Trent'anni di TECNOLOGIA Portuale a Genova
TRENT'ANNI DI TECNOLOGIA PORTUALE
Tra le pieghe dei ricordi personali.
Dai fischi del pilota…alla Torre di Controllo del porto.
Veduta del Porto di Genova
All’inizio del 1968, quando la nave in arrivo si presentava tra Punta Vagno ed il fanaletto rosso della diga, il pilota attirava l’attenzione con una serie di fischi, poi ne scandiva un certo numero per indicare quanti rimorchiatori avrebbe “attaccato”. Del VHF, sulle barcacce del porto, se ne parlava soltanto per sentito dire.
Prima di prendere il cavo, facevo un giro intorno alla nave e, da sottovento al ponte di comando, ascoltavo dalla viva voce del pilota il posto d’ormeggio e dove intendeva girare la nave. Era un doveroso inchino ed una pura formalità, perchè ogni pilota aveva il suo stile ed il suo ritmo, persino nel presentarsi sull’imboccatura, il che anticipava la sua personale tattica di manovra, il resto era soltanto l’adeguamento ad un dejà vu.
Siamo nel 1938 una squadra di piloti esce incontro alle navi in arrivo a Genova
I piloti erano molto simili tra loro nell’aderire alla stessa scuola di pilotaggio, nel senso che le manovre, pur sviluppandosi tutte in modo diverso, avevano dei modelli standard, tuttavia, qualche volta poteva accadere di partecipare ad una variazione sul tema, infatti, le situazioni d’emergenza non mancavano mai, ma erano le eccezioni fuori della routine.
Ogni pilota aveva la sua “guida” più o meno nervosa, una forte personalità ed un particolare senso marinaresco. Alcuni erano già anziani e fra loro non mancava chi si era lasciato alle spalle dolorose avventure belliche e grandi fatiche postbelliche….
Confesso di non avere mai considerato, in quegli anni, il rimorchio ed il pilotaggio, attività molto distinte tra loro e quando rimorchiavo una nave in altura, non solo ne diventavo il comandante naturale, ma il più delle volte la pilotavo anche nei fiumi e spesso la ormeggiavo e disormeggiavo dalla rada o da un piccolo porto, dove neppure esisteva il servizio di pilotaggio.
Pensavo, realmente, di essere già “dentro” a quella specializzazione che ritenevo, erroneamente, ripetitiva o tutto al più complementare a quella che stavo esercitando, e che tanto mi appassionava, forse per le variabili connesse alle numerose ed impegnative attività collaterali: altura, disincagli, assistenze, salvataggi, operazioni antincendio, oltre che portuale, naturalmente.
Due Liberty a rimorchio del Vortice da New York a Castellon de la Plana
Nel 1970 a New York, in occasione del “rimorchio oceanico” di due Liberty da Newark alla Spagna, i capitani dei due rimorchiatori della Mc Allister’s, che tenevano affiancate le navi, usavano alternarsi sul M/r Vortice per pilotare il convoglio dalla Reserve Fleet, per sette ore, sino alla foce dell’Hudson.
Mi trascinai d’allora la convinzione che le due attività fossero talmente simili da essere anche intercambiabili, quantomeno nel “nuovo mondo”.
I piloti del porto di Genova, a giudicare da quanto si sentiva nello shipping internazionle, lavoravano con molta professionalità ed “il loro miglior maestro” - si diceva allora – “era il vento, che riuscivano a farselo amico, con molta abilità.”
Questo giudizio molto lusinghiero, per la verità, era esteso anche ai comandanti/Rr, che erano nati e cresciuti nel porto della tramontana e prima d’essere utili alla nave, imparavano a governare il proprio mezzo con grande maestria e con tutti i venti. Sicuramente, a quei tempi, la cosiddetta gavetta era molto più lunga per un comandante/Rr, piuttosto che per un pilota del porto.
Ai comandanti/Rr, erano più graditi i piloti con spiccato autocontrollo e soprattutto chi era rispettoso delle difficoltà oggettive degli altri partecipanti alla manovra.
Per esempio, erano apprezzati i piloti che fermavano l’elica quando il rimorchiatore prendeva il cavo di poppa, e non accostavano la nave quando l’altro rimorchiatore si trovava a due metri dal tagliamare.
Fase molto delicata. Il rimorchiatore, tramite il “sacchetto”, ha stabilito il contatto con la nave. La manovra è ravvicinata e si svolge in velocità.
Col dovuto rispetto e con qualche diffidenza, i piloti del porto erano classificati e misurati sulla scala delle velocità, proprio come il vento; i più veloci erano considerati i più “pericolosi” in tutti i sensi, e dal rimorchiatore si capiva benissimo fino a che punto il vento giustificasse un’andatura eccessiva.
Nel periodo precedente l’introduzione del “modello Tractor” nel porto di Genova, la manovra portuale era molto condizionata dalla versatilità, potenza, lunghezza e manovrabilità delle barcacce disponibili; fattori che incidevano notevolmente sull’andamento dell’ormeggio, a cominciare dal posto in cui girare la nave, nel controllo del convoglio in canale, sino all’attracco vero e proprio.
Anni ’60. Una decina di rimorchiatori all’ormeggio di Ponte Parodi
E’ forse opportuno ricordare che a partire dagli anni ’60, sino alla fine degli anni ’80, le manovre in porto si facevano con quaranta rimorchiatori, di cui una buona parte era composta di mezzi antiquati e molto diversi tra loro. Il comandante, chiamato con un po’ di malizia barcacciante, prendeva sempre la stessa barca e ne diventava l’unico interprete. Nel tempo, questa consuetudine o necessità, aveva creato nei piloti l’abitudine di chiamare il rimorchiatore con il nome del comandante.
f.5 Un’altra immagine di Ponte di Parodi con la sua varietà di rimorchiatori in attesa d’entrare in servizio.
Della nave in arrivo, in quegli anni, m’interessava cogliere subito:
1) La nazionalità dell’equipaggio.
Dovevo calcolare, a priori, il tempo in cui dovevo rimanere, in posizione molto “scomoda”, sotto la prora oppure nella scia dell’elica, nell’attesa del cavo di bordo. I nordici erano i più affidabili. Gli indiani e i cinesi, i più lenti.
Il cavo della nave sta per essere messo al gancio del M/r “Canada”. In questa fase, la scia della nave tende ad allontanare il rimorchiatore.
Il cavo della nave sta per essere messo al ganci del M/r “Canada”. In questa fase, la scia della nave tende ad allontanare il rimorchiatore.
2) La bandiera e la Società armatrice.
Dalla tradizione marinara della nave sarebbe dipesa la bontà del cavo da rimorchio, che doveva essere adatto al peso della nave, al vento ed a quel tipo di manovra. Spezzarlo, significava spesso essere responsabile di una frustata che poteva uccidere all’istante marinai della nave e del rimorchiatore, non solo, ma poteva compromettere anche il risultato della manovra alla presenza d’altre navi in manovra, di cui s’ignorava la natura del carico.
3) La pericolosità della scia di scarico dell’elica, per non farmi travolgere.
Questo terzo punto, che ritenevo molto delicato, dipendeva:
a) dalla potenza della macchina della nave.
b) dal tempismo o dall’eventuale distrazione del pilota.
La smacchinata è partita. Il rimorchiatore si è defilato.
La sicurezza del rimorchiatore e del suo equipaggio, chiuso in acque ristrette tra due pontili ed una calata, dipendeva dalla gestione di questi elementi. Una smacchinata di dieci/ventimila cv., sempre involontaria e senza preavviso, poteva causare il rovesciamento del gozzo degli ormeggiatori, impegnato vicino all’elica, oppure rompere il cavo e far girare il rimorchiatore su se stesso, senza controllo, proprio come una trottola. In entrambi i casi, le conseguenze di simili accadimenti, obiettivamente rari, facevano sempre discutere, anche animatamente, le parti coinvolte.
A volte poteva anche succedere che il comandante della nave, all’insaputa del pilota, toccasse la macchina per aggiustare la posizione a manovra quasi conclusa, e rovinava tutto incappando nella situazione appena descritta.
Questo fatto, non del tutto ameno, dovrebbe far riflettere sulla necessità che soltanto il pilota, conoscitore dell’ambiente, oltre che dei problemi di manovra, dovesse dirigere egli stesso, sempre, la manovra.
Da comandante/Rr, m’interessava sapere, inoltre, se la nave era dotata di turbina oppure di motore diesel. Spazio e tempo d’arresto della nave erano molto condizionati da questo fattore tecnico, essendo la turbina lentissima e poco potente in manovra, rispetto al motore tradizionale.
Dal punto di vista dinamico della manovra, quando la nave arrivava sul posto della “girata”, il rimorchiatore doveva trovarsi, nel momento giusto, perfettamente ad angolo retto, per poterla piegare senza farla avanzare. Questa fase esprimeva la bontà o meno della coordinazione tra il pilota ed i rimorchiatori, quindi incideva sull’armonizzazione stessa della manovra.
Il rimorchiatore, qualora avesse anticipato il piegamento del rimorchio rispetto all’arresto stesso della nave, rischiava non solo il trascinamento, ma anche il rovesciamento.
Da comandante/Rr, non ero “strettamente” legato agli aspetti tecnologici più o meno avanzati della nave da rimorchiare. Mi occorrevano, tuttavia, le giuste informazioni per potermi regolare durante la manovra, nei limiti appena accennati.
Al contrario ero direttamente coinvolto nella tecnologia di bordo del rimorchiatore.
In quegli anni esistevano ancora rimorchiatori a vapore, imposti per legge, in quanto fornitori proprio di vapore, quand’era necessario a salpare le ancore di navi in disarmo. I loro nomi erano: Iberia-Olanda-Svezia-Perù-Tripoli-Forte.
Esisteva inoltre un rimorchiatore USA:
Algeria, che partecipò allo sbarco degli Alleati in Normandia e proseguì la carriera a Genova.
Dalmazia ed il piccolo Bengasi, di costruzione in legno.
Classe Francia (3) - erano forti e pesanti.
Classe Capo Testa (3) - erano maneggevoli, forti, ma leggeri.
Classe Derna (2) - piccoli e versatili, furono ristrutturati e potenziati (1500 cv,).
Libano, Danimarca e Britannia - medio-piccoli e superati.
Grecia, Castelsardo e Alghero – buoni e adatti al medio tonnellaggio.
Istria-India-Panama, conosciuti come “rotori” (sist. cicloidale). Erano molto richiesti per la loro maneggevolezza e versatilità.
Brasile-Nuraghe-Torregrande-Casteldoria-America-Dalmazia-Norvegia-Ariel-Espero formavano la squadra dei rimorchiatori d’altura, insieme al Vortice ed al Ciclone. Quest’ultimi non lavoravano in porto.
Si era ancora lontani dall’avvento del già accennato “modello unico” di fine millennio, e capitava di dover lavorare, nello stesso giorno, con il Forte, per poi passare ad un Rotore ed infine al Torregrande, come successe anche al sottoscritto. Questo rappresentava un aspetto tipico e non sempre facile di quella professione.
Potenza, manovrabilità, eleganza. Con l’avvento del “Modello Tractor”, il servizio di rimorchio nel porto di Genova si è allineato allo standard dei maggiori porti del mondo.
Il doversi adattare ai cosiddetti “salti”, era un esercizio scomodo, ma anche molto gratificante. Quel tipo d’allenamento mi fu utile in seguito, quando da pilota non incontrai grandi problemi nel manovrare navi piccole che abitualmente cercavano di non prendere il rimorchiatore, neppure con vento forte.
Da pilota del porto… Nel giugno del 1975, quando cominciai l’anno da allievo pilota nel porto di Genova, paradossalmente, mi si aprì uno scenario completamento nuovo. Il fatto mi sorprese non poco, perché negli otto anni precedenti, dalla piccola tuga del rimorchiatore che comandavo, ebbi modo di studiare, molto accuratamente, anche nei dettagli, il comportamento dei piloti del porto, ogni giorno, durante le tante manovre d’ormeggio e disormeggio che si facevano allora.
Presto mi resi conto che, pur partecipando alla stessa manovra, il pilota vedeva la nave da un’altra prospettiva, senza dubbio più complessa.
Per esempio, quando mi avvicinavo alla nave, cercavo già di capire dal vetro della pilotina, se aveva un buon assetto, se prendeva vento, se l’elica era immersa, ma soprattutto, da un’occhiata rapida al pescaggio, cercavo di prevedere il suo spazio d’arresto. Per altre informazioni andavo a naso…, già! Proprio così!
Entrato, infatti, negli alloggi della nave, in base all’odore, alla luce ed ad altri dettagli, capivo, indipendentemente dalla bandiera più o meno di comodo, se l’equipaggio aveva una qualche tradizione marinara. Questo elemento, il più delle volte era importante per prefigurarmi l’andamento della manovra.
Giunto poi sul ponte di comando, incontravo il comandante e, nel mio computer cerebrale, scattava l’input più importante. In quel momento ero già in grado di sommare quelle informazioni che mi permettevano di accelerare la manovra oppure di rallentarla, in quanto già prevedevo tra quanto tempo e dove, l’equipaggio sarebbe stato pronto a dare i cavi ai rimorchiatori a prora e a poppa.
La velocità della manovra era anche in funzione, del traffico in corso, delle “mani chiamate dei portuali” in banchina, ma soprattutto dipendeva dalla direzione e forza del vento di giornata. Con un po’ d’esperienza capii che la buona riuscita della manovra dipendeva soprattutto da come l’avevo iniziata, già un miglio fuori le dighe.
Durante l’avvicinamento all’imboccatura, ritenevo importante impossessarmi di un’altra preziosa infomazione: i nomi dei comandanti/Rr che mi avrebbero “attaccato” ed assistito in manovra. Uomini e mezzi avevano caratteristiche che andavano accettate, interpretate e sfruttate al meglio.
Di quell’ambiente conoscevo la forza e la debolezza e, pur stimando la professionalità di quasi tutti i miei ex-colleghi, decidevo dove dargli il cavo, se in avamporto, dopo aver portato in accelerazione la nave bene al vento, oppure se non era il caso, davanti alla strega, (zona Fiera) nella bonaccia, dopo aver rallentato.
Da pilota, quindi, sapevo che la manovra andava pensata e programmata con largo anticipo, più di quanto ritenessi dal rimorchiatore. In questo senso mi occorrevano più informazioni, non solo legate al traffico in corso, ai servizi disponibili, ma anche alla situazione delle altre navi sul posto d’ormeggio a me destinato.
Da pilota, dovevo affrontare, per ogni nave, il problema della biscaglina e quando le onde erano alte cinque o più metri, salire e scendere da bordo costituiva un grosso problema personale da risolvere. Non pochi furono i piloti che, sottovalutando qualche dettaglio, caddero in mare, sia in porto che in navigazione.
….una volta saliti e scesi da bordo!
Il problema era tanto importante e personale che in venticinque anni di servizio, non mi sono mai sognato di fumare una sigaretta, né di dormire meno di sei-sette ore per notte. Le condizioni fisiche, che avevo del tutto trascurato quando ero comandante/Rr, sono diventate, da pilota portuale, il requisito primario per poter svolgere l’attività che, secondo i vecchi piloti” …”era la più bella del mondo, una volta saliti e scesi da bordo!”
Questa presa di coscienza, che ovviamente si affinò con gli anni, mi costrinse a considerare il pilotaggio una specie di missione, facendomi spesso sentire un monaco in ritiro permanente.
Da comandante/Rr avevo quindi una visione parziale della manovra, sia come posizione scelta nella manovra, sia come prestazione offerta sotto la direzione del pilota. Ciò non voleva significare distacco dalla manovra, al contrario, il cavo da rimorchio, come un vero cordone ombelicale, mi trasmetteva ed amplificava il passaggio di tensione, di forza, di vibrazioni, di pulsazioni, di paura negli sbandamenti fuori controllo, di forte timore dinanzi agli sfilacciamenti dei legnoli che preannunciavano la possibile rottura.
Potrei raccontare di tante emozioni di quegli anni, legate per lo più ad incidenti, incendi, salvataggi ecc… che non ho certo dimenticato, e che semmai, da pilota, ho aggiunto a nuove esperienze, di diverso calibro adrenalinico, come il fermarsi con la prua o con la poppa di una nave a pochi centimetri da una banchina…il che non aveva proprio l’effetto di un calmante.
Indimenticabile fu, ad esempio, quel colpo d’adrenalina, per ciò che mi capitò su una nave in arrivo, quando un’ufficiale inglese, stranamente senza flash-light, mi accompagnò in coperta, facendomi attraversare un boccaporto semiaperto che non vidi e che centrai in pieno. Mi salvò l’istinto o qualcos’altro… per cui mi trovai sospeso, sui gomiti e con il resto del corpo penzoloni sul cielo di una stiva vuota…
E con quale leggerezza volammo, con l’amico Nanni Santagata, su un’onda che ci depose incolumi, in coperta, senza essere passati dalla biscaglina…di una nave che rollava “alla gran puta”!!
Incredibile! Fu quella volta che, avviandomi dal ponte di comando verso la biscaglina, m’imbattei in un commando (israeliano) armato fino ai denti, che mi strattonò puntandomi le armi per non avermi riconosciuto…
Ma ancora oggi ricordo come un incubo, quella gelida mattina invernale, nella rada di Voltri, quando mi trovai appeso a metà della fiancata di un’altissima petroliera (vuota), mentre il vento attorcigliava la biscaglina che era senza spreaders, e la pioggia ghiacciata mi aveva paralizzato le mani, e non c’era modo né di salire e né di scendere…
Da pilota, tuttavia, ho scoperto un altro aspetto delicato del pilotaggio: il rapporto psicologico con il comandante della nave. L’esperienza mi ha insegnato che questo “contatto” o era addirittura liberatorio, oppure sofferto da parte del comandante.
La scuola inglese, da questo punto di vista, era molto pragmatica nel sostenere che:
“il peggior pilota è sempre più affidabile del migliore dei comandanti, il quale non può avere, in nessun caso, un’approfondita conoscenza del mondo portuale che lo ospita in un determinato momento, dove altri soggetti navali perseguono lo stesso scopo.”
Dalla bontà del rapporto instaurato tra questi due personaggi, dipendeva, in ogni caso, il risultato della manovra. Al contrario, dalle incomprensioni che potevano sorgere sul ponte di comando, per differenti visioni della manovra, a volte si ottenevano pessime manovre.
Poteva succedere che il comandante, stanco del viaggio ed innervosito a causa del ritardo accumulato, facesse ricadere il proprio malumore sul pilota, che non sempre sapeva incassare il colpo e qualche volta dimenticava di dover essere sempre un “gentleman”, retribuito per un servizio alla nave, e…ogni tanto la manovra perdeva, temporaneamente, il suo naturale conduttore…
Nella gran maggioranza dei casi, comandante e pilota si comportavano da veri professionisti, ben consci d’avere una storia millenaria in comune e di venire da lontano, insieme, tenendosi per mano, nel superare tutte le difficoltà psicologiche, ambientali e tecnologiche.
Molti erano i casi in cui, tra comandante e pilota nasceva una profonda amicizia, favorita dalla reciproca stima, cultura e nazionalità. Nella vita media lavorativa di un pilota del porto di Genova, il numero di manovre si aggirava sulle trentamila, ed era intuibile quanto egli doveva atteggiarsi ad abile diplomatico e cittadino del mondo.
Tra i piloti si raccontava che - i danni di manovra avvenivano, il più delle volte, quando comandante e pilota erano stati compagni di scuola o erano molto amici...- Ovviamente si alludeva alla loro scarsa concentrazione. Era vero! In tutte le manovre, anche la più semplice, era proibito deconcentrarsi e non prendere visivamente atto delle continue variazioni di posizione della nave.
Da comandante/Rr, non ricordo d’aver mai preso in considerazione gli aspetti psicologici ed il loro possibile modo d’influenzare una manovra. Sicuramente durante le mie esperienze in altura, dovevo regolarmente servirmi del pilota portuale locale, il quale però si limitava a darmi le informazioni nautiche e del traffico portuale, essendo la manovra del rimorchiatore molto personale e compenetrata nel modo d’essere e di lavorare del suo comandante.
A proposito di turbine…
I giovani e forti piloti dei cacciabombardieri TOMCAT dell’USAF, quando di notte atterravano manualmente sulle portaerei, subivano forti sbalzi di pressione, ed arrivavano a 250 battiti cardiaci, rischiando infarti e svenimenti.
Certi raffronti potevano apparire impropri, tuttavia, pensavo che se mi fossi sottoposto alle stesse misurazioni, durante certe entrate notturne all’Italsider, le mie pulsazioni non potevano rivelarsi molto diverse da quelle dei piloti militari summenzionati.
Da pilota, la vecchia turbina era una specie di “maledizione” che durava dal momento dell’imbarco sino alla fine della manovra. Lenti erano gli avviamenti, scarsa la potenza, lunghissimi gli spazi d’arresto e quando la nave era in banchina, avendo sempre l’elica in movimento, era un tormento bloccarla in posizione. Difficile era il controllo di grandi petroliere o carboniere, specialmente alla presenza di pessime condizioni meteo.
Mi riferisco, per esempio, all’entrata, sempre dopo la mezzanotte, di una (delle tante) carboniera a turbina, mediamente lunga 250 metri, che doveva entrare, ad ogni costo, due o tre volte la settimana, anche alla presenza di fortissime sciroccate che facevano aumentare la velocità di 3 o 4 nodi, oppure di certe libecciate che la schiacciavano contro la diga. L’imboccatura era così stretta e poco illuminata che ricorrevo alle luci di posizione dei rimorchiatori, piazzati in mezzo al canale, per avere un riferimento.
Entrata di una nave all’Italsider con mare al traverso.
Durante l’avvicinamento, appena fermavo la turbina, la nave si abbatteva e per tenerla parallela alla diga, sull’asse dell’entrata, dovevo:
-Imboccare il canale con la marcia avanti.
-Aumentare la velocità.
-Entrare completamente.
-Fermare la turbina.
-Avviarla e metterla tutta indietro.
-Dare i cavi ai rimorchiatori e sperare, con la scarsissima potenza a disposizione, che il Signore ci donasse qualche cavallo in più per fermarla nello spazio residuo di uno scafo.
-La provvidenziale e qualche volta eroica prestazione dei rimorchiatori era, di solito, decisiva per un buon finale del solito film…
E’ inutile dire che le pruate, forti o leggere, contro la banchina non mancarono mai! E’ inutile dire che alcune volte furono colpite le gigantesche gru del prolungamento e l’impianto-Italsider rimase “limitato” per mesi. E’ inutile dire che n-volte le navi a turbina si fermarono ad un metro…dagli impianti.
Da comandante/Rr, avevo già partecipato molte volte a quell’infernale esperienza, sempre alle due di notte, e ricordo benissimo d’aver salvato la mia parte di prue; ma non sempre capivo l’abbrivo eccessivo e immotivato che mi costringeva ogni volta a mettermi a spring a tirare, a volte sino alla rottura del cavo tra scintille e bestemmie.
Da pilota, poi, sono stato in grado di darmi tutte le risposte…del caso. Eccetto una, quella principale:
“Perché si entrava sempre a quell’ora ed in quelle condizioni di tempo?”
Si diceva che, a causa d’eventuali ritardi della nave, i dirigenti erano costretti a fermare gli impianti dell’Italsider. C’erano di mezzo i turni degli operai e quindi la loro occupazione. Per le petroliere del Porto Petroli di Multedo, si diceva invece che il Paese rischiava il black-out energetico.
A mio giudizio, il senso o il nonsenso di questo fenomeno molto italiano, non andava ricercato nell’intelligenza o nella stupidità di chi si trovava ad operare in quel periodo, ma se proprio dovevo puntare un dito, allora non avevo il minimo dubbio nell’affermare che le responsabilità andavano ricercate nella classe politica del decennio precedente, che non era stata capace di prevedere il gigantismo navale e, di conseguenza, neppure l’adeguata tecnologia delle strutture portuali atte ad ospitarlo. Ai poveri cristi non rimaneva che porvi rimedio secondo il vecchio detto “fare le nozze con i fichi secchi e… molti cardiotonici!”
Per pura informazione, vorrei solo aggiungere che, statistiche alla mano, i piloti portuali di tutto il mondo, sono soggetti all’infarto del miocardio, purtroppo, dalle ultime rilevazioni, pare che i dati siano tuttora in salita.
In questo senso il tributo pagato dai piloti del porto di Genova era noto nell’ambiente, così com’era ben noto che altre manovre portuali, della mia epoca, richiedessero un cuore d’acciaio.
Una manovra sofferta… a causa di un residuo di vecchia tecnologia!
Navi a vapore con interni di legno e lucidi ottoni, lente e silenziose come vele d’altri tempi, sfidavano ancora le potenti e veloci containers, dotate di bowthruster e spaziali consolle, collocate al centro dei ponti di comando, sempre più simili ad aerei.
La piccola storiella che mi accingo a raccontare, più d’ogni considerazione teorica, può esprimere il senso del divario tra due tecnologie che hanno convissuto nella stessa epoca, definita ormai tecnologica, ancora per molti decenni.
Nel 1975, durante il mio periodo d’allievo pilota, circolavano ancora per i sette mari vecchie navi a vapore, per la verità in numero assai limitato. Ne conoscevo alcune per averle attaccate con i rimorchiatori in porto, ma ne ignoravo le qualità manovriere e soprattutto la potenza.
Una mattina, con vento fresco di tramontana, mi trovai insieme al pilota G. Salomone a bordo di una carretta greca di 10.000 tonnellate, in partenza da calata Bettolo. La nave, già scostata dal vento, aveva anche la prora in direzione dell’uscita di levante.
Il pilota chiese al comandante il permesso di lasciarmi manovrare sotto la sua responsabilità. Com’era suo costume, il buon Giovanni abbandonò il ponte di comando e se n’andò sull’aletta. In pratica mi lasciò solo, dicendomi soltanto di fare molta attenzione alla manovra. Forte della mia esperienza portuale non riuscivo, in tutta onestà, a classificarla come una manovra complicata.
Con eccessiva disinvoltura, diedi il “molla tutto da terra”. Mi feci allargare un po’ di più dal rimorchiatore di prora e poi li mollai entrambi, per avere l’elica libera e poter accelerare, con il vento al traverso, nella zona del taglio di Calata Canzio, che all’epoca era molto più stretto.
Era la prima volta che manovravo una vecchia nave a vapore, vuota e trasandata come una vecchia tramp d’altri tempi. Nei due mesi di tirocinio d’allievo, infatti, mi ero esercitato soltanto su navi moderne, potenti e sopratutto dotate di timoni compensati, ad ampio settore.
Nel momento in cui notai “cadere” eccessivamente la prora, diedi l’ordine al timoniere: “tutto a sinistra”, ma la nave rispose come s’avessi detto “5° a sinistra”. Ripetei l’ordine, ma la resa era quella… La stessa cosa successe quando aumentai la potenza della macchina alternativa. La nave aveva una limitatissima potenza, un abisso, rispetto ad una nave moderna di pari stazza. Ormai avevo liberato i rimorchiatori, credendo che potessero ostacolarmi la manovrabilità …
La situazione era disperata. Si scivolava dolcemente, di pancia, verso la diga. Quando pensai di dare fondo l’ancora, era ormai troppo tardi.. “la mia carriera finisce qui, oggi!!” Pensavo disperato. Ma il buon Giovanni, memore delle sue esperienze personali, aveva già bloccato, dall’aletta sottovento, un “rotore” che stava rientrando alla base, e gli fece segno di mettersi a spingere a centro-nave.
Nonostante la provvidenziale spinta di Stea Mora, passammo talmente vicino al taglio della Canzio, da poter contare le gritte sul lato della Volpara.
Giunti in avamporto, Salomone entrò in timoneria e non disse nulla. Fui io stesso a chiedergli perchè mi avesse abbandonato….
“Io ti avevo avvertito” – disse con la sua celebre calma olimpica - che non era una manovra facile. Non sentirti in colpa! Hai fatto in ogni caso una buon’esperienza. Credo che tu abbia imparato moltissimo dagli errori che hai fatto… molto di più di qualsiasi spiegazione da parte mia”.
Ritorno alla manovra teorica ed allo sfruttamento estremo delle risorse tecnologiche della nave.
Crisi istituzionali, scioperi, cali di traffico, l’assestamento ed infine la ripresa del nostro porto; questi furono i fatti che caratterizzarono buona parte degli anni ’80.
I piloti si difesero da queste calamità, diminuendo l’organico da 34 a 22 unità, ma i dipendenti della Corporazione da stipendiare: impiegati, pilotini, tecnici, ed addetti ad altri servizi, rimasero in ogni caso una quindicina.
Questo motivo prettamente economico, sullo sfondo di una tradizione contraria a qualsiasi forma di sindacalismo politico, consigliò i piloti a perseverare sulla loro strada solitaria, nella peculiare condizione di dipendenti di se stessi e della Capitaneria di porto.
Questa situazione “particolare” vide, purtroppo i piloti soli ed assestati in prima linea, specialmente durante lo sciopero degli altri Servizi portuali, ed in particolare quello del personale dei rimorchiatori. Non tutti in porto, ovviamente, capirono le loro necessità di sopravvivenza e purtroppo si aprì una ferita che impiegò un po’ di tempo a guarire.
Ho preso spunto da questi storici avvenimenti per ricordare che, in quelle non poche giornate, i piloti hanno vissuto, dal punto di vista professionale, paradossalmente, i giorni più brillanti della loro storia professionale.
E’ forse giusto ricordare che dagli scioperi dei dipendenti della Società Rimorchiatori Riuniti, furono esclusi i traghetti e le emergenze, ed è altrettanto utile ricordare che, da parte dei piloti, non si cercarono atti d’eroismo e neppure lavori degni d’encomi, riconoscimenti ufficiali o cose di questo tipo.
Tuttavia, escluse le manovre ritenute impossibili, a causa del consueto utilizzo di quattro o più rimorchiatori, tutte le altre navi entrarono ed uscirono regolarmente dal porto, senza il minimo danno. Ad un lavoro di routine, basato sulla velocità e la sicurezza, si passò ad un sistema più lento e studiato nei minimi particolari. Tutto ciò fu possibile perché il pilota di turno, indipendentemente dall’età e dall’esperienza maturata, s’impegnò strenuamente nella preparazione della “sua” performance, partendo da quella manovra teorica che aveva studiato a scuola e dallo sfruttamento adeguato della tecnologia della “sua” nave.
Il pilota di turno non spinse mai il comandante ad entrare in porto, oppure ad uscire senza l’aiuto dei rimorchiatori. Il pilota, ascoltava le caratteristiche della nave:
Effetto elica, eventuale potenza del Bow Thruster (elica di prora).
- Velocità timone.
- Potenza macchina alle varie andature.
- Pescaggio.
- Superficie velica.
- Caratteristica dell’ancora per l’eventuale dragaggio, o girata ecc..
Con questi dati, il pilota esponeva al comandante la “sua” soluzione, adattandola, ovviamente, alle condizioni del vento e della corrente di quel momento.
Ogni pilota che rientrava in Torretta ripeteva come un ritornello ciò che il comandante gli aveva appena detto:
“Pilota, se te la senti di portarmi fuori (o dentro) senza rimorchiatori, io sono a tua disposizione !”.
In quelle giornate d’estrema tensione nervosa, i piloti, manovra dopo manovra, scoprirono il loro enorme potenziale professionale, che era sconosciuto persino a se stessi.
Di quelle giornate, veramente stressanti, ne ricordo una in particolare. Credo sia stato un sabato, con vento di scirocco, sui 20/22 nodi, nel giugno del 1986.
Alla fine del turno giornaliero, contammo 54 lavori, tra arrivi e partenze. Tra cui una decina di navi passeggeri: le “vecchie” a turbina: Amerikanis, Britanis, Ellinis, girate tutte sull’ancora davanti a Ponte dei Mille, e poi Eugenio C.- Enrico C.- Ausonia ecc..
Alcuni episodi di tecnologia estrema.
La tecnologia navale nel frattempo fece passi da gigante. Me ne resi conto agli inizi degli anni ’90, allorché un comandante norvegese, durante la manovra d’ormeggio all’Isola (Multedo), mi spiegò che la sua nave (non ricordo il nome) era un “prototipo” e che era stata costruita per navigare senza equipaggio, vale a dire, per essere telecomandata da terra.
Mi fece visitare le centraline che raccoglievano i dati provenienti dai sensori dislocati in ogni parte della nave. Quelli dello scafo, per esempio, misuravano le pressioni esterne: la forza del mare, del vento, la corrente e le varie temperature. Tutti i dati, elaborati dal computer di bordo, erano poi trasmessi, automaticamente, alla centrale dell’Ufficio Operativo dell’Armamento di Bergen.
Sullo studio delle schede ricevute, il Responsabile avrebbe impartito gli ordini operativi alla nave.
Il comandante mi spiegò, inoltre, che il sindacato norvegese dei capitani di l.c. prese una ferrea posizione contro questa forma di “wild tecnology” e che era in corso un dibattito internazionale sulla questione, che implicava anche temi ecologici, antropologici, etici oltre che economici.
La crescita della Automazione Navale, per mezzo dell’informatizzazione estesa e diffusa a partire dalle costruzioni degli anni ’80, cambiò il modo di pensare, di parlare, di studiare e quindi di navigare. I piloti, per un certo periodo, erano rimasti ai margini di questa dirompente innovazione, perchè i tradizionali ordini di manovra alla macchina-e-timoniere erano, in ogni caso, mediati dal comandante della nave, che li trasmetteva secondo la rinnovata tecnologia di bordo.
Alcuni anziani piloti si arresero quasi subito. Il gap era soltanto psicologico, ma parve loro insormontabile. Ricordo con tenerezza, che un collega della vecchia guardia, verso la metà degli anni ’90, raccontò di essersi trovato su una nave-passeggeri, in viaggio inaugurale, sulla quale non esisteva più il telegrafo, in tutte le sue versioni, e neppure la figura del timoniere. Ricordo perfettamente l’episodio e lascio quindi la parola al collega stesso: “Il comandante, dopo aver scostato la nave dalla banchina, m’invitò a prendere in mano il joystick e fare la manovra di uscita dai Ponte dei Mille…
Per una questione d’orgoglio e cercando di ricordare quello che imparai sulla play-station di mio nipote, non battei ciglio e ringraziai anzi il comandante per la fiducia. Purtroppo, non mi accorsi subito che i comandi avevano un’impostazione invertita rispetto alla nostra normale metodica. Giunti in avamporto, anziché venire a sinistra verso l’uscita di levante, la nave accostò a dritta verso il Porto Nuovo. La velocità anziché diminuire, aumentò. Ci fu un po’ di panico! Ma si rimediò in tempo. Tuttavia, non ricordo d’aver mai visto la diga così da vicino… persino i cani randagi ci abbaiavano….forse erano convinti di essere speronati…”
Occorre dire che i giovani piloti contribuirono alla risoluzione del problema, portando nuova linfa e soprattutto la giusta mentalità in Corporazione. In seguito, stimolati anche da altri eventi, come la costruzione della Torre di Controllo, per la quale i piloti si erano tanto battuti, iniziò nella vecchia Torretta una vera e propria sana competizione per un completo aggiornamento di telematica.
Nasce la Torre di Controllo per un servizio tecnologico avanzato.
-Più cemento per le strutture logistiche a terra, significa meno acqua di manovra per le navi che hanno dimensioni sempre maggiori.
Questo è il primo problema che assilla comandanti e piloti dei porti della nostra epoca.
-Nelle ore di punta, il porto cambia continuamente scenari, in un divenire di situazioni dinamiche sempre più pericolose, specialmente alla presenza del traffico costantemente in crescita. Questo è il secondo problema.
Le due caratteristiche, comuni ai grandi porti integrati, dotati di 3-4 imboccature, fu presa in considerazione come un reale problema da risolvere, alla fine degli anni ’80 e dopo forti pressioni dei piloti, fu risolto alla metà degli anni ’90 con la costruzione della Torre di Controllo del traffico.
Sotto quest’aspetto, la direzione globale del traffico, via radio, rispose alla moderna esigenza del traffico navale, sintetizzato nello slogan:
“snellimento del traffico nella sicurezza”.
Contemporaneità di manovre
Linea Blu (Daniela Bianchi nella foto) in visita alla Torre di Controllo.
L’esercizio di quest’attività rappresentò una nuova specializzazione ed un nuovo impegno per il pilota portuale e comportò, rispetto al vecchio sistema, responsabilità oggettive molto importanti. Si trattava, in sintesi, di fornire ai comandanti ed ai piloti a bordo, informazioni e consigli su vento, corrente, traffico in corso, servizi disponibili, e di risolvere tutte quelle situazioni che esulavano, normalmente, dalla vera e propria manovra tecnica per la quale il pilota era tradizionalmente preposto e preparato.
Il pilota che presidia in questo momento la Torre di Controllo, rappresenta la moderna figura del Traffic Manager, cui fa riferimento l’Autorità, e gli altri soggetti dello shipping: Agenzie, Spedizionieri, Portuali, Giornali, Marittimi e navi, ovviamente. La stessa persona, dopo qualche ora di servizio, si sdoppia, imbarca sulla pilotina, ritorna ad essere un pilota che esce incontro alla nave.
La globale esperienza del pilota viene così messa al servizio, non solo della nave in senso tradizionale, ma anche al servizio della città mercantile e soprattutto al servizio della sicurezza di tutti.
L’attività della Torre di Controllo può essere svolta con diverse modalità. In Europa, questi Centri Direzionali operano, da molti decenni, secondo schemi non sempre omogenei tra loro.
2000- La Nuova Torre di Controllo del Traffico, vista dalla Tall Ship “Simon Bolivar”
Il tempo ci dirà se il prezioso “strumento genovese” sarà stato utilizzato secondo la restrittiva logica del semaforo cittadino, con esclusivi compiti di polizia, oppure, se lo stesso è interpretato perseguendo gli obiettivi originali, che erano: la guida dinamica delle navi, l’abbattimento dei tempi morti, l’organizzazione di sorpassi di navi lente in sicurezza, lo stabilimento di precedenze che snelliscano il traffico senza penalizzare una parte d’utenti, la distribuzione dei servizi disponibili secondo i metodi più razionali ed economici.
1900- La vecchia Torre dei Piloti a Molo Giano, guardata a vista da una “barcaccia”.
Per ottemperare a tutto ciò, di una nave, occorre conoscere la tecnologia teorica e pratica che sono le curve evolutive, gli spazi d’arresto, le accelerazioni, i loro comandanti persino nelle loro capacità tecniche e decisionali.
A mio giudizio, questi parametri possono essere interpretati soltanto da chi frequenta quotidianamente le navi e le conosce profondamente nella loro globalità e particolarità.
Gli spostamenti di una nave avvengono in spazi molto ampi. Le collisioni, per fortuna, sono sempre più rare.
La manovra navale rappresenta invece l’aspetto più delicato e complesso del viaggio, perché si svolge in acque sempre più ristrette e coinvolge altri utenti, che trasportano carichi importanti e a volte pericolosi.
Il futuro è già qui.....
La pilotina Pegaso in navigazione nel mare lungo.
A Le Havre i piloti hanno messo i “rotori”
Vorrei concludere questo Album di ricordi personali, con una graditissima testimonianza: il Direttore di Macchina, quasi mai compare come un personaggio nella letteratura marinara del pianeta, un po’ per la sua innata modestia, ma credo, soprattutto, perché oscurato dal cono d’ombra proiettato dal Comandante, figura che da sempre rappresenta, in esclusiva, il padrone del vapore. Tuttavia, dai miei ricordi personali, traggo questo sincero sentimento: il D.M. che si è trovato al mio fianco, sia su una grande nave passeggeri, sia su un rimorchiatore portuale o d’altura, oppure sulla piccola pilotina, ha sempre rappresentato: LA MIA META’ ed oserei dire, senza falsa modestia, la parte migliore di me, cioè la parte che non possedevo. A riprova di tutto ciò c’è questa mia, pur “piccola”, ma entusiasta risposta alla chiamata dell’amico D.M. Silvano Masini, compagno di tante avventure sui rimorchiatori, dopo 40 anni di lontananza e mai d’oblio.
Rapallo, 13.02.12
Carlo GATTI
Il presente saggio é saggio é stato pubblicato nel libro
“APPUNTI DI STORIA DELL’AUTOMAZIONE NAVALE E DINTORNI
(Estate 2006)
Autori: Silvano Masini – Gian Luigi Maggi
METTETE DEI FIORI NEI VOSTRI CANNONI
Mettete dei fiori nei vostri cannoni…
La portaerei CORAL SEA (classe Midway)
Dislocamento: 45.000 tonn – Lunghezza 295 mt. – Larghezza 34 mt. Velocità 33 nodi – Potenza 212.000 Cv. Equipaggio 4.104
Era il 1955 e ci fu dalle nostre parti, uno storico passaggio ravvicinato tra la portaerei americana USS CORAL SEA e un nostro prestigioso veliero.
La portaerei lampeggiò con il segnalatore luminoso: “Chi siete?”
La risposta fu immediata: “Nave Scuola Amerigo Vespucci, Marina Militare Italiana”. La nave statunitense ribatté: “Siete la nave più bella del mondo”.
Molti rapallini di una certa età, nel sentire il nome CORAL SEA (Mar dei Coralli), hanno ancora oggi uno scatto d’orgoglio… non tanto per la famosa battaglia del Mar dei Coralli tra Americani e Giapponesi per la conquista del Pacifico, ma piuttosto per il ricordo dell’esplosione di una bomba al testosterone che ebbe come teatro la nostra città.
Siamo nel maggio di qualche anno dopo... Rapallo si sveglia al rumore dei cacciabombardieri che decollano e "appontano" sull’immensa portaerei americana Coral Sea che di notte, e alla chetichella, (come aveva già fatto Dragut), getta l’ancora nella rada di Rapallo. Non è un fatto insolito: nel dopoguerra molte navi militari USA arrivano nel Tigullio per ritemprare le energie degli equipaggi dopo lunghi mesi di alta tensione causate dalla “Guerra Fredda” tra USA e URSS.
Complice la bellissima giornata di sole, il Comando della nave ha già sbarcato un quarto del suo equipaggio che raggiunge l’incredibile cifra di 4.104 uomini.
Vista dall’alto, la passeggiata a mare sembra invasa da un’onda di marea bianca che rotola avanti e indietro al ritmo di Rock and Roll. L’inconsueto spettacolo va avanti fino al tramonto quando, improvvisamente, la lunga nave emette alcuni fischi prolungati. Nel silenzio generale si sente virare l’ancora e poco dopo, con una gigantesca fumata, la nave più potente dell’epoca avvia i motori, prende il largo e sparisce sotto l’orizzonte.
Dopo i primi minuti di stupore, c’è chi pensa ad una guerra imminente e chi, invece pensa, con largo anticipo, ad una notte di follia.
In quegli anni, gli allarmi di questo tipo sono frequenti: creano panico in tutti gli ambienti militari e civili, ma poi rientrano regolarmente nell’anonimato. Anche in questa occasione, il segreto militare nasconde le motivazioni di quella “fuitina” della Coral Sea di circa 24 ore. I marinai in libera uscita non se ne fanno certamente una croce! Quanto invece rimane tuttora nella memoria di molti rapallini di quell’epoca é ben altro!
La sosta di quel migliaio di marinai in vacanza forzata, genera presto un velocissimo tam tam paragonabile soltanto alla capacità di diffusione degli odierni cellulari. Un imprecisato numero di prostitute arriva con ogni mezzo da tutte le direzioni per consolare quell’ingente numero di marinai che osservano preoccupati l’orizzonte in cerca della propria famiglia che li ha abbandonati ad un triste destino.
Siamo ancora vicini a quella mezzanotte del 19 settembre del 1958, quando furono chiusi oltre cinquecento sessanta postriboli su tutto il territorio nazionale. La nostalgia è ancora nell’aria ed anche una certa voglia di… vendetta! Moltissime “lavoratrici del sesso” sono ancora disoccupate e mai rinuncerebbero a quella boccata di ossigeno.
La coordinatrice di questo inaspettato business italo-americano è la nota concittadina chiamata: “ROSA DEI VENTI”, una giunonica signora un po’ datata, che veste alla marinara e in quel nomignolo condensa il suo generoso programma che non bada alle provenienze dei clienti. Si dice che anche numerosi rapallini abbiano velocemente indossato le loro uniformi bianche della Marina per fraternizzare con i marines e parlare della “guerra fredda” in atto tra lo Stato ed i casini nazionali ormai in disarmo.
Che dire? Il resto della cronaca rientra nel rispetto della privacy! Tuttavia, possiamo tranquillamente sottolineare alcuni fatti a loro modo sentimentali:
-Rapallo si trasformò per una notte in una Waikiki nostrana al suono di ukulele, non di corni…
-All'indomani le acque del Golfo di Rapallo ebbero uno sponsor particolare di indubbia qualità: Hatù.
-La ballata di pace dei GIGANTI: “METTETE DEI FIORI NEI VOSTRI CANNONI”, chissà? Forse fu ispirata da quella selvaggia ammucchiata rapallina …
CARLO GATTI
16 Marzo 2017
CARLO FECIA DI COSSATO
Carlo FECIA di COSSATO
Carlo Fecia di Cossato nacque a Roma il 25 settembre 1908 da una famiglia di tradizioni militari: il bisnonno, aiutante di campo di Re Carlo Alberto, e il nonno furono decorati durante le guerre d'indipendenza; il padre invece capitano di vascello fu costretto a lasciare la marina in seguito ad un incidente in Cina in cui perse un occhio. Dopo aver ultimato gli studi al Collegio Militare di Moncalieri entrò in Accademia Navale a soli quindici anni nel 1923. Uscì nel 1928 con il grado di guardiamarina e l'anno successivo fu promosso Sottotenente di Vascello; nel 1931 fu destinato al Distaccamento Marina di Pechino. Rientrato in patria il Corso Superiore e fu promosso Tenente di Vascello; durante la guerra Etiopica fu incaricato della sistemazione difensiva del fronte a mare della zona di Massaua. Nel 1939 seguì la Scuola Comando Sommergibili, partecipando tra l'altro a due "missioni speciali" durante la guerra spagnola.
Il 10 giugno 1940 Carlo Fecia di Cossato era comandante del sommergibile Ciro Menotti, una delle unità più vecchie della nostra flotta subacquea, alle dipendenze della 34° Sq Sommergibili di base a Messina. Con questo vecchio sommergibile effettuò varie missioni infruttuose di agguato nel Mediterraneo Centrale poi viene trasferito in Atlantico come comandante in seconda del sommergibile Tazzoli, e con questo incarico partecipa ad un missione in Atlantico che termina il 13 gennaio 1941.
Le sue caratteristiche tecniche erano: costruzione a doppio scafo completo - dislocamento: 1.530 t (in superficie) - 2.032 t (in immersione) - dimensioni: 84,3 m (lungh.) - 7,71 m (largh.) – (5,14 m (pescaggio medio) - profondità di collaudo: 100 m (con coefficiente di sicurezza 3) - potenza app. motore: 4.400 HP (in sup.) - 1.800 HP (in imm.) - velocità max.: 17,1 nd (in sup.) - 7,9 nd (in imm.) - autonomia: 11.400 mg a 8 nd - 5.600 mg a 14 nd (in sup.); 7 mg a 7,9 nd - 120 mg a 3 nd (in imm.) - armamento: 8 TT.LL.SS. da 533 mm (4 a prora e 4 a poppa); 12 siluri in dotazione; 2 cannoni da 120/45 (uno a proravia e uno a poppavia della falsa torre); 4 mitragliere binate da 13.2 mm (in plancia, a poppavia); 2 lanciamine nell’intercapedine a poppa, con 14 mine (solo il TAZZOLI) - equipaggio: 7 Ufficiali, 14 S/Ufficiali, 46 Sottocapi e Comuni
La mattina del 5 aprile 1941, appena promosso Capitano di Corvetta e al comando del sommergibile Tazzoli, di Cossato parlò così al suo equipaggio: "Se qualcuno vuole sbarcare lo dica subito, io intendo partire con gente decisa a tutto. Se qualcuno non si sente venga avanti, non ha nulla da vergognarsi", nessuno si mosse e allora Fecia di Cossato li ringrazio uno ad uno. Il 7 Aprile il sommergibile salpo da Bordeaux per la prima missione in Atlantico di Cossato. Era l'inizio di una leggenda: nella prima missione vennero affondati il piroscafo inglese Aurillac (4.733 tonnellate), il mercantile norvegese Fernlane (4.310 tonnellate) e la petroliera norvegese Alfred Olsen (8.817 tonnellate). Per affondare la grossa petroliera fu necessario un inseguimento durato un intero giorno in mezzo ad una fitta banchina di nebbia e ingaggiando con essa un lungo duello di artiglieria, molto rischioso per lo stesso sommergibile. Durante il viaggio di ritorno fu infine abbattuto un aereo antisommergibile. Per questa missione Fecia di Cossato fu decorato con la Medaglia d'Argento al V.M. In una successiva missione del luglio 1941 riuscì ad affondare solamente la motocisterna Sildra (7.313 tonnellate) per poi dover rientrare, con un'elica spezzata dalle bombe di profondità, senza poter cogliere altri successi, ricevendo comunque la Medaglia di Bronzo al V.M. E qui emerge il carattere mai domo di Carletto (così era chiamato affettuosamente a bordo del sommergibile) che si rammarica di ogni occasione perduta e se la prende con il sommergibile ogni volta che non riesce a raggiungere una nave avvistata: "dopo ogni mancata occasione era intrattabile, si metteva a passeggiare nervosamente lungo tutta la coperta soffermandosi a prua con la speranza di riavvistare la nave che gli era sfuggita". In una successiva missione partecipò al recupero di 414 naufraghi dei raiders tedeschi Atlantis e Python ricevendo al termine della missione, con gli altri comandanti italiani che avevano partecipato alla missione, la croce di ferro tedesca per mano dell'Amm Dönitz. Con l'entrata in guerra dell'america i sommergibili italiani, per le loro ottime caratteristiche di autonomia furono destinati ad operare in quei mari lontani.
Cossato, salpato l'11 febbraio 1942, dopo non essere riuscito ad affondare una grossa petroliera manda a picco il piccolo piroscafo olandese Astrea (1.406 tonnellate) il 6 marzo e nella stessa notte anche la motonave norvegese Tonsbergfjord (3.156 tonnellate). L'8 è il turno del piroscafo uruguayano Montevideo (5.785 tonnellate ) dopo un inseguimento durato tutto il pomeriggio e concluso solo a notte fonda. L' 11 marzo a sole cinque miglia dall'isola di San Salvador due siluri affondano il cargo panamense Cygnet (3.628 tonnellate); in questo situazione di pericolo Carlo Fecia di Cossato emerse per controllare che tutti i naufraghi stessero bene, e poiché aveva udito il giorno prima che da una trasmissione radio americana che "nessun sommergibile italiano osava venire ad operare sulle coste statunitensi" agitò più volte il tricolore gridando in inglese ai naufraghi: "dite agli americani che siete stati affondati da un sommergibile italiano!". Il 13 marzo dopo essersi avvicinato in immersione Cossato centrò con due siluri il piroscafo inglese Daytoniam (6.434 tonnellate), che fini poi con un terzo siluro. Il 15 dopo aver immobilizzato con due siluri la petroliera inglese Athelqueen ( 8.780 tonnellate ) emerse per finirla, ma fu accolto a cannonate e fu costretto a rimmergersi: tentando di riportarsi a quota periscopica il sommergibile fu speronato dalla petroliera, nell'urto la prua si piegò rendendo inservibili i tubi di prua; allora Fecia di Cossato emerse e con un rabbioso duello di artiglieria mandò a picco la nave nemica. Nel viaggio di ritorno incontrò numerose navi, ma suo malgrado non poteva attaccarle per i danni riportati. Rientrò a Bordeaux il 31 marzo, dove lo aspettava la sua seconda Medaglia d'Argento al V.M.
Dopo che il suo secondo Gianfranco Gazzana Priaroggia, lo aveva lasciato per comandate il sommergibile Da Vinci, iniziò una gara incessante su chi tornava a casa con più navi nemiche affondate; nelle successive missioni Carlo Fecia di Cossato continuò ad affondare navi nemiche a ritmi incredibili, tanto da meritarsi l'appellativo di "Corsaro dell'Atlantico", sempre però comportandosi in maniera encomiabile tanto che in due successive missioni accolse tre naufraghi poiché il mare grosso li avrebbe messo in pericolo. In una missione dato che un suo marinaio si era gravemente ferito, lo fece sistemare nella sua cuccetta e lui fino alla fine della missione non toccò più il letto, alla domanda di un suo ufficiale: "comandante perché non dorme un pò - rispose - altrimenti non mi sveglierei più!".
In effetti le lunghe e faticose missioni avevano deperito di molto il fisico di Fecia di Cossato e quindi per motivi di salute nel febbraio del 1943 fu trasferito a comandare la 3° Sq Torpediniere a bordo della Tp Aliseo. A conferma delle qualità straordinarie di Carlo, il suo sommergibile andò perduto alla prima missione senza di lui. Fino a quel momento aveva affondato 16 navi nemiche per complessive 86.535 tsl: la sfida con il suo amico Cazzana Priaroggia, scomparso in mare con il suo sommergibile, finì in parità poiché quest'ultimo affondò solo 11 navi ma per complessive 90.601 tsl!
Promosso Capitano di Fregata, Fecia di Cossato, si meritò la Croce di Cavaliere il 19 marzo 1943 ed una Croce di Guerra nel luglio dello stesso anno. Sorpreso dall'armistizio nel porto di Bastia, e volendo ubbidire all'ordine del re di consegnare la flotta al vecchio nemico, uscì in mare la mattina successiva ma constatando l'aggressione che 2 cacciasommergibili e 7 ms. tedesche stavano portando al porto ed altre navi impossibilitate a difendersi, attacco con incredibile decisione e dopo un durissimo combattimento durato più di un'ora affondò tutte le navi tedesche, poi diresse per Malta.
Gli avvenimenti politico-militari dei mesi successivi scossero la profonda integrità militare di Fecia di Cossato, che si sentì tradito; amareggiato per le sorti dell'Italia e per la resa della Marina, che riteneva ignobile e priva di risultati, il 21 agosto scrisse una lettera di addio alla madre e il 27 agosto 1944 si suicidò. La Medaglia d'Oro al Valore Militare gli fu conferita postuma nel 1949, tutt'oggi un sommergibile della Marina Militare porta il nome di Fecia di Cossato.
Sotto il comando di FECIA di COSSATO (apr.‘41- feb.’43) il TAZZOLI compie ben sei lunghe missioni in Atlantico, spingendosi fin sotto le coste americane e affondando altre 16 navi mercantili: - P.fo AURILLAC di 4.733 t. inglese (15.4.41) - M/n FERNLANE di 4.310 t. norvegese (7.5.41) - Petr. ALFRED OLSEN di 8.817 t. norvegese (9.5.41) - Petr. SILDRA di 7.313 t. norvegese (19.8.41) - P.fo ASTREA di 1.406 t. olandese (6.3.42) - M/n TÖNSBERGFJORD di 3.156 t. norvegese (7.3.42) - P.fo MONTEVIDEO di 5.785 t. uruguaiano (9.3.42) - P.fo CYGNET di 3.628 t. panamense (11.3.42) - P.fo DAYTONIAN di 6.434 t. inglese (13.3.42) - Petr. ATHELQUEEN di 8.780 t. inglese (15.3.42) - P.fo CASTOR di 1.830 t. olandese (1.8.42) - Petr. HAVSTEN di 6.161 t. norvegese (6.8.42) - P.fo EMPIRE HAWK di 5.032 t. inglese (12.12.42) - P.fo OMBILIN di 5.658 t. olandese (12.12.42) - P.fo QUEEN CITY di 4.814 t. inglese (21.12.42) - P.fo DONA AURORA di 5.011 t. statunitense (25.12.42)
per un totale di quasi 83.000 t., un primato personale superato più tardi (per tonnellaggio, ma non per numero di navi) soltanto da quello di GAZZANA PRIAROGGIA (11 navi per oltre 90.000 t). Dal 7 al 29 dicembre ’41 partecipa, partendo da Bordeaux con altri tre battelli italiani, al salvataggio dei naufraghi (oltre 400) delle navi tedesche ATLANTIS e PYTHON, affondate sotto le Isole del Capo Verde
Un’impresa eccezionale, caso unico nella storia della marineria, di salvataggio a circa 1500 miglia di distanza; impresa che fece guadagnare a FECIA di COSSATO (e agli altri Comandanti) un’importante decorazione tedesca da parte dell’Amm. Dönitz.
Mamma carissima,
quando riceverai questa mia lettera, saranno successi dei fatti gravissimi che ti addoloreranno molto e di cui sarò il diretto responsabile. Non pensare che io abbai commesso quello che ho commesso in un momento di pazzia, senza pensare al dolore che ti procuravo. Da nove mesi ho molto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi trovo, in seguito alla resa ignominiosa della Marina, a cui mi sono rassegnato solo perché ci è stata presentata come un ordine del Re, che ci chiedeva di fare l'enorme sacrificio del nostro onore militare per poter rimanere il baluardo della Monarchia al momento della pace. Tu conosci che cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad aver commesso un gesto ignobile senza alcun risultato. Da questa triste constatazione me ne è venuta una profonda amarezza, un disgusto per chi ci circonda e, quello che più conta, un profondo disprezzo per me stesso. Da mesi, Mamma, rimugino su questi fatti e non riesco a trovare una via d'uscita, uno scopo alla mia vita.
Da mesi penso ai miei marinai del Tazzoli che sono onorevolmente in fondo al mare e penso che il mio posto sia con loro.
Spero, Mamma, che mi capirai e che anche nell'immenso dolore che ti darà la mia notizia della mia fine ingloriosa, saprai capire la nobiltà dei motivi che mi hanno guidato. Tu credi in Dio, ma se c'è un Dio non è possibile che non apprezzi i miei sentimenti che sono sempre stati puri e la mia rivolta contro la bassezza dell'ora. Per questo, Mamma, credo che ci rivedremo un giorno.
Abbraccia papà e le sorelle e a te, Mamma, tutto il mio affetto profondo e immutato. In questo momento mi sento molto vicino a tutti voi e sono sicuro che non mi condannerete.
A cura di Carlo GATTI
Bibliografia: sito della REGIA MARINA
RICORDO DI GIULIANO GOTUZZO
CARLO FECIA DI COSSATO - Medaglia d'Oro al Valor Militare
Questo foglio lo aggiungo in un secondo tempo per spiegare il perché di questa foto e di questa lettera successiva. Ho vissuto un tempo che per di più fu esaltante, ma che a me non esaltò affatto; parlo del dopo l'8 settembre. Io allora avevo 12 anni e non finirò di ringraziare il Padre Nostro per questo fatto. A chi era più grande di me e fu costretto ad una scelta tra la montagna o le rive di un lago dice oggi ed avrei voluto dire allora: "Pace fratelli, nella truce era dei lupi".
Senza un preciso motivo, ma solo per la passione che mi ha sempre animato, io avrei avuto un dilemma diverso: andare a Malta o autoaffondarmi. Ecco il perché di questa foto! Premesso che l'ordine di andare a Malta arrivò per ordine del Re.
Detto anche che allora la Marina era la Regia Marina e che quasi tutti gli ufficiali per affetto e per simpatia, per radicate tradizioni della famiglia da cui provenivano erano tutti legati o quasi alla persona del Re. Così l'8 Settembre arrivò l'ordine di cessare le attività e di rispondere agli attacchi da qualunque altra parte venissero. Carlo Fecia di Cossato era al comando dell'Aliseo nel porto di Bastia. Mosse subito la sua nave per uscire dal porto. Fu attaccato da 7 imbarcazioni che da alleate si trasformarono in nemiche. Una dopo l'altra le affondò tutte e durante il combattimento trovò il tempo di strapparsi le onorificenze tedesche che aveva sul petto e che aveva guadagnate nel periodo precedente al comando del sommergibile Tazzoli di base a Betasom. Era infatti uno degli assi della guerra in Atlantico. Nel Giugno del 44' a Taranto fu protagonista di un episodio che lo esalta ancor di più.
Lui e i suoi colleghi ufficiali che avevano per obbedienza al Re fatto un enorme sacrificio appresero con grave disappunto che alcuni ministri giunti da altre nazioni si erano rifiutati di prestare giuramento al Re. Scoppiò una quasi rivolta ed i marinai si rifiutarono di far uscire le navi e manifestarono in massa in favore di Carlo Fecia di Cossato. Il quale sbarcato, due mesi dopo, a Napoli, pose fine alla sua vita raggiungendo idealmente i suoi marinai del Tazzoli che nel frattempo era affondato in Oceano.
di Giuliano Gotuzzo
(Per gentile concessione di Nuccia Gotuzzo)
Rapallo, 2 Gennaio 2014
L'Uso della BOZZA sul Rimorchiatore, un artificio che viene da lontano...
L'uso della BOZZA sul Rimorchiatore
un artificio che viene da lontano...
C’era un tempo, che si può dire definitivamente archiviato agli inizi degli anni ’90, in cui la tecnica di rimorchio, usata nei porti principali del mondo, era molto complicata.
Ogni rimorchiatore portuale aveva una sua particolare “costruzione navale” che risentiva dell’età, della provenienza e dell’impiego.
La seconda guerra mondiale aveva poi immischiato le carte, cioè i motori, le architetture, le funzionalità, la logistica. Molti rimorchiatori erano residuati bellici: scafi grandi con scarsa potenza e scafi piccoli con grande potenza. C’erano macchine a vapore e motori Diesel che, con il freddo della tramontana, si mettevano in moto, soltanto, come certe femmine…. per opera di mani “sapienti”, che avevano ricevuto il crisma segreto di qualche “mago-sacerdote”…
Il Comandante Rr era la prima vittima di bordo e se voleva “vedere” il rimorchio ed il pilota, doveva lavorare sulla porta aperta del ponte di comando, perchè le scialuppe di bordo, (mai messe in mare), le gigantesche maniche a vento e le ciminiere sproporzionate, davano sicuramente prestigio e visibilità alla Società RR con la loro imponenza, ma la toglievano al Comandante, che spesso era costretto a ballare da una parte all’altra, come un macaco, non solo a causa del freddo, ma per lavorare, che era la prima necessità di guadagno per tutti, soprattutto per gli armatori. Ovviamente la radio VHF era ancora in fase di studio…
Era un tempo in cui i “principali”, com’erano chiamati allora, preferivano assumere i “rivieraschi”, sicuramente per le loro doti marinaresche, ma soprattutto perché alla sera non ritornavano alle loro case e rimanevano “ospitati” a bordo per tutta la settimana, facendo la guardia “gratis” al rimorchiatore.
Poi… nel 1968, anno d’importanti rivoluzioni, apparvero in scena i primi “Rotori” a sistema cicloidale, che vederli lavorare in coppia con i rimorchiatori di legno, veniva naturale riderci sopra, perché davano, nell’insieme, l’idea bizzarra della “multietnicità ante litteram”. Si trattò di una breve e strana convivenza di mezzi estremamente eterogenei, che avevano la stessa funzione di rimorchiare navi, ma con capacità diverse. Da questo quadretto atipico emergeva soprattutto la duttilità e lo spirito d’adattamento dei cosiddetti “ultimi barcaccianti”.
Era un’epoca in cui, ovviamente, anche le navi che approdavano a Genova si dividevano in piroscafi e motonavi, in moderni “container” e gigantesche petroliere, nel “navalpiccolo” e persino qualche motoveliero che ormeggiava alla darsena e alle calate interne.
Rimorchiatore in legno Bengasi. Il più piccolo, ma tenace, della flotta RR di Genova.
Nel panorama navale di quegli anni, anche il piccolo Bengasi di legno, alla fine della giornata aveva tanti ganci come gli altri rimorchiatori più richiesti e blasonati.
In queste poche note introduttive, s’intuisce, tuttavia, la spiegazione di quello strano fenomeno che legava il nome del rimorchiatore al suo Comandante.
Citiamo soltanto un esempio: quando gli americani sbarcarono in Normandia il 4 giugno 1944, dovettero portarsi da casa anche i rimorchiatori portuali, per aiutare una flotta di 5.000 navi a districarsi in acque ristrette, o per meglio dire, per evitare che si dessero delle pruate durante l’invasione sulle famose spiagge di Ohmaha-Juno-Gold ecc…
A guerra conclusa, i rimorchiatori superstiti del D-Day, furono acquistati ed impiegati in molti porti Europei.
Molti ricorderanno quelli approdati a Spezia e Savona. A Genova arrivò soltanto l’Algeria, che aveva il cassero rotondo e caso unico nella flotta genovese, aveva due eliche sinistrorse, e diverse altre peculiarità tecniche.
Il comandante “Carlin” prese il comando dell’unità e rimase, per l’eternità, l’unico conoscitore di quello strano rimorchiatore, e presto dovette rassegnarsi a rimanere a bordo fino al giorno del suo pensionamento che coincise con la demolizione del mezzo ex-USA, avvenuto moti decenni dopo.
Ogni rimorchiatore, come dicevo, aveva la sua storia ed era diverso da tutti gli altri: Il Forte era un rimorchiatore d’altomare a vapore, lungo quasi 40 metri, che si adattò al lavoro portuale per almeno trent’anni al comando del suo fido comandante “Claudio”.
Lo stesso discorso si potrebbe fare per Olanda, Iberia, Finlandia, Tripoli, Libano e altri vecchi mastini considerati “fuori serie”.
I comandanti ed i direttori di macchina dovevano, teoricamente, essere tutti in grado di “girare” e manovrare tutti i rimorchiatori della Società RR, e tutti questi personaggi dovevano possedere nelle mani e nella testa, la capacità di gestire almeno cento anni di progresso tecnico-scientifico, distribuito su una flotta di circa 45 unità, che rappresentavano tutto ciò che c’era di più vecchio e superato, ma anche quanto ci fosse di più moderno al mondo in quel momento; infatti, con l’entrata in servizio dei “Rotori”, la Società cambiò pagina ed anche mentalità.
I ROTORI: …. le tre uniche novità tecniche apparse in porto dalla fine della guerra….
Era l’epoca in cui i Comandanti più esperti del momento: Garilli, Pasqualin e Vittorio ricevettero l’agognato riconoscimento di passare alla guida (avevano il volante come gli autobus) delle tre uniche novità tecniche, che apparvero sulla scena portuale dalla fine della guerra: i “Rotori”, sui quali i tre moschettieri montavano di guardia in cravatta e camicia bianca, in simbiosi col nuovo ambiente di bordo che risultava troppo pulito e asettico, rispetto al resto della flotta che, lavorando, sbuffava ancora nuvole di smoke nero, puzzolente e concentrato di polverino assassino.
Dal 1968, gli stregoni in tuta blu dell’officina di Ponte Parodi cominciarono a chiamarsi “tecnici” e indossarono una candida tuta bianca, stile-NASA e dal taschino spuntavano penne colorate, un calibro, dei cheaps e giravano sempre con i disegni e i manuali delle istruzioni... Gli equipaggi capirono e si convinsero che le navi in entrata ed in uscita dal porto, potevano essere rimorchiate con un nuovo sistema, che era più sicuro, elegante, veloce e quando s’accorsero che finalmente potevano godere di una logistica di bordo che era pari a quella delle loro abitazioni, di notte si fermavano a bordo e ringraziavano, di cuore, gli armatori senza sentirsi presi per il c… a causa del guardianaggio notturno, di un tempo, non retribuito.
Tuttavia, com’è noto, le trasformazioni e i cambiamenti radicali si chiamano epocali, proprio perché sono costosi e lenti da compiersi fino in fondo. Così che i rimorchiatori un po’ speciali, quelli tirati su dal fondo e più difficili da interpretare, hanno avuto una lunghissima vita e poi, molti di essi furono riciclati e venduti ai porti minori e forse lavorano ancora; magari in “bozza”…..!
Ma che significa “BOZZA”???
Abbiate ancora un attimo di pazienza e consentiteci di fare un passo indietro!
Come dicevamo…per altri vent’anni invalse l’uso, da parte del pilota, degli ormeggiatori e del resto dell’ambiente portuale, di chiamare il rimorchiatore con il nome del suo Comandante che, di coppia con il fedele direttore di macchina, ne diventava lo “specialista”, il manovratore che conosceva, tante volte in esclusiva, i segreti più intimi, i vizi, i pregi, i difetti, le reazioni e soprattutto il comportamento in manovra. Già specialmente in “bozza”.
Molti non lo sanno, ma fu il rimorchiatore azimutale chiamato - modello UNICO - introdotto negli anni ’90, in tutti porti “trafficati” del mondo, a dichiarare superato e inutile il tradizionale rimorchiatore a elica ed il suo famigerato uso della “bozza”.
Il tramonto di questa complicata manovra subentrò quando finalmente gli architetti e gli ingegneri navali decisero che il gancio, dal punto giratorio centrale del rimorchiatore, poteva essere spostato verso poppavia. Questo progresso tecnico fu possibile grazie all’invenzione di nuovi sistemi di propulsione e di governo. Vale a dire, della capacità dell’UNICO di spostarsi anche lateralmente ed alla velocità impressa dalla potenza stessa delle sue macchine.
Il rimorchiatore nell’attesa del movimento, ha abbozzato il cavo con un maniglione.
Purtroppo, fino all’introduzione del nuovo ciclo tecnologico, l’uso di abbozzare il cavo da rimorchio sulla poppa, era una necessità e nasceva nel momento in cui il rimorchiatore funzionava da freno, e tirava nella direzione opposta a quella del convoglio, dal quale era trascinato.
Essendo il gancio da rimorchio posizionato al centro, il rimorchiatore senza bozza sarebbe stato trainato di traverso, cioè a 90° rispetto al moto stesso. In questa pericolosa posizione di grande sbandamento, poteva imbarcare acqua ed affondare. Com’è noto, in quel periodo, i rimorchiatori avevano un notevole pescaggio (4/6 metri) e la pressione esercitata sullo scafo era proporzionale alla velocità della nave.
Il rimorchiatore inglese Industry, di legno e propulsione a pale, fu costruito nel 1852 a South Shields. Era lungo 27.05 metri ed aveva una stazza lorda di 87 tonnellate.
Possiamo quindi affermare, senza tema di smentite, che il rimorchiatore, da quando nacque verso la metà dell’800, sino all’avvento dell’ultimo modello, ha dovuto usare, per circa 150 anni, il marchingegno della “bozza” per sopravvivere….
Le occasioni d’impiego erano molteplici e qui possiamo ricordarne alcune:
- Quando la nave indietreggiava, ad esempio, verso il suo posto d’ormeggio in banchina.
- Quando la nave faceva movimento tra una banchina e l’altra ed era “senza macchina”.
- In navigazione in canale con macchina in avaria
- Trasferimento di nave in disarmo, da un bacino all’altro, da un porto all’altro.
- E naturalmente in tante altre situazioni che sarebbe impossibile, qui, analizzare.
In quegli anni, il rimorchiatore più potente e pesante del convoglio prendeva uno o due cavi a poppa della nave, mentre il più leggero e manovriero lo prendeva a prora, e metteva la Bozza essendo facilitato nello spostamento laterale e più reattivo e agile nella manovra in generale.
Ma ora lasciamo questi brevi appunti di storia portuale e c’inoltriamo, cautamente, nei meandri della didattica di manovra che non ha mai scritto e spiegato…. nessuno: La Bozza!
Avete capito bene! Ogni Comandante o aspirante tale, doveva imparare l’uso della Bozza a sue spese, per sentito dire e per aver visto… senza aver fatto commenti…in segreto. E poi era anche così difficile da spiegare che, anche i più democratici di loro, non trovavano le parole giuste……
Proviamo ora, nel 2007, per il puro gusto della ricerca d’archivio, ad entrare nel dettaglio di questo arcano mistero e svelare quel poco che ci è rimasto di quei ricordi ormai lontani, travolti e passati di moda, anzi da tante mode….
Siamo nel 1968 ed entriamo in cronaca diretta….
In condizioni meteo normali, una nave di media stazza, in arrivo, prende due RR e li attacca: uno a prora e l’altro a poppa. L’ormeggio finale è un pontile a dente del Porto Nuovo di Sampierdarena (Ge).
Il convoglio procede in canale trainato dal rimorchiatore di prora. Quello di poppa segue la nave lateralmente “alla via” (in genere dalla parte da cui spira il vento). Quando il convoglio arriva nella zona vicina all’ormeggio, si ferma tra le due testate, la nave viene girata e poi inizia ad indietreggiare.
I Regolamenti Portuali prevedono, per ragioni di sicurezza, che la nave ormeggi con la prora fuori, per essere pronta a muovere in caso d’emergenza.
Il rimorchiatore posizionato a prora, ha avuto nella prima fase, in canale, una funzione propulsiva. Nella seconda fase, quella giratoria, aiuta la nave ad accostare per farle assumere la posizione parallela alla banchina. Durante l’accostata, il Comandante del rimorchiatore prodiero deve trovarsi nella giusta posizione per trattenere e calibrare la battuta della nave verso la banchina, ma deve essere anche pronto a mettere la bozza, perché la nave sta già indietreggiando.
Rapidamente, anche manovrando indietro con la macchina, dovrà creare l’imbando del cavo da rimorchio, farlo poggiare in coperta, possibilmente nella zona poppiera centrale del rimorchiatore, permettere ai marinai di bloccarlo con una bozza all’apposita bitta a croce, dargli il tempo di dare volta in sicurezza, ed infine far venire, lentamente, il cavo in forza senza strappare le bozze.
Se la nave deve indietreggiare di 100/200 metri, è facile che prenda abbrivo, allora il Comandante del Rr in “bozza” dovrà trovarsi sempre nella giusta posizione, pronto ad aiutare la nave:
- allargandola dalla banchina,
- oppure portandola verso la banchina, in funzione della direzione e forza del vento e delle battute che essa prenderà.
Il Rr in bozza è trascinato, quindi subisce la velocità del convoglio. Per questo motivo si trova nella sgradevole situazione di passività, con il rischio d’essere ingovernabile, ciò significa che potrebbe non risponde ai comandi del timone e quindi di non poter più essere utile alla nave, non solo, ma di esserle di danno.
A questo punto, il Comandante del Rr in bozza deve fare appello al suo decisionismo, freddezza, abilità, tempestività. Deve tenere sotto controllo la velocità della nave. Non deve farsi travolgere in una corsa pericolosa e senza senso.
Per ottenere questo scopo, ha due armi a disposizione:
1° - Frenare il convoglio.
Pur assecondando il moto indietro della nave, deve conservare una riserva di potenza che gli consenta, in qualsiasi momento, di realizzare la sua manovra: scivolare in modo agile, da un lato all’altro della nave, per correggere, fare da timone e salvaguardare la nave da collisioni contro le opere portuali, ostacoli vari o altre navi.
2° - Allascare la bozza.
Nell’attimo in cui la nave è sotto controllo, diminuisce il tiro, il cavo viene in bando e
il Comandante Rr fa allascare la bozza di uno/due metri ed acquista agilità di manovra.
La quantità del lasco dipende dall’accostata che prevede di fare, sulla base delle difficoltà in corso (buio, presenza di vento, corrente, nave scarica o di grande pescaggio, presenza di altre navi, di mancine ecc…)
La buona riuscita della manovra dipende dal coordinamento tra i due rimorchiatori, che conoscono esattamente le difficoltà dell’altro, in ogni momento. Ma non è sufficiente! Per il buon esito della manovra, il pilota della nave deve sempre valutare in anticipo, se la velocità assunta dalla nave, in un dato momento, sia quella giusta e non superiore alle capacità di recupero del rimorchiatore in bozza, in quelle particolari condizioni.
Da queste brevi considerazioni, si evince l’importanza del ruolo giocato dalla conoscenza reciproca tra Piloti e Comandanti Rr, tra gli stessi Comandanti Rr e, soprattutto, l’obbligo di tutti i partecipanti alla manovra di conoscere a fondo le qualità e le difficoltà del rimorchiatore in bozza in ogni momento della manovra.
Esempio di bitta particolare che ha la funzione di “bozza” su un rimorchiatore “tractor” moderno che lavora alla corta e ricorre al sistema del cavo bozzato.
Spulciando nei nostri ricordi personali, dobbiamo dire d’aver visto all’opera degli autentici artisti. Mi riferisco ad alcuni Comandanti Rr, che nei momenti di grande difficoltà, a causa del forte vento, inventavano balletti prodigiosi, in silenzio e con estrema facilità, e si trovavano, sempre, nella giusta posizione.
Era bello guardare la manovra più temuta del porto, trasformata in un raffinato spettacolo per pochi fortunati, che potevano godere dal vivo quelle rare acrobazie, che scaturivano direttamente dal manuale dell’arte della manovra. Non fraintendeteci! Non parliamo del manuale scolastico, ma di quello magico, che l’intuito marinaresco sa donare soltanto ai più sensibili uomini di mare.
Durante queste manovre il Pilota ed il Comandante del rimorchiatore non si parlavano mai, non si scambiavano fischi, commenti ecc.. era il segnale “che si capivano al volo”! E la manovra riusciva perfetta perché era corale, d’équipe, senza protagonismi, senza isterismi.
Saper lavorare in bozza era quindi il termometro che misurava la capacità tecnica di un Comandante Rr. Essi erano bravissimi, bravi, così-così, oppure scarsi, in funzione dei pericoli che, in generale, facevano correre alla nave ed al loro stesso equipaggio.
Lo standard delle capacità dei barcaccianti è sempre stato elevatissimo per tradizione. Per molti decenni sono stati considerati i migliori del mondo e certi lusinghieri giudizi li abbiamo ascoltati con i nostri orecchi di piloti…ex-barcaccianti!
Quando entrarono in linea i tre super-manovrieri “Rotori”: INDIA, ISTRIA e PANAMA, toccò a loro, a furor di popolo, dover occupare il posto della bozza perché, di fatto, avevano il gancio a poppa e non temevano, come gli altri Rr di essere traversati e rovesciati nel moto indietro e, inoltre, erano anche dotati della spinta laterale che garantiva alla nave prestazioni mai viste prima.
Tuttavia, occorre anche precisare che nella storia dei Rimorchiatori portuali genovesi, ci sono stati dei “vuoti tecnici generazionali” dovuti anche alla gelosia di tanti anziani Comandanti che, come tanti Piloti della stessa epoca, erano contrari a lasciar la direzione della manovra agli allievi in prima persona.
Probabilmente la Società RR sarebbe dovuta intervenire, nominando Istruttori, alcuni dei loro più giovani e bravissimi Comandanti: Marietto, Ragonetto, Florindo …..con lo scopo di stabilire una programmazione dei “quadri” ed imporre una visuale operativa meno personalizzata e meno mitizzata del lavoro.
A difesa della vecchia generazione possiamo affermare che i Comandanti Rr di quei tempi, come pure tanti Piloti del Poto, si “erano fatti” da soli, spesso attraverso storie personali difficili, di guerre, affondamenti, miserie e sofferenze. Avevano avuto poco! In epoche assurde e antidemocratiche, e quel poco era la loro ricchezza e non erano disposti a cederla…..
Carlo GATTI
Rapallo, 12.02.12
FRANCO CASONI, l'ultimo intagliatore di polene
FRANCO CASONI
l'ultimo Intagliatore di POLENE
Tempo fa mi ha detto: "l'ironia è la porta di accesso alla libertà".
Farsi troppe domande, rimanere legati perennemente a qualcosa che non ci rende felici, stressarsi inutilmente per il lavoro... tutto ciò rappresenta la nostra gabbia quotidiana.
Ridiamoci sopra ogni tanto, prendiamoci di più in giro, facciamoci due risate dei nostri difetti o dei nostri sbagli.
Magari riusciremo a guardare il mondo con occhi diversi e il mondo ci risponderà in modo diverso.
Franco è stato definito anche così: “Con quella faccia un po’ così, con quell’espressione un po’ che ricorda un certo Dalì, Franco Casoni arriccia il baffo all’insù inseguendo il vento dei sogni che trasforma in polene, le seducenti regine dei naviganti”.
Franco Casoni, 68 anni, originario di Chiavari è uno degli ultimi maestri specializzati in sculture lignee navali.
Studio Fotografico Nevio Doz (Chiavari) info@neviodoz.com
Lo sviluppo costiero della penisola italiana e delle sue isole si aggira sui 7458 Km e presenta le forme più varie, proprio come il carattere dei suoi abitanti che vivono il mare in tanti modi, ognuno a modo suo, avendocelo dentro e subendone il fascino e gli umori. Franco Casoni è uno degli artisti più rappresentativi in fatto d’ironia!
Studio fotografico Nevio Doz (Chiavari) info@neviodoz.com
Oggi vi parliamo di questo personaggio del MARE che naviga sulle polene che intaglia e poi cavalca come nella bella di foto di Nevio Doz; un tagliamare un po’ speciale che sfida le onde con i seni prorompenti e le labbra conturbanti che esorcizzano l’ignoto oltre l’orizzonte. Un modo molto ironico d’affrontare la vita che è lo specchio della vita di mare.
Si è quasi capito che Franco Casoni vive in simbiosi con le sue polene, anche senza GPS e cellulare. Un filo sottile lo unisce alle sue creature che ha scelto tra i boschi incantati dell’Aveto, dove tutto mormora, aleggia e sospira.
Con quelle mani forti e nodose, “il Mastro Geppetto del Tigullio” compie la magia di trasformare folletti trascinati via dal loro universo mitologico in creature che via via prendono volti umani intagliati nel legno di quercia e di castagno. Spesso diventano polene pronte a vivere in un’altra dimensione, dove i monti e la schiuma del mare si uniscono in un erotico amplesso sulla scia disegnata dai delfini.
Franco, definito anche l’ultimo scalpellino, è un allegro poeta che si esprime a colpi di mazzetta, sgorbia e cesello.
Possiamo riassumere così la sua vita: scultore e artigiano, ha imparato a scolpire alla scuola d’arte, fondata dalla Società Economica. Nel primo dopoguerra il giovane ebanista trova lavoro nel laboratorio dell’artigiano Giuseppe Balma, e dopo qualche anno, presso la bottega di Antonio Gatti perfeziona l’arte dell’intaglio e in 10 anni completa la sua formazione artistica.
Studio fotografico Nevio Doz (Chiavari) info@neviodoz.com
“Le botteghe artigianali erano la vera scuola per i giovani, una fucina di mestieri dove si poteva esprimere la voglia di creare dai mobili alle sedie e persiane, dalle figure scolpite nel legno o nel marmo a quelle in metallo”. Con questa definizione, lo scultore chiavarese spiega come si forma un artigiano, mestiere oggi un po’ dimenticato. “La scuola d’arte, fondata dalla Società Economica di Chiavari, ha insegnato a molti ragazzi di questa zona varie discipline, dando loro una formazione non solo professionale, ma anche culturale. Si imparava l’intaglio, l’intarsio, il balzo dei metalli e la lucidatura dei mobili, e non mancavano sia l’insegnamento della storia dell’arte sia le teorie del disegno”.
Casoni negli anni ’70 incomincia l’attività in proprio, scolpisce opere che abbelliscono piazze e luoghi sacri. Tra le sculture a lui care, si ricorda il gruppo processionale della Santissima Trinità della parrocchia di Modica (RG), la statua di Giuseppe Garibaldi in marmo posta in Val Graveglia, terra d’origine degli avi dell’Eroe dei due mondi. E ancora il monumento al Presidente della Repubblica Sandro Pertini a Tribogna, ricavato da marmo iscioli (verde e rosso Levanto) e poi molti manufatti religiosi nelle chiese della Val Graveglia.
Con i viaggi in Bretagna e oltre oceano in compagnia del figlio, architetto e designer, Casoni trova gli spunti per realizzare sculture ispirate al mare e ai velieri d’epoca; incomincia a scolpire polene in legno di castagno e di quercia. “Ne ho scolpite più di una dozzina, - ci racconta - molte sono installate sulla prua di velieri tra cui il “Baboon”, vascello inglese; altre sono esposte in musei e nelle sale di palazzi antichi di Genova adibiti a mostre e convegni. Ho fatto moltissime mostre in giro per la Liguria e in Italia, ma anche in Bretagna e negli Stati Uniti.” Oggi queste realtà locali sono state inglobate nelle scuole professionali ed è scomparso l’artigiano che trasferiva all’apprendista quel sapiente addestramento utile a chi vuole intraprendere un mestiere caratterizzato dall’estrosità creativa ed una pregevole abilità manuale.
“DOPO LA MUSSA O MEGGIU MANGIA’ I SUN I RAIE RISCADEE!” La butta lì Casoni facendo il verso a una battuta del grande Elio Vito Petrucci, ironico poeta dialettale genovese del ‘900. “TI DIGI BEN TI CHE MANGEIVA E GAMBE DA TOA” incalza l’oste conoscendo lo storico appetito di Casoni. “MAI QUELLE DE UNA TOA VEGIA!” ribatte lui spazzolando con cura gli ultimi FRI-SCOE.
Ed ora andiamo ancora più alla scoperta del personaggio: U MAESTRU, come lo chiamano tutti a Chiavari.
Franco, raccontaci un po’ dei tuoi legni ispiratori…
“I nostri vecchi naviganti risalivano il Missisippi con le stive cariche degli scarti di lavorazione del PITCH PINE, il famoso pino dell’Oregon. Attraversavano l’oceano e scaricavano i tronchi a San Pier D’Arena. Servivano a realizzare i colmi dei tetti delle case liguri.
Mi commuovo pensando che dopo 300 anni, smontati e scartati dalle nuove tecnologie edilizie, arrivino sul mio banco di lavoro vivi come un tempo, magnificamente stagionati e pronti a ricominciare un’altra vita con la faccia di una polena! Il buon legno ha un’anima eterna!
Nei vecchi travi stanno scritte molte vite e disegnati i suoi volti. Sono una materia magica, evocativa, poetica e a volte esoterica che comunica attraverso i suoi profumi e le sue energie. Spesso sprigionano profumi inebrianti di resine fresche e vive che arrivano dal passato remoto! Ti fanno pensare e meditare. Osservo per giorni venature e nodi del legno. Quando lo sguardo è allenato ogni particolare diventa fonte di ispirazione. Poi è la materia stessa a guidare istintivamente le mie mani e gli attrezzi con i suoi disegni naturali.”
Dopo aver lavorato per tanti anni come ebanista presso il laboratorio del grande maestro Gatti, è successo qualcosa che era nell’aria, per meglio dire nelle tue mani… Di che si tratta?
Studio fotografico Nevio Doz (Chiavari) info@neviodoz.com
“Mi chiamano da Genova i curatori del restauro del “Baboon”, una splendida ‘goletta a gabbiola’ di 75 metri armata con tre alberi. Finalmente! mi dico: mi chiedono una donna e non il solito armadio! La prima polena è come il primo amore che non si scorda mai, e sta qui come se il passato fosse seduto allo stesso tavolo!
This sailing yacht BABOON is a 62 mt. l.o.a steel ship which was completely constructed at Feab Marstrandsverken and conceived by Lars Johansson. The substantial triple masted schooner BABOON is a particularly distinctive Sweden built superyacht which was launched to accolade in 1990. The firm of naval architecture who actualised this yacht's design on the yacht is Lars Johansson. Further, the interior styling was sucessful creation of Arredamenti Porto. She could be described as a modern triple masted schooner.
L’armatore inglese, un grande collezionista d’arte, mi chiede di rappresentare la moglie. Mi da un suo ritratto. E’ una donna molto bella e sofisticata: fanne una polena, mi dice! Parole magiche per me. Decido di rappresentarla come si usava a metà ottocento e lavoro giorno e notte per dare vita alla donna dei sogni di ogni uomo e marinaio: femminilità, capelli fluenti, seno prorompente, sguardo ammaliante e sensuale, l’iconografia classica della polena. Il giorno del varo installo la scultura sotto il bompresso. Ma qualcosa non va! Il marito imbarazzato mi dice che la moglie, indignata, non è stata tanto beneficiata da madre natura, anzi, è piatta!
Che fare? Non ho scelta. Scendo in acqua con il barcarizzo e vado a ridimensionare le forme con sgorbia, mazzetta e cuore in lacrime. I marinai osservano e commentano sarcastici lo scempio. Quel bendiddio a scaglie spesse finisce volteggiando a galleggiare nell’acqua del bacino di carenaggio. Mi sento l’attore grottesco di un film di Fellini. Manca solo il regista! Ma niente è casuale nel destino della vita. La mia polena viene più volte ripresa durante le scene di un gettonatissimo film di 007 con l’agente segreto che fugge inseguito dal controspionaggio russo proprio sotto il bompresso del Baboon.”
Una polena benaugurante per la Goletta Verde, l'imbarcazione di Legambiente che da anni attraversa il Mediterraneo per monitorare lo stato del mare italiano. L'ha realizzata lo scultore chiavarese Franco Casoni e consegnata al comandante, che l'ha legata e issata alla barca per poi “battezzarla” prima nel mare e poi con un goccio di vino rosso. Una tradizione marinara rivisitata dagli ambientalisti che sabato sera si sono ritrovati, prima della partenza alla volta della Toscana, sul molo del porto turistico di Chiavari: l'equipaggio della barca insieme ai soci del circolo chiavarese Cantiere Verde, presieduto da Massimo Maugeri.
Il lavoro di questo “ragazzo del 44”, nato a Chiavari ma parmigiano nel DNA, è stato un crescendo artistico. Leo Lionni, Emilio Prini e Merz, paladino dell’arte povera i suoi maestri negli anni del fuoco che brucia dentro all’inseguimento di una crescita artistica energica come la burrasca. Sostenuta sempre da una ricerca attenta e costante: “In questo periodo studio la postura delle mani nell’arte Bizantina.”
Studio Fotografico Nevio Doz (Chiavari) info@neviodoz.com
Il 2008 fu una annata speciale per la Mostra autunnale di Mare Nostrum. Lo scultore Franco Casoni presentò al castello cinquecentesco di Rapallo cinque polene da lui eseguite a grandezza naturale e di grande fascino. Nella stessa sala, il pittore di marina Marco Locci espose i suoi meravigliosi dipinti di navi.
Oggi che Marco ci ha lasciato, è ancora più difficile immaginare i due artisti rivieraschi, vivere separati su mondi diversi. I tratti artistici del loro essere sono simili e numerosi: la ligusticità interiore, l’amore per il mare, per la storia, per l’arte, per la musica, persino per la culinaria della nostra regione.
Anche Marco Locci era una "persona speciale" in tutto ciò che faceva: viveva e lavorava da artista. Aveva le sue regole e per chi non lo conosceva a volte sembrava scomodo e scorbutico, ma era soltanto Marco Locci, un uomo che non sapeva nuotare, ma era un autentico uomo di mare. Parlava di qualsiasi nave del passato e del presente come se ne fosse stato il capitano oppure il nostromo. Aveva un profondo rispetto per le navi e le trattava come persone, con la loro personalità e fisionomia. Donava loro il fascino che si erano meritate in mare e le arricchiva di quella atmosfera fumosa tipica dei porti molto trafficati che lui non aveva mai visto, ma che aveva immaginato da grande lettore e cultore di letteratura e storia marinara.
Franco Casoni, allo stesso modo, dà forma alle pietre d’ardesia, al marmo e al legno di Liguria; le sue idee diventano creature che si sposano col mare. Alla fine i due artisti arrivano a braccetto allo stesso traguardo: in mano hanno strumenti diversi, ma il loro percorso è identico, una rotta che parte in alto e da lontano come un lungo fiume che scende dalle montagne e si tuffa in mare: acqua pura e cristallina che solo gli artisti più sensibili sanno trasformare per dare corpo ai loro sogni.
Carlo GATTI
7 Marzo 2017
HMS INFLEXIBLE - Malta, 1913
HMS Inflexible
Malta, 1913
LE FOTO RACCONTANO
Le fotografie d'epoca, soprattutto quando realizzate "da lastra", beneficiano di una nitidezza, di un'incisione" e di qualità generali di livello superiore, consentendo ad un attento osservatore – nel contempo - di osservare tutta una serie di dettagli realmente interessanti se non addirittura, in non pochi casi, curiosi o inusuali.
Il Notiziario del CSTN riprende una tematica già sviluppata in passato, riprendendo a presentare in ogni fascicolo - a partire da questo numero - una fotografia ormai facente parte della storia fotografico-navale più generalmente intesa con caratteristiche di particolare livello tecnico, importanza storica e valenza documentale.
Foto n.1
HMS Inflexible, Malta, estate 1913 (Foto Studio Ellis, Malta – Coll.M.Brescia)
Iniziamo con un'immagine scattata a Malta, nell'estate estate del 1913, opera del noto studio fotografico "Ellis", attivo a La Valletta dalla fine dell'800 sino ai primi anni Trenta del secolo XX: vi è raffigurato l'incrociatore da battaglia Inflexible, nave di bandiera del 2nd Battlecruiser Squadron della Mediterranean Fleet, del quale fanno parte anche l'Invincible e l'Indomitable. Si notino l'assenza delle reti parasiluri e la banda bianca sul fumaiolo anteriore che contraddistingue l'unità nell'ambito del reparto di appartenenza; il rimorchiatore a ruote in primo piano é l'HMSCracker, mentre la "pre-dreadnought" ormeggiata di poppa all'Inflexible é, con ogni probabilità, la King Edward VII.
La fotografia è stata scattata da una posizione abbastanza inconsueta per i fotografi navali maltesi: difatti, all'epoca (e sino agli anni del secondo dopoguerra) la maggioranza delle navi militari veniva fotografata dai bastioni orientali della città della Valletta con - sullo sfondo - i sobborghi di Senglea e Vittoriosa, il "Dockyard Creek" e Fort St. Angelo.
Foto n.2
Il Grand Harbour di Malta, La Valletta e il circondario con - evidenziate - la posizione dell'HMS
Inflexible (in rosso) e quella di fort. St. Angelo (in blu), da dove venne scattata la fotografia.
Al contrario questa immagine raffigura l'Invincible e le altre unità con la prora verso l'imboccatura del Grand Harbour, con i contrafforti degli "Upper Barrakka Gardens" sullo sfondo: di conseguenza, in considerazione delle posizioni relative dei vari elementi raffigurati, è stata scattata invece guardando verso ponente da una posizione sopraelevata, verosimilmente ubicata alla sommità di Fort. St. Angelo (si veda la cartina n. 2) –
Foto n.3
Il dettaglio del rimorchiatore HMS Cracker
Come evidenziavamo in precedenza, la stampa è eccezionalmente nitida per un documento fotografico risalente ad un secolo fa: ne è la prova il dettaglio del rimorchiatore HMS Cracker (foto n. 3) - utilizzato a dalla Royal Navy nel "Dockyard" (Arsenale) di Malta tra gli ultimi due decenni del secolo XIX e gli anni Trenta: in particolare evidenzia il metodo di propulsione "a pale" di questo mezzo d'uso portuale.
Foto n.4
Il dettaglio dell'equipaggio dell'HMS Inflexible schierato per la foto "ufficiale", con il fotografo indicato dalla freccia rossa.
Ma l'elemento più interessante è quello della foto n. 4, raffigurante il castello di prora dell'HMS Infvicible come si può notare, l'equipaggio è "in posa" sul ponte di castello, sulla torre binata prodiera da 305 mm e sui vari livelli della plancia comando mentre - indicato dalla freccia rossa - un fotografo munito di una grossa fotocamera "a treppiede" sta scattando una foto alla "ship's company" dell'unità. Come era uso all'epoca, per realizzare una foto "di gruppo" di questo genere gli ufficiali (con il comandate al centro) sono seduti nelle prime file, mentre il resto dell'equipaggio è in piedi o in altre posizioni, con alcuni marinai collocati anche a cavalcioni delle volate dei cannoni della torre di grosso calibro prodiera.
Un'immagine "del tempo che fu", dunque ma che - come tutte le fotografie navali del passato - ha il pregio di far rivivere l'atmosfera ormai trascorsa delle grandi unità corazzate armate con cannoni di grosso calibro: un aspetto della guerra sul mare definitivamente consegnato al passato ma il cui ricordo - grazie a immagini come questa che presentiamo oggi, può essere mantenuto vivo ancora ai nostri giorni.
Maurizio BRESCIA
Rapallo, 2 Gennaio 2014
G.BETTOLO, Casa di Riposo dei Marinai a Camogli
Casa di Riposo “ G. BETTOLO”
CAMOGLI
Un po’ di Storia:
L’Avv. Lorenzo Bozzo, figlio di marinai in una città di marinai, il 7 aprile 1917 nella Sala Consiliare di Camogli, espresse quello che era stato uno dei suoi propositi a lungo meditati: quello di “fondare in Camogli una Casa di Riposo per la Gente di Mare della Marina Mercantile, in memoria di Giovanni Bettolo, quale migliore omaggio e ricordo da eternare alla posterità”.
Purtroppo il 2 ottobre 1918 Lorenzo Bozzo, appena quarantottenne, decedeva. Fortunatamente il seme gettato trovò terreno fertile tra la gente di Camogli. L’iniziativa fu ripresa dal Sindaco D. Olivari che, nella seduta del Consiglio Comunale del 19 ottobre 1919, fondò il Comitato Operativo per portare avanti il progetto che trovò ampio consenso sia nelle Istituzioni Nazionali che tra i cittadini, che contribuirono con lasciti ed oblazioni a costruire i fondi per la realizzazione della grande opera.
La Società Capitani e Macchinisti Navali di Camogli, fondata nel 1904, si dedicò in modo straordinario all’iniziativa e determinanti furono le collette fatte dai Comandanti tra gli equipaggi camogliesi delle grandi navi del tempo, che portarono in breve a raccogliere complessivamente la somma di L=791.000, pari ad oltre la metà del valore preventivato per la realizzazione dell’opera.
Per dare veste giuridica appropriata all’iniziativa, il Comitato Promotore fu sostituito dall’Opera Pia per l’Assistenza della gente di mare G. Bettolo che con regio decreto del 29.11.1923, N 2669, fu eretta in Ente Morale.
Per spiegare il grande favore con cui la cittadinanza camogliese accolse e portò avanti l’iniziativa, si devono ricordare almeno tre motivazioni:
1) – La profonda stima di cui aveva goduto Lorenzo Bozzo.
2) - L’atmosfera di fervore civile dell’epoca, che si può sintetizzare con
l’espressione “Italia di Vittorio Veneto”.
3) - La lunga consuetudine della cittadinanza camogliese a promuovere Istituzioni di carattere sociale, fiorite quasi esclusivamente sulla generosità degli abitanti: l’Ospedale (fin dal 1800), l’Asilo Infantile (1867), la Piccola Casa di Provvidenza (1868), l’Orfanotrofio maschile (1924).
Il 21 agosto 1929 la Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali concesse alla casa G. Bettolo due mutui per la somma complessiva di lire 1.400.000. Ciò consentì all’Opera Pia di bandire un concorso per la costruzione dell’edificio. La costruzione fu aggiudicata alla ditta Celle & Morando. Il Comune di Camogli contribuì all’opera cedendo l’area del vecchio cimitero. All’esecuzione del progetto prestò la sua opera gratuitamente l’ing. Carlo Montano, in memoria del padre, comandante della Navigazione Generale. I lavori ebbero inizio nel gennaio 1930 e durarono poco più di un anno.
La Casa fu inaugurata il mattino del 1 agosto 1931, dagli allora Sovrani d’Italia, che nel pomeriggio dello stesso giorno assistettero al varo del transatlantico Rex nello scalo di Sestri Ponente.
Dopo un primo periodo di gestione diretta da parte dell’Opera Pia Giovanni Bettolo, nel 1933 la Casa di riposo passò all’I.N.P.S. e dal 1934 fu gestita dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, che mantenne, e lo fa tuttora, inalterate le sue finalità di assistenza agli anziani marittimi.
La Casa di Riposo G. Bettolo, chiamata anche “Casa dei Marinai”, colpisce per la sua imponente bellezza architettonica e per la splendida posizione a picco sul mare, perfettamente incastonata nel Parco naturale del Promontorio di Portofino.
Per chi arriva nel Golfo Paradiso via mare, è facile scambiare la sagoma dell’edificio per lo shape di una grande nave passeggeri della “belle époque”. Il suo scafo è dipinto nelle rocce scure e striate che affondano nella schiuma della scogliera, mentre i quattro piani del complesso, ricordano, persino nei particolari, i ponti passeggeri di una nave di linea. Questa idea si riflette, ancora, guardando il possente muraglione che, cingendo l’intero complesso, ne ricorda il Ponte Passeggiata.
Al centro della costruzione, poi, c’è la classica entrata a doppie scalinate spioventi che disegnano la prora, sulla quale si staglia l’albero con la bandiera nazionale.
Più simile ad un albergo a più-stelle della Riviera, che ad un’Opera Pia, la Casa G. Bettolo è in grado di sorprenderci anche guardandola da vicino, sia per la perfetta geometria del parco, nel quale giganteggiano alberi secolari, sia per gli interni eleganti e ricchi d’antichi reperti marinari.
L’indubbia eleganza -old fashion- si respira in ogni angolo dell’edificio e, quando si è certi ormai di fare la conoscenza con illustri ammiragli, comandanti, ufficiali in attraenti divise, beh! a quel punto si rimane delusi. Nessun maggiordomo in livrea ci viene incontro, mentre antichi personaggi in uniforme appaiono soltanto in alcuni quadri di gran pregio, tra i molti, raffiguranti navi italiane famose durante il ventennio ed altre più recenti a colori.
Il personale della Casa G.Bettolo è stato scelto sicuramente per l’alta professionalità, ma soprattutto per la sua paziente semplicità e per il tratto addirittura familiare.
La Casa di Riposo è dotata d’attrezzature alberghiere di prim’ordine (49 stanze singole), ampi saloni da pranzo, soggiorno, aula multimediale ed è munita di servizi efficienti e funzionali che assicurano un soggiorno molto confortevole, con assistenza medica e infermieristica.
Il salone comune, normalmente dedicato alle attività degli Ospiti, può essere adattato ad aula multimediale, dotata di proiettore, visualpresenter, schermi motorizzati combinati VHS e lettori DVD, attrezzature usate per conferenze, presentazioni e proiezioni.
All’interno della casa è situata altresì una piccola Cappella a disposizione di tutti.
Il tutto è affidato a personale altamente specializzato e tecnico. All’interno della struttura una palestra è a disposizione degli Ospiti.
A questo punto il pensiero corre proprio a loro, agli anziani marittimi, alla loro calorosa accoglienza, al rinnovato prestigio acquisito e soprattutto a quel forte impatto ambientale, a contatto diretto con gli elementi marini che ne fanno un tutt’uno con il ricordo della loro passata realtà lavorativa.
Al termine di questa presentazione, riportiamo ciò che a noi è sembrata qualcosa di più che una semplice curiosità: la Casa di Riposo G. Bettolo è il fiore all’occhiello dell’INPS, essendo l’unico “modello” in Italia ed a quanto sembra, nel mondo. Numerose, infatti, sono le delegazioni straniere che ottengono il permesso di visitare e studiare la struttura per poterla riprodurre nei loro Paesi.
Carlo GATTI
Rapallo - 10.02.12
I BENEDETTINI DI VILLA CELLA (1020 s.l.m.)
I BENEDETTINI DI VILLA CELLA
(1020 s.l.m.)
10 case, due abitanti ed una storia antica
In questa zona montana alle spalle del golfo Tigullio, rimbombano ancora i racconti di quando i maestri d’ascia ed altre maestranze dei Cantieri navali della Riviera, usavano scegliersi il legno per ogni loro esigenza di costruzione e si trasformavano in pellegrini... Non c’erano le autostrade e le ferrovie come al giorno d’oggi, l’unica via per raggiungere le foreste montane dell’Aveto erano le mulattiere. Da Rapallo valicavano il passo il Passo della Crocetta, vicino al Santuario della Madonna di Montallegro, da qui scendevano a Coreglia in Val Fontabuona, proseguivano per San Colombano, aggiravano il fondovalle del monte Pissacqua e arrivavano a Borzonasca.
Da qui si snodava, in arrampicata, la millenaria mulattiera, una vera “arteria medievale”, che toccava le seguenti località: Squazza, Caregli, Gazzolo, Temossi, Villa Jenzi, La Pineta, Rezoaglio, Villa Cella (fino al 1550)- Foresta del Penna. Il percorso era molto trafficato per gli scambi commerciali che avvenivano tra la Liguria e l’Emilia, e era molto aspro per la conformazione del territorio.
La zona dell’Aveto, oggi Parco dell’Aveto (3.000 ettari), é il più montano dell’Appenino Ligure e ne comprende le cime più elevate fra i 1600 e i 1800 metri di altezza, quali il Maggiorasca (1.799 metri), il Penna (1735 mt), lo Zatta, l’Aiona (1.701 mt), il Groppo Rosso (1.593 mt). Vi erano altre mulattiere, forse più brevi, ma meno organizzate e controllate. Il vero problema per le carovane di muli carichi di merce preziosa era, però, di ben altra natura: il brigantaggio! Il rischio di perdere tutto, anche la vita, era altissimo a causa degli agguati improvvisi e ferocissimi di gentaglia senza scrupoli. Pertanto i convogli erano lunghi e partecipati nel tentativo di contrastare i “Fra diavolo” locali e per aiutarsi reciprocamente nel caso di perdite di animali e per soccorrere eventuali feriti.
Qualche chilometro prima di Rezzoaglio c’è una deviazione che sale a Villa Cella. Tra le pagine di un vecchio calendario mi era rimasta impressa la foto di un vecchio mulino con un campanile medievale di pietra locale alle spalle. Dopo molti anni di frequentazione della Val d’Aveto, la ruota di quel mulino era l’unico indizio che destava il mio interesse per quella località.
Complice una serena giornata di sole, giunge il momento di togliermi la curiosità di immortalare quel posto con qualche scatto fotografico. Dopo pochi minuti di macchina e molti tornanti in salita, intravediamo un borgo di poche case all’ombra di un campanile che ha l’aria di nascondere una lunga storia.
La signora Carla Cella (a sinistra nella foto con Gun Gatti), intenta ad erigere un muretto, si gira di scatto e ci accoglie con un sorriso meravigliato: “scommetto che siete venuti fin quassù per fotografare il mulino. Lo fanno in molti e non sanno che quel mulino, divenuto ormai il simbolo del paese, è del 1920, un nulla … nella lunga storia di Villa Cella”.
Lei parla con un accento che non sembra della zona. Abita qui?
Sono nata a Villa Cella, ma abito a Chiavari dove ho insegnato fino alla pensione, ma ritorno quassù ogni volta che posso. Qui rivivo la mia gioventù, il contatto con i miei avi, canto, lavoro e scavo nelle mie radici. Questa che vedete è la casa che costruirono i miei genitori. Il paese è quasi disabitato. Lo tengono in vita soltanto due persone, marito e moglie che hanno le chiavi della Chiesa. Tutti gli altri, nel corso dei secoli, sono emigrati nelle “Meriche”. Ogni tanto qualcuno sente la nostalgia e ritorna col pensiero: e alôa mi penso ancon de ritornâ a pösâ e òsse dôve ò mæ madonâ.
Quando succede, sempre più raramente, si organizza una festa per ricordare parenti e amici, ma anche gli eventi che fecero importante questo borgo che è caduto nell’oblio delle autorità e degli storici che avrebbero il compito di raccontare ai giovani di quando una importante via commerciale passava da Villa Cella portando benessere e civiltà.
Signora, la mia curiosità sta salendo alle stelle. Non ha mai pensato di dedicare un libro al suo luogo natio che oggi ci appare popolato solo di fantasmi del passato, ma che lei sembra sicuramente in grado di far rivivere?
Il libro di Carla Cella
L'Antichissima strada della "Prima Martina" (in nero)
e la strada carrozzabile che collega Villa Cella alla valle (in rosso)
Carta geografica della zona avetana Sud
La mulattiera della Pria Martina indicata sulla carta era già in uso prima del mille. Tra la nostra Riviera e la Valle Avetana per lo scambio dei prodotti. Al passo della Bisinella, la mulattiera entra in quel di Villa Cella, o meglio in Val d’Aveto. La lunghezza del tragitto Chiavari-Borzonasca-S.Stefano d’Aveto, pur tagliando per gli impervi pendii, era lungo e stancante sia per gli uomini che per gli animali. Poi c’erano le stagioni buone e quelle pessime, c’erano i briganti che assalivano le carovane e spesso c’erano morti e feriti. Fu per questi seri motivi che un esiguo numero di frati Benedettini apparvero sulla scena della storia verso il 1000 e si stabilirono qui, dove siamo noi in questo momento, allo scopo di prestare soccorso ai viandanti ed ai loro animali. La loro attività durò per ben cinque secoli.
Si costruirono un piccolo convento adibito anche ad ospedale e poi una piccola ed austera chiesetta che nel tempo fu ampliata e dedicata a S.Michele.
Da chi dipendeva quella comunità di frati?
Nel 1103 frate Alberto inviava una lettera all’Abate della Casa Madre in Cel d’oro di Pavia informandolo di aver terminato la Chiesa ed offrendogli la sudditanza perpetua. L’Abate di Pavia accettava l’offerta e nominava fratello Alberto “Abate” di quella nuova comunità religiosa, autonoma che poteva battezzare, unire in matrimonio, seppellire i morti vivendo nel rispetto e nell’osservanza delle regole dell’Ordine religioso di appartenenza.
L'accesso alla chiesa
Gli alberi sul sagrato
Il Tabernacolo
La statua della Madonna dell'Orto
(da Cristoforo Cella, "Capuré")
La statuta esterna di San Lorenzo, patrono della nuova chiesa
Era nata così, in Val d’Aveto, una nuova “CELLA MONASTICA” – La parola CELLA sostituì col tempo il nome della località Prima Martina. Oltre al borgo, questo parola CELLA, divenne anche il cognome di tutti coloro che vennero ad abitare, nei secoli, vicino al monastero.
Quali testimonianze lasciarono i Benedettini?
I frati, fedeli al loro motto “Ora et Labora”, seppero alternare, in perfetta armonia, momenti di preghiera a momenti di intenso lavoro.
L’operosità, l’ingegnosità, l’ospitalità, il loro “modus vivendi” e la grande opera di redenzione furono un fondamentale faro luminoso di luce Cristiana per tutta la valle. Nel loro cuore albergava veramente la carità cristiana.
- Costruirono, usando con maestria la pietra locale, la sabbia del torrente Ritano, la calce cotta in fornace ed il legname dei boschi attorno.
- Dissodarono e coltivarono le zolle circostanti per produrre quanto necessario al loro sostentamento.
- Nutrirono e soccorsero i viandanti dando loro ospitalità, sia di notte che di giorno, così anche ai loro animali.
- Canalizzarono ruscelli, costruirono dighe, ponti e ponticelli dando origine al fiume Aveto.
- Tracciarono l'antica strada di Arecascine lastricate di ciottoli (u rizzou) ormai levigati dai passi del tempo.
Il tipico segno beneaugurale della croce posto dai Benedettini sulle loro opere
- Tra i resti dei cinque mulini che sfruttavano le rigogliose acque del Ritano, ce n’è uno molto antico che per la sua tipica costruzione non può che essere “benedettino”. Da quanto resta, si deduce che l’acqua proveniente dal fiume, convogliata nel mulino attraverso una canaletta di legno, faceva ruotare la la ruota a palette (turbina), collegata all’albero di trasmissione, in senso orizzontale come il precedente.
- Tale sistema, detto “a ritrecine” è tipico dei mulini dei Benedettini, che grazie a loro si è poi diffuso in tutta Europa, così come il segno ben augurale della croce, inciso sulla macina.
Perché se ne andarono i frati?
Si era ormai giunti al 1500. Nella piana di Cabanne, ormai prosciugata e coltivata, gli abitanti erano numerosi e in continuo aumento: la Chiesa diventa parrocchia (1500) ed una strada comoda e pianeggiante facilitava gli scambi commerciali tra i vari centri. Ormai le merci dalla riviera salivano e scendevano dal passo dei Bosà e non più da quello di Bisinella, cioè percorrevano un’altra strada che, pur partendo anch’essa da Borzonasca, raggiungeva, seguendo il corso del torrente Sturla, gli abitanti di Malanotte, Casè, Stibiveri, La Squazza e quindi Bozzale (Bosà) e Cabanne. Per forza maggiore, il traffico ed i viandanti sulla strada che passava per la “Cella” (strada di Pria-Martina) diminuirono. Il declino fu rapido. Anche Rezzoaglio nel 1525 divenne parrocchia: i fedeli che salivano al Monastero de La Cella, per funzioni religiose erano sempre meno.
Fu così che, dopo secoli di assidua preghiera ed intenso lavoro, essendo stato centro di cultura, punto di riferimento sicuro per l’intera vallata, La Cella Monastica venne abbandonata dai Benedettini che, verso la fine del 1500, fecero ritorno alla Casa Madre, in Cel d’Oro di Pavia. Il complesso rimase ancora Parrocchia per altri due secoli, retto da Sacerdoti.
GATTI CARLO
Ringrazio la signora Carla CELLA per averci fatto conoscere, questo borgo incantato e immobile nel tempo. I suoi racconti pieni di cultura e sentimenti legati a tante storie di guerre, emigrazioni dei suoi antichi e recenti abitanti di Cella, li potete trovare nel suo prezioso libro:
LA CELLA – “RA-ZELLA” – Villa Cella
Finito di stampare nel mese di luglio 2016 da: Azienda Grafica Busco srl - Zoagli
7 Febbraio 2017
GLI EROI DI ALESSANDRIA
GLI EROI DELL'IMPRESA DI ALESSANDRIA
L'attacco ad Alessandria (18 - 19 dicembre 1941)
« ...sei Italiani equipaggiati con materiali di costo irrisorio hanno fatto vacillare l'equilibrio militare in Mediterraneo a vantaggio dell'Asse. » (Wiston Churchill) |
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Luigi Durand de la Penne ed altri cinque eroi hanno affondato le navi inglesi Valiant e Queen Elizabeth. La loro impresa é passata alla storia per audacia, coraggio e grande sangue freddo. Si servirono di tre S.L.C. (siluri a lenta corsa) trasportati dal sommergibile-appoggio Scirè comandato dal Capitano di Fregata J.V. BORGHESE che fu anche l’ideatore dell’Operazione G.A.3.
CHI ERANO?
Luigi Durand de la Penne - Tenente di Vascello
Medaglia d'oro al Valor Militare
“Ufficiale coraggioso e tenace, temprato nello spirito e nel fisico da un duro e pericoloso addestramento, dopo aver mostrato, in due generosi tentativi, alto senso del dovere e di iniziativa, forzava, al comando di una spedizione di mezzi d'assalto subacquei, una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con una azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini. Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superando difficoltà ed ostacoli di ogni genere fino all'esaurimento di tutte le sue forze, disponeva la carica sotto una nave da battaglia nemica a bordo della quale veniva poi tratto esausto. Conscio di dover condividere l'immancabile sorte di coloro che lo tenevano prigioniero, si rifiutava di dare ogni indicazione sul pericolo imminente e serenamente attendeva la fine, deciso a non compromettere l'esito della dura missione. Rimasto miracolosamente illeso, vedeva, dalla nave ferita a morte, compiersi il destino delle altre unità attaccate dai suoi compagni. Col diritto alla riconoscenza della Patria conquistava il rispetto e la cavalleresca ammirazione degli avversari; ma non pago di ciò, una volta restituito alla Marina dopo l'armistizio, offriva nuovamente se stesso per la preparazione e l'esecuzione di altre operazioni, sublime esempio di spirito di sacrificio, di strenuo coraggio e di illuminato amor di Patria. Alessandria d'Egitto, 18 - 19 dicembre 1941.”
Nacque a Genova l'11 febbraio 1914. Dopo aver conseguito il diploma di Capitano Marittimo presso l'Istituto Nautico San Giorgio di Genova, nell'ottobre 1934 frequentò, presso l'Accademia Navale di Livorno, il Corso Ufficiali di complemento, al termine del quale, nel grado di Guardiamarina, imbarcò sul cacciatorpediniere Fulmine.Nel 1935 passò ad operare nell'ambito della 6a Squadriglia MAS di La Spezia e, trattenuto in servizio per esigenze eccezionali, connesse al conflitto italo-etiopico, nel 1938 conseguì la promozione a Sottotenente di Vascello. Nel secondo conflitto mondiale partecipò a numerose missioni con i MAS nel Mediterraneo e nell'ottobre 1940 conseguì la promozione a Tenente di Vascello. Passato ad operare con il Gruppo mezzi d'assalto, partecipò alla missione di Gibilterra (30 ottobre 1940) e all'impresa di forzamento della base inglese di Alessandria - Capogruppo dei "maiali" 221, 222 e 223 condotti rispettivamente dallo stesso Luigi Durand de la Penne, da Vincenzo Martellotta, e Antonio Marceglia, coadiuvati dai capi palombari Emilio Bianchi e Mario Marino e dal sottocapo Spartaco Schergat - che portò, all'alba del 19 dicembre 1941 all'affondamento delle navi da battaglia inglesi Valiant e Queen Elizabeth, della petroliera Sagona e al danneggiamento del cacciatorpediniere Jervis. De la Penne, dopo aver superato con notevoli difficoltà le ostruzioni del porto, da solo collocò la carica esplosiva sotto le torri di prora della Valiant e, risalito in superficie, venne scoperto e fatto prigioniero. Portato a bordo con il 2° capo Emilio Bianchi, secondo operatore del suo mezzo, fu rinchiuso in un locale adiacente al deposito munizioni e vi fu tenuto anche dopo che ebbe informato il comandante dell'unità inglese, Capitano di Vascello Morgan, dell'imminenza dello scoppio della carica, al fine di far porre in salvo l'equipaggio.Uscito indenne dall'esplosione che affondò la nave, tradotto prigioniero in India, nel febbraio 1944 rimpatriò a partecipò alla guerra di liberazione nel Gruppo Mezzi d'Assalto.Tutti gli operatori vennero poi decorati di Medaglia d'Oro al Valore Militare e promossi per merito di guerra. La consegna della decorazione a Luigi Durand de la Penne avvenne a Taranto nel marzo 1945 e fu l'occasione di uno storico episodio: fu infatti lo stesso comandante della Valiant nel 1941, Capitano di Vascello Sir Charles Morgan, divenuto ammiraglio, che decorò Luigi Durand de la Penne, su invito del luogotenente del Regno Umberto di Savoia che presiedeva la cerimonia. Promosso Capitano di Corvetta in data 31 dicembre 1941, Capitano di Fregata nel 1950 e Capitano di Vascello a scelta eccezionale nel 1954, nell'ottobre 1956 fu Addetto Navale in Brasile quindi, per mandato politico a seguito della sua elezione a Deputato al Parlamento (2a, 3a , 4a, 5a e 6a legislatura), fu collocato in aspettativa ed iscritto nel Ruolo d'Onore, dove raggiunse il grado di Ammiraglio di Squadra. L'Ammiraglio di Squadra (R.O.) Luigi Durand de la Penne morì a Genova il 17 gennaio 1992.
Altre decorazioni e riconoscimenti per merito di guerra:
• Medaglia d'Argento al Valore Militare sul Campo (Gibilterra, 1940);
• Trasferimento in s.p.e. nel grado di Tenente di Vascello (1941);
• Promozione al grado di Capitano di Corvetta (1941).
Antonio MARCEGLIA Capitano del Genio Navale
Medaglia d'oro al Valor Militare
“Ufficiale di altissimo valore, dopo aver dedicato tutte le sue forze ad un pericoloso e logorante periodo di addestramento, prendeva parte ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini. Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superando difficoltà ed ostacoli di ogni genere, disponeva la carica sotto una nave da battaglia avversaria e, dopo aver distrutto l'apparecchio, prendeva terra sul suolo nemico dove veniva fatto prigioniero, non prima, però, di aver visto il pieno successo della sua azione. Luminoso esempio di cosciente eroismo e di alto spirito di sacrificio, si palesava degno in tutto delle gloriose tradizioni della Marina Italiana. Non pago di ciò, una volta restituito alla Marina dopo l'armistizio, offriva nuovamente se stesso per la preparazione e l'esecuzione di altre operazioni. Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”
Nacque a Pirano (Pola) il 28 luglio 1915. Allievo dell'Accademia Navale nel Corpo del Genio Navale dal 1933, nel dicembre 1938 conseguì la nomina a Sottotenente del Genio Navale e, dopo la laurea ottenuta con il massimo dei voti nello stesso anno all'Università di Genova, conseguì la promozione a Tenente. Destinato prima presso il Comando Militare Marittimo Autonomo dell'Alto Adriatico, imbarcò poi su sommergibili e, alla dichiarazione di guerra dell'Italia del 10 giugno 1940, si trovava imbarcato sul sommergibile Ruggiero Settimo, con il quale partecipò a tre missioni in Mediterraneo. Nell'ottobre 1940, a domanda, passo nel Gruppo Mezzi d'Assalto e dopo un duro addestramento partecipò a due missioni contro la base navale inglese di Gibilterra (maggio e settembre 1941). Promosso Capitano G.N. nel gennaio 1941, nel dicembre dello stesso anno partecipò all'audace missione di forzamento del porto di Alessandria - condotta nella notte dal 18 al 19 dicembre, nell'incarico di 1° operatore del mezzo speciale 223 (2° operatore Palombaro Spartaco Schergat - che culminò con l'affondamento di due navi da battaglia inglesi (Valiant e Queen Elizabeth) e della petroliera Sagona e col danneggiamento del cacciatorpediniere britannico Jervis. Dopo l'azione condotta con successo contro la corazzata Queen Elizabeth, fu fatto prigioniero a condotto al campo per prigionieri di guerra n. 321, in Palestina, quindi fu trasferito in India. Rimpatriato nel febbraio 1944, partecipò alla guerra di liberazione con i Mezzi d'Assalto, compiendo una missione di guerra nell'Italia occupata dai tedeschi. Posto in congedo, a domanda, nel dicembre 1945 ed iscritto nel Ruolo del complemento con il grado di Tenente Colonnello G.N., assunse a Venezia la direzione di un cantiere navale. Il Tenente Colonnello G.N. Antonio Marceglia è morto a Venezia il 13 luglio 1992. Altre decorazioni e riconoscimenti per merito di guerra:
• Medaglia d'Argento al Valore Militare sul Campo (Gibilterra, maggio 1941);
• Croce di Guerra al Valore Militare sul Campo (Gibilterra, settembre 1941);
• Promozione a Maggiore Genio Navale (1941).
Vincenzo MARTELLOTTA Capitano delle Armi Navali
Medaglia d'oro al Valor Militare
“Ufficiale di altissimo valore, dopo aver dedicato tutte le sue forze ad un pericoloso e logorante periodo di addestramento, prendeva parte ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini. Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superato difficoltà ed ostacoli di ogni genere, disponeva la carica sotto una nave avversaria e, dopo aver distrutto l'apparecchio, prendeva terra sul suolo nemico dove veniva fatto prigioniero, non prima, però, di aver visto il pieno successo della sua azione. Luminoso esempio di cosciente eroismo e di alto spirito di sacrificio, si palesava degno in tutto delle gloriose tradizioni della Marina Italiana. Non pago di ciò, una volta restituito alla Marina dopo l'armistizio, offriva nuovamente se stesso per la preparazione e l'esecuzione di altre operazioni. Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”.
Nacque a Taranto il 1° gennaio 1913. Dopo aver conseguito la maturità classica presso il Liceo Morea di Conversano (Bari) ed iscritto al 1° anno nella Facoltà di Ingegneria dell'Università di Napoli, attratto dal mare, inoltrò domanda all'Accademia Navale di Livorno e nell'ottobre 1931 fu ammesso Allievo nel Corpo delle Armi Navali. Nel 1934 venne destinato all'Istituto Superiore di Guerra a Torino e, presso il Politecnico di questa città, conseguì la laurea in Ingegneria Industriale. Promosso Sottotenente A.N. nel 1935 e Tenente A.N. nel 1936, nell'ottobre 1937 e dopo aver terminato il Corso integrativo presso l'Accademia Navale, fu destinato a Massaua quale Ufficiale Dirigente delle Officine Siluri e Artiglieria e dell'Autoreparto. Rimpatriato nel 1939, svolse incarichi prima presso la Direzione Armi Subacquee a La Spezia e poi presso il Reparto Siluri, Lanciasiluri, Torpedini e Collaudo Sommergibili a Taranto. Nell'ottobre 1940, a domanda, passo negli operatori dei mezzi d'assalto ed al termine del duro corso addestrativo partecipò all'azione su Malta il 26 luglio 1941 ed a quella su Alessandria sulla notte dal 18 al 19 dicembre 1941, che culminò con l'affondamento di due corazzate e di una petroliera inglese. Coadiuvato dal 2° operatore Capo palombaro di 3a classe Mario Marino, attaccò la petroliera Sagona affondandola e danneggiando il cacciatorpediniere britannico Jervis. Tratto prigioniero dopo la vittoriosa azione, rimpatriò nel febbraio 1944 e partecipo alla guerra di liberazione nei Mezzi d'Assalto. Terminato il conflitto partecipò volontariamente alto sminamento ed alla bonifica dei porti di Genova, San Remo, Oneglia e Porto Maurizio, e, assieme al fratello Diego, Maggiore dei Bersaglieri ed esperto in chimica di guerra, alla bonifica dei porti di Brindisi, Bari, Barletta, Molfetta e Manfredonia. Nel 1947, con gli uomini del Nucleo di cui era al comando, domò un incendio sviluppatosi in un deposito di esplosivi a Bari e neutralizzo un potente aggressivo chimico fuoriuscito da un ordigno, scongiurando cosi gravissimi danni alla cittadinanza. Per questa azione, nella quale riporto ustioni da iprite tali da rendere necessario il suo ricovero in ospedale, venne decorato di Medaglia d'Argento al Valore Civile. Promosso Tenente Colonnello A.N. nel gennaio 1953, nel 1960, a domanda, venne collocato in ausiliaria nel grado di Colonnello A.N. Mori a Castelfranco Emilia (Modena) il 27 agosto 1973. Altre decorazioni e riconoscimenti per merito di guerra:
• Medaglia d'Argento al Valore Militare (Malta, luglio 1941);
• Medaglia d'Argento al Valore Civile (Porto di Bari, 1947);
• Promozione a Maggiore A.N. (1941).
Emilio BIANCHI Capo Palombaro di 3a Classe
Medaglia d'oro al Valor Militare
“Eroico combattente, fedele collaboratore del suo ufficiale, dopo averne condivisi i rischi di un tenace, pericoloso addestramento, lo seguiva nelle più ardite imprese e, animato dalla stessa ardente volontà di successo, partecipava con lui ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini. Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superato difficoltà ed ostacoli di ogni genere, valido e fedele aiuto dell'ufficiale le cui forze erano esauste, veniva catturato e tratto sulla nave già inesorabilmente condannata per l'audace operazione compiuta. Noncurante della propria salvezza si rifiutava di dare ogni indicazione sul pericolo imminente, deciso a non compromettere l'esito della dura missione. Col suo eroico comportamento acquistava diritto all'ammirata riconoscenza della Patria e al rispetto dell'avversario. Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”.
Nacque a Sondalo (Sondrio) il 22 ottobre 1912. Volontario nella Regia Marina dal marzo 1932 ed assegnato alla categoria Palombari, frequentò il Corso di specializzazione presso la Scuola C.R.E.M. del Varignano (La Spezia) ed al termine imbarcò sulla nave idrografica Ammiraglio Magnaghi, con la quale compi poi due crociere idrografiche nell'Egeo e nel Mar Rosso. Nel 1934 imbarcò sull'incrociatore Fiume, dove conseguì la promozione a Sottocapo, e nel 1936 venne destinato al 1° Gruppo Sommergibili di La Spezia. Conseguita la promozione a Sergente nel 1937, passò ad operare nella 1a Flottiglia MAS, dando inizio all'addestramento che lo doveva poi far diventare Operatore dei mezzi d'assalto subacquei. Durante il conflitto partecipò, nel grado di 2° Capo, ai due tentativi di forzamento della base inglese di Gibilterra (ottobre e novembre 1940), quindi all'audace forzamento della base di Alessandria come 2° operatore dell'LSC (maiale) n. 221 condotto dal Tenente di Vascello Luigi Durand de La Penne. Partito da bordo del sommergibile Sciré nella notte del 18 dicembre, dopo aver superato gli sbarramenti penetrò con il suo capo operatore all'interno del porto e portò il suo mezzo esplosivo sotto la chiglia della nave da battaglia inglese Valiant, che per lo scoppio, affondò all'alba del 19 dicembre. Colpito durante il tragitto da intossicazione di ossigeno, a causa del durissimo sforzo che ebbe a compiere durante le cinque ore di immersione, costretto a risalire a galla, dopo qualche tempo fu scoperto dalle sentinelle di bordo e, assieme al suo comandante, rinchiuso in un locale di bordo posto nelle immediate vicinanze della santabarbara. Salvatosi fortuitamente dopo lo scoppio della carica, che provocò l'affondamento della nave, venne condotto in un campo di concentramento e rimpatriato al termine del conflitto. Promosso per meriti di guerra Capo di 3a Classe e di 2a Classe, nel 1954, a scelta, conseguì la promozione a Capo di 1a Classe Palombaro. Nel grado di Ufficiale del C.E.M.M. prestò successivamente servizio al Centro Subacqueo del Varignano, al Nucleo Sminamento di Genova ed infine all'Accademia Navale di Livorno, terminando la carriera nel grado di Capitano di Corvetta (CS). Altri riconoscimenti per merito di guerra:
• Promozione a Capo 3a Classe (1941);
• Promozione a Capo 2a Classe (1941).
Mario MARINO Capo palombaro di 3^ classe
Medaglia d'oro al Valor Militare
“Eroico combattente, fedele collaboratore del suo Ufficiale, dopo averne condivisi i rischi di un tenace, pericoloso addestramento, lo seguiva nelle più ardite imprese e, animato dalla stessa ardente volontà di successo, partecipava con lui ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini. Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superato difficoltà ed ostacoli di ogni genere, valido e fedele aiuto dell'Ufficiale; offesa a morte con ferma bravura, la nave attaccata, seguiva in prigionia la sorte del suo Capo, rifiutandosi costantemente di fornire al nemico qualsiasi indicazione. Superbo esempio di ardimento nell'azione e di eccezionali qualità morali. Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”.
Nacque a Salerno il 27 marzo 1914. Volontario nella Regia Marina dal gennaio 1934 ed assegnato alla categoria Palombari, frequentò il corso presso la Scuola C.R.E.M. del Varignano (La Spezia) ed al termine fu destinato presso il Comando Marina di Gaeta. Imbarcò poi sul cacciatorpediniere Freccia e nel 1936 sul sommergibile H.6 sul quale frequento il 1° Corso Sommozzatori ed effettuò le prime sperimentali uscite da sommergibile immerso. A corso ultimato s'imbarcò sull'esploratore da Recco, col quale partecipò a missioni di guerra durante il conflitto italo-etiopico e nella guerra di Spagna. Nel 1938 prese successivamente imbarco sulle navi appoggio Teseo e Titano e su quest'ultima frequentò il Corso per Alti Fondali. Il 4 giugno 1940 sbarcò dal Titano a passò in forza alla 1a Flottiglia MAS quale operatore subacqueo dei mezzi d'assalto ideati dal Maggiore del Genio Navale Teseo Tesei, e partecipò a missioni di guerra con i MAS. Promosso 2° Capo Palombaro Sommozzatore, nel maggio 1941, partecipò, nella notte tra il 26 ed il 27 luglio 1941, all'impresa di forzamento della base navale inglese di Malta nell'incarico di 2° operatore del mezzo di riserva a disposizione del Capitano delle Armi Navali Vincenzo Martellotta. Sempre con Vincenzo Martellotta partecipò, col semovente 222, al forzamento della base navale inglese di Alessandria del 18 e 19 dicembre 1941, coronato dal successo con l'affondamento di due navi da battaglia e di una grossa petroliera ed il danneggiamento di un cacciatorpediniere. Tratto in prigionia dopo la riuscita missione, rimpatriò nell'ottobre 1944, partecipando poi alla guerra di liberazione nel Gruppo Mezzi d'Assalto. Promosso Capo di 1a Classe nel 1949, Sottotenente del C.E.M.M. nel 1962, ebbe il comando del Gruppo S.D.A.I. di La Spezia che mantenne fino al suo collocamento in ausiliaria, avvenuto nel grado di Capitano di Corvetta (CS) nel marzo 1977. Il Capitano di Corvetta (CS) Mario Marino è morto a Salerno l'11 maggio 1982.
Altre decorazioni a riconoscimenti per merito di guerra:
• Medaglia di Bronzo al Valore Militare (Canale di Sicilia, 1941);
Promozione a Capo Palombaro di 3a Classe.
Spartaco SCHERGAT Palombaro
Medaglia d'oro al Valor Militare
“Eroico combattente, fedele collaboratore del suo Ufficiale dopo averne condiviso i rischi di un tenace, pericoloso addestramento, lo seguiva nelle più ardite imprese e, animato dalla stessa ardente volontà di successo, partecipava con lui ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini. Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superato difficoltà ed ostacoli di ogni genere, valido e fedele aiuto dell'Ufficiale; offesa a morte con ferma bravura, la nave attaccata, seguiva in prigionia la sorte del suo Capo, rifiutandosi costantemente di fornire al nemico qualsiasi indicazione; superbo esempio di ardimento nell'azione e di eccezionali qualità morali. Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”.
Nacque a Capodistria (Pola) il 12 luglio 1920. Volontario nella Regia Marina dal marzo 1940, ed assegnato alla categoria Palombari, al termine del corso sostenuto presso la Scuola C.R.E.M. di San Bartolomeo (La Spezia) e brevettato palombaro, a domanda, passo nella X Flottiglia MAS quale Operatore dei mezzi speciali d'assalto. Partecipò alle missioni di forzamento di Gibilterra del maggio e del settembre 1941 e all'impresa di Alessandria dell'alba del 19 dicembre dello stesso anno quando, 2° operatore del "maiale" condotto dal Capitano G.N. Antonio Marceglia, portò il carico di esplosivo sotto la corazzata inglese Queen Elizabeth che, per lo scoppio della carica, affondò all'alba del 19 dicembre 1941. Fatto prigioniero e condotto nel campo inglese n. 321 in Palestina, nell'ottobre 1944 rientrò in Patria partecipando alla guerra di liberazione nel Gruppo Mezzi d'Assalto. Congedato nel novembre 1945, fu iscritto nel Ruolo d'Onore nel grado di 2° Capo. Altre decorazioni e riconoscimenti per merito di guerra:
• Medaglia di Bronzo al Valore Militare (Gibilterra, 1941);
• Croce di Guerra al Valore Militare (Gibilterra, 1941);
• Croce di Guerra al Valore Militare (Mediterraneo occidentale, settembre-novembre 1941); Promozione a Sergente (1941).
L'affondamento della Valiant e della Queen Elizabeth
La più celebre delle azioni della Xª Flottiglia MAS (operazione G.A.3), l'affondamento delle corazzate inglesi Valiant e Queen Elizabeth e della petroliera Sagona ormeggiate nel porto di Alessandria d'Egitto, venne effettuata il 19 dicembre 1941. Si trattò di una sorta di rivincita delle forze armate italiane per le gravi perdite navali subite nella "notte di Taranto" (ottobre 1940). È rimasta famosa come: Impresa di Alessandria.
Foto di Autore ignoto, scattata nel 1942 e ripresa dal sito regiamarina.net; la foto ritrae lo Scirè con sul ponte di coperta i contenitori per due mezzi d'assalto.
La notte del 3 dicembre il sommergibile Sciré, al comando dal Tenente di vascello Junio valerio Borghese lasciò La Spezia per la missione G.A.3. Fece scalo a Lero per imbarcare gli operatori dei mezzi d'assalto giunti in aereo dall’Italia. Il 14 dicembre il sommergibile si diresse verso la costa egiziana per l'attacco previsto nella notte del 17. A causa di una violenta mareggiata l'azione ritardò di un giorno. “Tutto il male non vien per nuocere”, recita un vecchio adagio. Infatti, la notte del 18, il mare spianò completamente, non solo, ma proprio quella notte i nostri eroi approfittarono dell'arrivo di tre cacciatorpediniere per entrare nel varco aperto nelle difese del porto. I treSCL (Siluro a lunga corsa), pilotati ciascuno da due uomini, penetrarono nella base per dirigersi verso i loro obiettivi. Capogruppo dei "maiali" 221, 222 e 223 condotti rispettivamente dallo stesso Durand de la Penne, Vincenzo Martellotta, e Antonio Marceglia, coadiuvati dai capi palombari Emilio Bianchi e Mario Marino e dal sottocapo Spartaco Schergat.
Gli incursori dovevano giungere sotto la chiglia del proprio bersaglio, piazzare la carica d'esplosivo e successivamente abbandonare la zona dirigendosi a terra e autonomamente cercare di raggiungere il sommergibile che li avrebbe attesi qualche giorno dopo al largo di Rosetta.
Siluro a lenta corsa detto comunemente “MAIALE” – (Museo Sacrario delle Bandiere delle Forze Armate, Vittoriano - Roma.
Il sommergibile Scirè, dopo una navigazione in zona minata, si portò davanti al porto di Alessandria d'Egitto «a 1,3 miglia nautiche, per 356° dal Fanale del molo di ponente del porto commerciale di Alessandria, in fondale di m.15» e da lì lasciò partire la flottiglia di maiali che attaccarono le navi inglesi ancorate nel porto. Antonio Marceglia e Spartaco Schergat affondarono la corazzata Queen Elizabeth, Vincenzo Martellotta e Mario Marino la petroliera Sagona e danneggiarono il cacciatorpediniere Jervis.
Nave da Battaglia HMS Valiant
L'equipaggio Durand de la Penne - Bianchi sul maiale nº 221 puntò verso la nave da battaglia Valiant. Perso il secondo a causa di un malore, Durand de la Penne trascinò sul fondo il proprio mezzo fino a posizionarlo sotto la carena della nave da battaglia prima di affiorare, essere catturato e portato proprio sulla corazzata. Dopo poco, gli inglesi catturarono anche Bianchi, che era risalito alla superficie e si era aggrappato ad una boa di ormeggio della corazzata, e lo rinchiusero nello stesso compartimento sotto la linea di galleggiamento nel quale avevano portato Durand de la Penne, nella speranza di convincerli a rivelare il posizionamento delle cariche.
Alle 05,30, a mezz'ora dallo scoppio, de la Penne chiamò il personale di sorveglianza per farsi condurre dall'ammiraglio Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet, ed informarlo del rischio corso dall'equipaggio; ciò nonostante Cunningham fece riportare l'ufficiale italiano dov'era. All'ora prevista, l'esplosione squarciò la carena della corazzata provocando l'allagamento di diversi compartimenti mentre molti altri venivano invasi dal fumo, ma il compartimento che ospitava gli italiani rimase intatto e i due vennero evacuati insieme al resto dell'equipaggio. La Valiant e la Queen Elizabeth, grazie alle acque basse del porto non affondarono completamente e dopo lunghi lavori di riparazione furono recuperate e rimesse in servizio.
Martellotta e Marino, sul maiale nº 222, costretti a navigare in superficie a causa di un malore del primo, condussero il loro attacco alla petroliera Sagona. Dopo aver preso terra vennero anch'essi catturati dagli egiziani. Intorno alle sei del mattino successivo ebbero luogo le esplosioni. Quattro navi furono gravemente danneggiate nell'impresa: oltre alle tre citate anche il cacciatorpediniere HMS Jervis, ormeggiato a fianco della Sagona, fu infatti vittima delle cariche posate dagli assaltatori italiani.
Nave da battaglia QUEEN ELIZABETH
Marceglia e Schergat sul maiale nº 223, in una «missione perfetta», «da manuale» rispetto a quelle degli altri operatori, attaccarono invece la Queen Elizabeth, alla quale agganciarono la testata esplosiva del loro maiale, quindi raggiunsero terra e riuscirono ad allontanarsi da Alessandria, per essere catturati il giorno successivo, a causa dell'approssimazione con la quale il nostro servizio segreto militare, il SIM, aveva preparato la fuga: vennero date agli incursori banconote che non avevano più corso legale in Egitto e per cercare di cambiare le quali l'equipaggio perse tempo. Nonostante il tentativo degli italiani di spacciarsi per marinai francesi appartenenti all'equipaggio di una delle navi in rada, vennero riconosciuti e catturati.
Sebbene l'azione fosse stata un successo, le navi si adagiarono sul fondo, e non fu immediatamente possibile avere la certezza che non fossero in grado di riprendere il mare. Nonostante tutto, le perdite di vite umane furono molto contenute: solo 8 marinai persero la vita.
L'azione italiana costò agli inglesi, in termini di naviglio pesante messo fuori uso, come una battaglia navale perduta e fu tenuta per lungo tempo nascosta anche a causa della cattura degli equipaggi italiani che effettuarono la missione. La Valiant subì danni alla carena in un'area di 20 x 10 m a sinistra della torre A, con allagamento del magazzino munizioni A e di vari compartimenti contigui. Anche gli ingranaggi della stessa torre vennero danneggiati e il movimento meccanico impossibilitato, oltre a danni all'impianto elettrico. La nave dovette trasferirsi a Durban per le riparazioni più importanti che vennero effettuate tra il 15 aprile ed il 7 luglio 1942. Le caldaie e le turbine rimasero però intatte. La Queen Elizabeth invece fu squarciata sotto la sala caldaie B con una falla di 65 x 30 m che passava da dritta a sinistra, danneggiando l'impianto elettrico ed allagando anche i magazzini munizioni da 4,5", ma lasciando intatte le torri principali e secondarie. La nave riprese il mare solo per essere trasferita a Norfolk, in Virginia, dove rimase in riparazione per 17 mesi.
Per la prima volta dall'inizio del conflitto, la flotta italiana si trovava in netta superiorità rispetto a quella britannica, a cui non era rimasta operativa alcuna corazzata la HMS Barham era stata a sua volta affondata da un sommergibile tedesco il 25 novembre 1941). La Mediterranean Fleet alla fine del 1941 disponeva solo di quattro incrociatori leggeri e alcuni cacciatorpediniere.
L'ammiraglio Cunningham per ingannare i ricognitori italiani decise di rimanere con tutto l'equipaggio a bordo dell'ammiraglia che, fortunatamente per lui, si appoggiò sul fondale poco profondo. Per mantenere credibile l'inganno nei confronti della ricognizione aerea, sulle navi si svolgevano regolarmente le cerimonie quotidiane, come l'alzabandiera. Poiché l'affondamento avvenne in acque basse le due navi da battaglia furono recuperate negli anni successivi, ma la sconfitta rappresentò un colpo durissimo per la flotta britannica, che condizionò la strategia operativa anche ben lontano dal teatro operativo del Mediterraneo. A questo proposito, Churchill scrisse:
« Tutte le nostre speranze di riuscire a inviare in Estremo Oriente delle forze navali dipendevano dalla possibilità d’impegnare sin dall’inizio con successo le forze navali avversarie nel Mediterraneo »
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Tuttavia, contrasti tra gli Stati Maggiori dell'ASSE non permisero di sfruttare questa grande occasione di conquistare il predominio aeronavale nel Mediterraneo e occupare Malta.
Durante il periodo dell'armistizio de la Penne venne decorato con la medaglia d'oro al valor militare che gli venne appuntata dalcommodoro sir Charles Morgan, ex comandante della Valiant. Stessa decorazione venne concessa agli altri cinque operatori della Xª.
Dal sito di PPORTOFINO riportiamo:
DURAND DE LA PENNE, AMMIRAGLIO SIMBOLO DI PORTOFINO Subito dopo l’ingresso dei piccolo cimitero di Portofino, posto in uno dei luoghi più belli dei mondo, si vede a sinistra un busto dell’eroe di Alessandria d’Egitto, l’ammiraglio Durand De la Penne, Medaglia d’oro al Valor Militare. E’ stato donato dai portofinesi in onore e memoria e scolpito da Lorenzo Cascio – artista presente con il suo studio in Piazzetta sulla destra, prima di salire verso la Chiesa di San Giorgio.
Visto di profilo, il busto ci dà l’esatta impressione del temperamento volitivo dell’uomo con quello sguardo deciso che ci fa ricordare la fredda risoluzione con la quale egli seppe realizzare l’affondamento, ad Alessandria d’Egitto, della corazzata inglese “Valiant”.
I suoi stessi avversari ne riconobbero appieno l’eroismo. Simbolicamente posto in un luogo dal quale si domina il mare, quel busto sta a significare l’affetto di un’intera popolazione per un uomo che ha rischiato la vita nel mare che è sempre stato l’elemento essenziale della vita portofinese. Luigi Durand De la Penne 1914 – 1992
Carlo GATTI
Rapallo, 1 Gennaio 2014
L'ITALIA nacque prima sul Rio della Plata e nelle acque brasiliane che nella nostra penisola
La Partecipazione della Gente di Mare ligure all'Unità d'Italia
1861 - 2011
L’Italia nacque prima sul Rio della Plata e nelle acque brasiliane che nella nostra penisola
I nomi dei velieri liguri nel secolo XIX
di Ernani Andreatta
I nomi delle navi a vela offrono materiale di osservazione sul carattere, gli usi ed i costumi della gente di mare della Liguria. Si tratta di un campo assai vasto, nel quale confluiscono le intenzioni più varie, da quelle religiose a quelle patriottiche, dall’amore della famiglia, all’avventura, al gusto per l’ironia e per il bizzarro. I nostri marinai liguri, abituati a percorrere le vie del mondo in ogni senso, conoscevano molti paesi e, pur essendo spesso analfabeti, parlavano numerose lingue ma per quanto attratti dall’immensità del mare e dalla varietà di tante terre esotiche, custodivano in cuore l’immagine del paesello appollaiato sulle rocce, della casetta tra gli ulivi e conservavano il culto, la gelosia, direi, della propria intimità famigliare. Gente aperta a tutte le idee, intuivano il valore di messaggi rinnovatori ed il Risorgimento Nazionale li vide fra i più vivi ed operanti. Perennemente in pericolo, in continuo contatto con la morte sfiorata in mille occasioni, sentivano la presenza di Dio ed erano devoti e seri nella loro fede; in un atteggiamento spesso distaccato di fronte al potere costituito e spregiudicati negli affari, erano per contro fedeli alla parola data; conservatori nei costumi famigliari, tolleranti del modo di vivere altrui, non molto disposti a subire intimazioni, trovavano in se stessi la capacità di discernere e di decidere secondo le leggi della moralità e dell’umanità.
Ci proponiamo di illustrare a gruppi i nomi delle navi liguri di allora, utilizzando il materiale raccolto da tre nobili studiosi della marineria velica ligure: l’ingegnere Fabio Garelli, fondatore del Museo Navale oggi a Genova-Pegli, il Marchese Gropallo, autore del Romanzo della vela, ed il compianto Gio Bono Ferrari, il camogliese che alla storia della vela dedicò l’intera sua vita e fondò il Museo Navale di Camogli, la città dei “Mille bianchi velieri”.
-Dipinto del brigantino a palo “Oliva Speciosa”, costruito in legno di quercia a Sestri Ponente nel 1872 da S. De Barbieri. Stazza 569 tonnellate, lunghezza 42,60 metri, larghezza 9,85, puntale 6,05, pescaggio 5,84. Capitano A. Dodero, armatori Fratelli Dall’Orso. Autore del dipinto Angelo Arpe. (collezione privata).
-Dipinto del brigantino a palo “Andrea Padre”, costruito a Sunderland nel 1856, stazza 414 tonnellate, pescaggio 5,19; capitano B. Risso; armatore A. Dall’Orso. (collezione privata)
-Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini. I quattro “uomini d’oro” dell’Unità d’Italia, raffigurati in un moneta commemorativa per i 100 anni dell’Unità nazionale (collezione privata)
Soggetti Patriottici
La gente di mare ligure partecipò vivamente ai moti del Risorgimento. Armatori, capitani, marinai si sentivano molto vicini ai mazziniani che vagheggiavano un’Italia unita, libera e repubblicana. Non dimentichiamo che Genova, repubblica secolare, era stata annessa al Piemonte nel 1814-15 e per quanto i Savoia facessero, la monarchia al porto e sulle riviere non era granché popolare. Anche dall’eredità del passato nasceva istintivamente la simpatia per chi manifestava desideri ed aspirazioni che erano molto diffusi anche se non espressi. Furono molti i capitani ed i marinai affiliati alla Giovane Italia, uno di questi il Capitano Schiaffino che da Marsiglia, dove faceva scalo con “l’Unità d’Italia” per i suoi traffici, trasportava a Genova lettere e pubblicazioni di Mazzini dirette al Marchese Pareto. Questo gli fece meritare il nomignolo di “Capitan Posta”. Quel tricolore a cui si aspirava in Italia, già sventolava su alcune navi in mari lontani. Le navi dei mazziniani che nei mari dell’America Latina battevano il tricolore. Possiamo quindi dire che l’Italia nacque prima sul Rio della Plata e nelle acque brasiliane che nella nostra penisola. Le navi portarono nomi di ispirazione patriottica soprattutto nel primo periodo dell’epoca eroica della vela, cioè dal 1820 al 1860. Nel 1845 un brigantino goletta “La vittoriosa”, dei Fratelli Chiarella di Chiavari, si affermò nei traffici del Mar de la Plata, nel 1847 il Brigantino “Europa” scaricò nel porto di Callao quaranta gozzetti fatti nei cantieri chiavaresi. Le prime guerre di indipendenza erano appena terminate, Novara era un cocente e penoso ricordo, quando una nave chiavarese, portante un nome augurale, “Unione Italiana”, partì per iniziare i suoi traffici in mari lontani. Una relazione consolare sarda comunicò al governo nel Luglio 1851 che il Capitano Sebastiano Chiarella era presente lungo le coste del Meinam in Cocincina oggi Min-Nam-Trang nelle vicinanze di Da-Nang e di Hué la capitale imperiale dell’attuale VietNam. Questo fu il primo bastimento italiano che giunse in quelle regioni allora riservate agli inglesi, ai portoghesi e ai parsi. Pochi anni dopo un’altra nave dei Chiarella, il “Colombo” al comando del capitano Chiappara di Cavi rimase per quattro anni a trafficare nei mari della Cina. “Italia”, “Patria”, “Unità d’Italia”, “Unione”, “l’Amor di Patria”, “La Libertad”, “Risorgimento”, “Pensiero Italiano”, “Carbonara”, “L’Italiana”, ecco alcuni tra i più frequenti nominativi dei velieri liguri di quel periodo. Di frequente più navi avevano lo stesso nome così “Italia” si chiamò un Lugre (1) che trafficò a lungo con i porti del Brasile, ma lo stesso nome portò un brigantino di cui Nino Bixio assunse il comando a Montevideo per la navigazione fluviale. Capitan Bixio non era il tipo da limitarsi al fiume Paraguay ed un bel giorno caricò e fece vela per Valparaiso, doppiando Capo Horn e ritornando felicemente a Buenos Aires. Per molti anni fu comandante di una “scuna”(2) “L’italiana”, lungo le rotte di Capo Horn e del Pacifico. “Patria” si chiamò il Cotre (3) che naufragò nel 1856, carico di calce viva in barili, al comando di Giuseppe Garibaldi sulle Bocche di Bonifacio. L’equipaggio si salvò a nuoto sulle rive di Caprera, fu questo forse il primo contatto fra l’Eroe dei Due Mondi e la terra che oggi ne racchiude le spoglie.
-Dipinto del Brigantino a Palo “Antonio Camogli”. Autore Gavarone 11.8.1869. Il capitano Fortunato Schiaffino, bisnonno del Comandante Giovanni Schiaffino detto “da Balenn-a”, di Chiavari, ne era l’armatore. (Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari).
-Dipinto del Brigantino a Palo “Francesca Camogli”. Autore Gavarone 30.6.1871. Il capitano Fortunato Schiaffino, bisnonno del Comandante Giovanni Schiaffino detto “da Balenn-a”, di Chiavari, ne era l’armatore. (Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari).
L’armatore Barabino battezzò “Campidoglio” un brigantino che fece servizio di linea per il Cile ed il Perù, passando per Capo Horn. Spesso gli armatori ricorsero a curiosi giochi di parole per poter dedicare le loro navi alla propria idea politica, eludendo la censura dell’autorità. L’armatore Marcenaro, fedelissimo a Mazzini, chiamò il proprio brigantino “Idea M”. Tutti, nell’ambiente marittimo e liberale, sapevano che il nome significava “Idea Mazziniana”. La voce giunse alla capitaneria e furono chieste spiegazioni all’interessato, il quale dichiarò che il nome del barco per lui era “Idea Marcenaro”, se gli altri la intendevano in modo diverso lui non poteva farci niente. I funzionari del Comitato del Mare, zelanti custodi della ortodossia politica dei marinai liguri, furono così messi a tacere. I fratelli Devoto, armatori di Sampierdarena, essi pure mazziniani, misero in mare tre navi golette dai nomi a chiave. La prima si chiamò “Solo”, la seconda “Unico”, la terza “Scopo”. Nessuno comprese il significato di tali denominazioni finché non fu varata la quarta nave battezzata “Giuseppe Mazzini”. Il pensiero apparve allora chiaro: “Solo Unico Scopo Giuseppe Mazzini”, cioè l’Italia unita con governo repubblicano. Intervenne il Consolato del Mare e impose il mutamento del nome dell’ultimnave e da quel giorno si chiamò “Speranza”. “Mazzini” fu invece il nome di un brigantino che un fedele seguace del Pensatore genovese, il Rossetti, armò nel Brasile con le patenti di nave da corsa affidandone il comando a Giuseppe Garibaldi. Nino Bixio fu primo ufficiale su una goletta dell’armatore Piccarello. Si chiamava “Pio IX”, cambiò nome al tempo della Repubblica Romana nel 1848 e divenne “Popolano”. Tramontata la Repubblica tramontò anche questa democratica denominazione. Nel 1855 Nino Bixio ebbe finalmente uno ship che si chiamò “Goffredo Mameli”. Con tale nave Bixio aprì una nuova via ai traffici italiani, quella dell’Australia, fu infatti il primo capitano italiano che raggiunse Melbourne. Una delle due navi scuola della marina velica italiana, il “Massimo D’Azeglio”, fu uno ship veloce e snello adibito ai traffici della Birmania. Nei suoi viaggi portava gli allievi già diplomati capitani per i corsi di pratica. Durante una tempesta in Atlantico fu disalberato e rimase in balia del mare per dieci giorni finché l’equipaggio e gli allievi furono salvati da una nave inglese. Nella seconda metà del secolo, allorché l’unità d’Italia fu compiuta gli armatori non si preoccuparono più di dare alle loro navi nomi patriottici, ma prevalsero allora l’orgoglio e gli affetti della famiglia. Ma il 20 Luglio 1918 i Gotuzzo, nel Cantiere Navale degli Scogli a Chiavari, varano ancora un Brigantino Goletta di nome “Tricolore” di tonn 266, Il “canto del cigno” dei nomi patriottici. Gli armatori sono Salvatore e Vincenzo Pirrofu Ciro di Gaeta. A quanto ci risulta è uno degli ultimi nomi a carattere patriottico, anche se l’Unità d’Italia è una realtà ormai consolidata.
-20 Luglio 1918, iniziano le operazioni di varo dei Brigantino Goletta “Tricolore” dai Cantieri Navali di Luigi Gotuzzo agli Scogli. Sulla destra della foto si notano l’Antica Casa di Pastorino Tacchetti e il capannone dei Cantieri Navali Gotuzzo. Entrambi gli edifici sono stati abbattuti negli anni ‘60 da una discutibile riconversione dei cantieri navali.
-Il B.G. “Tricolore” tocca l’acqua. In quel momento furono lanciatesul bagnasciuga, dalla poppa del veliero, alcune ceste di pane dette “michette” in segno di simbolico augurio di prosperità. Il “Tricolore” il 22 Luglio 1941, alle 22.15, mentre è in convoglio da Tripoli a Bengasi viene affondato a cannonate da un sommergibile a 25 Miglia a Sud Est di Ras Auegia a 500 metri dalla costa.
Legenda:
1) Lugre o Lugro: o Veliero a due o tre alberi con più vele auriche al terzo o al quarto, tipiche di altre imbarcazioni come il trabaccolo; ancora in uso per i traffici di cabotaggio e la pesca costiera nel Mare del Nord, fino al secolo scorso fu anche armato dalla marina inglese per difendere le coste da similari bastimenti corsari.
2) Scuna: dopo il brigantino a palo (localmente detto “scippe”), il bastimento mercantile più costruito ed amato dai Liguri fu, indubbiamente, il brigantino- goletta (“scuna”).Il brigantino - goletta, secondo la nomenclatura contenuta nell'Ordinanza Ministeriale n° 320 del novembre 1872 e nella successiva del 1879, è così descritto: “Bastimento con due alberi verticali, il primo a vele quadre, il secondo a vele auriche e bompresso”. Ma nella parlata comune dei porti liguri fu chiamato più semplicemente “Scuna”, con una propria riduzione dalla voce inglese “Brik - Schooner”.
3) Cotre: scafo tipo tartana, un albero, con fuso e controfuso a vela aurica, una randa normalmente senza il boma. Il tipo successivo del cotre è quello a mezzana, che ha la poppa tonda e una vela latina di mezzana con buttafuori.
Le monete in corso a Chiavari e in Liguria prima dell’Unità d’Italia. La lira “immaginaria” e la lira fuori banco abusiva detta “buona”. Le analogie con ciò che si verificò in Europa, nel 1999, con l’introduzione dell’Euro e i decreti di Napoleone nel 1800 con l’emissione di monete secondo il sistema metrico decimale.
di Ernani Andreatta e Giovanni Ghio
Nella contabilità dell’azienda armatoriale si sono rilevate spesso scritture di questo tipo; “imprestatogli il conto valute diverse”, ab Lire, Ln, Lg, “pagato a fratelli Ghio quondam Martino per aggio valute diverse”.
Queste note ci hanno incuriosito e spinto ad approfondire le ricerche con dei risultati sconcertanti; a Chiavari ed in Liguria in generale per oltre quarant’anni sono circolate quattro tipi di monete contemporaneamente.
Vittorio Emanuele I nel 1816 decise di abolire il vecchio sistema monetario e adottare il sistema decimale fu così messa in circolazione la “lira nuova del Piemonte”, di valore pari al franco francese la cui parità fu fissata in grammi 4,50 di argento o grammi 0,290322 di oro fino.Tale moneta rimase fino alla unificazione l’unità di conto del Regno. A Genova, e quindi anche a Chiavari si usavano altre unità di conto, la principale era “ la Lira fuori banco di Genova” detta “di tariffa” che conteneva grammi 0,24067 di oro fino ed ufficialmente equivaleva alla lira nuova diminuita di un sesto cioè circa 83/100 di questa moneta ufficiale.
Non erano queste le uniche monete in circolazione nella nostra regione, una era la “lira fuori banco abusiva” detta “buona”. Le quotazioni dei prezzi espresse in questa lira erano più alte di quelle di “tariffa” con un aggio maggiore o minore a seconda della disponibilità esistente sul mercato delle diverse specie.
La lira abusiva buona corrispondeva a qualche cosa di meno di quella fuori banco di tariffa; che valeva L. 0,83 di quella ufficiale, nel 1842 in Porto Franco fu quotata L. 0,80.
Nella Riviera di Ponente l’unità di conto era la Lira “immaginaria”. Il governo piemontese proibì ripetutamente l’impiego delle lire fuori banco ma tutto fu inutile, la consuetudine durò a lungo. La ragione è chiara; erano in circolazione una grande quantità di monete genovesi di antico conio che avrebbero dovuto essere ritirate al tempo del riordinamento monetario avvenuto nel 1826.
Le autorità piemontesi non le ritirarono per la differenza di valore che avrebbe determinato per l’erario una ingente perdita e le lasciarono in circolazione. Le conseguenze furono che per alcuni decenni le contrattazioni in tutta la Liguria furono fatte in quattro monete diverse:
1) la lira fuori banco di tariffa valutata 0,83 di quella piemontese.
2) la lira abusiva di Genova, che valeva 0,80 centesimi di quella ufficiale.
3) monete d’oro varie della Repubblica che avevano un corso ed un mercato abusivi.
4) la moneta legale ossia la lira nuova del Piemonte.
È facile immaginare il guazzabuglio e la congerie di conguagli che dovevano avvenire ad ogni operazione e così si andò avanti per oltre quarant’anni sino al 1862.
Monete della Repubblica di Genova. Immagine tratta da “Storia di Genova” di Federico Donaver - Guido Mondani Editore
Per completare meglio questo interessante capitolo, ci siamo rivolti a Giovanni Ghio, esperto del settore, titolare per molti anni del noto negozio di cambiavalute in piazza Matteotti a Chiavari, che dopo accurate ricerche ci ha fornito le seguenti notizie. Il 21.11.1810 Napoleone nomina Chiavari capoluogo del dipartimento degli Appennini. La pergamena originale è stata restaurata ed è conservata come una preziosa reliquia sotto un panno di velluto rosso nella sala della giunta del Comune di Chiavari. Già nel 1805 la Repubblica Ligure era stata annessa all’Impero Francese, dopo l’incoronazione di Bonaparte re d’Italia avvenuta a Milano. La Liguria e di conseguenza Chiavari, sono coinvolte nell’onda lunga degli sconvolgimenti a cui la rivoluzione francese sottopone l’intera Europa. Se culturalmente, storicamente, economicamente, Napoleone rappresenta lo spartiacque tra il ’700 e l’800, nel campo della circolazione monetaria le innovazioni sono determinanti e rivoluzionarie.
Il lunghissimo periodo del governo dei Dogi era terminato nel 1797. La gloriosa zecca di Genova aveva cominciato a coniare nel 1139, grazie al privilegio concesso dall’imperatore Corrado II di Svevia. L’ultima emissione comprendeva i seguenti valori: le quattro monete d’oro da 96, 48, 24, 12 lire, le quattro monete d’argento da 8, 4, 2 e 1 lira, le monete in mistura da 10 soldi e 8 denari, il 4 denari in rame. All’inizio del 1800 un chilo d’oro valeva 4135 lire di Genova e un chilo d’argento 270 lire. Napoleone decreta l’emissione di monete secondo il sistema metrico decimale in tutte le nazioni conquistate dove il marengo (equivalente a 20 lire) diventa la moneta di riferimento. Riesce così brillantemente nel suo intento di unificazione monetaria europea (è inevitabile un’analogia con ciò che si verificò con l’introduzione dell’Euro nel 1999). Nel 1814 Genova conia il marengo da 20 franchi e il doppio marengo da 40 franchi in oro, nonché il 5 franchi, il 2 franchi, il franco ed il 1/2 franco in argento.
Alla caduta di Napoleone, nel 1814, prima dell’annessione al regno di Savoia, la Repubblica Genovese conia la moneta da 10 soldi in argento, il 4 e il 2 soldi in mistura, il 4 denari in rame, tutte monete di piccolo taglio di cui si sentiva l’esigenza. Anche a Chiavari le suddette monete circolavano contemporaneamente a quelle emesse in precedenza.
I re di Savoia, da Vittorio Emanuele I a Carlo Felice, dapprima tollerarono la circolazione delle vecchie monete in oro (doppia di Savoia, quadrupla di Genova, doppia di Milano, ruspone, zecchino) e in argento (scudo di Savoia, scudo di Francia, pezza da 2 franchi, crocione, tallero, francescone, piastre di Spagna). La circolazione contemporanea di tante monete di emissioni dei vecchi stati creava però una grande confusione dovuta soprattutto ai complicati calcoli di conguaglio che erano necessari eseguire per ogni operazione commerciale.
Di conseguenza, con editti reali datati 1816, 1823, 1826, 1830, i re di Savoia imposero la monetazione basata sulla lira nuova di Piemonte, autorizzando le zecche di Genova e Torino alla coniazione di monete, privilegio che esse mantennero fino all’unità d’Italia nel 1861.
Dopo tale data queste zecche cessarono la produzione e vennero sostituite dalla zecca di Roma e, per un breve periodo, da quelle di Milano, Firenze, Bologna e Napoli. Per alcune monete divisionali (10 e 20 centesimi) i Savoia si avvalsero di zecche estere situate a Berlino, Birmingham e Parigi. Gli avvenimenti politici, intanto, avevano visto l’unificazione d’Italia e la consacrazione di Roma quale capitale, per cui in tutto il Regno d’Italia circolava la lira dei Savoia quotata alla pari del franco francese, della peseta spagnola (unione latina), del franco belga, del franco svizzero.
Moneta in oro di Carlo VI, re di Francia, montata per un collier dono alla figlia da parte della mamma nel 1997 (collezione privata)
Bibliografia: “Memorie dal Mare“ a cura di Ernani Andreatta edito nel 1997
Chiavari, 15.03.11