, registrò il suo boom nel decennio 1980-1990. Tra i principali siti attraversati citiamo i più famosi per la loro storia, arte antica e moderna: Tolosa, Castelnaudary, Carcassonne, Trèbes, Béziers, Narbonne, Sète, Agde…

Il canale, aperto da marzo a novembre, oggi è una delle mete principali del turismo fluviale e della possibilità di praticare numerosi sport: canottaggio, pesca, ciclismo e, naturalmente escursioni su chiatte di lusso come l'Anjodi. Gli ultimi dati stimano una media annua di 100.000 turisti che l’attraversano da un mare all’altro.

Canal du Midi - Escursioni all’ombra dei platani

Lungo il canale che collega Sète - Tolouse a Bordeaux L'alzaia *** funge da pista pedonale e ciclabile e. Le biciclette possono essere noleggiate presso diverse stazioni lungo il Canal du Midi. Inizialmente il canale era arricchito da filari di platani maestosi su ogni lato. I 42.000 alberi, che risalgono al 1830, furono piantati per stabilizzare le banchine. Nel 2006 un’infezione fece appassire e successivamente morire gli alberi. Circa 2.500 vennero distrutti a metà del 2011, dopo di che l’Amministrazione decise che l’intera piantagione sarebbe stata distrutta e sostituita nel giro di 20 anni.

Inizialmente, i 42.000 platani che costeggiavano le Canal du Midi, erano stati piantati per ridurre il movimento franoso e stabilizzare le sponde del canale.

L'allineamento di questi alberi, posti a 7-8 metri di distanza l'uno dall'altro, crea ancora, dopo 350 anni, l'effetto di un colonnato, dando così luogo a un “magnifico monumento paesaggistico”. I platani filtrano la luce e proteggono i turisti-naviganti dalla calura estiva del Sud della Francia.

Il ponte-canale di Cesse costituisce tuttora un’autentica ed audace invenzione d’architettura idraulica. Fu costruito dagli ingegneri Riquet e Vauban tra il 1689 e 1690. Misura 64 metri di lunghezza e 20 d’altezza.

Fonsèranes a Beziers - Le nove chiuse a sinistra e l’ascensore d’acqua a destra.

Le famose “Nove chiuse di Fonserannes” alle porte di Bezieres

Lungo il percorso che porta a Bezieres oltre alle chiuse vinciane multiple di Fonsèranes, si passerà il ponte-canale sull’Orb e il tunnel di Malpas qui fotografato.

Il Ponte-canale sull’Orb fu costruito nel 1854 per risolvere il problema dell’attraversamento del fiume Orb, assai capriccioso per le forti escursioni in altezza delle sue acque che non consentono un livello medio adatto alla navigazione.

 

Le Canal du Midi nei pressi di Carcassonne

Ma chi fu il vero ideatore del progetto?

Nel 1662, la proposta di Pierre-Paul Riquet, alto funzionario della regione della Linguadoca, suscitò l'attenzione di Luigi XIV che vide in essa molte opportunità economiche e soprattutto militari. A questa enorme operazione finanziaria diede il proprio contributo il Colbert (Ministro delle Finanze).

 

Con l'editto reale dell'ottobre del 1666 si diede avvio alla costruzione del canale la cui apertura alla navigazione avverrà il 15 maggio del 1682. L’opera  fu resa possibile grazie all’impiego di ben 12.000 operai e ad una precisa e scrupolosa organizzazione del lavoro.

Un'opera d'arte eccezionale, una sfida tecnica

Da Toulouse a Carcassonne. La cartina mostra la posizione del Bacino di San Ferreol rispetto al Canal du Midi.

La diga ha una lunghezza di 780 m, un'altezza massima di 32 m e uno spessore-base di oltre 140 m. L'acqua può essere prelevata dal bacino tramite un tunnel a volta di pietra posto alla base della diga, pertanto il limo può essere rimosso dal fondale del bacino attraverso il tunnel. Quando il livello si trova alla sua massima capacità, l’invaso contiene circa 680.000 metri cubi di acqua.

Il bacino di Saint-Ferréol constituisce la risorsa principale per l’alimentazione del Canal du Midi. Si tratta in effetti del luogo in cui Pierre-Paul RIQUET decise, nel 1667, di posare la prima pietra di una diga gigantesca che doveva sbarrare la vallata del Laudot e trattenere una immensa quantità d’acqua: più di 4,5 milioni di metri cubi che l’architetto Vauban aumenterà, qualche anno più tardi, ad una capacità di 6,5 milioni di metri cubi.

Il Bacino de Saint-Ferréol e la diga costruita appositamente per fornire acqua al Canale navigabile du Midi, costituirono l’opera di ingegneria civile più importante d’Europa.

Originariamente, il lago artificiale doveva essere alimentato dal solo fiume Laudot, ma quando questo fu ritenuto insufficiente, P.P. Riquet fece convogliare altri emissari in un unico canale chiamato "rigole de la montagne". Questo flusso raccolse in seguito le acque dei fiumi Alzau, Vernassone, Lampillon, Lampy e Rieutort e li confluì nella galleria di Cammazes; 132 m di lunghezza e 2,7 metri di diametro che si collega al bacino. Il tunnel è stato costruito dall'ingegnere militare Marshall Sebastien Vauban nel 1686-1687.

Il lago si trova nei tre comuni di Vaudreuille (Haute-Garonne), Les Brunels (Aude) e Sorèze (Tarn) .

Bassin de St-Ferrol

L'opera fu inaugurata ufficialmente il 15 maggio 1681 con il nome di Canal Royal de Languedoc. Pierre-Paul Riquet finì in bancarotta per gli ingenti costi da lui sostenuti in prima persona dopo che le casse di Luigi XIV non poterono più fornire il sostegno necessario e morì nel 1680, pochi mesi prima dell'apertura del canale alla navigazione.

Ancora qualche dato:

Il Canal du Midi ha 103 chiuse che servono a superare un dislivello totale di 190 metri. Considerando anche i ponti, le dighe, e un tunnel, il canale è costituito complessivamente da 328 strutture. La via d'acqua è lunga 240 chilometri, larga anche 15-20 metri e profonda 2.

Una curiosità: l’opera fu costruita grazie al lavoro di centinaia di donne che portarono canestri pieni di terra nel vasto cantiere.

Il progetto del canale prevedeva anche la costruzione del primo tunnel mai realizzato per permettere il passaggio di un canale, il tunnel de Malpas , una galleria lunga 173 metri, all'interno di una collina nei pressi di Nissan-lez-Enserune. Questo tunnel è considerato un simbolo dell'ostinazione di Pierre-Paul Riquet contro le avversità.

Note:

*Jean-Baptiste Colbert (Reims, 29 agosto 1619 - Parigi, 6 settembre 1683) è stato un politico ed economista francese .

La sua opera fu diretta principalmente ad accrescere la ricchezza del Paese, incoraggiandone lo sviluppo industriale e coloniale. Modernizzò le finanze pubbliche francesi, salvandole dalla bancarott a e facendo raggiungere il pareggio al Bilancio dello Stato , ma la sua opera risanatrice fu gravemente ostacolata dalle enormi spese belliche di Luigi XIV . Nel 1669 ottenne dal re la creazione del Ministero della Marina , carica di cui fu il primo titolare e che fece di lui il padre della moderna marina francese. La politica di Colbert è considerata una delle più genuine interpretazioni del mercantilismo.

** Pierre-Paul Riquet (Bèzieres, 29 giugno 1609 - Tolosa, 4 ottobre 1680) è stato un ingegnere francese, responsabile della costruzione del Camal du Midi.

Sin da ragazzo Riquet era interessato soltanto alla matematica e alla scienza. All'età di 19 anni ha sposato Catherine de Milhau. Era «fermier général» (colòno generale) della «Languedoc-Roussilon» con la qualifica di appaltatore d'imposte, cioè era responsabile della raccolta e dell'amministrazione della gabella in Linguadoca . Riquet divenne facoltoso e gli fu concesso dal re di imporre le proprie tasse. Ciò gli conferì una discreta ricchezza, che gli consentì di eseguire grandi progetti con competenza tecnica.

Riquet è l'ingegnere responsabile della costruzione del canale navigabile dalla lunghezza di 240 km che collega la costa meridionale della Francia alla baia di Biscay, una delle grandi opere ingegneristiche del XVII secolo. La logistica fu talmente immensa e complicata che gli antichi Romani ne discussero il progetto ma non lo realizzarono. Ciò nonostante re Luigi XIV fu propenso a realizzare il progetto, principalmente a causa dell'aumento delle spese e del pericolo per il trasporto marittimo delle merci attorno alla Spagna meridionale, dove i pirati erano comuni. La progettazione, il finanziamento e la costruzione del Canal du Midi assorbirono completamente Riquet dal 1665 in poi. Si presentarono numerosi problemi, compreso la navigazione intorno a molte colline e a un sistema per riempire il canale con l'acqua anche durante i mesi estivi. I miglioramenti nell'ingegneria delle chiuse e dighe del canale, e la creazione di un lago artificiale di 6 milioni di metri cubi permisero di risolverli. Il canale venne completato nel 1681, un anno dopo la morte di Riquet.

*** L'alzaia è la fune che serviva a tirare dalla riva di fiumi e canali chiatte e battelli controcorrente.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 14 Luglio 2014

 

 

 


La GENOVA delle calate e dei caruggi ....

LA GENOVA DELLE CALATE E DEI CARRUGI

Il Porto Antico com’era....

Il Porto vecchio com’era alla fine degli anni ‘80

Dalle Calate Interne del Porto Vecchio, oggi chiamato Porto Antico, mille anni fa partivano i crociati per la Terrasanta dopo aver alloggiato nella retrostante COMMENDA di S. Giovanni in Pré. Da qui è passata la storia del capoluogo che dura da un millennio, ma questa Genova, “con quella faccia un po’ così conserva ancora la curiosa espressione di chi scopre facce sempre nuove, senza chiedersi se hanno una casa o una nave come casa.

 

Gli archi della Commenda e il campanile romanico di S.Giovanni in Pré

Cinquanta anni fa le cisterne cariche di vino, d’olio spagnolo, greco, tunisino e persino qualche romantico moto-veliero con i barilotti in coperta, attraccavano in Darsena con l’aiuto del Bengasi di legno, l’unica barcaccia della flotta che riusciva a girare i piccoli mercantili in quel magico rettangolo dai muri sporchi di mattone antico. L’ormeggio era difficile per quelle navi nel frattempo cresciute, ma Stagnaro, l’anziano comandante rivierasco, cesellava la manovra e con pochi metri di cavo portava la vinacciera senza danni in banchina. Con il “buono di rimorchio” firmato, Mingo ritirava la rituale tanca di vino ancora da truccare e lo divideva con l’equipaggio lasciandone da parte qualche fiasco per le fredde giornate di tramontana.

Il rettangolo magico della Darsena oggi, tra la sopraelevata e Ponte Parodi.

La Darsena fece muro contro l’ondata dei containers fino al 1970, poi andò in disarmo insieme alle sue romantiche navette e, da quel giorno, l’intera zona si consolò con il Diporto. Oggi le sue banchine ospitano il Museo Galata, il sommergibile Nazario Sauro e altre importanti realtà culturali, ma, a quell’antica gente del porto, le calate Orologio, De Mari, Andalò Di Negro e Cembalo parlano ancora di duro lavoro in allegria e di gioventù vissuta in un ghetto dorato, tra tanta merce orientale che, in piccola parte, brilla ancora sui marmi lucidi di tanti comò genovesi…

Uno squarcio sul porto di Genova agli inizi del ‘900.

In un fondaco della Darsena arrivava lo stoccke direttamente dalla Norvegia, e in quella tana buia e salmastra, Gian e Charly lo scambiavano con alcune stecche di “bionde americane” che volavano impunite tra bordi, banchine e caruggi aggirando varchi e presidi spesso consenzienti…

Qui, al riparo da tutte le ansie e dai segugi della Finanza, Zanna, cugino di Gian ed eccellente velista dalle mani d’acciaio, faceva il “punto nave” dell’Italia de lungu in crisi e, a mezzogiorno li portava da Pino u frisciolà per un pieno di profumi e specialità genovesi. Era il regno del puro vernacolo celebrato in compagnia dei barillai, ligaballe, carenanti e camalli con gli inseparabili ganci appesi dietro le braghe.

Preziosa foto dei CADRAI che si apprestano alla distribuzione del pasto di mezzogiorno a diverse categorie di portuali.

Oggi I nomi di quelle Calate sono scomparsi persino dai muri e, al posto “delle gru ad acqua” e dei bighi sbandati fuoribordo sulla merce in colli ammucchiata in banchina, svettano ovunque improbabili palme trapiantate, aiuole, panettoni di cemento e insegne commerciali che sanno di finto, di plastica come il “galeone” che ormai non riesce a prendere per il c…neppure i ragazzini dell’ultima generazione.

L’arte moderna, la scienza e l’università hanno spazzato via un mondo dal sapore genuino che qui si dava appuntamento ogni giorno per maneggiare carichi esotici al suono scoppiettante di verricelli, macchinette a vapore, scricchiolii d’alberature navali, spostamenti di vagoni ferroviari e ordini urlati: “vira-ammaina” dei capisquadra appostati sui boccaporti delle stive che esibivano un mandillo colorato per attirare l’attenzione.

Mia Giuan! Discian che ti ghe regalou na 500 au comandante per fate entra in te barcasse”- “Nu l’è vea! Sulu e gumme”! Nel mondo della Darsena anche gli “scurotti” imparavano presto u zeneize, altrimenti cambiavano zona.

Ci spostiamo poco più in là, verso il primo Bacino di carenaggio genovese, costruito nel 1851 e da lungo tempo feudo della Rimorchiatori Riuniti che mostra con orgoglio il suo stemma all’ingresso. Da qui partono a pettine le Calate Interne, come le chiamavano un tempo: Ponte Morosini e Calata Salumi, Ponte Calvi e Calata Rotonda, Ponte Spinola e Calata Porto Franco, Ponte Embriaco e Calata Cattaneo, il Mandraccio e poi la Marinetta, dove inizia il Molo Vecchio (I Magazzini Generali), oggi conosciuto come Magazzini del Cotone, dove, per capirci, ormeggiano le Tall-Ships da parata, che non hanno mai trasportato un carico pagante nelle stive. Orfane dei veri skippers, sempre più richiesti dai grandi Races internazionali, queste signorine dei mari ormai vanno a motore. E’ strano, sono catalogate come Navi Scuola, ma certi capitani risparmiano le giovani leve, come se issare e ammainare le vele fosse un esercizio da mentecatti da non dare in pasto neppure a quei “belinoni” di turisti che di solito aspettano una giornata sull’Aurelia per vederle passare… al largo, appunto, senza vele.

L’ultimo “ceto” riferisce che al comando dell’ammiraglia italiana “Palinuro” ci sia un capitano-elicotterista, il che spiegherebbe il superamento veloce e verticale dell’antichissima tradizione velica nostrana.

Qui tutto è finto. Persino i lunghi motoscafi di scignuri che “rischiano il mare” soltanto con il tempo buono assicurato. Ma per la gente di un tempo, che ha lavorato, sudato e calcato ogni centimetro di questa banchina, rimane sempre Il Molo Vecchio che accoglieva tre lunghe navi da carico in tre zone ben codificate: M.V.radice, M.V.centro e M.V.prolungamento.

Il Molo Vecchio com’era negli anni ‘70

Il Molo Vecchio si collegava alla città tramite Calata Marinetta e il Mandraccio, dove gli spazi improvvisamente s’ingombravano di piccole navi, maone, vagoni, gru e tra questi bui ma affollati recanti, c’era un baretto e qui davanti accadeva di tutto: prostituzione, contrabbando, scazzotate e persino dimostrazioni sindacali del tutto simili a quelle raccontate nel film “Fronte del Porto”. Ma è naturale, i porti si assomigliano in tutto il mondo, forse per non confondere le idee ai marinai che sono gli unici fortunati cittadini del mondo. Siamo partiti dalla Darsena e siamo arrivati al Molo Vecchio, abbiamo chiuso gli occhi, e abbiamo rivisto decine e decine di prue, di alberi e ciminiere colorate che riempivano 20 ormeggi: La Linea Messina, le Roll-on Roll-off tunisine e algerine ed anche i Traghetti Passeggeri della Corsica Ferry e poi i nordici Dana Corona e Sirena, gli Espressi di Magliveras, ed anche i Canguri da carico e passeggeri.

Abbiamo rivisto i passeggeri sbarcare a Ponte Calvi e trovarsi in piazza Caricamento, in pieno Centro Storico, invadere a ondate Sottoripa e via Pré, trascinando i bagagli, in cerca della casbah per l’acquisto di primizie e souvenirs.

Uno dei tanti " Maciste" dell'epoca......

 

Si è messa la tramontana, ci fermiamo un attimo, cerchiamo un ridosso e ci vengono in mente quelle manovre spettacolari da vedere, ma difficili da fare. La nave girava davanti a Ponte dei Mille e veniva indietro veloce con la poppa per tenersi al vento di traverso sfiorando, da un lato, i rimorchiatori ormeggiati di punta a Ponte Parodi e, dall’altro, il parco chiatte che copriva un esteso basso fondale roccioso nel centro del Porto Vecchio. Se l’intesa tra pilota della nave e comandante della barcaccia non era perfetta, i danni erano assicurati, ma la colpa era sempre della tramontana…

Ci viene in mente U Puntunetto che non abbiamo mai visto, ma nel racconto dei vecchi barcaccianti era una specie di casetta di legno, sistemata su una chiatta che fumava sempre ed era immersa nei gerani. Lo chiamavano tutti così e galleggiava sulla testata di Ponte Spinola. Dall’inizio del ‘900, funzionava da Ufficio Operativo dei rimorchiatori. Era l’ultima trincea del burbero capitan Felise che rango e barbuto e cun u fiascu de cancarun sutta a carega, teneva sotto controllo la più consistente tra le flotte di rimorchiatori del porto. U Felise assegnava il personale, regolava gli ormeggi e mandava le barcacce sull’imboccatura a combattere... Proprio così, avete capito bene. Erano tempi duri e soltanto chi arrivava per primo sotto la prua della nave, aveva il diritto d’agganciarla e trainarla in porto. Ma se due barcacce concorrenti arrivavano insieme sottobordo, scoppiava la battaglia navale a colpi di gaffa, pietronate e lanci di palle di piombo (heaving-line) nella testa… Alla fine, uno dei due rientrava sconfitto, mugugnando, magari ferito e sicuramente senza guadagno, ma il racconto del cruento arrembaggio rimaneva “sportivamente” tra le omertose calate del porto, nell’attesa di una rivincita ancora più accanita.

Il mondo dei barcaccianti era qui, nel circoscritto caravanserraglio davanti alla Commenda, Shanghai e via Pré. Qui, dove i sensali ingaggiavano gli equipaggi destinati alle navi-ombra. Qui, dove i grandi Armatori possedevano alte torri, e dai loro scagni controllavano traffici, navi ed equipaggi. Qui, dove gli Armatori delle barcacce contavano i GANCI giornalieri dei loro dipendenti-guerrieri.

Tutto pulsava all’unisono: ciminiere, fumi, sirene, fischi e odore di tante merci che qui lasciavano il segno, insieme ai colori di tante Compagnie di navigazione pitturati in banchina come “segnali di posizione” per il viaggio di ritorno. Ma gli equipaggi provenienti dai sette mari, trovavano nel Porto Antico un pezzo di patria che li accoglieva e assecondava sia per i commerci puliti che per il contrabbando, ma soprattutto per le trasgressioni notturne. I marinai nordici e anglosassoni cercavano l’evasione nel whisky, nella birra e la trovavano puntualmente nei numerosi pubs dell’angiporto; italiani, greci e spagnoli preferivano un‘altra cosa… e i casini per loro erano sempre aperti e avevano nomi curiosi: Sottomarino, Suprema, Calabraghe, Pomino, Lepre, Squarciafico. Il Castagna era il preferito da Gino Paoli, che marinaio non era, ma in quel benemerito casino compose il suo pezzo migliore:

“Il cielo in una stanza”

Questa parte di Genova non va solo visitata, va ascoltata, annusata e ”assaggiata”. La sua speciale atmosfera si percepisce nei vicoli lasciandosi guidare dai profumi di focaccia, pesto e frisceu che aleggiano nell’aria, in quel particolare sottofondo che accompagna i rumori di botteghe e mercatini, grida gutturali di ambulanti magrebini e indiani che si intrecciano con il dialetto genovese e chissà a quanti “atri furesti du b…” come si diceva un tempo.

Le Calate Interne del Porto Vecchio come appaiono oggi.

Ma un giorno, sotto la Lanterna, spirò un vento sconosciuto e trasgressivo. Era aria di Rivoluzione che faceva volare gli schizzi di un rinomato architetto e portava grandi novità. Gli uomini del Porto, con tutti quegli ormeggi improvvisamente cancellati, si sentirono sfrattati, tristi e preoccupati. Le calate vuote del Porto Antico erano percepite come lavoro perso. Ovviamente si sbagliavano, perché il traffico navale sarebbe stato presto dirottato sul VTE di Voltri in costruzione, lontano dalla città e completamente isolato dal mondo, come già era avvenuto per il Porto Petroli di Multedo.

Il distacco fu duro, sapeva d’emarginazione, era come cambiare città e trasferirsi all’estero, mentre il cuore dei barcaccianti era rimasto tra la Darsena e Ponte Parodi, tra la loro Via Gluck e i caruggi, dove le note canticchiate di Fabrizio De André odoravano di profumi orientali.

Fu un passaggio epocale, traumatico ma necessario. Per lungo tempo la città era cresciuta materialmente e psicologicamente lontana dal suo Porto ed era legittima la sua aspirazione a rientrare in possesso di quell’immenso patrimonio fino allora nascosto e negato. L’antico dilemma fu risolto pacificamente e razionalmente dal più grande architetto vivente, il genovese Renzo Piano e fu un atto di liberazione.

Oggi, con l’abbattimento di quegli orrendi muri e grazie alla realizzazione del progetto, la città si è unita al suo Porto Antico e crediamo che nulla di più bello e più giusto sia stato fatto per Genova e per i genovesi.

“Ma allora, che senso hanno tutti questi mugugni?” Si chiederà il lettore. “Proprio nessun senso! Sono mugugni di nostalgia, di rimpianti per un mondo vero, non virtuale, che sapeva cantare, gioire e pensare con originalità e sentimento…

Carlo GATTI

Rapallo, 11-03-2011


A VOI UOMINI DI MARE (Poesia)

A VOI UOMINI DI MARE

 

A voi coraggiosi

che avete disancorato

le certezze

per indagare

oltre l’orizzonte

in quell’essere

mutevole

minaccioso e accogliente

che riempie gli occhi e il cuore

di meraviglia grata

al Creatore

per un dono così travolgente.

A voi il nostro grazie

la nostra ammirazione

la nostra lieve invidia

per tutte le esperienze

che hanno arricchito

la vostra vita.

ADA BOTTINI

Rapallo, Mercoledì 10 Maggio 2017

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MUSEO STORICO dello Sbarco in Sicilia 1943-Catania

MUSEO STORICO DELLO SBARCO IN SICILIA 1943

CATANIA


Viale Africa, Piazzale Asia Le Ciminiere, Catania, Sicilia Italia

Il Museo occupa una superficie di circa 3000 mq, ha sede presso il complesso Le Ciminiere, di proprietà della Provincia Regionale di Catania.
Il complesso, è un sito di antiche zolfatare recuperate alla città di Catania ad opera dell’architetto Giacomo Leone che ha coniugato modernità architettonica e memoria storica dei luoghi. 
Questo esempio di archeologia industriale che sia affaccia sul mare oggi è centro non solo del museo dello Sbarco e del Cinema, ma di convegni ed iniziative culturali.

Tra i numerosi testi inerenti l’Operazione Husky da noi consultati, riteniamo che il presente compendio storico pubblicato dalla Direzione del Museo Storico dello Sbarco in Sicilia 1943 sia il più idoneo, completo ed aderente al contesto generale del materiale esposto nelle sale museali di questo ECCELLENTE Museo di cui non possiamo che parlarne e scriverne con grande ammirazione. Ringraziamo la Direzione per la gentile concessione.

 

Carlo GATTI

 

Presidente della Associazione Culturale

MARE NOSTRUM RAPALLO

 

https://www.marenostrumrapallo.it

 

La seconda guerra mondiale

 

Passati gli anni dell’unità d’Italia, le spedizioni in Africa, la guerra Italo – Turca e la prima guerra mondiale, l’evento più importante della storia contemporanea che riguarda la Sicilia e Messina è sicuramente la seconda guerra mondiale ed in particolare l’Operazione Husky ovvero lo sbarco in Sicilia che fu la più grande operazione anfibia del secondo conflitto mondiale in relazione al numero di divisioni (7 contro 5 dello sbarco in Normandia) sbarcate entro il primo giorno d’invasione.

 

Proprio dalla Sicilia infatti partì l’invasione dell’Italia da parte Angloamericana segnando l’inizio della liberazione dell’Italia ed il conseguente tracollo del dominio nazista in Europa.


 

 

Perchè la Sicilia?

 

Già nel 1941 era stato programmato dagli alleati uno piano d’invasione della Sicilia denominato Whipcord, con sbarchi da effettuarsi contemporaneamente a Palermo, Milazzo, Catania ed Augusta ma che fu nello stesso anno annullato in previsione del piano d’invasione del 1943.

 

La decisione dello sbarco nacque durante la conferenza di Casablanca nel febbraio del 1943 nell’incontro tra Churchill e Roosevelt. I due leaders notando che i loro stati maggiori non avevano piani strategici a lungo termine, mancavano cioè di un piano offensivo di largo respiro, un’operazione in grande stile tale sia da aprire un secondo fronte in Europa allo scopo di alleggerire lo sforzo delle truppe Sovietiche contro quelle Tedesche, sia da iniziare la liberazione dell’Italia. Ci si rese subito conto che per motivi strategici la Sicilia era la zona meglio indicata per uno sbarco, poiché la Sardegna e la Corsica, anche se più vicine alle coste Francesi, non erano un punto fondamentale per la distruzione del dominio nazifascista nella penisola, ovviamente la tesi Inglese sullo scelta della Sicilia era anche mossa da un certo interesse imperialistico nei confronti dell’isola, gli Americani infatti temevano che gli Inglesi potessero considerare la Sicilia come una seconda Malta. Nel frattempo mentre gli Italiani avevano in un certo senso previsto che esso sarebbe stato effettuato in Sicilia, i Tedeschi invece pensando erroneamente alla Sardegna e la Corsica (grazie alle azioni di depistaggio), bloccarono l’afflusso delle divisioni Tedesche verso l’isola cancellando forse così l’ultima possibilità di contrastare e rendere inefficace lo sbarco.

 

Il Depistaggio: l’Operazione Mincemeat

 

Nell’ autunno del 1942, quando l’invasione del nord Africa era in pieno svolgimento e procedeva verso il successo, gli strateghi Angloamericani stavano già pensando all’operazione successiva da compiere, fissando agli inizi del 43 come prossimo obiettivo la Sicilia.

 

Tuttavia l’invasione dell’isola poteva essere prevista dall’avversario. Si ideò quindi un piano diversivo con lo scopo di far credere al nemico che il prossimo sbarco non sarebbe avvenuto in Sicilia distogliendone così l’attenzione ma soprattutto le forze nemiche.

 

Nacque così l’Operazione Mincemeat che scattò il 30 aprile 1943.


 

Si decise di far ritrovare nelle acque della Spagna il cadavere di un finto giovane ufficiale Inglese caduto in mare con un aereo diretto in nord Africa (luogo in cui vi era il Comando Generale alleato), il 30nne maggiore William Martin, (vedi foto) con addosso documenti comprovanti che lo sbarco sarebbe avvenuto in Grecia o in un altro punto del Mediterraneo occidentale, ma non in Sicilia che invece era utilizzata come copertura per gli obiettivi reali.

 

L’operazione era molto rischiosa perché se qualcosa fosse andata storta, i Tedeschi avrebbero capito che lo sbarco sarebbe realmente avvenuto in Sicilia.

 

Invece tutto andò per il verso giusto, i Tedeschi recuperarono il cadavere del finto ufficiale e visionarono i documenti giudicandoli attendibili e credendo così che l’attacco alleato sarebbe avvenuto in Sardegna con uno sbarco sussidiario in Grecia.

 

Di conseguenza l’Alto Comando Tedesco trasferì un’intera divisione corazzata dalla Francia in Grecia, fece collocare campi di mine al largo della costa Greca, ed installare numerose batterie costiere.

 

Inoltre un intero gruppo di dragamine venne trasferito in Grecia dalla Sicilia, un’unità corazzata fu inviata in Corsica mentre furono rafforzate le difese sulla costa della Sicilia settentrionale dove lo sbarco non avvenne.

 

Tutti questi cambiamenti e scombussolamenti provocati dall’esito positivo dell’Operazione Mincemeat fece indebolire notevolmente le forze di difesa Tedesche presenti in Sicilia rendendone sicuramente più facile lo sbarco e probabilmente risparmiando la vita di migliaia di soldati .

 

In realtà, tale operazione non fu da sola determinante per la conquista della Sicilia, infatti gli stessi Tedeschi, nonostante tutto, non avevano nessuna intenzione di difendere ad oltranza le basi aeree e navali Siciliane, abbandonandole in caso di estremo pericolo allo scopo di salvare così uomini e mezzi da poter utilizzare in successive battaglie lungo lo stivale Italiano. E così accade.

 

 

La pianificazione dello sbarco

Il piano iniziò nel febbraio 1943 con uno staff di 15 persone dell’esercito chiamato ‘ forza 141 ’ con base ad Algeri.

I pianificatori della forza 141 si concentrarono sulla selezione di punti contro i quali sarebbero stati condotti i principali assalti.

I più importanti obiettivi immediati furono i porti, necessari per rifornire le forze di invasione, e i campi di volo, entrambi da togliere al nemico e per essere usati dalle forze aeree di sostegno alleate.

A Messina, sulla punta nordorientale dell’isola, vi era il porto più grande, ma un attacco diretto contro di essa fu sconsigliato a causa delle notevoli fortificazioni che si sapeva esistessero lungo lo stretto e perché era fuori dal reale raggio d’azione dei velivoli di combattimento aereo con base a Malta ed in Tunisia.

Gli altri porti principali erano Palermo, nel nord ovest, e Catania, Siracusa ed augusta nel sud est. Inizialmente si pensò di effettuare due distinti sbarchi sulle coste nordoccidentale e sudorientale, ma l’ipotesi venne scartata in quanto troppo distanti tra esse, si optò quindi per uno sbarco presso la costa sudorientale della Sicilia concentrando tutte le forze contro un’eventuale accanita difesa delle forze dell’Asse.

Fu scelto il giorno dell’evento, il 10 luglio 1943. L’operazione prevedeva lo sbarco simultaneo di 7 divisioni lungo un fronte complessivo di circa 160 km, ed il lancio di 2 divisioni aviotrasportate dietro le linee nemiche. L’ordine finale di battaglia e piano di attacco furono i seguenti:

 

Comandante supremo dell’operazione:

Gen. Dwight Eisenhower

 

Vice comandante:

Gen.Harold Alexander

 

Unità operativa orientale (Forza 545):

 

Ottava Armata Inglese:

Comandante:

Gen. Montgomery

 

Comandante Navale:

Ammiraglio B.H. Ramsay

 

Comandante dell’aviazione:

Vice Maresciallo H. Broadhurst

 

 

Composizione:

 

13 Corpi del Ten Gen. M. C. Dempsey, formata dalla 5a e 50a divisione e dalla 4a Brigata Armata, e dai ‘30 Corps’ del Ten Gen O. Leese, comprese la 1a e la 50a Divisione canadese, le Brigate Armate 231a Indipendente e la 23a.

 

Di riserva in nord Africa c’erano la 78a Divisione e la prima Brigata Armata Canadese

 

Obiettivo : Seguono le foto relative allo Sbarco Alleato a Gela

 

Navi Alleate sotto bombardamento dell'Asse

 

Navi Alleate entrano nel golfo di Gela

 

Inizia lo sbarco

Testa di ponte USA

Il generale Patton a Gela

 

Sbarcare con 4 divisioni, una brigata indipendente e unità di commando su cinque spiagge del golfo di Noto ed intorno alla penisola di Pachino per un raggio complessivo di 65 km, con la missione di catturare Siracusa ed Augusta e prendere i campi di volo orientali, prima di una rapida avanzata su Catania ed alla fine su Messina.

 

Per sostenere lo sbarco, la prima Brigata di atterraggio della Divisione trasporto truppe doveva prendere l’importante Ponte Grande, ponte a sud di Siracusa.

 

Unità operativa occidentale (Forza 343)

 

Settima Armata Statunitense

Comandante: Gen.Patton

 

Comandante Navale: Vice Ammiraglio H. K. Hewitt

 

Comandante Aereo: Maggior Generale E. J House

 

Composizione:

 

‘Cent Force’ (45a divisione), la “ Dime Force ” (prima divisione Statunitense, rinforzata da due battaglioni di Ranger truppe d’assalto, sotto il comando del Generale Maggiore O. N. Bradley, la “ Joss Force ”ovvero la 3a Divisione Statunitense con un battaglione di ‘ Ranger ’ ed il Comando di Combattimento A della 2a Divisione Armata Statunitense come riserva galleggiante.

 

Nella riserva della Settima Armata galleggiante c’erano il resto della Seconda Armata e la 18a Fanteria della 1a Divisione.

 

Come riserva in nord Africa c’erano il resto della 82a Divisione Aerea statunitense e la 9a divisione.

 

 

Obiettivo:

 

Sbarco di tre divisioni nel golfo di Gela, conquistarne i campi di volo insieme a quelli ubicati tra Comiso e Licata giungendo sino a 30 km nell’entroterra, per poi proseguire l’avanzata sino a Piazza Armerina per controllarne la rete stradale.

 

In totale le forze alleate impegnavano 160.00 uomini, 1475 navi da guerra e da trasporto, 1124 mezzi, 4000 aerei , 600 carri armati e 800 camion da sbarco.

 

L’avversario Italo-Tedesco

 

Sesta armata Italiana

Comandante: Gen.Guzzoni

 

Composizione: due corpi XII° e XVI°, comprese cinque divisioni costiere, due brigate costiere, un reggimento costiero e quattro divisioni regolari da campo:

 

la 4a Livorno

 

la 26a Assieta

 

la 28a Aosta

 

la 54a Napoli

 

Comandante delle forze Tedesche in Italia:

Maresciallo di campo: Albert Kesserling

 

Divisioni Tedesche:

Comandante: Tenente Generale Fridolin Von Senger und Etterlin

 

Composizione:

15a Divisione Panzergrenadier, Divisione Panzer Hermann Goering

 

In totale i tedeschi schieravano con le due divisioni 15.000 unità e 60 carri armati e 17.000 unità e circa 110 carri armati inclusi 17 pesanti PzKpfw VI Tigers appartenenti alla 2° compagnia del 504° Schwere Panzer Abteilung.

 

Nel complesso in Sicilia erano impegnati 170.000 Italiani con 100 carri e 325 aerei Italiani ( 200 combattenti ), più 32.000 tedeschi con 170 carri armati e 430 aerei Tedeschi (250 dei quali erano aerei da combattimento). Le truppe Italotedesche potevano contare anche su cinque porti e comandi di difesa di base navale, parecchie unità di difesa indipendenti dell’aerodromo e cinque gruppi mobili posizionati in punti chiave interni

 

L’imponente flotta navale Italiana che disponeva ancora di 4 corazzate, 7 incrociatori, 32 cacciatorpediniere, 48 sommergibili, ecc se fosse intervenuta avrebbe sicuramente inflitto notevoli danni all’avversario forse vanificando l’intera operazione, invece rimase rifugiata nei porti di Taranto e La Spezia.

 

 

Dislocazioni e Compiti

 

Nel D- Day le divisioni Aosta e Assieta e due terzi della 15° Panzergrenadier per ordine di Kesserling erano nella Sicilia occidentale a guardia di Palermo, le divisioni Livorno e Napoli insieme al grosso della divisione Hermannn Goering si trovavano nella parte centro e sud orientale dell’isola, pronte a contrastare una invasione da sud, mentre il battaglione Tedesco Kampfgruppe Schmaltz composto da una forza armata della H.Goering ed un reggimento di Panzergrenadier della Divisione Panzergrenadier, era posizionato nei pressi della costa orientale, proprio davanti Catania.

 

L’ORA H – IL GIORNO D.

 

Il D- Day fu programmato per sabato 10 luglio 1943 alle ore 2,45.

 

Gli Sbarchi

 

VIII ARMATA.

 

Truppe aviotrasportate su alianti

 

Dopo i disastrosi tentativi di paracadutare le truppe, alle 2.45 del mattino iniziarono gli sbarchi dal mare.

 

In generale, l’assalto fu un anti- climax. Molte unità sbarcarono successivamente e senza opposizione.

 

A causa del mare agitato ci fu un ritardo nelle posizioni del rilascio dei natanti.

 

Nella punta sud orientale dell’isola, 30 Corps sbarcarono su tutti e tre i lati della penisola di Pachino: la 231a Brigata Malta sulla spiaggia orientale, la 51a divisione Highland sulle spiagge intorno alla punta sud, e la 1a Divisione canadese nella baia ad est della punta.

 

I canadesi e gli Highlanders conquistarono rapidamente Pachino e i suoi campi di volo e spingevano verso l’interno. La 231a Brigata iniziò una marcia veloce verso il nord per unirsi con i 13 Corps a Noto .

 

Più a sud il settore 13 Corps, la 50a Divisione Northumbria attaccò con successo le spiagge a nord della cittadina marinara di Avola.

 

Più a nord, la 5a Divisione sbarcò a Cassibile senza trovare resistenza, entro le otto del mattino si erano assicurati la città.

 

Il primo squadrone speciale di incursione del secondo Reggimento SAS, atterrando prima della forza principale, neutralizzò una batteria costiera nelle vicinanze.

 

Sull’estremo fianco destro dell’Ottava Armata, Commando n.3 fece lo stesso con una batteria a Capo Murro di Porco.

 

Nel pomeriggio la 5a Divisione si avviò a nord per ricongiungersi con le truppe aeree a Ponte Grande, le quali erano state da allora duramente colpite dai contrattacchi italiani.

 

Gli ultimi sopravvissuti erano stati appena cacciati dal ponte quando arrivarono le forze di soccorso.

 

La 5a Divisione attaccò il ponte con le portaerei Bren, catturandolo nuovamente intatto e liberando le truppe aeree che erano state fatte prigioniere e prendendo il porto di Siracusa indenne.

 

VII ARMATA.

 

La Cent Force , 45esima Divisione si gettò sulle spiagge a destra e sinistra di Scoglitti e cercò di spingersi verso l’interno per circa sette miglia, in molti posti unendosi a piccoli gruppi di paracadutisti.

 

Più a ovest la Dime Force (prima Divisione), attaccò il settore di Gela. Mentre i Rangers attaccarono la città stessa, la principale forza della Divisione atterrò sulle spiagge tre miglia ad est. Presto gli Americani iniziarono a muoversi verso l’interno, verso gli obiettivi loro assegnati.

 

Sul fianco sinistro della Settima Armata, Joss Force arrivò sulla terraferma ad est ed ovest di Licata.

 

La terza Divisione prese il porto con un movimento a tenaglia e alla fine della giornata aveva preso tutti gli obiettivi previsti.

 

Le navi alleate si avvicinano alle coste Siciliane Mezzo anfibio Americano Sbarco della fanteria Americana.

 

La risposta dell’asse

 

La reazione dell’Asse agli sbarchi del nemico fu condotta in tre modi.

 

In primo luogo, non appena ne fu a conoscenza, il Generale Guzzoni ordinò un contrattacco contro la linea della spiaggia che egli riteneva più pericolosa, quella di Gela.

 

La Divisione Herman Goering dalle sue basi intorno Caltagirone, aveva il compito di attaccare da nord-est, assistito da due dei gruppi mobili Italiani che erano già più vicini alla costa, e la Divisione Livorno doveva fare lo stesso dal nord-ovest, l’attacco doveva essere forte e coordinato.

 

In secondo luogo egli ordinò che la 15a Panzergrenadier che aveva già completato uno spostamento verso la Sicilia occidentale, ritornasse sui propri passi e tornasse al centro dell’isola.

 

In terzo luogo, verso il tardi del D-Day, non appena ebbe saputo della perdita di Siracusa, egli ordinò al Kampfgruppe Schmaltz e alla Divisione Napoli di precipitarsi verso sud da Catania e riprendere il porto.

 

A causa delle cattive comunicazioni l’ampio fronte visualizzato e spinto verso Gela si trasformò in una serie di attacchi indipendenti e scoordinati provenienti da piccole unità in vari momenti e in vari posti lungo il centro del fronte americano.

 

Il primo attacco dal Gruppo Mobile – E – fu respinto dal fuoco navale Americano e fu fermato nei pressi di Piano Lupo da valorosi combattenti paracadutisti e successivamente dalle truppe della 1a Divisione, e a Gela dai Rangers di Darby.

 

L’attacco della Divisione Livorno fu furiosamente respinto anche dai Rangers. La Divisione Herman Goering uscendo da Caltagirone in due colonne, si muoveva molto lentamente e non attaccò fino alle due del pomeriggio.

 

La sua colonna occidentale fu fermata a Piano Lupo dal devastante fuoco navale; la sua colonna orientale ebbe uno scontro con la 45a Divisione e, dopo una battaglia dura, si disperse nel panico, così i contrattacchi dell’Asse nel D-Day fallirono del tutto.

 

Guzzoni il giorno successivo aveva rinnovato l’ordine di contrattacco, ma questa volta meglio coordinato.

 

Per tutto il giorno la battaglia infuriò sulla piana di Gela e sulle colline che la circondano.

 

Gli uomini del 33° e 34° Reggimento della Divisine Livorno, colpendo verso Gela da ovest, furono respinti dall’artiglieria navale e dal fuoco dei mortai. Quest’azione distrusse del tutto la Livorno come forza di combattimento.

 

La ritirata strategica

 

L’8 agosto, Kesselring, di sua iniziativa e senza attendere l’assenso di Hitler ordinò a Hube di iniziare l’evacuazione delle forze tedesche dalla Sicilia.

 

L’operazione era stata pianificata e preparata a lungo.

 

Oberst Ernst-Gunther Baade, era stato nominato Comandante per lo Stretto di Messina , incaricato di proteggere entrambi i lati dello stretto passaggio d’acqua contro gli attacchi aerei e marittimi.

 

Baade aveva ammassato circa 500 cannoni di ogni calibro, incluse 4 batterie di 280mm di cannoni costieri, due di170mm ed alcune tedesche di 88mm e Italiane di 90mm a doppia funzione.

 

Un ufficiale navale, Capitano di Fregata barone Gustav Von Liebenstein era stato nominato capo dei trasporti.

 

Von Liebenstein non avendo fiducia dei normali servizi di traghetto Italiani, organizzò una flotta propria di 7 Marine-Fahrprahme (chiatte di 80 tonnellate, con rampe d’accesso ognuna in grado di trasportare 3 ‘tanks’ o 5 camion ), 10 L-Boote ( pontoni landing boats che potevano contenere 2 camion ), 11 Siebel – ferries (a doppia entrata, costruiti per portare10 camion, 60 tonnellate di rifornimenti o 250 uomini) e 76 piccole imbarcazioni.

 

Egli organizzò anche 6 nuove rotte per i traghetti con 12 differenti punti di attracco su ogni lato dello Stretto.

 

Il 1 agosto Von Liebenstein cominciò alcune evacuazioni preliminari.

 

Il piano di evacuazione di Hube (nome in codice ‘ Lehrgang Ia 9), indicava esattamente 5 linee di resistenza convergenti su Messina, ognuna doveva essere mantenuta per un giorno.

 

Durante ogni notte, circa 8.000-10.000 uomini dovevano essere lasciati andare dalle 3 divisioni per dirigersi verso le barche.

 

Per prima sarebbe andata la 15a Panzergrenadier , seguita dalla H. Goering ed infine la 29° ‘Panzergrenadier’.

 

Quando arrivò l’ordine di Kesselring, Hube fissò il 10 agosto come ‘ X-Tag ’ il primo giorno del ritiro scadenzato e la notte dell’11 come la prima di 5 notti per trasportare le truppe al di là dello stretto.

 

L’attraversamento iniziò come previsto. All’inizio i traghetti operarono solo al buio. Il 13 agosto, dopo che Von Liebenstein aveva visto che le operazioni notturne erano non solo difficili, ma anche meno efficienti, e contrariamente alle aspettative, anche maggiormente ostacolate dagli attacchi aerei nemici di quelle diurne, egli ordinò che i traghetti continuassero anche durante il giorno.

 

L’evacuazione fu un successo al di là di ogni previsione che i Tedeschi potessero fare.

 

Tra l’altro, trattenendo una di queste linee più del previsto, Hube guadagnò un’altra notte ed un altro giorno per l’attraversamento.

 

Perfino gli storici ufficiali Alleati concordano che gli Alleati stessi non avrebbero dovuto consentire al nemico di fuggire in quella maniera. Forse lo sbaglio più grande fu il fatto che i comandi alleati fallirono del tutto nel coordinamento degli attacchi aerei e navali per prevenire l’evacuazione del nemico.

 

La Marina si rifiutò di ingaggiare una grande battaglia navale nello Stretto fino a quando le forze aeree non avessero messo a terra i cannoni costieri del nemico.

 

Durante tutto quel periodo, la Marina non rischiò di inviare qualcosa di più potente delle pattuglie leggere costiere e solo di notte. Le forze aeree fecero uno sforzo, ma esso iniziò troppo tardi, non fu forte abbastanza ed inoltre diretto contro obiettivi sbagliati e con tipi di aerei sbagliati.

 

Dal 29 luglio al 17 agosto tra bombardieri di media grandezza e bombardieri da combattimento, volarono 2.514 missioni contro la flotta nemica e le strutture navali dello Stretto.

 

Erano in funzione contro quella che era probabilmente la più pesante e più concentrata contraerea dell’intera guerra.

 

Circa 31 aeromobili andarono perduti, tuttavia, a dispetto dei raid aerei che continuavano giorno e notte, l’evacuazione procedeva come previsto. Grazie ai cannoni ammassati di Baade il bombardamento fu eseguito senza troppa cura e provocò pochi danni ai punti di imbarco.

 

Le perdite Tedesche furono poche, in tutto 15 vascelli furono affondati o distrutti, altri 5 danneggiati.

 

Solo un Tedesco rimase ucciso negli attacchi aerei alleati. Gli italiani persero un’imbarcazione e non ebbero alcuna vittima.

 

Sebbene gli Alleati conoscessero fin dai primi di agosto, dalle decriptazioni dei servizi segreti, che una evacuazione sarebbe stata imminente, e avessero acquisito chiare prove che questa era già in atto, le operazioni d’aria sullo Stretto non cominciarono che il 13 agosto.

 

Nuovamente essi attaccarono le imbarcazioni del nemico, jet, spiagge e strade d’accesso, ma poco della contraerea e dei cannoni sulle coste. Gli Alleati non fecero un uso completo delle capacità dei loro bombardieri.

 

C’erano 869 pesanti bombardieri disponibili e questi aerei avrebbero potuto operare fuori della portata della contraerea nemica. Tuttavia ai B-17 americani fecero ben poche missioni diurne contro Messina e tutte queste si svolsero tra il 5 e l’8 agosto, prima che l’evacuazione salpasse del tutto.

 

Il 13 agosto, la 9a Divisione Statunitense, spingendo verso est lungo la strada statale 120, verso Messina, prese la città di Randazzo, sul versante settentrionale dell’Etna, spremendo in tal modo i ’ 30 Corps ’ Inglesi che stavano combattendo intorno al lato occidentale del vulcano

 

Dopo la caduta di Catania, 13 Corps  continuarono verso nord sul fronte stretto tra la linea dell’Etna ed il mare.

 

L’avanzamento attraverso questa parte di Sicilia più densamente popolata, fu lento e costoso, Valverde, solo 6 miglia più avanti fu raggiunta l’8 agosto.

 

L’avanzata alleata verso Messina

 

Sulla strada costiera settentrionale, la 3a Divisione Statunitense il 1 agosto era venuta in soccorso della esausta 45a Divisione e si era avvicinata alla successiva linea/crinale Tedesca.

 

Detta la posizione San Fratello, era così formidabile che la 29a Panzergrenadier-Division respinse facilmente un attacco dopo l’altro della 3a Divisione.

 

Perfino il fuoco dei cannoni e l’uso di fumogeni non riuscì a sloggiarli.

 

Alla fine, il 6 di agosto, i generali Bradley e Truscott decisero di lanciare un anfibio ‘ end run ’ (fine corsa) per entrare nelle posizioni del nemico. Questa prima operazione a ‘salto di rana’ nella notte tra il 7 e l’8 agosto, fu un successo misto.

 

Utilizzando il Marina LST, con base a Palermo, Truscott mise in postazione il 2° Battaglione rinforzato della sua 30a Fanteria- ‘Task Force Bernard ’ che sbarcò, virtualmente senza trovare opposizione, a Sant’Agata, dietro la linea di San Fratello.

 

Aiutato da questo, la principale forza della 3a Divisione, dopo una fiera battaglia, irruppe nella linea e subito dopo soccorse la ‘task force’.

 

Comunque, poco prima dello sbarco, la 29° Panzergrenadier  del generale Fries aveva iniziato un ritiro ed il grosso del gruppo se ne era andato appena in tempo.

 

La seconda operazione anfibia ebbe luogo tre notti dopo e 25 miglia ad est e fu forzata su Bradley e Truscott da Patton il quale stava diventando sempre più impaziente di raggiungere Messina.

 

Fries aveva stabilito ancora un’altra linea di difesa, lungo il fiume Zappula, nella Penisola di Capo D’Orlando, e Patton voleva un altro sbarco della ‘ Task Force Bernard ’ a Brolo, dieci miglia dietro le linee nemiche.

 

La piccola forza del Tenente Colonnello L. A. Bernard sbarcò senza trovare opposizione, ma fu contrastata non appena si diresse verso il Monte Cipolla che sovrasta Brolo e pesantemente contrattaccata.

 

Quando la principale forza della 3a Divisione soccorse i propri commilitoni il 12 agosto, Bernard aveva perso 177 uomini ed il nemico era nuovamente fuggito.

 

Verso l’interno, la 9a Divisione aveva nel frattempo soccorso la 1a Divisione.

 

Per la prima volta operavano come un’unica cosa, la 9a spinse in avanti lungo la 120 e prese Cesarò il giorno 8, ma il giorno dopo Randazzo, un centro vitale per la ritirata tedesca, fu strenuamente difesa.

 

Per quanto fosse colpita dai bombardieri Alleati fino alla rovina totale, essa resistette per quattro giorni e la 9a Divisione vi poté entrare solo il 13 agosto.

 

Dopo la caduta di Adrano, i 30 ‘Corps’ dell’Ottava Armata avevano premuto verso nord, a ovest dell’Etna.

 

Tra i pendii senza sentieri del vulcano e la profonda gola dell’alto Simeto, c’era spazio per una sola divisione, la 78a.

 

Bronte cadde l’8 agosto, ma da quel momento in poi gli Inglesi incontrarono una forte resistenza Tedesca, così essi non presero Maletta, solo 4 miglia più a nord,  che il 12 agosto.

 

Il giorno seguente essi raggiunsero la strada statale 120 e aiutarono la 9a Divisione nella cattura di Randazzo, le truppe della  H. Goering , avevano bloccato le strade con crateri, mine, ponti saltati ed ogni altro ostacolo immaginabile.

 

La 50a Divisione ci mise una settimana per avanzare di 16 miglia da Catania a Riposto, in cui entrarono l’11 agosto.

 

Alla loro sinistra, avanzando sui fianchi dell’Etna c’era la 5a Divisione. Montgomery, nel decidere che un attacco di due divisioni attraverso la stretta gola avrebbe potuto rendere più veloce l’avanzata, il 9 agosto decise di coinvolgere nuovamente la 5a divisione. Il 12 essa fu soccorsa dalla 51a che era stata trasferita dai 30 ‘ Corps ’.

 

Il 14 agosto, la Herman Goering  aveva interrotto i contatti e la velocità di inseguimento era, adesso, governata dalla velocità con cui gli ingegneri potevano riaprire le strade interrotte. Il 15, la 50a Divisione raggiunse la famosa località turistica di Taormina, la 51a e la 78a Divisione completarono il circuito dell’Etna e si unirono alle forze vicino Linguaglossa. Nello stesso giorno, Montgomery decise anche di portare fuori un anfibio ‘end- run’.

 

Nella mattina del 16, i ‘ Currie Force ’ (Commando n.2 con alcuni ‘ tanks ’ della 4a Brigata Armata in tutto 400 uomini) sbarcarono 16 miglia a nord sulla costa, vicino a Scaletta.

 

Il nemico si era ritirato già dopo quel punto ed una retroguardia tedesca impedì una spinta su Messina.

 

Nel frattempo, sulla costa settentrionale, la 3a Divisione Statunitense aveva velocizzato i tempi di inseguimento

 

Entro il 15 agosto i contatti con il nemico erano virtualmente cessati.

 

Un piano per un lancio di truppe su Barcellona per tagliare le truppe tedesche in ritirata, fu cancellato allorché truppe di terra arrivarono lì per prime, su insistenza di Patton, una terza operazione anfibia proseguì.

 

Il 16 agosto, il 157° Reggimento ‘Combat Team’ sbarcò vicino al bivio Salica, a est di Capo Milazzo.

 

Comunque, prima che essi raggiungessero la spiaggia, la 3a Divisione, era avanzata nuovamente oltre il posto dello sbarco e truppe amiche salutarono la prima ondata dalla spiaggia.

 

Al contrario di quanto previsto dai piani, alle 6,30 del 17 agosto, fu la 3a Divisione Americana ad entrare per prima a Messina (dalla statale 113), seguita alle 10,30 dal Generale Patton, poco dopo una pattuglia di Commando dei ‘ Currie Force ’  Inglesi entrò in città da sud.

 

Gli Americani trovarono Messina vuota di truppe tedesche. Dopo 38 – 39 giorni di battaglia continua la campagna di Sicilia era terminata.

 

Poco prima il Generale Hube aveva attraversato lo Stretto con le sue ultime retroguardie, i Tedeschi avevano completato la loro evacuazione fino all’ultimo. Tra il 1° ed il 17 agosto i Tedeschi evacuarono truppe per un totale di 39.951 (inclusi 14.772 feriti), 9.789 veicoli, 51 tanks, 163 cannoni, 16.791 tonnellate di attrezzature e 1.874 di carburanti e munizioni.

 

Nello stesso tempo gli Italiani, utilizzando tre battelli a vapore, un traghetto per treni e 10 gommoni a motore, ritirarono anche circa 59.000 uomini, 227 veicoli, 41 cannoni e 12 carrelli.

 

Ciò che all’inizio era atteso come un disastro si rivelò un successo sbalorditivo, grazie alla riuscita operazione di traghettamento di uomini e mezzi in Calabria, i Tedeschi poterono rallentare l’avanzata alleata in Italia come accadde infatti a Salerno, Cassino, Anzio ecc

 

L’Operazione Husky vide combattere 60.000 tedeschi dei quali 20.000 morirono o furono fatti prigionieri, gli Italiani persero 130.000 uomini in gran parte catturati dagli Angloamericani i quali contarono 31.000 uomini tra morti e prigionieri.

 

E’ giusto ricordare in particolare come i soldati della divisione Livorno furono tra i miglior a contrattaccare il nemico sino all’ultimo uomo, mentre la divisione Napoli, dopo aver tentato invano di fermare l’avanzata alleata tra i 10 e 13 luglio subendo gravi perdite, si sacrificò quasi totalmente per permettere ai Tedeschi di ripiegare nel settore Caltagirone/Vizzini.

 

La Divisone Assieta contrastò duramente il nemico fino al 29 luglio a S.Fratello, dove unitasi ai reparti Tedeschi combattè duramente sino al 7 agosto, giorno in cui  i pochi soldati rimasti furono trasbordati in Calabria. La Divisone Aosta ubicata nella zona occidentale della Sicilia si portò  a piedi nella zona orientale decimandosi nei duri scontri e sotto il fuoco aereo nemico.

 

In ultimo si distinse particolarmente ilo 10° Reggimento bersaglieri che fu tra i migliori reparti di tutta la guerra.

 

Cronologia della conquista della Sicilia.

 

8 maggio 1943. Cominciano i bombardamenti alleati sull’isola di Pantelleria.

 

12 maggio 1943. La Tunisia cade completamente in mano Alleata. E’ la fine della Campagna d’Africa per le forze dell’Asse .

 

1 giugno 1943. Offensiva aerea alleata su Pantelleria.

 

6-10 giugno 1943. Su Pantelleria si intensifica l’attacco alleato contro le batterie costiere dell’isola, da parte di aerei e navi inglesi.

 

11 giugno 1943. Pantelleria si arrende agli alleati prima ancora di essere attaccata dalle forze di sbarco

 

12 giugno 1943. Anche il presidio di Lampedusa si arrende al nemico senza combattere. Continua senza soste l’azione dei bombardieri alleati che con successive incursioni su Catania e Palermo causano decine di morti e seri danni.

 

13-14 giugno 1943. Si arrendono i presidi delle isole di Linosa e Lampione.

 

18 giugno e 25 giugno 1943. Attacchi aerei e bombardamenti su Messina.

 

9-10 luglio 1943. Con l’Operazione Husky inizia lo sbarco in Sicilia: all’alba del 10 luglio, alle 4,45, la 7^ Armata Usa sbarca sulle spiagge di Gela e l’8^ Armata inglese su quelle di Pachino e Siracusa.

 

10-12 luglio 1943. Violento scontro tra la  7^ Armata Usa e le divisioni Tedesca Hermann Goring e Italiana Livorno, che si ritirano solo alle ore 14 del 12 luglio.

 

13 luglio 1943. Viene occupata Augusta.

 

15 luglio 1943. Il premier inglese Winston Churchill e il presidente americano Roosevelt lanciano un comune appello agli Italiani affinché decidano “se vogliono morire per Mussolini e Hitler oppure vivere per l’Italia e la civiltà”.

 

Il re incontra Badoglio per sondare la sua disponibilità a presiedere un nuovo governo.

 

17 luglio 1943. Gli Alleati conquistano Agrigento e il giorno dopo Caltanissetta.

 

19 luglio 1943. La notte è tristemente ricordata come “notte di san Lorenzo” per il primo bombardamento alleato su Roma. I danni sono immensi. Il quartiere di san Lorenzo è quasi completamente devastato; morti e feriti si contano a migliaia. Sul luogo si reca il pontefice.

 

22 luglio 1943. Gli Alleati conquistano Palermo.

 

25 luglio 1943. Il Gran Consiglio del Fascismo sfiducia Mussolini, il re ordina il suo arresto e affida a Badoglio l’incarico di guidare il nuovo governo.

 

27 luglio 1943. Il Gen. Alexander, comandante il XV Gruppo d’armate, sposta il suo Quartier Generale dall’Africa in Sicilia.

 

5 agosto 1943. Occupazione alleata di Catania.

 

17 agosto 1943. Alle 10,15 le truppe del Gen. Patton entrano a Messina, la conquista dell’isola è stata portata a termine in 39 giorni, i tedeschi tuttavia sono riusciti a trasbordare sul continente buona parte dei loro uomini con l’equipaggiamento, nonostante la supremazia aerea e navale alleata.

 

3 settembre 1943. Le truppe Alleate sbarcano in Calabria.

 

 

SECONDO CONFLITTO MONDIALE

 

LA GUERRA NEL RAGUSANO

 

Nella prime ore del l0 luglio 1943 due armate ” alleate ” VIII britannica e la VII americana iniziarono l’invasione della Sicilia che dopo trentotto giorni si concluderà con l’occupazione da parte dei ” 3° reggimento (7° divisione) del ten. col. Ben Barrel. Della città di Messina.

 

Si vedrà che l’unico territorio investito da entrambe le armate sarà costituita dalla provincia di Ragusa.

 

Le forze britanniche comandate dal Gen. Sir. Bernard Law Montgomery sarebbero sbarcate nella cuspide sud orientale dell’isola, quelle americane comandate dal Gen. George Patton sarebbero sbarcate su tre direzioni: Licata, Gela e Scoglitti.

Fase dello sbarco a Scoglitti

 

Tra le due armate vi era uno spazio di una cinquantina di chilometri, ma è ovvio che non si trattava di competenza territoriale e che gli occupanti comunque l’avrebbero colmato, tant’è che Scoglitti essendo considerata la più importante zona (anche per gli aeroporti di Biscari – Acate e Comiso) la “direttrice” di sbarco conosciuta in codice “Cent Force” impegnava 26.600 uomini, ossia 6.600 in più della “Dime Force” (Gela) e ciò perché nei compiti di occupazione era prevista l’aggancio con le forze canadesi dell’VIII Armata.

 

Occorre permettere che l’ora X per lo sbarco era stato fissato per le ore 02,45, ma i responsabili marittimi per sopravvenute difficoltà proposero di ritardare lo sbarco di un’ora trovando d’accordo il contrammiraglio Alan G. Kirk. Ordini e contrordini portarono a molta confusione ritenuto tra l’altro che dovevano essere richiamati alcuni mezzi partiti per l’assalto. Difficoltà furono create dalle coste e i molti scogli, sicché i primi soldati sbarcarono alle 04,45. Anche questo ritardo fu giustificato per gli attacchi di aerosiluranti italiani. Poi con le luci dell’alba sia per l’intervento dell’incrociatore “Philadelphia” che catapultò 4 aerei (uno fu abbattuto), che di altre navi da guerra, la situazione prese una piega favorevole per gli americani e da questo momento non vi è zona costiera che non sia nelle mani degli uomini dello Zio Sam.

 

Giova ricordare che la 45° divisione era giunta direttamente dagli Stati Uniti, ma alcune fonti d’informazioni affermano che per un breve periodo si esercitò ad Orano e Azzew (Algeria). L’unità aveva una consistenza numerica di 17.000 uomini, su 9 battaglioni, con armamento standard di 100 carri armati, 45 autoblinde, 100 cannoni da campagna, 350 cannoni controcarro. Più o meno uguale la consistenza di uomini e d’armamento delle divisioni inglesi.

 

Di contro le divisioni italiane erano costituite da Il.000 uomini su sei battaglioni, più due di Camicie Nere, 48 cannoni di campagna, 36 cannoni controcarro.

 

FORZE ITALIANE PREPOSTE ALLA DIFESA NELLA PROVINCIA DI RAGUSA – 206 DIVISIONE COSTIERA ­

 

L’unità fu costituita nel novembre 1941 e schierava 450 ufficiali e 9.600 sottufficiali e militari di truppa su otto battaglioni di fanteria, cinque gruppi di artiglieria e cinque nuclei antiparacadutisti; il tutto su tre reggimenti: 1460, 1220 e 1230.

 

Il l0 aprile 1943 si riorganizzò la difesa costiera dell’isola (1.400 chilometri comprese località dell’entroterra) e, sotto la stessa data si assegnò un ufficio di posta militare alle divisioni, mentre le brigate ed altri reparti avrebbero continuato ad appoggiarsi, in linea di massima, agli uffici di “concentramento”. Nelle stesso mese di aprile furono celebrate cerimonie di consegna dei “capisaldi” e si ordinò alle “costiere”, nell’eventuale sbarco di resistere ad oltranza sino a che non fossero intervenute le divisioni mobili. Eppure si sapeva che le “costiere”, formate da personale anziano, erano male armate e scaglionate in modo di non offrire alcuna garanzia: 36 uomini per ogni chilometro, 215 fucili mitragliatori, 474 mitragliatrici (3,6 per chilometro), 34 mortai da 81 (1 ogni 4 chilometri), 14 batterie (56 pezzi), ossia 4 pezzi per ogni 9 chilometri.

 

L’unità al comando del Gen. Achille D’ Havet, con sede a Modica si scaglionava lungo la cuspide dell’isola, subito dopo la base di Augusta-Siracusa, dipartendosi da Masseria Palma (contrada “Fanusa”) sino a Capo Passero e poi lungo la costa meridionale sino a Punta Braccetto per 132 chilometri. A disposizione del comando di divisione operava il 440 raggruppamento comandato dal Col. Romeo Escalar;

 

1460 reggimento – comandato Col. Felice Bartimmo Cancellara (sede a Noto), su tre battaglioni (430, 374, 437) che si estendeva su un fronte di 41 chilometri, da Masseria Palma a Isola Vendicari;

 

a) – 4300 battaglione, copriva la distanza di 18 chilometri sino a Punta Giorgi; il battaglione fu attaccato da 18 battaglioni del XIII Corpo d’Armata britannico;

 

b) – 3740 battaglione (comando ad Avola); scaglionato da Punta Giorgi a Isola Vendicari. Il reparto disponeva di una compagnia mitraglieri e delle batterie LXXX e LXXXI. Dirigeva il reparto il Magg. Umberto Fontemaggi;

 

c) – il 4370 battaglione fungeva di riserva in quel di Noto, ma il Gen. D’Havet venuto a conoscenza degli atterraggi di paracadutisti, né ordinò l’impiego. AI battaglione era aggregata la LXXIX batteria;

 

1220 reggimento – (con sede ad Ispica), comandato dal Ten. Col. Camillo Apollonio su due battaglioni (3750 e 2430) poteva disporre del CII gruppo e della 470 batteria. Il reggimento era scaglionato da isola Vendicari a Punta Regligione (55 chilometri);

 

a) 2430 battaglione, che disponeva di due compagnie mitraglieri, una compagnia del 5420 battaglione “bersaglieri costieri” (già del Gruppo Mobile “F” di Rosolini) e 4 batterie d’artiglieria.

 

Il battaglione si trovò a fronteggiare l’urto del XXX Corpo d’Armata inglese, compresi due “Commandos” (21 battaglioni);

 

a) 3750 battaglione dislocato da punta Castelluzzo a Punta Regligione (21

 

chilometri).

 

Il reparto ebbe il compito di rastrellare i paracadutisti e squadre di “Commandos” nemici;

 

1230 reggimento – (con sede a Scicli), comandato dal Col. Giuseppe Primaverile. Si ripartiva su tre battaglioni (542,383,381) e poteva disporre della CLXII gruppo da 149/35 (su cinque pezzi e della batteria LXXIV, nonché del XXVII gruppo artiglieria d’armata. Il 5420 battaglione bersaglieri costieri è privo della 20 compagnia che forma il Gruppo Mobile, difesa aeroporti, di Rosolini.

 

Il reggimento occupava un tratto di costa ove non si effettuò alcuno sbarco nemico (da Punta Religione alla foce del fiume Irminio, ma si trovò a fronteggiare i paracadutisti nemici. Il col. Primaverile fu chiamato al telefono ed invitato ad arrendersi. La voce era di un italo-americano e minacciava con le buone e con le cattive, lusingando il valore militare del comandante, che era meglio arrendersi. Il Primaverile, passò al contrattacco e catturò oltre cento paracadutisti che consegnò ai carabinieri di Scicli. L’episodio è ricordato da alcuni prigionieri che credevano di essere passati per le armi poiché la propaganda dei “liberatori” ci aveva dipinti come incivili !.

 

I due battaglioni 3810 (Noto) e 3830 (Santa Croce Camerina) si trovarono ad affrontare il 1570 reggimento della 450 divisione USA e la sopraggiungente IO divisione di fanteria canadese, nonché la 154 brigata scozzese. Il col. D’Apollonio fu costretto a ripiegare su Ispica.

 

Un episodio degno di essere ricordato riguarda le forze attaccate a Santa Croce Camerina, che furono sostenute da soldati il licenza e da civili del luogo. Nella battaglia si distinsero il Caporalmaggiore Rosario Granata, il Ten. Giuseppe Saja (del 1220 reggimento – medaglia d’argento al v.m. ad entrambi) e il Ten. Antonio De Francisc, medaglia di bronzo.

DIVISIONE “NAPOLI”

 

La divisione agli ordini del Gen. di Divisione Giulio Cesare Goffi Porcinari nel primo trimestre del 1942 viene stanziata nella regione centro meridionale della Sicilia (comando a Caltagirone). Il comandante della fanteria è il Gen. di Brigata Rosario Fiumara, capo di S.M. il Ten. Col. Tancredi Tucci. I reggimenti sono distribuiti: il 750 fanteria (comandato dal Col. Francesco Ronco) a Siracusa; il 760 fanteria (comandato dal Col. Giuseppe Salerno) a Caltagirone; il 540 reggimento artiglieria (comandato dal Col. Amedeo Moscato) a Piazza Armerina; la 1730 Legione Camicie Nere (comandata dal Console Giuseppe Busalacchi) a Ispica.

 

Tutti i reparti prenderanno parte alla battaglia. A Modica dopo una cruenta battaglia, fu preso prigioniero il Gen. D’Havet: le sue decorazioni stupirono il nemico e per il valore dimostrato gli fu concesso di tenere la pistola in dotazione. Il Gen. D’Havet, marchese Achille, giunse in Sicilia come comandante della 2060 Divisione Costiera, vantava una medaglia di bronzo nella guerra italo­ turca, due medaglie d’argento, Croce di guerra Militery Cross, Croiz de Guerre, Cavaliere della “Legion d’Bonore” (guerra 1915-18), Ordine Militare di Savoia.

 

Una menzione particolare va rivolta al Col. Ronco, sorpreso da un massiccio bombardamento da parte di trentasei superfortezze volanti che si abbatterono su Palazzo lo Acreide, causando alla colonna la perdita di duecento uomini e alla città un migliaio di morti. Il colonnello si precipitò in aiuto della popolazione civile, riprendendo poi la marcia. Un secondo attacco si abbattè su un reparto tedesco de “88″: i resti furono aggregati alla colonna del Ronco. Un ultimo attacco distrusse la colonna: il colonnello riuscì a sotterrare la bandiera del reggimento.

 

Alcuni mesi prima, ma il piano sarà attuato a fine giugno 1943, furono predisposti “Gruppi Tattici” (rinforzo alla Difesa costiera) e “Gruppi Mobili” con il compito di “rinforzo” difesa fissa aeroporti.

 

Il XVI Corpo d’Armata, a cui spettava la competenza territoriale della Sicilia Orientale aveva organizzato quattro Gruppi Tattici uno dei quali nel Ragusani che assunse la denominazione di “Comiso-Ispica” al comando del Console Busalacchi della 173° Legione CC.NN. e con i seguenti effettivi:

 

a) CLXXIII battaglione CC.NN., 174° Compagnia mitraglieri della stessa

 

Legione;

 

b) 2° compagnia morta del LIV battaglione “Napoli”;

 

c) 1° plotone controcarri 47/32 e dallo gruppo 100/17 del LIV artiglieria

 

“Napoli” .

 

A Comiso vi era dislocato il “Gruppo Mobile ‘G’ agli ordini del Tenente Colonnello Porcù, costituito dai:

 

a) CLXIX battaglione CC.NN. della 173° Legione; 3° compagnia del CII

 

battaglione controcarri;

 

b) 1 ° plotone della 2° compagnia CI battaglione carri R/35; 8° batteria 75/18

 

del II Gruppo del LIV art. Napoli.

 

In linea di massima la difesa aeroporti sarebbe dipesa da ufficiali dell’ Aeronautica. Ma sia i Gruppi Tattici che i Gruppi Mobili formalmente sarebbero dipesi dal Comando della VI Armata.

 

Un aeroporto qualificato era quello di Comiso, da dove partivano la maggior parte delle incursioni su Malta: 1’11 luglio il “Magliocco” fu occupato dagli americani dopo aver avuto ragione di un presidio di 150 tedeschi. L’occupazione fu così improvvisa che un “Junker 88″ atterrò non essendo stato preavvisato del combattimento di campo.

 

Da Punta Braccetto a Punta Due Rocche vi era dislocata la XVIII Brigata costiera agli ordini del Gen. di brigata Orazio Mariscalco (comando a Niscemi. La brigata era costituita da due reggimenti: 134° e 178°. Quest’ultime, al comando del Col. Sebastianello si ripartiva nei battaglioni, 134, 389 e 501 ed era dislocata in territorio regusano.

 

Il 389 “costiero” combatte ad ovest di Scoglitti anche contro gli americani della “DIME FORCE” diretti su Gela. Il 501° “costiero” il cui comando si trovava a Scoglitti, “Fattoria Randello”, difese l’ala sinistra della divisione “Goering” ma alle ore 12 del lO luglio, interamente circondato dalla “Forza X” del Ten. Col. William O. Darby dovette cedere.

 

Una pagina poco conosciuta di storia fu scritta dagli “arditi” del II battaglione del Maggiore Vito Marcianò dislocato in tutte le “zona calde” della Sicilia. La 113° compagnia al comando del Cap. Ciro Zuppetta era ubicata a Santa Croce Camerina e scaglionata nella regione iblo-aretusea.

 

Giova ricordare che gli “arditi” effettueranno azioni di “commandos” anche dopo l’occupazione (31 luglio – 1 agosto) pagando un alto tributo di sangue.

 

Ma anche durante la battaglia nel ragusano molti di loro caddero sotto il piombo nemico: Ardito Guido Giordano a Capo Vendicari; Ardito Vittorio Girono vivente, med. di bronzo (Ispica), Ten. Massimo Salemi, vivente, medaglia di bronzo (Santa Croce Camerina).

 

A cura del webmaster Carlo GATTI

 

Alcune recensioni:

 

- straordinari effetti scenografici, di grande impatto emozionale e ben documentato.

 

- L`esposizione, il percorso, il materiale originale in mostra sono solo alcuni elementi che rendono questo museo indimenticabile. Meriterebbe piu visibilita e pubblicita.

 

- Un museo molto ben organizzato e ricco di reperti, con un percorso obbligato che aiuta a conoscere e a riflettere.

 

- Le ricostruzioni del bunker, il rifugio antiaereo, la ricostruzione delle case..

 

- particolare è la ricostruzione di un villaggio pre e post bombardamento, con tanto d simulazione di rifugio anti aereo

 

- Ci sono molti cimeli e personaggi di cera. Importantissimo non dimenticate la mostra fotografica di Stern difronte al museo, un fotografo dell'esercito usa poi diventato un famoso fotografo dei divi di hollywood, il video del suo...

 

- Interattivo e adatto anche ai bambini soprattutto se in età scolare.

 

- Interessante, istruttivo. Da visitare per gli amanti della storia. Da far visitare alle scolaresche per far toccare con mano un periodo di storia recente. Da non perdere l'esperienza del rifugio antiaereo ( simile a quello del Museo della guerra di Londra) e le statue di cera dei personaggi storici dell'epoca.

ALBUM FOTOGRAFICO


L'armistizio di Cassibile (detto anche armistizio corto), fu un Armistizio siglato segretamente, nella cittadina di Cassibile , il 3 settembre del 1943, e l'atto con il quale il Regno d'Italia cessò le ostilità contro le forze Anglo-Americane Alleate, nell'ambito della Seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un Armistizio, ma di una vera e propria resa senza condizioni.

Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente citato come "8 settembre", data in cui, alle 18:30, fu reso noto prima dai microfoni de Radio Algeri d a parte del generale Swight Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19:42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell'EIAR.

 

Obice-cannone leggero: Ordonance Q.F. 25 lb.Mk2. Fabbricazione britannica. Introdotto nel 1939. (Cortile esterno Museo)

Interno Museo. Ricostruzione Casa Comunale

Le foto che seguono si riferiscono alle abitazioni sotto bombardamento animate con luci e suoni che creano perfettamente il clima di quei momenti tragici.

Casa distrutta dai bombardamenti

Bomba inesplosa


Rifugio antiaereo

Ospedale da campo italiano

Museo delle cere. Benito Mussolini

Stazione Radio

Tipologie di Bunker


Postazione mitragliere

Interno Bunker

Uniformi eserciti Alleati


Uniformi  del Terzo Reich

Copricapo Esercito Italiano

Emblemi della Gioventù Fascista

Moto DKW - Germania 1938

Moto Guzzi - ALCE - Italia 1936

Moto Guzzi SUPERALCE - Italia 1942

Cucina da campo - Germania 1943

Cannone antiaereo Bofors 40 mm.


Mitraglia antiaerea Oerlikon 40 mm.

CARLO GATTI

Rapallo, 20 giugno 2014


RICICLARE LE NAVI. Business di domani?

RICICLARE LE NAVI

il business di domani ?

 

 

La “Blue Lady”, nave passeggeri in disarmo e destinata alla demolizione, ha vissuto tempo fa un'odissea seguita da tutto lo shipping internazionale. Quell'unità infatti era stata in passato il mitico transatlantico “France” e poi la prima meganave da crociera dei Caraibi, la “Norway”.

 

 


 

La "Blue Lady", ex "Norway", ex "France"

 

Prima di essere definitivamente accettata dagli impianti demolitori, la "Blue Lady" è passata attraverso varie vicissitudini ambientali, allungando così la sua agonia. Finalmente, giunta in India, le autorità avevano acceso, dopo molti accertamenti, il semaforo verde per il suo insabbiamento e la conseguente demolizione. Si voleva essere sicuri cioè che i materiali tossici contenuti a bordo non fossero pericolosi nè per il personale demolitore, nè per l'ambiente di lavorazione. La nave conteneva infatti grosse quantità di amianto e PCB, una neurotossina prodotta da materiali isolanti e fortemente inquinanti, usati negli anni '70 ed ora banditi dalle varie regolamentazioni internazionali.

 

A prima vista, sembrava un'incongruenza che una nave con quel glorioso passato fosse foriera di prodotti tossici e pericolosi. Per aggiornare i lettori su questo punto, entriamo in uno dei comparti più sconosciuti ma attuali dello "shipping": la demolizione navale.

 

 

Demolire o “riciclare” una nave

 

A volte, capita d'osservare le struggenti fotografie delle navi in agonia sulle spiagge orientali. Il loro inesorabile smembramento strappa sempre qualche lacrima ai marittimi che vi avevano lavorato a bordo. Si dice: "la stanno demolendo". E' vero, ma la “nostra vecchia nave”, continua ad essere utile alla comunità con il reimpiego delle sue parti costruttive; viene sì demolita, ma riciclata. Questo processo la nomina quindi fattore importante dello sviluppo sostenibile globale.

 

 

 

I principali riutilizzi della nave e dei suoi componenti (sovrapponi il mouse per individuarli)/The major recyclings of ship items

 

Pratici esempi del riciclaggio sono gli alberghi galleggianti, oppure le attrazioni turistiche o le barriere sommerse artificiali. Inoltre, le sue parti vengono riusate nelle varie industrie delle costruzioni o dei containers; i generatori e le batterie vengono riciclati nelle realtà locali; poi gli arredamenti, che vanno nelle case di riposo, alberghi; gli idrocarburi vengono riconvertiti in oli vari. Da notare inoltre che, per forgiare i metalli riciclati, c'è bisogno solo di un terzo dell'energia usata per crearne nuovi. Si potrebbe dire insomma, che nel demolire le navi, quasi niente si riduce in rifiuti dannosi per le persone e l'ambiente.

 

Ma è davvero così?

 

I materiali delle navi, pericolosi all'uomo e all'ambiente

 

Per capire se tutti i materiali tossici di una nave demolita vengono propriamente riciclati, bisogna prima individuarli. In linea generale sono: l'amianto usato per isolamento, le acque di zavorra segregate da tempo, i refrigeranti dei motori, i vari prodotti chimici, le pitture, le leghe usate nei metalli di costruzione, gli oli e comustibili vari, le batterie, i residui del carico, i liquidi di trattamento delle caldaie, gli agenti chimici del materiale antincendio, bombole di gas vari, le acque di scarico.

 

 

 

I materiali inquinanti solitamente presenti sulle navi/The usual polluting items on board ships

 

Secondo quanto detto prima, questi prodotti dovrebbero essere tutti riciclati opportunamente, cioè elaborati adeguatamente da personale addetto e indirizzati a nuovi circuiti di economie. Continuiamo la nostra analisi.

 

La vita di una nave e i suoi artefici

 

Come è noto, una nave nasce in cantiere ed è costruita secondo i severi criteri internazionali di compartimentazione, sicurezza ed antinquinamento. Solitamente è commissionata da un “armatore iniziale” che ne cura i servizi commerciali nel tempo, fino a che la nave verrà dichiarata “pronta per la demolizione” (dopo circa un ventennio, per le navi di media grandezza). A questo punto, l'unità viene ceduta ad un “armatore finale”, il quale la appronta per la sua demolizione e la cede quindi all'impianto finale di riciclaggio. Da notare che, molti armatori tradizionali, per questioni di mercato, preferiscono vendere la nave vecchia ad un “armatore finale”, esperto in demolizioni, il quale poi la cederà all'impianto di riciclaggio. La scelta di quest'ultimo resta quindi dell'armatore finale. Di conseguenza, si può ragionevolmente dedurre che, passando la nave in troppe mani, si perdono tutte le informazioni primarie sui materiali colla quale era stata costruita e gestita.

 

 

 

I principali protagonisti dell'esistenza di una nave/The main protagonists of the ship's life

 

Secondo alcuni, l'industria navale in genere dovrebbe essere in primis l'entità più responsabile del riciclaggio di una nave, poichè da essa parte l'intenzione di “metterla al mondo” e di beneficiare dei suoi profitti. Secondo il principio che “chi produce un rifiuto, deve provvedere al suo smaltimento”, la nave dovrebbe essere seguita e controllata per tutta la sua esistenza dai suoi utenti e dalle entità preposte, così da diminuire la presenza di materiali tossici durante il suo servizio e durante la sua demolizione o quantomeno tenerli sotto controllo.

 

Cosa dicono le leggi

 

La Convenzione di Basilea del 1992 è quella che regola la gestione dei rifiuti prodotti in maniera globale. Se è osservata, è efficace, ma non basta. Essendo la nave, una realtà atipica, si deve affrontare nel dettaglio la sua proprietà di “gestire i propri rifiuti ed essere essa stessa un possibile rifiuto”. Inoltre, la Convenzione di Basilea si riferisce a realtà europee e non tiene conto dei molteplici regolamenti internazionali ai quali è soggetta una nave.

 

 

 

Webpage della Convenzione di Basilea sullo smaltimento dei rifiuti (clicca per consultarla)/Webpage of the Basel Convention

 

Ecco quindi l'IMO (l'Organizzazione Internazionale Marittima), con la Risoluzione A.962(23), che contiene le “raccomandazioni” sulla gestione dei materiali tossici usati per costruire e fruire una nave. Queste raccomandazioni, nel biennio 2008-09, dovrebbero divenire leggi esecutive, cioè da "raccomandazioni" si trasformeranno in "convenzione".

 

 

 

Webpage dell'IMO, sulle raccomandazioni del riciclaggio delle nave (clicca per consultarla)/Webpage of the IMO

 

Le regolamentazioni esistenti in questo campo hanno prodotto pochi benefici, soprattutto perchè è complicato mettere d'accordo tutti gli utenti interessati su un argomento che, sottoforma di prevenzione, mette loro le mani in tasca. Questo conduce attualmente alla libera gestione dei rifiuti prodotti da una nave in demolizione: si possono trovare infatti paesi che applicano norme diversificate rispetto ad altri, le quali possono aderire più o meno alle convenzioni suddette.

 

L'intenzione dell'IMO è appunto quella di realizzare un sistema standard (tipo Safety Management System per la sicurezza o Codice ISPS per l'antiterrorismo). La sua applicazione globale cioè, non interessa solo le navi, ma anche i cantieri, gli armatori, gli operai, i fornitori, le autorità, gli assicuratori e quantaltro. In un primo riscontro, il suo obiettivo, sia nel metodo che nel merito, potrebbe però apparire difficile da raggiungere.

 

Vediamo, qui di seguito, alcuni passi della risoluzione dell'IMO:

 

La nave deve essere costruita e gestita con il famoso principio della “tolleranza zero”. Cioè l'unità deve già essere impostata nella sua struttura con materiali non tossici per le persone e per l'ambiente nella quale opera. Nel caso che, certi materiali debbano essere “per forza” usati, se ne farà propriamente cenno su un documento aggiornato che accompagnerà la nave in tutta la sua esistenza, il “passaporto verde”. Il passaporto conterrà l'inventario dei componenti a rischio e la loro posizione a bordo. Alla stessa manierà sarà disciplinato l'uso e lo smaltimento dei rifiuti durante la vita operativa della nave. Una volta controllata l'unità dagli enti ed autorità preposte, l'IMO regolerà la qualità del cantiere di demolizione: cioè se è in grado di accettare e trattare l'unità a seconda della tipologia della sua demolizione o se invece reindirizzarla in altro cantiere se non in possesso dei requisiti necessari.

 

Inoltre, il cantiere di riciclaggio, deve prendere tutte le precauzioni per neutralizzare l'impatto ambientale sulle persone e sulla natura ed essere in possesso di tutte le informazioni possibili sulla nave (passaporto verde, piani, eccetera).

 

Conclusione

 

Il punto più significativo del nostro discorso è rappresentato dal fatto che oggigiorno, le informazioni complete sulla vita di una nave sono generalmente insufficienti e questo costituisce un pericolo nelle varie fasi di demolizione. Inoltre, senza impianti di riciclaggio adeguati, si rischia di rigettare i rifiuti tossici a contatto dell'ambiente e delle persone.

 

Un'altra considerazione, economica, riguarda la gestione d'impianti in paesi in via di sviluppo: gli stessi dovrebbero essere messi in condizione di avere attrezzature adeguate per questi processi e la comunità internazionale, secondo certi, dovrebbe facilitar loro i costi d'importazione dei macchinari necessari.

 

 

 

Il sito di GreenPeace, divenuto un interlocutore fondamentale nelle prossime conferenze sulla salute dei nostri mari (clicca per accedere)/Webpage of GreenPeace

 

 

Da come s'intende dalle precedenti righe, lo sforzo necessario per raggiungere l'obiettivo di mantenere pulito il nostro pianeta sta diventando immane, ma se solo dovessimo concludere, sorridendo, che ciò è impossibile, non faremmo altro che gettare la spugna ed accettare quel lento processo di devastazione del clima globale che è già stato intrapreso inesorabilmente. Se invece, l'obiettivo della risoluzione IMO dovesse concretizzarsi, s'aprirà, di conseguenza, un business nuovo che, oltre a ricchezza, porterà una salute migliore al nostro pianeta.

 

 

Testo e grafica:

Com.te Bruno Malatesta

Rapallo, 30 Maggio 2014

 

 

 


La NAVE é FEMMINA. Ecco perché si chiama LEI...

ECCO PERCHE’ SI CHIAMA LEI...

Archivio Com.te Francesco Fidanza

Nell’antico mondo marinaro si usa chiamare al maschile la nave da guerra e al femminile tutte le altre. Non è nostra intenzione indagare sulle origini di questa stravagante tradizione, anche perché la gente dei “bordi” accetta l’eredità con rassegnazione e la commenta con ironia...  Per la gente comune si tratta, al contrario, di una normale curiosità che emerge da quel mondo semi sconosciuto che di solito va in scena lontano dalla terraferma razionale, giudicatrice... e poco propensa a varcare gli oceani della fantasia.

Tuttavia, a proposito di buffe curiosità, ataviche rassegnazioni e salate ironie, oggi siamo in grado di dare anche la risposta a questa vecchia domanda:

Perché si dice “LEI” quando si parla di una nave-passeggeri-mercantile-da diporto, a vela, a motore ecc... ?”


 

  • Deve essere guidata da un uomo
  • In un attimo di disattenzione prende il potere
  • Non sopporta il sovraccarico
  • Si attrezza con l’aiuto di un uomo
  • Cambia nome quando cambia padrone
  • Il mantenimento costa più di quello che si pensa
  • Può trascinare un uomo con sé negli abissi
  • Deve essere aggiustata e pitturata prima d’uscire
  • Con l’età diventa secca, fastidiosa e difficile da maneggiare

C.G

06.04.11

 

 


LO STRANO DESTINO DI PORT ROYAL (Giamaica)

 

LO STRANO DESTINO di PORT ROYAL  GIAMAICA

 

 

Nel XVII secolo, Port Royal era il principale centro di commercio della Giamaica. Era una città in continua espansione, costruita sull’estremo lembo di  tombolo che racchiude il Golfo di Kingston.

 

 

Fu fondata come fortificazione spagnola  ma nel 1655  divenne possedimento inglese. Gli Inglesi dell’epoca, veri signori dei mari, intuirono l’importanza del sito posizionato sulla rotta che dai caraibi portava oro in Europa. Quattro anni dopo il forte che sorvegliava l’imboccatura alla baia, era già circondato da duecento edifici  fra case, palazzi del potere, negozi e magazzini, a dimostrazione dello sviluppo enormemente rapido del sito. Gli Inglesi, sempre pragmatici, non disdegnavano i rapporti con i Pirati, che in seguito “istituzionalizzarono” in Corsari. Grazie alla massiccia presenza di questi predoni, la città esibiva ricchezza ed era già nota per i costumi dissoluti: pressoché tutti i piani a livello strada erano bettole o postriboli. E’ in quell’epoca che si fece la reputazione di essere <<la città più ricca e malfamata del mondo>>  Grazie a questa illimitata libertà, Pirati, Bucanieri e Corsari, vi investivano e spendevano tutti i loro averi. Intorno al 1660 la città si era guadagnata la fama di essere << la Sodoma del nuovo mondo>> dove la maggior parte dei residenti erano ogni sorta di pirati, tagliagole e prostitute. Dai pochi documenti salvati dal terribile terremoto, che più avanti vedremo la distrusse  nel1692, si è appurato che già nel 1661 vi era una osteria ogni dieci abitanti e furono rilasciate quaranta licenze per aprire nuove taverne. Erano operanti in città quattro orafi, quarantaquattro tavernieri, moltissimi artigiani e mercanti che esercitavano in duecento edifici occupanti una superficie complessiva di 200.000 mq. Nel 1688 sostarono nel porto ben duecentotredici navi  e il commercio si era evoluto dal primitivo scambio di beni a fronte di servizi, all’uso della più pratica moneta.

Quando Charles Leslie scrisse la storia della Giamaica, descrisse i pirati così: il vino e le donne prosciugano i loro averi ad un tale livello che alcuni tra loro sono costretti ad elemosinare. Sono diventati famosi per spendere due o tre mila pezzi da otto(moneta spagnola coniata in argento, poi diffusasi per secoli ovunque) in una sola notte; uno ne diede 500 ad una sgualdrina per vederla nuda. Era abitudine comprare una botte di vino, spostarla sulla strada ed obbligare chiunque passasse, a bere>>

In altre parole  la Città divenne il più ricco possedimento inglese nel Nuovo Mondo  grazie alla pirateria che poi continuò con il commercio del Rum ma soprattutto con la tratta degli schiavi prelevati dall’Africa occidentale. A seguito della nomina di Henry Morgan a Governatore ( il famoso inglese prima ammiraglio, poi pirata e in fine governatore; morì in disgrazia di cirrosi epatica), Port Royal iniziò a cambiare. Non c’era più la necessità di ricorrere all’aiuto dei pirati per difendersi dalle incursioni francesi e spagnole, nei momenti in cui gli inglesi avevano scarne guarnigioni. Il commercio degli schiavi, assunse maggior importanza mentre i cittadini più elevati, iniziarono ad essere stufi della nomea che la città si era fatta.

 

Nel 1687 la Giamaica approvò una legge antipirateria. Da “porto franco” per i pirati, Port Royal divenne famosa come luogo che non garantiva più asilo, anzi iniziarono le loro esecuzioni. Charles Vane e Calico Jack entrambi pirati britannici, furono fra i primi ad essere  impiccati ma, appena due anni dopo, in un solo mese ne salirono il patibolo ben 41.

 

Jolly Roger

 

 

Merita qui ricordare che proprio Calico Jack inventò quella destinata a divenire poi la bandiera ufficiale della pirateria: un teschio bianco con sotto due spade incrociate in campo nero, più nota come <Jolly Roger>.

Diverse caratteristiche della Città la resero ideale per gli scopi della pirateria.

 

 

Era situata, lo abbiamo visto, proprio sulle ricche rotte molto frequentate che univano Panama alla Spagna. La grande baia protetta di Kingston era sufficientemente vasta ma dallo stretto accesso facilmente controllabile, tanto da poter fornire protezione ai loro vascelli e, in fine, strategicamente posizionata da poter lanciare attacchi agli insediamenti spagnoli. Da lì partirono gli attacchi a Panama, Portobelo e Maracaibo. John Davis, Edward Mansveldt ed Henry Morgan utilizzarono Port Royal per organizzare le loro azioni piratesche.

 

 

Da parte loro gli Inglesi, in cambio di questa loro “interessata” tolleranza, incoraggiarono, quando addirittura non pagarono, i Bucanieri (i veri Fratelli della Costa) di stanza colà perché attaccassero le spedizioni navali Spagnole e Francesi. Nel periodo intercorrente fra la conquista Inglese dell’isola (1655() e il terremoto, Port Royal fu la capitale della Giamaica. Dopo tale data, non essendo rimasto pressoché più niente, il suo ruolo lo prese Spanish Town, l’insediamento più vicino e meno esposto. Solo nel 1872 il Governatorato fu trasferito definitivamente a Kingston.

 

 

Una bella mattina di Giugno, per la precisione Mercoledì 7 dell’anno del Signore 1692, il reverendo Emmanuel Heath, pastore anglicano della principale chiesa del Porto, passeggiava, come di consueto, nel piazzale antistante la Basilica recitando le giornaliere preghiere quando, improvvisamente un boato subito seguito da un tremare violento della terra, lo terrorizzò.

 

Fuggì di corsa salendo un po’ più in alto mentre il terreno scosso, stava sgretolandosi in mare  come se vi si sciogliesse. Infatti la lingua di terra o tombolo su cui era stata edificata la Città, era formata da sabbia e ghiaia fluviale, per uno spessore di 30 metri. Il materiale, scosso dalle ondate sismiche del 7° grado della scala Mercalli, scivolò in mare e in men che non si dica, il tombolo su cui poggiava la Città, sprofondò facilitato dal naturale declivio verso il mare mai consolidato. Questo insolito sconvolgimento, sprofondando senza “spaccarsi” perché il terreno non era roccioso, trascinò sul fondale, non più profondo di 15 metri, tutto il paese senza, di fatto, frantumarlo.  La base superficiale su cui era stato edificato, affondò come una zattera subito ricoperta da tutto quel turbinio di sabbia, limo e terra, sparendo alla vista. A completare lo scempio poi tre successive ondate (oggi lo chiameremmo “tsunami”, che regolarmente segue gli sconvolgimenti del fondo del mare a causa di un terremoto) spazzò via tutto quel poco che era rimasto.

 

Alla fine si contarono  oltre 2000 morti mentre, del fiorente porto, non emergevano che le parti più alte, ma ridotte in rovine. Naturalmente, come era nella cultura dell’epoca il Reverendo, scrivendo nel suo rendiconto per spiegare ai suoi Superiori come aveva perso la Chiesa, chiosò < spero che questo terribile giudizio di Dio induca i superstiti a cambiare vita, perché non penso che esistano persone altrettanto prive di timor di Dio sulla faccia della terra>. Questa volta però Dio non fu il feroce giustiziere immaginato dal Reverendo: semplicemente lui non sapeva che la Giamaica era, come è, zona sismica, purtroppo attiva ancor oggi, perché si trova lungo il margine della placca caraibica che si scontra con il bordo  più meridionale  della placca nord-americana, traslando di 20 mm all’anno.

 

Papa Francesco oggi ci ha fatto capire che Dio non è mai giustiziere, ma padre.

 

Come sempre accade, specie in zone in cui l’igiene non viene praticato, al disastro seguirono malattie che, in modo incontrollato, si diffusero portando a morte ulteriori 2000 persone. Quando la notizia si diffuse, nella mente dei contemporanei scattò giustificativa la pessima reputazione della Città, attribuendo la calamità alla giusta “punizione divina”.

 

Si tentò di ricostruirla iniziando da dove non era stato sommerso, ma avvennero altri disastri: nel 1703 un incendio la distrusse un’altra volta tanto che poi, nella prima metà del XVII secolo, Port Kinston eclissò definitivamente Port Royal.

 

Sulle carte, al posto del tratto finale di quella mitica lingua di terra, oggi è indicata un’isoletta staccata:  su di essa e il canale che la divide dalla terra ferma, c’era Port Royal.

 

Atlantide dei Caraibi

 

Solo e per caso nel 1959 due archeologi americani, scandagliando il basso fondale, scoprirono, sotto una coltre di limo e sabbia, una città pressoché intatta con case e negozi ancora perfettamente conservati, con all’interno tutto quello che contenevano quella mattina. Su di un ronfò scoprirono i resti di una tartaruga che doveva essere il pranzo di quel giorno. Poco più in là una bottega da falegname conserva ancora un letto così come lo stava costruendo e, in una farmacia, fanno bella mostra numerosi flaconi ancora allineati e contenenti medicamenti e albarelli da farmacia, perfettamente conservati. Altrove bottiglie e monili d’oro; in un “fondo” c’era una cassaforte semicorrosa, contenente oltre 1536 monete d’argento.

 

 

Come oggi giorno si usa, la scoperta di questa “Atlantide dei Caraibi” sta mettendo in moto la macchina del turismo. Intendono, in pochi anni, creare un parco sottomarino con tanto di alberghi e ristoranti < vista sul fondale>, in quanto lo stesso è veramente facilmente raggiungibile: non più di 15 metri.

 

 

RENZO BAGNASCO

 

Fratello della Costa

Foto di Carlo GATTI

Rapallo, 23 Maggio 2014



LE CARTE NAUTICHE VANNO IN PENSIONE

LE CARTE NAUTICHE TRADIZIONALI VANNO IN PENSIONE

Il Comandante Mario Terenzio Palombo sulla nave "Costa Fortuna"

 

Comandante carismatico della Costa Crociere, Mario Terenzio Palombo é spesso citato come protagonista di quella storia marinara che parte dai segreti della vela “carpiti” a nonno Biagio, armatore di un pinco-goletta, ed arriva fino ai giorni nostri, con l’assoluta padronanza delle moderne tecnologie installate sulle grandi navi da crociera che lui stesso ha allestito e poi comandato. Conoscendo la chiarezza espositiva e la capacità di sintesi del Comandante Mario T. Palombo, gli abbiamo rivolto alcune domande sul prossimo STEP tecnologico che si sta delineando all’orizzonte della “Marineria Mondiale”: la sostituzione delle millenarie  “Carte Nautiche” con quelle elettroniche.

 

Carta Pisana. Secolo XIII o XIV, probabilmente realizzata a Genova, Carta del Mediterraneo, Parigi - Mappamondo.

 

Carta nautica tradizionale

Comandante Palombo, le “Carte Nautiche” tradizionali stanno per andare in pensione e saranno sostituite dall’ultima novità tecnologica: le “Carte Elettroniche” e l’ECDIS (Electronic Chart Display and Information System). Quando avverrà il passaggio di consegna?

 

 

- Mi risulta che le Carte Nautiche Elettroniche e L’ECDIS, diventeranno obbligatorie a partire dal 1 Luglio 2014. Gli Ufficiali delle navi passeggeri stanno già effettuando i corsi di aggiornamento che saranno poi indispensabili per l’imbarco (Operatore ECDIS).

 

 

Questo nuovo modo di navigare coinvolgerà solo l’élite delle navi passeggeri, oppure il sistema sarà esteso a tutte le navi?

 

 

- Tutte le navi passeggeri esistenti e quelle in costruzione, a partire da quella data, dovranno essere dotate dell'ECDIS e dovranno avere un sistema di Carte Elettroniche approvate. Gradatamente, anche tutti gli altri tipi di navi si adegueranno al nuovo modo di navigare.


The Raytheon Anschütz Synapsis ECDIS is a high performance Electronic Chart Display and Information System (ECDIS). With its enhanced functions, ...

I due sistemi avranno un periodo di “convivenza” ?

 

- Le carte “di carta” non spariranno subito, ma una volta che le navi saranno “full ECDIS”, e saranno dotate di DUE sistemi ECDIS (uno di riserva all'altro), allora, a quel punto non si avranno più carte di “carta”, e di conseguenza “spariranno” anche le squadrette da carteggio, matite e compasso.

Sala nautica della T/n Michelangelo. Notare il Tavolo da Carteggio e i 10 cassettoni delle carte nautiche. Sullo sfondo il Ponte di Comando.

Comandante, per capirne realmente i vantaggi, sarà necessario entrare un po’ più nel dettaglio dell'operazione?

 

 

- Con questo nuovo sistema c’è il grande vantaggio che,  per pianificare un viaggio da un porto all’altro, con rotte varie e relative distanze, lo si farà in pochi minuti, mentre prima si doveva consultare l’Atlante Geografico delle Carte Nautiche, tracciare le rotte sulle stesse, dopo averle estratte dagli appositi cassetti e dispiegate sul tavolo da carteggio, misurando le miglia con il compasso. Altro vantaggio è che la carta nautica elettronica (ENC Electronic Navigation Chart), avendo fedeltà e completezza, permetterà una selezione dei dati presentati in relazione alla scala impiegata nel momento. Inoltre, avrà l’aggiornamento periodico dei dati, come avviene negli attuali avvisi ai naviganti.

Electronic navigational chart (NOAA)

 

 

Le carte nautiche elettroniche saranno compilate dai vari Istituti Idrografici, sulla base delle carte esistenti?

- Esatto! Dovrebbero essere distribuite dal famoso Istituto dell’Ammiragliato Inglese (Admiralty), ma si utilizzerebbero carte nautiche degli Istituti Idrografici di tutto il mondo, che le "darebbero in uso" all'Admiralty.

 

Può specificare meglio?

- Funzionerebbe così:  L'Admiralty, dovrebbe pensare a "raccogliere" tutti gli aggiornamenti e a distribuirli insieme alle carte elettroniche. Il sistema memorizza la posizione ogni minuto e può memorizzare le posizioni almeno per 12 ore, o fino a 90 giorni. Nel caso il GPS non funzioni, si potranno mettere i punti nave con "rilevamenti" elettronici e distanze presi dal radar oppure ottici, e si potranno memorizzare sulla carta elettronica, e là rimarranno fino a che non si cancelleranno. Il sistema, come tutti gli strumenti di navigazione, dovrà funzionare sulla rete di emergenza (alimentazione dal quadro di emergenza).

 

Comandante Palombo le rivolgo l’ultima domanda. Non mi risulta che gli Istituti Nautici Italiani riescano a tenere il passo con le nuove strumentazioni di bordo. Qual’é il suo parere?

 

- E’ un vero peccato che gli Istituti Nautici  italiani non siano attrezzati ad insegnare questo sistema. Gli stessi professori dovrebbero fare dei corsi e poi mancano gli strumenti.

Comandante Palombo, lei ha calcato per oltre quarant’anni i Ponti di Comando delle più grandi “navi da crociera” che hanno solcato i sette mari, studiando e frequentando corsi di aggiornamento nei maggiori porti del mondo, con risultati eccellenti, per arginare l’avanzata della tecnologia. Che sensazione le dà vedere andare in pensione pezzi importanti della storia navale, ma anche di quella nostra personale?

 

- Navigare adesso é completamente diverso, questi nuovi sistemi sicuramente contribuiranno ad aumentare il livello di sicurezza dell’andare per mare, ma oltre all’elettronica, secondo me, ci vorrà sempre l'occhio esperto del marinaio perchè la moderna tecnologia non sarà MAI superata dall’ARTE DEL NAVIGARE.

 

 

PAROLE SANTE! Grazie Comandante per la sua disponibilità!

 

Carlo GATTI

 

Rapallo, 20 Aprile 2014

 


IL SOMMERGIBILE DI PORTOFINO Alla ricerca dell'U455

 

 

Il sommergibile di Portofino

Alla ricerca

dell’U455

 

A cura di Maurizio Brescia – in

collaborazione con

www.betasom.it

 

 

U-Boote 995 C VII e, sullo sfondo, la Marine Ehrenmal

Quest’anno, la sezione della Mostra “Mare Nostrum” dedicata alle unità militari e alla loro storia tratta un argomento di grande impatto tecnico e documentale ma anche (e direi soprattutto) “emozionale” ed avventuroso: il famoso relitto dell’ “U-boot di Portofino”, le cui vicende hanno suscitato, in particolare negli ultimi tempi, un notevole interesse tra il grosso pubblico, non soltanto a livello locale ma anche nazionale.

 

Come ha sapientemente descritto l’amico Emilio Carta nei suoi libri della serie “Navi e Relitti”, sui fondali della costa ligure sino ubicati numerosi scafi di navi mercantili e militari affondate, appartenenti alle più diverse nazionalità, che – dall’età romana sino ai giorni nostri – testimoniano l’importanza che il Mar Ligure ha sempre avuto, non soltanto per la storia della navigazione ma per la storia tout court. In questo ambito, le vicende della seconda guerra mondiale rivestono un’importanza del tutto particolare per la loro vicinanza nel tempo alla nostra epoca, nonché per l’interesse che suscitano tra gli studiosi, i cultori di “storie di mare” ed i semplici appassionati ai fatti di un periodo storico le cui valenze tragiche hanno riguardato da vicino la Liguria ed il mare antistante le sue coste.

 

La presenza di un relitto un paio di miglia a Sud Ovest del promontorio di Portofino era nota da diversi anni ai pescatori del Levante: spesso, in quel punto, le reti restavano impigliate in “qualcosa” che giaceva su fondali di oltre 100 metri di profondità, e le testimonianze concordavano tutte sul fatto che si dovesse trattare di uno scafo di dimensioni non piccole, sicuramente non certo una barca da pesca o un altro tipo di unità dalle ridotte dimensioni.

 

Una decina d’anni fa, le prime immersioni subacquee sul sito contribuirono a far nascere iniziali ipotesi sulla reale natura del relitto, ma solo con le esplorazioni del “sub” professionista Lorenzo Del Veneziano è stato possibile acquisire elementi certi e definitivi (e – in particolare – fotografie e filmati) che, in breve, hanno assunto una visibilità mediatica e una notorietà quasi impensabili.

Kiel, U-Boote-VII C, dello stesso tipo rinvenuto nelle acque di Portofino

 

Tra il 2005 e il 2008 Lorenzo del Veneziano ha effettuato una quindicina di immersioni sul sito, parecchie delle quali insieme al noto subacqueo e documentarista Roberto Rinaldi di Roma: come vedremo, l’esito di queste attività – altamente professionali – ha permesso di identificare con buona certezza il relitto come quello del sommergibile tedesco U455, appartenente al tipo “VII C” e affondato nei primi giorni del mese di aprile del 1944.

 

Le immersioni di Lorenzo del Veneziano e di Roberto Rinaldi hanno trovato riscontro in un servizio televisivo, trasmesso su RAI UNO nel 2007 nell’ambito del programma Linea Blu e – più recentemente (luglio 2008) – in un documentario dal titolo Il mistero dell’ultimo U-Boot, realizzato da Roberto Rinaldi per la serie “I tesori del Mediterraneo”, trasmesso sul canale “Yacht and Sail” di SKY TV e al quale chi scrive ha collaborato per la parte storica e documentale.

 

In precedenza, lo scorso mese di gennaio, nella Sala consiliare del Comune di Rapallo il forum internet www.betasom.it ha organizzato un convegno di studi dedicato proprio alle vicende dell’U455 e – più in generale – a tematiche di storia e tecnica del sommergibilismo.

 

Oggi, www.betasom.it (le cui attività sono descritte in un’apposita sezione di questo fascicolo) è il “partner” della sezione storica della Mostra “Mare Nostrum 2008” che, come stiamo per esaminare, è dedicata proprio allo “state of art” delle ricerche sul relitto, come pure all’attività operativa dei sommergibili tedeschi nel Mediterraneo durante la seconda guerra mondiale. Un’attività, sicuramente meno nota di quella degli U-boote germanici in Atlantico ma – non per questo – meno ricca risultati e vicende che, su queste pagine, cercheremo di approfondire.

 

Il relitto – elementi per una sua identificazione

 

Durante la primavera del 2008, le ricerche effettuate da Roberto Rinaldi e Lorenzo Del Veneziano sono giunte alla loro fase finale: in questo ambito, ho avuto la possibilità – ma soprattutto il piacere e l’onore – di collaborare con questi due autentici professionisti, al fine di coordinare i “parametri di ricerca” di alcune immersioni, indicando quali elementi strutturali del relitto andavano esaminati, filmati e fotografati per consentire, nella fase finale di valutazione delle evidenze documentali, un’identificazione quanto più possibile certa del relitto.

 

Il relitto del “sommergibile di Portofino” è ubicato su un fondale di circa 120 m di profondità, a un miglio e mezzo per 260° da Punta Chiappa (promontorio di Portofino).

 

Lo scafo, toccando il fondo, ha assunto una posizione, realmente impressionante per chi si immerge su di esso: tutta la sezione prodiera, dal tagliamare e per una trentina di metri verso poppa, si trova in assetto quasi verticale, inclinata a circa 70° con la prora rivolta verso la superficie. Il battello, evidentemente, è affondato di poppa e – toccando il fondo – tutta la porzione poppiera dell’unità ha subito gravi danni. Mentre l’estrema poppa apparirebbe emergere – sia pure per non più di un paio di metri – dal fondale, la parte dello scafo corrispondente grosso modo ai locali dei motori termici ed elettrici è completamente distrutta, ed è impossibile identificarne gli elementi strutturali dato che i rottami sono, tra l’altro, completamente ricoperti dalla fanghiglia del fondale.

 

Nel complesso, però, tutta la parte visibile dello scafo appare in ottime condizioni, ancorchè fortemente “colonizzata” dalla flora e dalla fauna sottomarine tipiche di questo tratto di mare: è stato quindi possibile esaminare numerosi elementi costruttivi che concordano, tutti, ad identificare il relitto come appartenente ad un sommergibile tedesco del tipo “VII C”.

 

La falsatorre del battello (vedi foto) è uno degli elementi meglio conservati e al tempo stesso più facilmente esaminabili dell’intero relitto. In particolare, il suo disegno generale, la presenza del paraspruzzi a mezza altezza e la grossa carenatura anteriore (ove trovava sistemazione la bussola dell’unità) denotano un’esatta coincidenza con questi elementi strutturali degli “U-Boote” tio “VII C”.

 

Analogamente, la forma dei “fori di deflusso” (ossia – semplificando il concetto – delle aperture da cui entrava e usciva l’acqua dall’intercapedine tra lo scafo resistente e la coperta durante le manovre di immersione ed emersione) e il loro andamento lungo le fiancate sono tipici del tipo “VII C”.

 

Alle medesime conclusioni porta l’esame dei timoni di profondità prodieri (ancora muniti della caratteristica carenatura di forma arcuata su cui erano incernierati) e di altri fori di deflusso rettangolari, presenti, sulla parte bassa della zona prodiera dello scafo.

 

Sul bastingaggio di dritta della falsatorre è stato esaminato l’alloggiamento del radar tipo “FuMo61” (installato sui tipi “VII C” nel 1942/43), ed è stato possibile verificare – al suo interno – la presenza dell’antenna.

 

Il relitto è privo del cannone (sbarcato nella seconda metà del 1943 da pressochè tutti gli “U-Boote” operativi nel mediterraneo) e – per motivi tecnici dovuti alla difficoltà dell’immersione e ai ridotti tempi di permanenza degli operatori subacquei a quelle profondità – non è stato possibile rimuovere una rete da pesca che ricopre la parte posteriore della falsatorre. Tuttavia, l’esame di questa zona del battello ha permesso al subacqueo Lorenzo Del Veneziano di ritenere come abbastanza probabile la presenza di una mitragliera antiaerei sulla piazzola poppiera della falsatorre.

 

L’esame del relitto permette di accantonare l’ipotesi che si tratti di un battello italiano o di uno britannico (segnatamente un classe “U”, di cui un’unità andò perduta più a Sud, ma il cui affondamento è documentato nelle cronologie ufficiali delle Marine inglese e tedesca). Sulla base di quanto sopra, appare pressochè certo che il “Relitto di Portofino” possa essere quello del sommergibile tedesco U455, l’unico battello tedesco di cui si può ipotizzare la perdita nelle acque liguri.

 

Si tratta dell’U455?

 

Il volume di Santoni e Mattesini La partecipazione tedesca alla guerra aeronavale nel Mediterraneo e altre fonti ufficiali riportano la perdita dell’U-455 a seguito di urto contro mina al largo della Spezia il 6 aprile 1944. Le coordinate fornite dall’U-Boot Archiv di Cuxhaven sono invece 44°04’ N – 09°51 E, cioè ca. 14 mg per 173° da Punta Portofino (fondali di 7/800m). L’ultimo messaggio radio dell’U-455 risale al 2 aprile 1944, quando il battello lasciò la sua zona di pattugliamento al largo di Algeri diretto alla Spezia per un ciclo di lavori (era partito da Tolone facendo parte della 29a Flottiglia smg della Kriegsmarine, colà dislocata).

 

E’ quindi quasi del tutto certo che l’U455 sia affondato durante il rientro da Algeri verso La Spezia e non durante la navigazione da Tolone verso le coste nordafricane. L’ipotesi più probabile sulle cause dell’affondamento è l’urto contro una mina alla deriva o, in alternativa, un’esplosione interna al battello: non esistono rapporti di missione di unità alleate riferiti ad attacchi contro sommergibili, nella zona antistante Portofino, per la prima metà di aprile del 1944.

 

Mentre partendo dalla Spezia (ma, come abbiamo visto, l’U455 partì da Tolone) è più percorribile una rotta "diretta" verso le coste nordafricane, durante la navigazione di ritorno – con minori necessità del rispetto di tempi e direttive operative – il comando di bordo potrebbe aver deciso per una navigazione più sottocosta nella vicinanza delle coste liguri. Questo, soprattutto nel caso che la navigazione di ritorno si fosse svolta in buona parte in immersione, con conseguente "atterraggio" leggermente a ponente rispetto al previsto (ad esempio davanti a Genova). In questo caso l'U455 potrebbe aver assunto una rotta molto sottocosta, per raggiungere La Spezia, allo scopo di evitare avvistamenti da parte di unità nemiche più al largo.

 

Per motivi di sicurezza, qualsiasi navigazione di un U-boot dall’Algeria alla Spezia (e/o viceversa) avrebbe dovuto essere effettuata a ponente e non a levante della Corsica. Anche in condizioni di totale “tranquillità”, sarebbe praticamente assurdo seguire una rotta diversa, anche per meri motivi di lunghezza della stessa.

 

Gli U-Boote tipo “VII C”

 

Tutti i sommergibili tedeschi che operarono nel Mediterraneo appartenevano al tipo "VII C", ad esclu­sione di quattro unità (U73, U74, U75 e U83 ) del precedente ma simile tipo "VII B".  I battelli del tipo "VII" giocarono, sino al 1943/44, un ruolo primario nelle operazione subacque condotte dalla Kriegsmarine: vennero costruite 705 unità molte delle quali erano ancora in servizio al termine delle ostilità.

Il tipo "VII" derivava dalle linee costruttive dei battelli finlandesi classe "Vetehinen", realizzati in Finlandia su progetto tedesco: a loro volta, i "Vetehinen" traevano origine dai battelli tedeschi tipo "UB III" del 1918.

Con il tipo "VII" fu realizzata un'unità semplice e robusta, adatta ad operare nell'Oceano Atlantico e dalle prestazioni sostanzialmente all'avanguardia: solamente nella seconda metà del 1943 le contro misure antisommergibili alleate iniziarono ad avere ragione di questi altrimenti validissimi bat­telli.
Agli iniziali "VII A" e "VII B" del 1936/1938 seguì, tra il 1940 e il 1943, il numeroso gruppo dei "VII C" - "VII C-41", questi ultimi contraddistinti da migliorate prestazioni e da una struttura maggiormente rinforzata; la realizzazione di una variante ulteriormente aggiornata, denominata tipo VII C-42, fu annul­lata per permettere l'entrata in servizio di som- mergibili dalle caratteristiche più moderne  di tipo "XXI").  Vennero costruiti anche sei battelli tipo "VII D" (posamine) e quattro "VII F" (equipaggiati per trasportare siluri per il rifornimento di altre unità).
A partire dalla fine del 1943, su numerosi "VII" si procedette all'installazione dello schnorkel e di apparati radar.
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Sommergibili tipo "VII C" - caratteristiche principali:
- Battelli oceanici a semplice scafo con controcarene esterne e casse di immersione principali all'interno dello scafo a pressione-
- Lunghezza: 66,5 m
- Larghezza: 6,2 m
- Pescaggio a sommergibile emerso: 4,74 m
- App. motore: 2 diesel (vari modelli) 2.800/3.200
hp, 2 motori
elettrici (vari modelli) 750 hp
- Velocità max.: 17/17,5 nodi in emersione e 7,6 nodi
in immersione
- Tempo minimo per l'immersione rapida: 25/30 secondi
- Autonomia: 8.500mg a 10 nodi/3.250 mg a 17 nodi
(in emersione) - 130mg a 2 nodi/80mg a 4 nodi
(in immersione)
- Armamento: quattro t.l.s. da 533 mm (dotazione max.
14 siluri); 1 cannone da 88/45, 1 mg. da 20 mm e 1
mg. da 37 mm. A partire dal 1942, incrementando le
dimensioni della falsatorre, l'armamento balistico venne
potenziato dando vita a numerose varianti, tra cui - ad
esempio - 4 mg. da 20 mm (2 x II) e 2 da 37 mm (2 x I)
4 mg. da 37 mm (4 x I), 8 mg. da 20 mm (2 x IV) e 1
da 37 mm (1 x I). Negli ultimi anni di guerra il cannone
da 88 mm fu sbarcato da nume­rose unità.

- Equipaggio: 44 (4 ufficiali, 4 sottufficiali, 36 sottocapi
e comuni)

 

Gli U-boote nel Mediterraneo – 1941/1945

 

 

Le note che seguono sono presentate per gentile concessione di “STORIA militare” – rivista mensile edita da Albertelli Edizioni Speciali, Parma e diretta da Erminio Bagnasco – e sono tratte dall’articolo di M. Brescia U-Boote in mediterraneo, pubblicato sui numeri 71 e 72 (agosto e settembre 1999) della pubblicazione.

 

Tra il 1940 e il 1941, l'ammiraglio Karl Dönitz, Comandante in Capo dei sommergibili, ribadì più volte la sua contrarietà all'invio a Est di Gibilterra di alcuni dei non molti battelli all'epoca disponibili poiché la maggior parte del traffico mercantile diretto dall'Inghilterra a Suez seguiva la rotta del Capo di Buona Speranza, più lunga ma anche più sicura. Ancora nel luglio 1941, il Capo di Stato Maggiore della Kriegsmarine, ammiraglio Raeder, riferiva a Hitler che "... non era possibile inviare sommergibili in Mediterraneo perché ciò avrebbe pregiudicato le operazioni in Atlantico".

 

Peraltro, dopo lo sfortunato esito dell'operazione "Gaudo", il Comando operativo della Kriegsmarine (Seekriegsleitung SKL) iniziò a riconsiderare la necessità di una maggiore presenza navale nel Mediterraneo e, il 26 agosto 1941, Hitler dispose l'invio di sei sommergibili con il compito "ufficiale" di sostenere le operazioni dell'Afrika Korps contrastando il traffico mercantile ed i movimenti navali britannici a Nord della Libia. In realtà, questo cambio di direttive fu anche dovuto alla limitata efficacia dimostrata nel primo anno di guerra dai pur numerosi sommergibili italiani presenti in Mediterraneo. Nonostante il parere sempre contrario di Dönitz, fu dato quindi avvio ad una serie di accordi tra gli alti comandi delle due Marine alleate in seguito ai quali, entro la fine del 1941, ben 27 sommergibili tedeschi avrebbero varcato lo stretto di Gibilterra diretti verso le proprie zone di operazioni nel Mediterraneo. Iniziava così in questo mare la presenza degli U-Boote che, con buoni risultati e senza soluzione di continuità, si sarebbe protratta per quasi tre anni.

 

Tra il 21 e il 26 settembre 1941 entrarono in Mediterraneo i quattro battelli del Gruppo "Goeben" (U371, U97, U559 e U331), seguiti ad ottobre dall'U75 e dall'U79. Dislocati nel Mediterraneo orientale, U75 e U97 colsero nel mese di ottobre i primi successi affondando due mezzi da sbarco a Nord di Tobruk (U75) nonché la petroliera britannica Pass of Balmaha e il mercantile greco Samos (U97) a Ovest di Alessandria; inoltre, il 21 ottobre, a Nord di Bardia, l’U79 danneggiò gravemente, tanto da non essere più riparata, la cannoniere HMS Gnat. Partendo dalle basi atlantiche francesi e divisi in più gruppi, altri 21 U-Boote raggiunsero il Mediterraneo tra novembre e dicembre, e il concentramento di una consistente aliquota di battelli tedeschi nelle acque del "mare nostrum" portò, in breve tempo, a numerosi affondamenti di unità militari e mercantili britanniche. Il 13 novembre 1941, un solo giorno dopo il suo ingresso in Mediterraneo, l'U81 (al comando dell'Oberleutenant (stv) Guggenberger) silurò a Est di Gibilterra la portaerei britannica Ark Royal. Nonostante fosse stata colpita da una sola arma, l’unità subì notevoli danni; presa a rimorchio, affondò capovolgendosi alle 06.13 del giorno successivo.

 

Ugualmente significativo risultò l'affondamento della nave da battaglia Barham (25 novembre), colpita sul lato sinistro con tre siluri dall'U331 (Oblt. von Tiesenhausen) mentre si trovava in navigazione tra Creta e la Libia insieme alle similari Valiant e Queen Elizabeth. Le esplosione dei siluri fecero sì che la Barham assumesse quasi immediatamente uno forte sbandamento sulla sinistra, pur continuando a procedere sull'abbrivo. Dopo circa un minuto, continuando ad inclinarsi sempre più sulla sinistra, e, poco prima che l’unità si capovolgesse, si verificò una violenta esplosione che distrusse letteralmente la corazzata. A differenza dell'Ark Royal (a bordo della quale si ebbe un solo caduto), nell'affondamento della Barham scomparvero 862 uomini su un equipaggio di 1.312. Il 14 dicembre, 30 miglia ad Ovest di Alessandria, l'U557 affondò l'incrociatore leggero inglese Galatea; inoltre, entro la fine del 1941, fu distrutto un totale di undici unità mercantili, tra cui il trasporto truppe britannico Shuntien, silurato il 23 dicembre dall'U559.

 

In quello stesso periodo vanno per contro registrate le due più brevi permanenze di sommergibili tedeschi nel Mediterraneo: l'U433 e l'U95, infatti, furono affondati rispettivamente il 16 e il 28 novembre, ovvero solamente un giorno e due giorni dopo la loro entrata da Gibilterra con rotta a levante. Tra i cinque battelli tedeschi complessivamente perduti nel Mediterraneo tra novembre e dicembre 1941, va ricordato l'U557 che, due giorni dopo aver affondato il Galatea, venne speronato e affondato a Ovest di Creta (nei pressi di Cerigotto) dalla torpediniera italiana Orione: quella silurante, non informata della presenza in zona del sommergibile germanico, lo aveva infatti scambiato per un'analoga unità britannica.

 

Alla fine del 1941 si trovavano nel Mediterraneo 22 U-Boote suddivisi tra la 23a Flottiglia (con base a Salamina, vicino al Pireo, in Grecia) e la 29a (con base alla Spezia); al comando dei due reparti erano posti, rispettivamente, il c.v. (Kptl) Fritz Frauenheim e il c.c. Franz Becker. Il numero dei battelli era determinato, oltre che dalle pressanti necessità del teatro dell'Atlantico, anche dalle possibilità di carenaggio contemporanee presenti nelle basi navali mediterranee (sette unità alla Spezia, due a Pola e cinque a Salamina): l'invio di ulteriori sommergibili avrebbe infatti causato lunghi periodi di immobilizzazione in attesa dei turni di lavori creando, come conseguenza, un'utilizzazione non ottimale delle unità.

 

Il 1942 si aprì con l'invio in Mediterraneo dell'U73 e dell'U561, entrati da Gibilterra rispettivamente il 14 e il 15 gennaio; la situazione numerica rimase però invariata poiché, nel corso dello stesso mese, erano stati affondati l'U374 (silurato il 12 dal sommergibile inglese Unbeaten a Est di Capo Spartivento) e l'U577 (il 15), colpito con bombe di profondità a Nord Ovest di Marsa Matruh da uno "Swordfish" appartenente allo Squadron 815 della Fleet Air Arm. Sino ad ottobre non fu possibile dislocare in Mediterraneo ulteriori unità e, alla fine di settembre, solamente sedici battelli risultavano disponibili in seguito alla perdita, tra marzo e agosto, di altri sei; tuttavia, nonostante la riduzione nel numero, durante i primi tre trimestri del 1942 gli U-Boote del Mediterraneo continuarono a costituire una costante e concreta minaccia per le unità britanniche. Il 17 gennaio 1942 l'U133 affondò a Nord di Bardia il cacciatorpediniere inglese Gurkha, mentre l'11 marzo successivo l'incrociatore Naiad venne silurato e affondato 50 miglia a Nord della costa africana tra Marsa Matruh e Sollum dall'U565; simile sorte fu riservata, quindici giorni dopo, al cacciatorpediniere Jaguar, colpito dai siluri dell'U652 (Oblt. Fraatz) a Nord di Sidi Barrani. Il 16 aprile 1942, l'U81 del comandante Guggenberger si rese nuovamente protagonista di un'importante azione, questa volta nel Mediterraneo orientale, nel corso della quale fu affondata la petroliera inglese Caspia. Poche ore dopo, l'U81 colpì con il cannone di bordo la centrale elettrica di Haifa, causando notevoli danni.

 

Il 16 giugno l'incrociatore HMS Hermione venne affondato a Sud di Creta dall'U205 (Kptl. Reschke) durante lo svolgimento dell'operazione britannica "Vigorous". Alcuni giorni dopo (il 30), a Nord-Est di Alessandria, l'U372 (Kptl. Neumann) affondò la grossa nave appoggio sommergibili HMS Medway, la cui perdita risultò particolarmente grave anche per i novanta siluri che trasportava e di cui quarantasette poterono venire successivamente recuperati.

 

La portaerei HMS Eagle fu affondata l'11 agosto 1942 dall'U73 (Kptl. Rosenbaum), 65 miglia a Sud di Mallorca nel corso dell'operazione "Pedestal” I quattro siluri lanciati dall'U73 colpirono la Eagle sul lato sinistro e la portaerei, sette minuti dopo, si capovolse e affondò. Il rapido intervento dei caccia Laforey e Lookout, assistiti dal rimorchiatore Jaunty, permise di recuperare 789 naufraghi limitando così le perdite (160 uomini) tra i membri dell'equipaggio.

 

Nello stesso periodo non mancarono anche numerosi affondamenti di unità mercantili. Tra i sei U-Boote perduti sino ad agosto, l'U133 affondò il 14 marzo, per un errore di navigazione, su uno sbarramento minato tedesco posto a difesa del porto di Salamina. L'U573, danneggiato da aerei, riparò il 2 maggio a Cartagena (Spagna), dove venne internato; il 2 agosto fu venduto alla Marina spagnola e, ridenominato G 7, prestò servizio con l' "Armada" sino alla sua radiazione, avvenuta nel 1971.

 

Nel contempo, anche per razionalizzare l’impiego dei sommergibili tedeschi nel Mediterraneo, la 23a Flottiglia venne sciolta e i relativi battelli furono trasferiti alla 29a, il cui comando (maggio 1942) passò al c.c. Fritz Frauenheim già responsabile della 23a.

 

L'invasione anglo-americana del Nord Africa francese, iniziata con gli sbarchi in Marocco e in Algeria dell'8 novembre 1942, non colse del tutto impreparata la componente subacquea tedesca nel Mediterraneo: tra il 9 e l'11 ottobre erano transitati da Gibilterra i quattro battelli del gruppo "Tümmler" (U459, U605, U660 e U593) che, considerando l'affondamento dell'U559 avvenuto il 30 ottobre (in circostanze che consentirono agli inglesi di recuperare alcuni documenti segreti), portavano a diciannove il numero dei sommergibili a Est di Gibilterra. Inoltre, mentre i convogli degli Alleati già si avvicinavano ad Algeri, Orano e Bougie, altri sei sommergibili (U595, U617, U755, U596, U259 e U407) entravano in Mediterraneo tra l'8 e il 10 novembre; altri tre battelli avrebbero infine raggiunto la zona tra il 5 e il 9 dicembre.

 

Per contrastare gli sbarchi avversari, la Seekriegsleitung predispose il dispiegamento di tre linee difensive subacquee scaglionate tra Orano e Algeri composte, ciascuna, da cinque unità e denominate gruppi "Wal", "Hai" e "Delphin". Questa strategia portò, dal 10 al 13 novembre, all'affondamento di diversi mercantili. L'U431, fu particolarmente attivo contro il naviglio militare avversario e, nel volgere di tre giorni, affondò i cacciatorpediniere Martin (britannico, il 10 novembre) e Isaac Sweers (olandese, il 13).

 

Nel campo avverso, il dispositivo aeronavale degli Alleati stava progressivamente migliorando le proprie capacità antisom e, tra il 14 e il 17 novembre, cinque U-Boote (di cui quattro per attacco aereo) vennero  affondati nello stesso, cruciale tratto di mare (11). Tra questi l'U331 di von Tiesenhausen, il celebre affondatore della Barham, che, recuperato da un idrovolante inglese insieme ad altri sedici sopravvissuti, venne fatto prigioniero.

 

Alla fine del 1942, con 23 battelli, la Kriegsmarine allineava il più alto numero di unità operative raggiunto sino ad allora nel Mediterraneo e successivamente non più superato. Il 1943 iniziò con un "colpo doppio" realizzato dall'U73: il primo gennaio, il battello tedesco silurò nei pressi di Capo Falcon a Nord di Orano il "Liberty" americano Arthur Middleton che risultò, in tal modo, la prima nave statunitense affondata nel Mediterraneo da un sommergibile germanico. L'esplosione del Middleton, carico di munizioni, causò anche la contemporanea distruzione del grosso mezzo da sbarco LCI21, ormeggiato a fianco del mercantile da cui stava imbarcando munizioni.

 

Tra gennaio e dicembre del 1943 vennero inviati nel Mediterraneo undici ulteriori U-Boote, ma questi nuovi arrivi poterono solo parzialmente compensare le perdite che, nel corso dell'anno, assommarono a ben venti unità. Va inoltre considerato che il totale dei battelli operativi nell'area, eliminando dal conteggio le unità in trasferimento da e per le zone di agguato e quelle ferme per lavori, fu sempre abbastanza limitato. Il 21 marzo 1943, ad esempio, la situazione era così delineata:

 

- una unità (U81) in zona di operazioni nel bacino orientale;

 

- una unità (U593) in rotta di rientro a Salamina dal bacino orientale;

 

- quattro unità (U77, U380, U431, U561) in zona di operazioni nel bacino occidentale;

 

- una unità (U375) in rotta di trasferimento, probabilmente da Tolone, verso il bacino occidentale;

 

- unità in porto o ai lavori: sette alla Spezia (U73, U97, U371, U407, U565, U596, U755), due a Tolone (U458, U602) e due a Pola (U453, U617) (12).

 

In ogni caso, pur non potendo ormai contrastare efficacemente la sempre più preponderante presenza navale anglo-americana, nei primi sei mesi del 1943 gli U-Boote del Mediterraneo affondarono quattro unità militari e trenta mercantili, a riprova di una combattività mai venuta meno. Il 1° febbraio 1943, 45 miglia a Est di Tobruk, l'U617 (Kptl./t.v. Brandi) affondò il posamine veloce HMS Welshman, protagonista tra l’altro di numerose imprese di rifornimento di Malta e il successivo 22 giugno l'U593, a Nord della costa algerina, distrusse la nave da sbarco per carri armati LST333 dell'U.S. Navy. Nella zona di Capo Tenes, tra Orano e Algeri, vennero affondati numerosi mercantili e anche nel Mediterraneo orientale non mancarono simili successi.

 

Tra marzo e maggio del 1943, i sommergibili tedeschi affondati risultarono tre (U77, U303 e U602. Alla fine di agosto solamente 14 U-Boote erano presenti nel Mediterraneo e, al momento dello sbarco degli Alleati a Salerno (8/9 settembre), fu possibile inviare da Tolone in quella zona tre sole unità (U565, U593 e U616). In ogni caso, due dei tre battelli riuscirono a cogliere alcuni risultati: il "Liberty" W.W. Gehrard e il dragamine d'altura USS Skill, affondati dall'U593 il 21 e il 25 settembre, e il caccia USS Buck (DD420), il 9 ottobre dall'U616.

 

Nel secondo semestre del 1943, gli U-Boote affondarono otto unità militari e sedici mercantili, ma, anche in seguito alla mutata situazione strategica derivante dall'uscita dell'Italia dal conflitto, questi risultati non potevano più influire sugli sviluppi delle operazioni militari degli Alleati nonostante i battelli tedeschi iniziassero ad impiegare con successo siluri a guida acustica.

 

Otto sommergibili furono affondati tra luglio e dicembre del 1943. Sul finire del 1943, l'operatività degli U-Boote nel Mediterraneo centro-orientale risultò, per forza di cose, piuttosto ridotta ma sempre pericolosa. Le azioni più significative non furono molte: l'U453 posò un campo minato a Nord Est di Bari sul quale incappò il cacciatorpediniere inglese Quail che andò poi perduto il 18 novembre; lo stesso giorno, nel Golfo di Taranto, l'U81 silurò il mercantile inglese Empire Dunstan e il 28 novembre, a Nord di Apollonia (Cirenaica), l'U407 colpì con un siluro l'incrociatore inglese HMS Birmingham che, sebbene gravemente danneggiato, riuscì a rientrare ad Alessandria.

 

I 14 U-Boote presenti in Mediterraneo all'inizio del 1944 fronteggiavano ormai sempre più preponderanti forze aeronavali e la Seekriegsleitung fu quindi costretta a disporre il trasferimento dall'Atlantico di altri battelli che, tra gennaio e aprile, permisero di elevare in qualche misura il numero delle unità disponibili; tuttavia, gli affondamenti di un battello a gennaio e di altri sette tra marzo e aprile vanificarono anche questo sforzo.

 

Il celebre U81 dell’Ark Royal venne affondato a Pola il 9 gennaio 1944, durante un bombardamento effettuato da un centinaio di quadrimotori B-17 dell'USAAF; una simile sorte fu riservata all'U380 e all'U410 (distrutti a Tolone l'11 marzo nel corso di un altro bombardamento statunitense), nonché all'U421, irreparabilmente danneggiato il 29 aprile, anch'esso a Tolone.

 

Il 28 gennaio il comando dei sommergibili tedeschi in Mediterraneo passò dall'ammiraglio Kreisch, che sin dal gennaio 1942 dirigeva l'azione degli U-Boote in questo mare, al c.v. Werner Hartmann: quest'ultimo, su insistenza del Maresciallo Kesselring, l'11 febbraio dispose l'invio di alcuni battelli nella zona della testa di ponte di AnzioNettuno, ove venne colto ancora qualche importante successo. Il 15 febbraio l'U410 affondò a Ovest di Napoli la petroliera inglese Fort St. Nicholas e, tre giorni dopo, sempre nella stessa zona, distrusse l'incrociatore HMS Penelope. L'U230, il 16 e il 20 febbraio, silurò davanti ad Anzio le due unità da sbarco inglesi LST418 e LST305, affondandole; lo stesso giorno 20 vide ancora un successo dell'U410, che sempre al largo del litorale laziale distrusse la nave da sbarco americana LST348.

 

Il 30 marzo, una sessantina di miglia a Nord Est di Palermo, l'U223 affondò il cacciatorpediniere inglese Laforey, che navigava in formazione insieme al caccia Tumult e ai "destroyer escort" Hambledon e Blencathra. Immediatamente sottoposto ad un'intensa azione di caccia antisom da parte di queste ul­time tre unità, venne irreparabilmente danneggiato ed affondato con il lancio di numerose bombe di pro­fondità.

 

Nel frattempo, a partire dalla fine del 1943, le forze navali anglo-americane avevano messo a punto un nuovo metodo di caccia antisom noto come "swamp". La procedura operativa prevedeva che, nell'area ove si sospettava operasse un sommergibile nemico, venissero concentrati numerosi cacciatorpediniere e/o caccia di scorta, appoggiati da velivoli con specifiche capacità antisom: questo complesso di forze iniziava quindi a "battere" sistematicamente la zona al fine di costringere il sommergibile ad emergere per l'esaurimento della carica delle batterie o tentare un allontanamento notturno in superficie. Possibilità, peraltro, che dava poche vie di scampo al battello, sia in considerazione del notevole numero delle unità navali e degli aerei utilizzati per la caccia, sia per i mezzi tecnici (radar, sonar ecc.) sempre più sofisticati a loro disposizione. Nel maggio 1944, gli attacchi "swamp" portarono alla perdita di ben quattro battelli: l'U371 venne affondato a Nord dell'Algeria dai caccia di scorta Pride e Joseph E. Campbell (americani), Blankney (inglese) e Sénegalais (francese); tuttavia, prima di essere distrutto, il battello riuscì a danneggiare con un siluro a guida acustica il Sénegalais; l'U616, dopo aver danneggiato una petroliera americana e un trasporto inglese il 14 maggio, fu individuato, inseguito e ripetutamente attaccato (l'azione durò tre giorni!) da ben sette cacciatorpediniere statunitensi che, coadiuvati da aerei, riuscirono ad affondarlo a Est di Cartagena; analoga fu la sorte dell'U960 e dell'U453 rispettivamente a Nord di Algeri e a Nord Est di Capo Spartivento.

 

A fronte di queste perdite, ben pochi furono i successi conseguiti dagli U-Boote a partire dalla fine di febbraio 1944: solo quattro mercantili tra marzo e aprile. Nel mese di maggio, infine, i sommergibili della Kriegsmarine colsero gli ultimi tre successi della lunga guerra di attrito da essi sostenuta sin dal settembre 1941: il 5, a Sud dell'isola di Alboran, l'U967 affondò il caccia di scorta statunitense Fetcheler e il 9, nelle acque antistanti Palermo, l'U230 silurò e affondò il cacciasommergibili PC558 dell'U.S. Navy. L'ultimo affondamento in assoluto dovuto all'azione di un battello tedesco nel Mediterraneo fu quello ottenuto dall'U453 che il 19 maggio, due giorni prima di venire a sua volta affondato, silurò il mercantile inglese Fort Missinabie a Sud di Crotone.

 

Otto degli undici battelli ancora operativi alla fine di maggio erano dislocati a Tolone: cinque vennero gravemente danneggiati o distrutti nel corso di bombardamenti dell'USAAF su questo porto militare il 5 luglio (U586 e U642) e il 6 agosto (U471, U952 e U969). Il solo U471 poté essere recuperato nei primi mesi del dopoguerra ed entrò a far parte della Marine Nationale con il nome di Millé, pretando servizio sotto bandiera francese sino alla sua radiazione, avvenuta nel 1963. Gli ultimi tre U-Boote presenti a Tolone, ma danneggiati nel corso di altri bombardamenti aerei, furono autoaffondati dai loro equipaggi tra l'11 e il 21 agosto, nell'imminenza dell’occupazione della base francese che seguì di un paio di settimane gli sbarchi in Provenza (operazione "AnvilDragoon") del 15 agosto 1944.

 

Nelle acque dell'Egeo, infine, si consumò l'epilogo dell'attività degli U-Boote nel Mediterraneo. Il 19 settembre 1944 l'U407 venne affondato a Sud dell'isola di Milos dall'azione congiunta dei caccia Troubridge e Terpsichore (inglesi) e Garland (polacco); il 24 settembre, l'U565 e l'U596 ultimi superstiti dei 62 sommergibili tedeschi inviati nel Mediterraneo furono autoaffondati dai loro equipaggi a Skaramanga (Salamina), in seguito ai gravi danni riportati alcuni giorni prima durante un bombardamento aereo statunitense.

 

 

Va infine ricordato che numerosi U-Boote destinati al Mediterraneo andarono perduti nel corso del difficile e pericoloso attraversamento dello stretto di Gibilterra o che, più o meno gravemente danneggiati in quelle stesse acque, furono costretti a ritornare nelle basi francesi, abbandonando la missione assegnata.

 

Nel 1941 due unità vennero affondate nei pressi di Tangeri in dicembre, e altre cinque furono danneggiate in misura tale da dover rinunciare all'ingresso in Mediterraneo (20). Due sommergibili furono costretti a ritornare in Francia nel 1942 ed uno nel 1943, anno in cui due battelli furono affondati, sempre nei pressi di Tangeri, mentre si stavano dirigendo ad Est. Nel 1944, infine, tre ulteriori unità vennero affondate nei pressi di Gibilterra e di Tangeri.

 

 

Un consuntivo dell'attività dei sommergibili tedeschi nel Mediterraneo non può non tener conto delle condizioni di questo teatro di operazioni, particolari e del tutto diverse da quelle incontrate nell'Oceano Atlantico.

 

Le acque più trasparenti e spesso poco profonde, le condizioni meteorologiche decisamente migliori, le notti estive chiare e luminose e la quasi totale assenza di nebbia erano tutti fattori che giocavano decisamente a favore delle forze aeronavali antisom delle Marine anglo-americane creando, nel contempo, severe limitazioni all'operatività dei battelli. Se a ciò si aggiunge che nel Mediterraneo erano dislocate o transitavano aliquote di naviglio mercantile avversario decisamente meno consistenti che nell'Atlantico, riuscirà facile comprendere perché i sommergibilisti della Kriegsmarine non vedessero di buon occhio la destinazione ad Est di Gibilterra.

 

Cionondimeno, gli equipaggi dei 62 U-Boote destinati in Mediterraneo tra il 1941 e il 1944 conseguirono risultati di tutto rilievo che, in taluni casi (quali, ad esempio, gli affondamenti dell'Ark Royal e della Barham) sono entrati di diritto nel novero degli eventi navali più significativi del secondo conflitto mondiale. Il traffico mercantile degli Alleati, soprattutto nel 1942 e nel 1943, subì pesanti perdite ad opera di un pur ridotto numero di U-Boote che, con la loro sola presenza, resero necessario il mantenimento nel Mediterraneo di consistenti forze aeree e navali anglo-americane, il tutto a detrimento di altri settori operativi.

 

Tra l'ottobre 1941 e il maggio 1944, i battelli della Kriegsmarine operanti nel Mediterraneo affondarono 52 navi militari (tra cui 2 portaerei, una corazzata, 4 incrociatori e 12 cacciatorpediniere) per complessive 167.780 tonnellate di dislocamento (37 navi per 145.762 t sino all'8 settembre 1943). Nello stesso periodo furono affondate 117 unità mercantili e da pesca per un totale di 460.821 tonnellate di stazza lorda (95 navi per 330.621 tsl sino all'8 settembre 1943). Considerando che, tranne in pochi casi, il numero dei sommergibili effettivamente presenti in zona di operazioni raramente superò le sette/otto unità, tali risultati assumono valenze ancora più rilevanti.

 

Ulteriori valutazioni potrebbero scaturire dal confronto con l'analoga attività svolta in Mediterraneo dai 147 sommergibili italiani tra il 10 giugno 1940 e l'8 settembre 1943: sino all'armistizio, le unità della Regia Marina affondarono 10 navi militari per 23.356 t e 15 mercantili per 39.337 tsl. Nello stesso periodo, o meglio in oltre un anno in più, un numero più che doppio di battelli italiani affondò quindi oltre l’80 % in meno di navi nemiche rispetto a quelli tedeschi. Va infine osservato che, mentre poco meno della metà dei sommergibili italiani che operarono nel Mediterraneo vennero affondati, tutti i 62 battelli della Kriegsmarine andarono perduti.

 

Non sarebbe però giusto addossare questa disparità di cifre ai comandanti e agli equipaggi dei sommergibili della Regia Marina che, con mezzi non sempre all'avanguardia, operavano nell'ambito di istruzioni operative che risentivano di una dottrina d’impiego delle forze subacquee ormai superata e che solo nell’ultimo anno di guerra poté essere infine adeguata. I battelli tedeschi del tipo "VII” – in Mediterraneo operarono 4 VII B e 58 VII C - erano inoltre unità di migliori prestazioni e di caratteristiche tecniche più avanzate al confronto di quelle di molti sommergibili italiani dell'epoca. I comandanti degli U-Boote dislocati nel Mediterraneo, infine, "importarono" in questo teatro d’operazioni anche l'esperienza acquisita in Atlantico e più moderne tattiche d'impiego dell'arma subacquea.

 

 

Bibliografia

 

Bagnasco, E.: I sommergibili della seconda guerra mondiale, Albertelli, Parma, 1973

 

Brown, D.K.: Warship losses of World War Two, Londra, Arms and Armour Press, 1995

 

Jordan, R., The World's Merchant Fleets 1939, Londra, Chatham Publishing, 1999

 

Mallmann Showell, J.P.: The German Navy in World War Two, Annapolis, USNI, 1979

 

Mallmann Showell, J.P.: U-Boats under the Swastika (2nd ed.), Annapolis, USNI, 1987

 

Rossler, E.: The U-boats, Londra, Arms and Armour Press, 1981

 

Santoni, A. e Mattesini, F.: La partecipazione tedesca alla guerra aeronavale nel Mediterraneo, Roma, Edizioni dell'Ateneo e Bizzarri, 1980

 

Tarrant, V.E., The Last year of the Kriegsmarine, Londra, Arms and Armour Press, 1996

 

Taylor, J.C.: German Warships of World War Two, Londra, Ian Allan, 1977

 

Westwood, D.: The Type VII U-Boat (serie "Anatomy of the ship"), Londra, Conway, 1982

 

 

Risorse internet

 

http://www.uboat.net/

 

http://www.uboatarchive.net/

 

http://www.uboataces.com/

 

http://www.betasom.it

 

www.betasom.it

 

Usando un termine di origine navale, www.betasom.it è il “codice di chiamata radio” (ossia l’indirizzo internet) del Forum Sommergibilistico Betasom, fondato nel 2004 da un piccolo gruppo di appassionati di storia e attualità navali, allo scopo di coordinarne le attività nell’ambito dell’organizzazione e dello sviluppo di giochi di simulazione sommergibilistica, con particolare attenzione ai tornei svolti “in rete”.

 

La denominazione Betasom riprende quella del "Comando Superiore delle Forze Subacquee italiane in Atlantico", costituito a Bordeaux sin dal settembre 1940.  Gli accordi tra la Regia Marina e la Marina Tedesca (Kriegsmarine) prevedevano in­fatti la partecipazione italiana alla guerra sottomarina in Atlantico, e la scelta di Supermarina per una base logistico-operativa per le proprie unità subacquee cadde sul porto fluviale di Bordeaux, posto sul lato sinistro della Garonna a una cinquantina di chilometri a monte della via fluviale d'accesso al Golfo di Biscaglia, originata dalla confluenza della Garonna e della Dordonne nell'ampio estuario della Gironda. Dalla "B" ("Beta"), lettera iniziale di Bordeaux, venne tratta la denominazione di "Betasom" (Bordeaux – Comando sommergibili) che, da allora, non soltanto nei documenti ufficiali – ma anche nell' “immaginario collettivo” – avrebbe contraddistinto la base atlantica dei battelli della Regia Marina.

 

Negli anni, Betasom è cresciuta dimensionalmente e qualitativamente e il forum ha avuto quindi un grande sviluppo, aprendo numerose nuove sezioni riferite alla storia navale, alla tecnica costruttiva e operativa dei sommergibili, all’attualità delle moderne Forze Navali, al collezionismo, alla pubblicistica specializzata… e molte altre ancora. Oggi, il forum conta quasi 3.000 iscritti!

 

Di Betasom fanno parte non soltanto appassionati e studiosi della materia, ma anche uomini della Marina Militare Italiana: personale in servizio che costituisce il “valore aggiunto” di questa “Base Atlantica” virtuale e che ne rappresenta  l’indispensabile e insostituibile legame con la nostra Marina in generale e la sua componente sommergibilistica in particolare.

 

Questo legame ha portato, nel tempo, all’organizzazione di visite a Comandi e Unità della Marina Militare per gli iscritti al forum, come pure alla presenza qualificata di Betasom a mostre, eventi e convegni in cui è stata direttamente coinvolta a fianco della Marina e dei Gruppi ANMI.

 

A questo proposito ricordiamo – solo per il più recente passato – che Betasom ha collaborato alle celebrazioni organizzate a giugno 2008 da Maridipart Ancona per ricordare la figura del c.c. Salvatore Pelosi, decorato con Medaglia d’Oro al Valor Militare per l’eroica azione del sommergibile Torricelli, da lui comandato in Mar Rosso, contro preponderanti forze nemiche, il 23 giugno 1940.

 

Più recentemente, all’inizio di ottobre 2008, Betasom è stata tra i principali collaboratori nell’organizzazione della Mostra “Sommergibili in Adriatico”, allestita a Ravenna dall’ANMI con il contributo della Marina Militare Italiana per ricordare il centenario della nascita di un’altra Medaglia d’Oro del sommergibilismo italiano, il comandante Luigi Longanesi Cattani che – in Atlantico durante la seconda guerra mondiale – fu tra i sommergibilisti italiani che colsero i migliori risultati nella guerra subacquea al traffico nemico.

 

 

Come molti ricorderanno, lo scorso gennaio, www.betasom.it ha tenuto – proprio a Rapallo – il suo primo convegno ove sono stati presentati gli iniziali risultati delle ricerche e delle immersioni sul relitto del “sommergibile di Portofino”: un grande successo per una manifestazione che ha visto partecipare un pubblico di appassionati, composto non soltanto dagli iscritti al forum, ma anche da numerosi “esterni” e studiosi della storia e della tecnica navali.

 

 

 

www.betasom.it partecipa quest’anno, in forma ufficiale, all’organizzazione dell’edizione 2008 della Mostra “Mare Nostrum”, e siamo certi che ciò rappresenti l’inizio di una collaborazione ampia e proficua, destinata a durare negli anni, con lo sviluppo di tematiche e approfondimenti storico-tecnici di sicura qualità.

 

Maurizio BRESCIA

 

16 febbraio 2013

 

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