COLIN ARCHER, le Barche della Tradizione
Colin Archer
Le Barche della Tradizione
Colin Archer nacque a Narvik (Norvegia) nel 1832 e vi morì nel 1921. Il padre, arrivato in Norvegia spinto dalla crisi economica inglese, intraprese un redditizio commercio di aragoste esportandole in Gran Bretagna. Si fece un nome, e in seguito fu nominato Console Britannico a Narvik. Suo figlio, lo studente Colin Archer dimostrò, fin da ragazzo, una notevole predisposizione alle discipline matematiche, base di lancio per il suo futuro di architetto navale. Fu dipendente in una ship chandlery (forniture navali) a Jordfalden e da qui iniziò anche la sua passione per la nautica. Nel 1850 emigrò in Australia per raggiungere suo fratello, poi alle Haway da un altro fratello e di nuovo in Australia fino al 1861. Quando a causa delle cattive condizioni di salute di suo padre, fu costretto a tornare in Norvegia. Nel 1862, morto suo padre, divenne capo famiglia e pensò di dare sfogo alla sua autentica passione: disegnare e costruire piccole imbarcazioni a vela. Nel 1867 iniziò la sua attività e dopo circa dieci anni era già famoso in tutta la nazione ed anche all’estero. Nel 1879 gli fu conferita dal Re la “Croce all’Ordine di st.Olaf”.
Colin Archer sinonimo di sicurezza
Condusse il resto della sua vita navigando e viaggiando, con grande passione e rispetto per il mare. Fu proprio il rispetto per il mare che lo spinse a progettare un prototipo di “pilotina” e altre imbarcazioni di salvataggio. Verso il 1870 molte pilotine erano affondate in mare. Per questo motivo Colin Archer pensò di apportare modifiche tali da rendere queste imbarcazioni più sicure. Colin Archer non era completamente soddisfatto della manovrabilità e dello stare in mare della sua prima creazione “Minnie”. Costruì quindi il “Thor”, che divenne il vero prototipo di tutte le imbarcazioni in seguito realizzate. A partire dal 1876 ogni imbarcazione fu costruita secondo il principio “Wave line”, teoria sviluppata dall’ing. Inglese John Scott Russel. Secondo tale principio quando una barca è in navigazione genera due tipi diversi di onde, una a poppa ed una a prua, per ridurre la resistenza dell’acqua ogni imbarcazione sarebbe dovuta essere costruita tenendo fede a tale principio. Tuttavia gran parte del tempo impiegato da Colin Archer fu destinato alla sicurezza e alla solidità dell’imbarcazione. I suoi compratori potevano anche negoziare sul prezzo, ma mai sulla sicurezza. Il fatto che ancora oggi alcune imbarcazioni originali possano veleggiare nei mari di tutto il mondo dimostra che l’attenzione alla sicurezza e alla solidità, non erano promesse da “marinaio”... alcune di queste barche hanno ormai più di cento anni....
Quando l’8 febbraio del 1921 morì, aveva costruito oltre 200 imbarcazioni, 70 yachts, 60 pilotine, 14 cutter di salvataggio ed altre 72 imbarcazioni varie. Una delle più famose fu la nave “Fram” che fu utilizzata dagli esploratori norvegesi Nansen e poi Amundsen nei loro viaggi nei mari dell’Artico e dell’Antartico.
Colin Archer è spesso associato alle “pilotine”, ma occorre ricordare che C.A. iniziò la sua attività costruendo proprio magnifici yacth. Nel 1867 costruì "Maggie" il primo yacht che rimase per anni nella famiglia Colin Archer. Altri furono il "Venus" e il "Storegun", costruito per Wilhelm Wolf, il quale vinse alcuni premi proprio con quello yacht. In totale Colin Archer costruì 70 yachts.
RS1 COLIN ARCHER - CUTTER DI SALVATAGGIO
Nel 1891 fu fondato il NSSR (La società norvegese per il recupero in mare). L'anno successivo Colin Archer costruì il primo cutter "restaurato". Il risultato fu un cutter di 13 metri e 95, largo 4.65 con un pescaggio di 2.25 metri. Randa, mezzana, fiocco per un totale di 110 metri quadri di superficie velica. Al suo varo nel Luglio 1893 l'imbarcazione fu chiamata "RS1 Colin Archer". Nel corso del primo anno di navigazione l'imbarcazione si dimostrò valida e divenne lo standard costruttivo in Norvegia per i successivi 30 anni.
Dopo 40 anni di glorioso servizio, il prototipo fu venduto, portando con sé un record impressionante: 67 imbarcazioni salvate (per un totale di 236 persone), 1522 velieri assistiti in mare (per un totale di 4500 persone di equipaggio)..
Nel 1961 l' "RS-1" fu ritrovato in America in condizioni terribili, dopo molti anni di utilizzo privato. Fu ricondotto in Norvegia e divenne oggetto di culto per alcuni anni, fino a che non fu comprato definitivamente nel 1972 dal Museo Marittimo Norvegese. Nel 1973 il Museo si accordò con la SSCA (Club velico Colin Archer). e nel 1993 fu completamente restaurato e riportato allo splendore originale con un contributo privato.
Il Colin Archer R.S. N°1
L' "RS-1" vinse nel 1983 il Cutty Sark Tall Ships, superando 74 imbarcazioni.
L' "RS-10 Christiana" arrivò secondo, mentre l' "RS-5 Liv" si classificò al terzo posto. Tutte e tre le imbarcazioni furono disegnate da Colin Archer. Questo evento non fu una coincidenza, dal momento che anche nel 1987 ci fu lo stesso ordine d'arrivo (all'appello mancò solo "Liv"), nel 1993 l' "RS-1" vinse per la terza volta.
Conservare in acqua l' "RS-1" è non solo un dovere Storico", ma anche uno stimolo alla conoscenza marinara per le nuove generazioni.
Ancora oggi la tradizione e il fascino delle imbarcazioni firmate Colin Archer sono impulsi che stimolano la voglia di recuperare il significato della tradizione storica della vela, ed il cantiere finlandese Lydman ne è il più fulgido esempio.
Il Colin Archer in navigazione tra i ghiacci
COLIN ARCHER 30 - (PILOT HOUSE VERSION)
Il Colin Archer 30 piedi è una comoda ed affascinante imbarcazione.
Non fatevi ingannare dalle sue dimensioni. 30 piedi di lunghezza sono proprio quelli che hanno permesso a Vito Dumas di navigare in solitario intorno al mondo!!!Cura nelle rifiniture e sobrietà degli interni fanno di questa barca il mezzo ideale per ogni mare ed ogni condizione atmosferica, dai marosi del Mare del nord, al calore avvolgente del mare Mediterraneo, facendo del colin Archer 30 piedi la barca ideale per navigare.
Carlo GATTI
Rapallo, 17 Luglio 2013
MARE NOSTRUM 2016-Programma MOSTRA-EVENTI
MARE NOSTRUM 2016
PROGRAMMA MOSTRA – EVENTI
Battaglia di Lepanto
Curatori e collaborazioni:
“Mare Nostrum Rapallo” si avvale della collaborazione dell’Associazione Modellisti di Rapallo, guidata dal presidente Silvano Porcile con la competenza e la preziosa opera di volontariato dei propri soci.
La manifestazione vive in particolare grazie alla collaborazione del giornalista-scrittore Emilio Carta, del sottoscritto presidente dell’Associazione comandante-scrittore Carlo Gatti, degli studiosi e ricercatori della Marina Militare dottor Maurizio Brescia del direttore del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta, con sede presso la scuola Telecomunicazioni di Chiavari, comandante Ernani Andreatta, dell’appassionato d’arte Claudio Molfino e del ricercatore di storia marinara Andrea Maggiori.
Si avvale inoltre della disponibilità del locale gruppo dell’Associazione Marinai d’Italia, che espone documenti e materiale storico-didattico della Marina Militare e, per quanto attiene per le discipline astronomiche e astrofisiche, si avvale, per la terza volta, di uno stand con materiale espositivo della Associazione Il Sestante di Chiavari, presieduta dal S.T.V. Enzo Gaggero.
Come da indicazioni pervenute dal Comune, promotore dell’iniziativa, l’evento si tiene nelle sale dell’Antico Castello. Seguono le date:
MOSTRA al Castello di Rapallo
Gli AUTORI della Pubblicazione annuale: Maurizio Brescia, Emilio Carta, Carlo Gatti, Ernani Andreatta espongono foto e testi sul tema delle GALEE.
Agostino Lertora, pittore di marina e socio di M.N., dedica numerosi quadri al TEMA dell’anno: IL MONDO DELLE GALEE.
Ernani Andreatta trasferirà temnporaneamente alcuni importanti Reperti sui Maestri d’Ascia e Calafati dal Museo Tommasino-Andreatta di Chiavari, del quale é Direttore e Curatore.
L’Associazione Culturale il Sestante di Chiavari, Presidente il S e Presidente della Associazione Culturale il Sestante T.V. Enzo Gaggero, nostro socio, dedica alla Mostra il tema:
1866 – 1980 150° anniversario della unità dell’Ora in Italia. Lo spazio dedicato é lo stesso delle precedenti edizioni.
Andrea Maggiori (Nodi e lavori di Arte Marinaresca) occuperà lo spazio a lui dedicato anche in precedenti edizioni.
La Mostra sul “PILOTAGE” del fotografo Fabio Parisi sarà curata dall’esperto d’arte Claudio Molfino.
Tra il 22 ottobre e il 6 novembre la scrivente Associazione organizzerà ogni sabato e domenica varie conferenze, presentazione di libri di carattere marinaro e videoproiezioni come da programma che segue:
Sabato 22 ottobre ore 10.30: Sala Consiliare
Conferenza stampa per l’Apertura della 35^ Edizione della Mostra di Mare Nostrum e presentazione della annuale pubblicazione:
“Gente de Rivea, Gente da Galea”. Gli autori: M. Brescia, R. Carta, C. Gatti e E. Andreatta daranno vita ad un breve dibattito su “Il millenario mondo delle GALEE” su cui verte sia la Pubblicazione annuale sia la Mostra nella sezione superiore del Castello.
- Domenica 23 ottobre 2016 - ore 10,30 - Sala Convegni Hotel Europa
Andrea Maggiori, noto come “l’uomo dei nodi”, interverrà sulle:
“Superstizioni e Credenze dei Marinai nei Secoli”. Andrea Maggiori, noto sub del Tigullio, é autore di pubblicazioni legate al mondo della nautica. Presenta Emilio Carta. Saranno proiettate delle slides.
- Sabato 29 ottobre 2016 - ore 10,30 - Sala Convegni Hotel Europa –
Andrea Acquarone, il giornalista diventato famoso per la sua rubrica PARLO CIAEO, pubblicata da circa due anni sul quotidiano IL SECOLO XIX. L’ospite ci svelerà i segreti della “La Riscoperta della Lingua della Liguria”.
Presenta Carlo Gatti.
Domenica 30 ottobre 2016 - ore 10,30 - Sala Convegni Hotel Europa –
Mario Dentone, scrittore di mare nostrano, é nato a Chiavari, cresciuto a Riva Trigoso e abita a Moneglia. Autore di molti romanzi dell’epopea della vela, ci racconterà: “I marinai liguri della vela attraverso i miei romanzi”. Presentano Emilio Carta e Ernani Andreatta
- Martedì 1 novembre - ore 10.30 - Sala Convegni Hotel Europa
Flavio Vota, socio di Mare Nostrum, é un profondo studioso di archeologia e storia antica, ha viaggiato per i sette mari inseguendo i suoi sogni. "Atlantide, mito e realtà" sarà il tema del suo intervento, di cui ci svelerà gli ultimi segreti emersi dalle recenti scoperte. Presenta Carlo Gatti.
Stanno proiettate numerose slides.
Sabato 5 novembre 2015 – ore 10,30 - Sala Convegni Hotel Europa
Luciano Brighenti, una “eccellenza” nel campo militare.
Presenterà: "Come si lavora in alti fondali: una esperienza di lavoro industriale a 150 metri di profondità".
Il relatore é stato per molti anni Prof-Istruttore presso il CONSUBIN di La Spezia.
Presenta Giancarlo Boaretto. Saranno proiettati video e slides.
Domenica 6 novembre 2016 - ore 10,30 - Sala Convegni Hotel Europa -
John Gatti, Capo pilota del Porto di Genova illustrerà le nuove problematiche della portualità alle prese con il GIGANTISMO navale che pare sia responsabile di problemi legati alla sicurezza delle manovre, all’inquinamento dei mari e non solo. Una Sezione della Mostra sarà dedicata al PILOTAGE.
Interverranno i Comandanti Ernani Andreatta, Nino e Rino Casareto, Carlo Gatti, Michele Buongiardino. Sarà proiettato un video a cura del Comandante Ernani Andreatta.
ALLEGATO:
ORARI MARE NOSTRUM 35a EDIZIONE – 2016
Durata: (16 giorni) Sabato 22-Ottobre 2016 – Domenica 6 novembre 2016
Allestimento:
20.10.2016 – Giovedì - 09.00 - 12.00 /15.00-17.00
21.10.2016 – Venerdì - 09.00 - 12.00/15.00-17.00
Smontaggio Mostra:
7.11.2016 - Lunedì - 09.00 - 12.00
Inaugurazione e Apertura Mostra:
Sabato 22 ottobre ore 10.30: Sala Consiliare Comune di Rapallo per l’apertura della 35° Edizione della Mostra di Mare Nostrum e presentazione della pubblicazione: ”Gente da rivea, gente da galea”. Gli autori, M.Brescia, E.Carta, C.Gatti, E.Andreatta daranno vita ad un dibattito su “Il millenario mondo delle galee” su cui vertono la pubblicazione e la mostra al Castello.
Apertura Mostra:
22.10.2016 – 10h.00–12h.00 / 15h.00-18h.00
Giorni dedicati alla Mostra:
Venerdì–Sabato–Domenica (15h.00-18h.00)
Lunedì 31 Ottobre e Martedì 1 Novembre 15h.00 – 18h.00
Chiusura Settimanale: Lunedì – Martedì – Mercoledì – Giovedì
Durata: (16 giorni) Sabato 22 Ottobre 2016 – Domenica 6 novembre 2016
Il presidente (Com.te Carlo Gatti)
Info: Sito internet: https://www.marenostrumrapallo.it/
Sede dell’Associazione:
HOTEL EUROPA – Via Milite Ignoto n.2 - Rapallo
Com.te Carlo Gatti: Via Sotto la Croce n.8 – 16035-RAPALLO
Tel.casa: 0185.262522 - Cell. 335.3935.19
Emilio Carta: cell. 338.860.1725
I I NAUFRAGI CHE NON PASSARONO ALLA STORIA 8.9.43
8 SETTEMBRE 1943
QUELLE STRAGI DI ITALIANI CHE NON PASSARANO MAI ALLA STORIA
Migliaia di militari italiani internati naufragarono su fatiscenti carrette del mare durante lo sgombero dalle isole Greche
La massa dei prigionieri (10.000 solo a Rodi) e l’impossibilità di effettuare una costante sorveglianza su così tante isole e a rifornirle regolarmente, (non c’era vitto per gli indigeni essendo gli uomini lontani e ferma la pesca d’altura) spinse i tedeschi, fin da subito, a trasferire sul continente i prigionieri per avviarli ad attività di difesa, sia qui che in Germania (dove gli si offriva dall’agosto del 1944 la possibilità di lavorare fuori dai campi in regime di semilibertà). Molti di questi trasporti, come vedremo, affondarono sia per siluramenti, per bombe d’aerei, ma anche a causa di violente burrasche di mare trattandosi di vecchie navi super affollate. Si riepilogano qui sotto soltanto i più grossi disastri con le relative perdite, riservandoci un più ampio approfondimento per il più disastroso di tutti i naufragi, quello della Oria.
Gli affondamenti si concentrarono fra settembre 1943 e la primavera del 1944. Si cominciò il 23 Settembre quando si verificò il primo. I piroscafi ‘Donizetti’ - ‘Dithmarschen’ e la Torpediniera ‘TA 10’ vennero affondate. Si ebbero 1.584 morti fra gli internati in massima parte dovute alle inosservanze alle norme di sicurezza. Miglior sorte ebbero i trasporti aerei. Nel Gennaio 44 la situazione peggiora. Viene ordinato il trasferimento anche su mezzi di trasporto non idonei al trasferimento di truppe come chiatte, pontoni o altri mezzi civili non in grado di reggere il mare forte.
23/9/43 | Rodi | ‘Donizetti’ | 1584 |
1835 |
28/9/43 | Cefalonia | ‘Ardena’ | 720 | 840 |
11/10/43 | Corfù | ‘Roselli’ | 1300 | 5500 |
13/10/43 | Cefalonia | ‘Marguerita’ | 544 | 900 |
18/10/43 | Creta | ‘Sinfra’ | 1850 | 2390 |
8/2/44 | Creta | ‘Petrella’ | 2646 | 3173 |
12/2/44 | Rodi | ‘Oria’ | 4163 | 4200 |
22/11/44 | ? | ‘Alma’ | 150 | 300 |
Totali: 12.907 morti su 19.038 imbarcati
QUADRO STORICO:
L’8 settembre 1943 si trovavano in Grecia circa 80.000 tedeschi del gruppo Armate Sudest, in nuclei di massicci distaccamenti motorizzati e gli italiani inquadrati nella XI armata italiana al comando del gen. Vecchiarelli così composta:
- III CdA - Tebe div. Forli, Pinerolo, truppe Eubea (Bersaglieri)
- VIII CdA - Cefalonia div. Acqui, Corfù Div. Casale
- Sett.Corinto, Argolide Pelopponeso Div. Piemonte, Cagliari distaccate a unità tedesche.
- XXVI CdA a Giannina div. Modena, Brigata Lecce
- Comando Egeo div. Cuneo (a Samo), Regina (Rodi e Castelrosso), Siena (a Creta)
La XI Armata era formata da circa 7.000 ufficiali e 175.000 militari di truppa disseminati in numerosi e statici presidi, sia nel continente che nelle centinaia di isole. Se in Italia, dopo l'annuncio dell'armistizio la sera dell'8, la situazione era confusa, senza ordini precisi se non quello di sparare se attaccati; nelle isole esistevano solo due situazioni: con i tedeschi o contro di loro.
Con gli Angloamericani a Salerno e il resto dell'Italia ancora agibile, si poteva raggiungere casa o nascondersi da qualche parte, naturalmente con le dovute precauzioni a causa delle continue retate, rastrellamenti, bombardamenti ecc...
Nelle isole greche questo barlume di speranza era tramontato da molto tempo, poiché il controllo del mare e del cielo ellenico era nelle mani dell’Inghilterra. Gli unici collegamenti con la madrepatria erano affidati ai sottomarini, ma il carico utile era ridotto alla corrispondenza, ai medicinali e poco altro.
Ovunque vi era scarsità di risorse, mezzi e carenze alimentari che erano già insufficienti per la popolazione civile, a cui si aggiungevano 50.000 italiani e 25.000 tedeschi.
Creta non era stata totalmente occupata dagli italiani, ma dal maggio 41 (dai giorni dell’operazione Merkur, vedi cartina)) avevamo un presidio stabile estratto dalla divisione Siena, dal 312° btg misto motocorazzato e il CXLI btg ccnn. (che molti autori qualificano come M). Dopo il breve periodo di grande confusione per effetto dell’Armistizio, la formazione italiana consegnava le armi. Non si ebbero notizie di scontri rilevanti e il T.Col. Carlo Gianoli procedette alla raccolta di tutto il personale dell’isola per costituire una Legione italiana volontari “Kreta” che inquadrava tre battaglioni più il CXLI btg ccnn. dislocato a Retymno. Il 25 aprile 1945 i reparti italiani vennero lasciati liberi, mentre i tedeschi idealmente o virtualmente continuarono la guerra, inquadrati con loro vi erano molti Italiani che non potevano scegliere. Il 6 maggio la Legione italiana Kreta depose le armi nelle mani degli Americani. Il 20 maggio con la nave francese “Ville d’Oran”, approdarono a Brindisi, erano 1400 e furono sistemati nel campo sportivo. In seguito furono trasferiti in parte Taranto, in parte ad Algeri al Campo 211. Quelli di Taranto una notte scapparono cantando “Giovinezza”.
RODI
A Rodi come a Creta, era presente una formazione tedesca, la divisione meccanizzata “Rhodos” al comando del gen. Kleemann che controllava soprattutto gli aeroporti nell’interno. Falliti i tentativi di resistenza e di negoziazione, ai più non resta che aderire al nuovo ordine. Il vice governatore Faralli accettò con diversi personaggi del regime di aderire alla neonata R.S.I. Vennero costituiti diversi reparti, compreso uomini della GNR, Genio e volontari dalla disciolta div. Regina. I volontari si erano divisi in 2 grandi famiglie: quelli che erano entrati direttamente nei reparti tedeschi (e non obbedivano più agli italiani) i Kawi (Kampfwillige soldati alleati volontari) o gli Hiwi (Hilfswillge operai volontari di varie nazionalità, molti russi). Dei circa 32.000 italiani che stazionavano a Rodi, in alcuni mesi aderirono circa 4.000 divisi fra costruttori e combattenti riuniti sotto un reggimento agli ordini del Col. Cerullo.
Entrambe le categorie dovevano prestare la formula di giuramento ad Hitler che diceva "In nome di Dio presto sacro giuramento di obbedire senza riserve ad Adolf Hitler, comandante supremo delle Forze armate tedesche, nella lotta per la mia patria ..."
Il 17 ottobre a Campochiaro i primi reparti prestano il giuramento di fedeltà e furono riarmati dai tedeschi. Si formano così vari reparti di cui il maggiore era quello degli zappatori del genio con 2 battaglioni. Il resto era diviso in sussistenza (servizio sanitario), guardia, comunicazioni, ma anche GNR e combattenti. A Nauplia e a Zante l’artiglieria della Div. Piemonte passò senza discontinuità alla R.S.I. Lo stesso per le altre isole di Samo (24ª Legione GNR "Carroccio'') e Syra (Fucilieri della Cuneo). Altri: Compagnia compl. fascisti n.1, 201ª Legione CC.NN-GNR Egea "Conte Verde", ANR - LXVII° Btg. CC.NN. (a Salonicco)
Le posizioni a Cefalonia all’8 settembre 1943
A Cefalonia e Corfù la resistenza italiana ad opera della div. ACQUI è aspra. Si combatte dal 13 al 25 settembre con oltre 2000 morti. A Corfù dove staziona l'altra parte della divisione, si riesce a ricevere rinforzi dall'Albania (a sinistra). Qui aiutati dai Partigiani greci le sorti sembrano volgere a favore degli italiani, ma solo per poco. Il giorno 15 giungono a Corfù due cacciatorpediniere italiane, lo Stocco e il Sirtori, ma non serve a niente. Gli Stukas (aerei bombardieri da picchiata) affondano il primo e danneggiano il secondo. Il 24 i tedeschi sbarcano in forze e il giorno dopo è battaglia piena con l’attacco ai passi di Stavros, Coriza, e Garuna. L’appoggio aereo scompagina le difese e il colonnello Lusignani dà l’ordine di resa. Alle 14,30 il Col. Lusignani ed i suoi vengono fucilati. Tutti gli italiani prigionieri vengono imbarcati su piroscafi che rischiano prima le mine poi gli attacchi inglesi. Si calcola che almeno 13.000 italiani moriranno nell'affondamento del naviglio, che gli Inglesi ignari o coscienti continuano a colpire da sopra e da sotto il mare.
Ufficio Storico della Marina.
Ai numerosi visitatori che richiedono informazioni sui naufraghi della Seconda guerra mondiale, consiglio la seguente prassi da seguire.
Di norma, i dati relativi a specifiche navigazioni e campagne di unità della Regia Marina, della Marina Militare e navi da carico militarizzati sono conservati all'UFFICIO STORICO DELLA MARINA MILITARE (USMM);
Per i contatti, vedi il link che segue:
http://www.marina.difesa.it/storiacultura/ufficiostorico/Pagine/default.aspx
L'Ufficio Storico non effettua ricerche "per conto terzi", ed è quindi necessario recarsi a Roma nella sua sede, su appuntamento. Tuttavia il servizio è efficiente perché, segnalando in anticipo qual è l'ambito della ricerca, gli addetti fanno trovare al ricercatore i faldoni già pronti nella sala consultazione, avendoli reperiti nell'archivio sotterraneo in precedenza.
Converrà, in sede di contatto con l'USMM, specificare in modo approfondito di cosa si necessita, onde verificare se hanno ciò che occorre, vale a dire una valutazione preventiva del materiale disponibile, soprattutto per evitare un viaggio a vuoto a Roma.
Carlo GATTI
Rapallo, 29 aprile 2013
I segreti dell'ULTIMO MAESTRO D'ASCIA RAPALLESE
I SEGRETI DELL’ULTIMO “MAESTRO D’ASCIA” RAPALLINO
GIORGIO VIACAVA
Chiavari - Casa Gottuzzo - Piazza Gagliardo
Il maestro d’ascia Giorgio Viacava: “Ci vuole un mese di lavoro soltanto per rifinire l’ossatura del gozzo ligure”.
Lo sapevate che sul lago di Ginevra vi fu, nel Medioevo, una presenza di navi da guerra? Nel XIII sec. i Savoia avevano una flotta di galee ormeggiate nei porti di Villeneuve (VD) e di Ripaille (Thonon, F). E’ accertata anche la presenza di Cantieri Navali che le costruivano servendosi di personale altamente specializzato. Le galee genovesi erano il modello preferito dei Savoia che scelsero, per la loro supremazia navale, maestranze provenienti dai cantieri navali genovesi, non solo, ma é pure accertato che persino Rapallo inviò sulle rive del Lemano numerosi suoi figli, tra i quali due maestri d’ascia: Sacolosi ed Andreani, come ci ha riferito lo storico Antonio Callegari.
Il maestro d’ascia é una professionista le cui origini affondano nell’antichità più remota. Purtroppo di questi mitici personaggi, a metà tra l’artigiano e l’artista, ne rimangono pochi e sono introvabili. Costruire uno scafo preciso al millimetro presuppone anni di fatica e tanto amore per la costruzione navale. Esperienza, perizia e competenza sono tutti elementi che maturano nel corso del tempo, sotto la guida di maestri d’ascia più anziani, spesso nonni e padri che tramandano l’abilità nell’adoperare l’ascia da una generazione all’altra.
Il simbolo è l’ascia, ma non quella che deriva dall’immagine classica dell’ utensile. Quella marinaresca sembra una zappa, quindi appare come uno strumento rude: eppure nelle mani dei maestri essa diventa uno strumento di precisione perchè riesce a togliere anche un millimetro di legno. Oggi l’ascia e’ stata sostituita da mole a disco elettriche, eppure Giorgio Viacava continua ad usarla, per finiture eccellenti. Così la tradizione continua e viene tramandata.
Si parte naturalmente dal legno che il maestro d’ascia palpa e annusa per sentirne la vitalità e, come per magia, capta lo spirito della barca che sarà. Già! Tra breve faremo un rapido volo sulle tecniche “evergreen” del costruire in legno. Ne rimarrete affascinati!
Ancor prima che Giorgio spalanchi davanti agli occhi il 'tesoro' di attrezzi da lavoro che raccontano l'ingegno dei maestri d'ascia e dei calafati, è il naso a cogliere l'indizio dell'accesso ad un'altra dimensione, che profuma di sacro e profano allo stesso tempo. Quello della stoppa e della pece che stanno ai vecchi cantieri come l'odore d’incenso sta alle chiese, come il mosto sta alle cantine. Si percepisce nell’aria una specie di rito: “Benvenuti nel tempio della cantieristica navale, dove il culto della memoria si fa trasmissione di sapere, lotta contro il tempo, gli acciacchi e l'indifferenza degli stolti per consegnare alle nuove generazioni l'orgoglio delle radici”.
Asce, pialle, seghe, verine, raspe, magli, scalpelli ... per ricordare quelli dai nomi risaputi che, basta citarli, richiamano le loro forme. “Sono di tutte le dimensioni, a misura di ogni intervento (anche per quelli in spazi angusti) e di ogni... braccia. Sì, perché a seconda della loro diversa stazza, a cominciare dalla lunghezza delle braccia, maestri d'ascia e calafati si costruivano l'attrezzo specifico, di cui erano gelosi”, racconta Giorgio, che ne puntualizza il valore: “Ogni attrezzo corrisponde ad un antenato, che qui continua idealmente a vivere ... questi attrezzi sono intrisi del suo sudore, del suo sangue, del suo pensiero ...” Ecco spiegata la sacralità del luogo!
Oggi si usano strumenti sofisticati per costruire le imbarcazioni o restaurarle, una volta le “armi” a disposizione di questi bravissimi artigiani erano molto più semplici: trapani a mano, seghe, verrine, vecchie mole ad acqua, cartaboni, cioè antichi strumenti per misurare gli angoli, asce di ogni forma.
Modelli di Galee
La nostra ricerca non ci ha portato all’incontro con i discendenti di Sacolosi e Andreani, ma ci ha fatto scoprire l’ultimo dei MAESTRI D’ASCIA della nostra città, Giorgio Viacava 64 anni, uno dei pochi superstiti, ancora operativi, che sia in grado di costruire una qualsiasi imbarcazione in legno, con le proprie mani, come si faceva un tempo in terra di Liguria.
Quali sono oggi i problemi più spinosi per un Maestro d’ascia?
Ci spiega Giorgio Viacava: “Nel piccolo ufficio del nostro cantiere, ho trovato alcune pagine appartenute sicuramente a mio bisnonno. Si tratta di un atto del 1546 riportato nel volume “Maestri e Garzoni nella Società Genovese fra il XV e XVI secolo”, in cui l’attività artigianale vedeva, almeno in questo settore, già allora problemi che oggi si sono mantenuti identici. Questa testimonianza in mio possesso, mi lega ancor di più al mondo dei miei avi perché rivivo con loro gli stessi tormenti... Esso recita:
“I consoli dei maestri d’axia – scrivevano gli artigiani del XVI secolo – et fabricatori di navi (galee) che già sono più di cento anni che fu costituita la lor mercede de soldi 8 dinari 4 il giorno e chiedono un aumento che tenga conto di quanto sia cresciuto le cose necessarie al vivere, le altre manifature de artificis, il ferro, le opere de ferrari e tute le altre cose che tute sono cresciute il dopio”.
Passano i secoli ma i problemi dei Viacava non mutano di molto, anche se nei tempi antichi le retribuzioni erano regolate da contratti e oggi si basano sull’andamento del mercato: ma il risultato é identico, l’artigiano non riesce mai ad essere retribuito in ragione del suo lavoro.
Gli Attrezzi del Maestro d'ascia e del Calafato non hanno età.
Come si può intuire, i Viacava sono legati al mare da generazioni che si perdono nella notte dei tempi. Di quel glorioso passato vi erano tracce nei monasteri che andarono, purtroppo, distrutte dagli stranieri che invasero l’Italia nel corso della sua storia.
Occorre risalire al 1800 per fare la conoscenza del bisnonno di Giorgio, originario di Portofino, del quale sappiamo che lavorò presso un importante Cantiere Navale nel porto di Genova come Maestro d’ascia.
Un documento datato 27 settembre 1921 rilasciato dall’Ufficio Circondariale Marittimo del Porto di Oneglia lo abilitava a costruire barche fino alla portata di 50 tonnellate. Questa autorizzazione era importante ai fini della certificazione dei natanti da lui costruiti, oppure soltanto visionati durante la costruzione.
In seguito, con l’apertura del Cantiere Navale di Rapallo (zona Lido), fu assunto con la stessa qualifica e partecipò alla costruzione del brigantino oceanico CACCIN di 1500 tonnellate, del brigantino a palo ISIDE nel 1873, ma anche a costruire golette, leudi, rivanetti, motoscafi e lance.
Il bisnonno Giobatta Viacava (che farà battezzare col suo stesso nome il padre di Giorgio, fu un celebre maestro d’ascia. Lavorò dal 1940- al 1950 presso il Cantiere Navale Sangermano – Zona Cianté – lato mare del Ponte Annibale (Rapallo), dove attualmente si trova il ristorante “Bella Napoli”. Partecipò alla costruzione del PRIMERO 1° che oggi compare su tutti gli album di ricordi del Tigullio.
L’istantanea coglie Giobatta Viacava, padre di Giorgio, nella prima fase della costruzione di un “gozzo ligure”.
Seconda fase. Le costole sono montate
Ecco come si presenta lo scheletro finito di un “gozzo ligure” nella terza fase.
Il gozzo a vela finalmente in mare
Il rapallino Emilio Breda al timone del Gozzo ligure in legno con cui la Ditta Viacava partecipò con successo al Salone Nautico di Genova nel 1972.
Giobatta Viacava jr. era considerato un fenomeno, perchè in un mese aveva costruito un gozzo ligure di 4 metri, da solo. Egli tramandò la sua arte al figlio Giorgio, e dal capannone dei Viacava uscirono dei veri capolavori, gozzi e barche di ogni tipo che suscitavano l’ammirazione dei compratori. Il legno, inteso come materiale da costruzione, per i Viacava non aveva segreti. L’armonia delle linee, la robustezza della costruzione e la perfezione del prodotto, erano di altissimo livello e difficilmente ripetibili.
Giobatta mostrava eccellenti capacità nell’analisi della qualità del legno, con particolare riguardo al tempo di stagionatura. Egli sapeva sfruttare il materiale nel miglior modo possibile, seguendone il cosiddetto “gaibo”, cioé la forma originaria del pezzo, e adattandolo alle diverse parti dello scafo da costruire.
Il padre di Giorgio ebbe inoltre un notevole spirito imprenditoriale, perché seppe cogliere i cambiamenti in atto nella “nautica” di allora. Verso la fine degli Anni ’50 costruì un moderno capannone situato in località Ronco (Rapallo) da cui l’intera famiglia ripartì per una nuova avventura.
“Dal 1957 al 1995 – ricorda Giorgio - abbiamo costruito insieme 80 gozzi liguri. Nel 1972 abbiamo partecipato, con grande successo, al Salone Nautico di Genova”.
Il Cantiere Navale di Rapallo seppe costruire anche brigantini a palo oceanici. (Archivio Pietro Berti)}
Lungo l’odierna passeggiata a mare, dove questa è allietata dai giardinetti, prima di arrivare al monumento di Colombo, sorgeva un cantiere navale che nel 1865 raggiunse una notevole importanza. Vi si costruirono non solo tartane, golette e scune, ma anche grossi bastimenti di oltre 1.000 tonnellate, quali l’ISIDE, l’ESPRESSO, il GENOVESE, il FERDINANDO, il SIFFREDI, il GIUSEPPE EMANUELE ed il maestoso CACCIN di 1500 tonnellate, sotto la direzione di grandi costruttori navali come G. Merello, Graviotto ed Agostino Briasco.
Giò Bono Ferrari scrisse: “La strada delle Saline a Rapallo, quella dalla tipica porta secentesca, pullulava a quei tempi di calafati e maestri d'ascia. E v'erano i ciavairi con le massacubbie ed i ramaioli, nonché i fabbri da chiavarde per commettere i cruammi. E gli stoppieri, i ramieri e il burbero Padron Solaro, socio del camogliese De Gregori, che aveva fondachi di velerie, d'incerate e di bosselli.”
Beh! Oggi si stenta ad immaginare che la zona descritta, sia stata il cuore pulsante dell'industria e del commercio di Rapallo, quando anche la lingua, intrisa di termini marinareschi e mestieri ormai scomparsi, odorava di pece, catrame e rimbombava di echi medievali, ultimi sibili di un'era legata al prezioso legname da costruzione navale.
Cosa successe dopo la chiusura del Cantiere navale di Rapallo?
“La chiusura del Cantiere imposta dalle Autorità cittadine per 'disturbi alla quiete... turistica' indusse tutte le maestranze specializzate a mettersi in proprio per creare dal nulla piccoli cantieri-laboratori in cui poter continuare ad esercitare la loro arte".
Per i Viacava di oggi, tuttavia, il problema ha più sfumatutre: é senz’altro così se si guarda la fabbricazione dei “gozzi” tradizionali in legno, é invece nettamente migliore se ci si riferisce alle nuove tecniche che utilizzano il vetroresina e che hanno sostituito quasi del tutto l’attività tradizionale.
"Abbiamo virato la nostra produzione in questo senso solo nel 1990 – spiega Giorgio – perché mio padre era molto legato alla lavorazione in legno. Intendiamoci, anche a me piace moltissimo, c’é una soddisfazione maggiore nel realizzare un bel gozzo di legno che nel preparare una barca in vetro resina, ma il mercato purtroppo condiziona anche le nostre scelte, senza contare la fatica ed il tempo che si impiegano per costruire una buona barca in legno".
Fu così che l’antica stirpe dei VIACAVA, maestri d’ascia fin dal medioevo, decise di proseguire con l’unico mestiere che conoscevano a fondo e di inaugurare un proprio cantiere nella loro città.
L'antico e affascinante mestiere del maestro d’ascia, così come quello del calafato, ha trovato il suo più acerrimo nemico nei nuovi materiali apparsi prepotentemente sulla scena navale dopo il tramonto del legno da costruzione: il ferro, l’acciaio, la plastica, ed infine il vetro resina. Il gozzo ligure costruito in legno, come le altre imbarcazioni rivierasche senza età, non hanno più mercato e sono ricercate soltanto dai pochi appassionati della TRADIZIONE e, guarda caso, anche dai principali Musei marinari del Mediterraneo. Con loro stanno uscendo di scena anche gli ultimi maestri d’ascia e calafati che avevano negli occhi il mare e nelle mani nodose l’arte di come affrontarlo.
La memoria degli avi di Giorgio Viacava, come abbiamo visto, si perde nell’oscurità dei secoli, ma l’arte di famiglia, quella del MAESTRO D’ASCIA, non si é mai persa perché si tramanda geneticamente, anche senza saperlo, da padre in figlio. I segreti della costruzione navale in legno formano un patrimonio di conoscenze che resiste al tempo, alle guerre e ad ogni tentazione di cambiare mestiere, una eredità che deve restare in famiglia. Chi nasce maestro d’ascia preferisce morire nell’unico profumo di resina di cui si é nutrito.
Ci può narrare qualche segreto della sua vecchia arte?
“Ai committenti, ma talvolta anche a certi dipendenti, si può solo scarabocchiare la soluzione di un problema con il manico dell’ascia sulla sabbia, poi lo si fa sparire con una pedata... Il mestiere non s’insegna, lo si ruba con astuzia e pazienza – sorride di sottecchi Giorgio - Solo un padre, uno zio, un nonno, a volte un bisnonno te lo mostrano più volte spiegandoti alcuni “trucchi” per non fartelo sembrare troppo difficile, poi ti mettono alla prova osservandoti con pazienza... ma dipende da te mostrare che sei potenzialmente un “figlio d’arte”.
Passa il tempo ed arriva il giorno che commetti un errore, ma te n’accorgi da solo. – E’ l’arte che entra! - Ti sentirai dire. Da quel momento, punto nell’orgoglio, saprai cavartela da solo, per sempre!”.
Si prova un’emozione mistica nel varcare la soglia del tempio di un maestro d’ascia. Il culto della memoria si fa volano del sapere verso le nuove generazioni, da cui nasce la fierezza delle antiche radici.
Ogni attrezzo corrisponde ad un antenato, che qui continua idealmente a vivere ... queste asce sono intrise del suo sudore, del suo sangue, del suo pensiero ... Ecco spiegata la sacralità del luogo! Gli odori forti della resina, della stoppa e della pece stanno ai vecchi cantieri come l'odore d’incenso sta alle chiese, come il mosto sta alle cantine.
Nel lavoro del maestro d’ascia tutto é cadenzato da segreti e gelosia di mestiere! Dal fabbricare i propri utensili per entrare in qualsiasi “recanto” della barca in costruzione, alla scelta dei manici di legno (pero, melo, limone), alle misure (peso, lunghezza, larghezza) che devono essere armoniche con la sua stazza e con lunghezza del suo braccio. Ogni colpo d’ascia emana una nota musicale che racconta la storia di quel legno (vecchiaia, stagionatura, duttilità, qualità, prontezza d’impiego). L’ascia é affilata come il rasoio da barba. Nel tempo diventa l’estensione dell’arto del suo maestro di cui assume la stessa personalità. E’ solo paragonabile allo scalpello dello scultore, al pennello di un pittore. Se l’occhio ti tradisce e sbagli il “tocco”, devi ripartire daccapo.
Ha qualche ricordo di suo nonno?
“Mi raccontava mio nonno – riprende Giorgio - che gli avi maestri d’ascia d’un tempo, usavano scegliersi il legno per ogni loro esigenza di costruzione e si trasformavano in pellegrini... Non c’erano le autostrade e le ferrovie come al giorno d’oggi, l’unica via per raggiungere le foreste montane dell’Aveto era la mulattiera anzi le mulattiere a dorso di mulo. Da Rapallo dovevano valicare il passo della Crocetta, presso vicino al Santuario della Madonna di Montallegro, da qui scendevano a Coreglia in Val Fontabuona, proseguivano per San Colombano, aggiravano il fondovalle del monte Pissacqua e arrivavano a Borzonasca.
Da qui si snodava, in arrampicata, la millenaria mulattiera, una vera “arteria medievale”, che toccava le seguenti località: Squazza, Caregli, Gazzolo, Temossi, Villa Jenzi, La Pineta, Rezoaglio, Villa Cella (fino al 1550)- Foresta del Penna. Il percorso era molto trafficato per gli scambi commerciali che avvenivano tra la Liguria e l’Emilia, e era molto aspro per la conformazione del territorio.
La zona dell’Aveto, oggi Parco dell’Aveto (3.000 ettari), é il più montano dell’Appenino Ligure e ne comprende le cime più elevate fra i 1600 e i 1800 metri di altezza, quali il Maggiorasca (1.799 metri), il Penna (1735 mt), lo Zatta, l’Aiona (1.701 mt), il Groppo Rosso (1.593 mt). Vi erano altre mulattiere, forse più brevi, ma meno organizzate e controllate. Il vero problema per le carovane di muli carichi di merce preziosa era, però, di ben altra natura: il brigantaggio! Il rischio di perdere tutto, anche la vita, era altissimo a causa degli agguati improvvisi e ferocissimi di gentaglia senza scrupoli. Pertanto i convogli erano lunghi e partecipati nel tentativo di contrastare i “Fra diavolo” locali e per aiutarsi reciprocamente nel caso di perdite di animali e per soccorrere eventuali feriti.
Le vallate dell’Appennino rimbombano ancora di antichi rumors che raccontano delle guarnigioni di birri che avevano il compito di tenere a bada i briganti, benché la maggior parte di loro fosse in combutta con gli uomini di potere che li usavano per taglieggiare i mulattieri che trasportavano merci da un capo all’altro dell’Appennino… La musica cambia, ma i suonatori sono sempre gli stessi!!!
Il territorio di Santo Stefano d’Aveto, circondato da boschi fittissimi, era la culla di banditi leggendari che ancora alla fine del secolo XIX assalivano convogli isolati o troppo poco protetti tra il passo del Tomarlo, del Bocco e, poco più sotto, delle Cento Croci.
Questo è il motivo principale che indusse, per oltre un millennio, i nostri avi a scegliere la “rotta”: Chiavari – Borzonasca – Aveto che procedeva lenta, ma sicura.
Esisteva, per la verità, un’altra mulattiera che da Coreglia tagliava in diagonale il versante sud del monte Caucaso (1.250 mt.) che, dopo numerosi e ripidi tornanti, tra boschi di castagni, carpini, lecci, roveri di mezza collina, giungeva al Passo della Ventarola. Qui le carovane sostavano nell’antichissimo borgo che è visitabile ancora oggi, alcuni chilometri prima di Cabanne. L’incontro con le prime selve di faggi segnava il cambiamento di clima, l’aria si faceva fresca e non sapeva più di mare, ma di pascoli, fieno e conifere. Il terzo giorno, tra numerosi saliscendi, i mulattieri incontravano pioppeti, salici e nelle zone intermedie, anche frassini, carpini, aceri, ciliegi selvatici e i cerri giganteschi.
Villa Cella. La chiesa e il mulino.
Il loro obiettivo era ormai vicino: giunti a Villa Cella (1020 mt), dove esisteva un punto di ristoro ed assistenza dei frati Benedettini, i carovanieri affrontavano gli ultimi tornanti al Lago delle Lame e quindi al Penna popolato da milioni di abeti, pini e faggeti che compongono l’immensa e suggestiva foresta alpina.
Breve nota storica:
La foresta del Penna, anche se l’attuale impianto è frutto di recenti rimboschimenti, ha origini molto antiche. Le sue abetaie, pur mescolandosi al faggio e ad altre specie caducifoglie godono, a detta degli esperti, di una eccellente salute, la migliore in tutta l’area appenninica. La sua importanza fu grande anche in passato, quando i principi Doria difendevano a spada tratta il vasto patrimonio di pregiato legname che era alla base delle loro industrie navali. La regolamentazione del taglio dei boschi ed il traffico ad esso correlato avveniva con le cosiddette GRIDE. La più antica di queste “gride” è datata 9 agosto 1593 e proviene dall’Archivio Doria Pamphili di Roma.
“Per parte del Magnifico Commissario di Santo Stefano e d’ordine di sua S.E. si comanda che nessuna persona forestiera abbia ardire d’andar a tagliare qualsivoglia sorta di legname nelli boschi della giurisdizione di Santo Stefano tanto de qua da Ramazza come di là, ne meno di legnami tagliati levare dalli Boschi suddetti, sotto pena della galera ed arbitrio di S.E. et della perdita dei legnami et de bestie che le portassero o tirassero”. I vassalli per uso loro possono tagliare la legna, ma se qualcuno favorirà il taglio da parte di forestieri “incascheranno ne la medesima pena”.
Altre “grida” dello stesso minaccioso tenore furono proclamate nel 1601 e nel 1630.
"Arrivati sul posto i nostri avi maestri d'ascia incontravano gli amici boscaioli e scambiavano il sale, le acciughe sotto sale e la frutta di stagione con il formaggio locale, fresco e stagionato; non mancavano i profumati salumi che degustavano con lunghe bevute di vino proveniente dalla vicina Emilia”.
In via dei Remolari a Chiavari, nei pressi della Cattedrale, avevano sede i laboratori che producevano i remi per le galee genovesi utilizzando il legno di faggio proveniente dal vicino Monte Penna.
Questa forte richiesta di materia prima impose la creazione di sistemi di trasporto efficienti e sicuri che risolvessero il problema di come far arrivare dai monti a fondovalle i tronchi già sbozzati dei boscaioli. Dalle Lame, per esempio, partivano, a piedi, i “camalli” assoldati tra i montanari più robusti. Una volta giunti a fondovalle, le travi venivano trainate da buoi. Dal Monte Zatta, invece, era utilizzato un corso d’acqua sbarrato da barricate, a monte delle quali si accumulavano i tronchi, che poi venivano fatti trasportare dalle acque, aprendo e chiudendo le chiuse ad intervalli regolari.
Una volta consegnati i remi, spesso la Val d’Aveto forniva anche rematori. Ogni galea necessitava di 150-170 tra schiavi, prigionieri condannati ai lavori forzati, tra i quali si poteva inserire qualche brigante catturato proprio tra queste montagne mentre operava dandosi poi alla macchia. Ai rematori “forzati” si aggiungevano i cosiddetti “buonavoglia”, tra cui numerosi contadini o montanari che decidevano di arruolarsi volontariamente sulle galere specialmente negli anni di carestia. Infine possiamo aggiungere una categoria meno citata: i “sequelle”, uomini liberi provenienti dai feudi, che le varie comunità del territorio erano tenute a fornire al feudatario in caso di necessità.
Non sapevo che il mulo avesse avuto un ruolo così importante nella storia delle Galee genovesi. Credo che ai nostri lettori interessi anche questo aspetto. Ha dei ricordi?
“Certamente! Anche se devo fare appello ai racconti, per fortuna ancora nitidi, di mio nonno.
Il mulo è un animale dalle abitudini alimentari molto spartane, non richiede grosse attenzioni per quanto concerne l’alimentazione e riesce a digerire anche foraggi grossolani. Richiede razioni molto inferiori rispetto a quelle di un cavallo a parità di peso ed è per questo che ha riscosso tanto successo nel corso dei secoli. Il mulo è un animale dal carattere complicato, è resistente, paziente, coraggioso e ostinato. Ha inoltre un tiro infallibile. E’ preziosissimo in montagna e nelle zone caratterizzate da collegamenti e strade impervie. I muli riescono a percorrere circa cinque chilometri all’ora procedendo a passo lento in tutte le condizioni di strada e trasportando un carico pari al 30% del loro peso e possono marciare anche per 10-12 ore di seguito, arrivando a percorrere fino a 40 km al giorno. Per quanto concerne la potenza di carico, considerando che il peso medio di un mulo si aggira sui 450 chili, il peso massimo trasportabile dovrebbe aggirarsi intorno ai 130 chili. In generale, i muli riescono a trasportare grossi carichi per lunghi tratti, senza accusare il minimo cenno di stanchezza.
I muli sono animali estremamente longevi e possono lavorare anche per 30-50 anni. Il massimo del rendimento si ha a partire dai quattro anni di vita.
Il viaggio nella Val d’Aveto che ben conoscevano i nostri avi già nel medioevo, durava in media una settimana. La lunghezza del convoglio, la quantità del carico e le condizioni climatiche facevano la differenza”.
Breve nota storica: …. Dai Malaspina a Lepanto!
Il feudo di S.Stefano d’Aveto appartenne ai Malaspina dal 1164 fino al 1495, dopodichè, a causa di un progressivo declino provocato dalla disunione familiare, fu ceduto a Gian Luigi Fieschi, conte di Lavagna. I 52 anni di feudalità dei Fieschi, com’è noto, si conclusero con l’episodio passato alla storia come la “Congiura dei Fieschi” che fallì clamorosamente nel 1547. Il feudo avetano cambiò “padrone”. Carlo V lo regalò ai Doria e alla Repubblica di Genova.
Ultimo feudatario di Santo Stefano sarà Andrea IV che, travolto dal ciclone napoleonico, nel 1797 porrà fine alla Signoria dei Doria in Val d’Aveto.
Sul portale della parrocchia di Santo Stefano d'Aveto giganteggia l'immagine della Madonna di Guadalupe, protettrice del comprensorio avetano.
Tuttavia, la Val d’Aveto è legata al nome dei Doria anche per un singolare episodio religioso. La parrocchia di Santo Stefano é dedicata alla Madonna di Guadalupe (nella foto), venerata in paese dal 1802. Nel 1811 il cardinale Giuseppe Doria Pamphili Landi, venuto a conoscenza di tale culto, donò alla parrocchia una tela raffigurante la Vergine di Guadalupe, a lui pervenuta dai suoi avi. Il quadro, ora posto al centro dell’altare maggiore della Chiesa, fu dipinto poco tempo dopo l’apparizione della Vergine a Juan Diego avvenuta a città del Messico nel 1531.
Sul portale destro della chiesa appare l'immagine di Andrea Doria, con la seguente scritta: AMMIRAGLIO ANDREA DORIA GIA' SIGNORE DEL CASTELLO EBBE IN DONO NEL 1535 DALL'IMPERATORE CARLO V L'EFFIGE DELLA GUADALUPE VENERATA IN QUESTA CHIESA.
Esso è “copia autentica” della miracolosa immagine originale e fu regalato dall’Arcivescovo Montufar al Re Filippo II di Spagna, il quale lo donò all’Ammiraglio genovese Gian Andrea I Doria (nella foto), poi signore di S. Stefano, che l’espose nella cappella della sua GALEA durante la BATTAGLIA DI LEPANTO (1571).
Ci parli un po’ della scelta del legname da costruzione.
Come nei secoli passati, tra la Caserma della Forestale del Monte Penna e il Passo dell’Incisa, esiste: LA SEGHERIA NEL BOSCO che è oggi al centro di un notevole programma nazionale di rimboschimento.
La scelta del legname in natura iniziava con l’aiuto dei boscaioli e segantini del posto che ben conoscevano le esigenze dei nostri maestri d’ascia. La ricerca accurata dei tronchi e dei rami che avessero già un avvio ricurvo, era prioritaria.
Dare la curvatura delle costole su cui applicare il fasciame costituiva un’impresa ardua, ma il maestro d’ascia conosceva i segreti per risolvere questo genere di problemi, come vedremo più avanti.
Il legname stagionato della Val d’Aveto era molto apprezzato, specialmente quello collocato nel fondovalle umido e ricco di corsi d’acqua.
Se ho ben capito i suoi avi acquistavano due tipi di legname per le loro costruzioni: quello che presentava un certo tipo di curvatura, idoneo quindi per trasformarsi in ordinate/costole e quello già dritto e stagionato per le travi longitudinali: chiglia, paramezzali, madieri, torelli.
“Esatto! La fase più delicata della costruzione di un’imbarcazione era la scelta del legno che doveva avere la sua giusta stagionatura. La vita e la longevità della futura imbarcazione dipendevano da questo importante elemento. Se il legno era ben stagionato, la robustezza e la salute dell’imbarcazione erano assicurate”.
Giorgio ci sveli ancora alcuni segreti sulla stagionatura.
“La migliore stagionatura del legname da costruzione navale si ottiene in due fasi: nella prima si immergono i tronchi d’albero nell’acqua di un torrente montano per almeno sei mesi affinché rilasci la sua linfa (tannino). Trascorso quel periodo, si entra nella seconda fase. Il tronco viene tagliato in tavole che vengono appilate e distanziate tra loro con traversine per favorire la circolazione d’aria. Da questo momento inizia la stagionatura che dura, come minimo, un anno.”
Come si ottiene la curvatura del legno?
“Come accennavo prima, uno dei problemi che il maestro d’ascia deve affrontare e risolvere é la piegatura del legno che sarà utilizzato nello scafo, dove le sue linee sono tutte ricurve per dare eleganza all’imbarcazione, per assecondare il moto ondoso e per ridurre la resistenza al moto in avanti, quindi per avere una buona velocità.
Prima di piegare il legno occorre riscaldarlo utilizzando un forno a vapore dotato di caldaia chiusa. Sulla parte superiore del forno é sistemato un tubo di grandezza adatta al legno da piegare. La temperatura deve raggiungere ed anche superare i 100°".
Quanto tempo deve rimanere nel forno, per esempio, una futura costola?
"Dipende da molti fattori: la qualità del legno stesso, la sua stagionatura e naturalmente dall’esperienza e dai segreti del mestiere.
Quando la cottura é terminata, il legno viene estratto e piegato secondo la linea di una “sesta” disegnata in precedenza. Per ottenere la forma definitiva, il legno viene bloccato da morsi.”
Come si costruisce un gozzo ligure?
“Oggi non si va più nella Val d’Aveto a dorso di mulo, ma si va dal rifornitore con il camioncino. Noi siamo clienti della ditta MICHELINI & PORTUNATO (La Spezia) - Importatori di legname esotico: IROKOH (chiglia) – Mogano e Tek (interni) – Acacia (ordinate, madieri) - Pino da pineta (fasciame).
Il primo passo da compiere é il seguente: s’imposta la trave di chiglia che si ricava da un tavola di legno molto resistente come l’azobé o l’irokoh, legni africani che non vengono danneggiati dall’acqua; quindi si imposta la chiglia facendo un abbozzo di struttura che viene messa su cavalletti perché sia in bolla, in piano. A questo punto si forma la ruota di prora e il dritto di poppa da cui esce l’elica, quindi si mette tutto a piombo di poppa e inizia la lavorazione delle ordinate, cioé la struttura verticale della barca.
Le ordinate sono composte da “madieri” (primo innesto delle coste poggiandosi trasversalmente alla chiglia) che vengono fissati nella chiglia con dei perni, e sono poste ad una distanza di venti-venticinque centimetri l’una dall’altra, dipende un po’ dalla costruzione. Poi si mettono delle forme longitudinali che tengono tutta la struttura a piombo: questi paletti, infatti, tengono, fino alla fine della costruzione, la barca perfettamente a piombo, perché basterebbe che tre ordinate fossero piegate su un fianco per far sì che, una volta messo il fasciame, la barca risultasse più larga da una parte che dall’altra.
Si mettono quindi altre forme longitudinali per dare un avviamento a tutte le ordinate, e a questo punto la struttura é pronta per accettare la prima tavola, che é la prima in alto, detta “tavola di cinta”. Ah, un momento: prima della posa della tavola, bisogna fare, subito dopo aver messo tutte le forme longitudinali che man mano vengono tolte, le tre ordinate di prua e le tre ordinate di poppa, che non hanno il madiere perché si fissano al controruota e non alla chiglia, e che si chiamano “apostoli”.
Dopo la prima tavola, si procede a mettere tutte le altre, ma stando attenti a lasciare degli spazi fra l’una e l’altra: la lavorazione come si deve, prevede una tavola sì ed una no, perchè a quel punto la barca dev’essere lasciata riposare.
Tradizionalmente le barche si fanno d’inverno e quindi si lasciano riposare fino alle prime giornate di tempo asciutto, o addirittura in primavera, nell’inverno stesso, quando l’aria é proprio secca. Questo perché le tavole, benché siano fatte con legno stagionato, assorbono comunque un po’ di umidità e quindi bisogna dar loro il tempo di assestarsi prima di mettere le altre, che si chiamano “imbuoni”.
Per fare gli “imbuoni” bisogna innanzitutto costruire una sesta seguendo il filo delle tavole già messe, poi con il compasso si prendono le distanze tra l’una e l’altra della tavole già messe, e si riportano quindi queste misure sulla tavola già tagliata che diventerà l’imbuono. Solo che le tavole non possono essere tagliate... diciamo “normalmente”: la barca é tonda, come una botte, quindi se i legni si tagliassero in squadra, fra l’uno e l’altro rimarrebbero degli spazi. Allora, uno per uno vanno presi i “cartabuoni”: il cartabuono é lo strumento con cui si misura l’angolo, cioé di quanto è fuori strada una tavola, e il nome passa alla misurazione stessa.
“Nella costruzione navale, con riferimento a una generica sezione trasversale di uno scafo passante per una costola o ordinata (piano dell’ordinata o di garbatura), l’angolo diedro formato dal piano dell’ordinata stessa con la superficie esterna dell’ossatura; è funzione dell’andamento più o meno curvilineo dello scafo (nella zona prodiera il quartabuono, detto q. grasso, è maggiore di 90°, in quella centrale è circa uguale a 90°, verso poppa può essere uguale o inferiore a 90°, q. magro) e varia sia lungo il contorno della stessa costa sia da costola a costola.”
I maestri d'ascia, sebbene illetterati, riuscivano a fare meraviglie, con i loro attrezzi. Come il ‘gaibo’, (garbo); una catena di elementi di legno che, bagnata con acqua bollente, diventava strumento per dare forma e tracciare le ordinate, là dove il maestro d'ascia, anche in assenza di disegni, era capace di interpretare e realizzare elementi strutturali. “Sì, c'era anche chi era dotato di un talento particolare, quello di interiorizzare le forme della barca e riportarle su legno seguendo un processo che sapeva più di artistico che di artigianale” - conclude Giorgio.
Il sole é tramontato sul cantiere dei Viacava. Mi soffermo ancora un attimo nel suo angolo più antico. Le ombre di Sacolosi, Andreani e dei Viacava si piegano sulla chiglia dell’ultima galea. Un colpo d’ascia vibra nell’aria, si diffonde un profumo di rovere.
Colgo il saluto con un brivido!
GRAZIE Giorgio per questo “speciale” viaggio nel tempo!
ALBUM FOTOGRAFICO
Terminologia tecnica della costruzione navale in legno
1. Chiglia; 2. Madiere; 3. Ginocchio; 4. Scalmo; 5. Baglio; 6. Paramezzale; 7. Paramezzale laterale; 8. Sopraparamezzale; 9. Serrette; 10.Puntello; |
11. Anguilla; 12. Torello; 13. Controtorello; 14. Fasciame di cinta; 15. Suola; 16. Parapetto; 17. Fasciame del ponte; 18. Pagliolato; 19. Sentina; 20. Dormiente; 21. Trincarino. |
GLI ATTREZZI
Dei Maestri D'Ascia
CALIBRO
MAZZUOLO
COMPASSO
FILO A PIOMBO
PATRASSA
PARELLA
SCURE
MAZZA, BERTA O NONNA
ASCIATELLA
MARTELLO O BOZZETTO
SBOZZINO
ASCIA
FERRO DA STERZO
VERINA DA ALESAGGIO
CHIAVE A VITE
MAGLIO DEL CALAFATO
Uno degli strumenti più originali del Calafato è il maglio, una specie di martello di leccio o rovere, a due teste. Era fatto a mano ed ogni calafato aveva il proprio perché si doveva adattare alla forza e alla lunghezza delle braccia di chi lo usava. Ogni Calafato desiderava che il suo maglio avesse il "ciocco" più sonoro e il contraccolpo più valido di quello del suo compagno di lavoro. In prossimità dell’estremità della testa, viene inanellato un ferro che evita la rottura del maglio. Sul maglio c’é un taglio allo scopo di avere un effetto di ammortizzatore il colpo.
Ferri da calafato: i ferri venivano utilizzati per "pulire" la zona da calafatare, sia per allargare le commesure con dei scalpelli posti perpendicolarmente alle tavole e con raschini per asportare la vecchia calafatura. Successivamente coi i ferri a palella si "filava" la stoppa catramate nella fessura. Stoppa: Veniva inserita all’interno delle commesure con i ferri a palella, molto acuti per inserirla in profondità. Finita l’operazione con la palella occorreva compattare la stoppa con ferri dai tagli larghi chiamati "calca stoppa".
MARMOTTA
Oltre il maglio, il Calafato aveva un corredo di attrezzi tra cui una PARELLA, quattro ferri con numero diverso di canale, il CAVASTOPPA, il raschino. Gli attrezzi venivano conservati in una cassetta che si chiama marmotta.
Questa cassetta misurava circa 43 cm di altezza, 24 cm di larghezza e 17cm di profondità. Da un'apertura a mezzaluna su un lato si estraevano i ferri del mestiere: dai ferri per pigiare le stoppe, alla stoppe, al maglio, al mazzuolo per picchiare sui ferri, ai pezzi di sughero per tappi e al grembiule per proteggere i pantaloni nel filare - la stoppa catramata. La marmotta era praticissima perché serviva anche come sgabello di varie altezze a seconda della posizione in cui si metteva in piedi, di costa, di piatto).
Il verbo "calafatare" deriva dal latino "cala facere" che significa fare calore per ripulire superfici incrostate da ripristinare; questa operazione veniva fatta sulle carene delle navi per impermeabilizzarle. Infatti il fasciame immerso (opera viva) veniva impeciato con bitume per proteggerlo e stagnarlo; periodicamente, per rinnovarlo o per eseguire riparazioni, doveva essere esportata la pece precedentemente applicata con il calore, cioè con il fuoco. Successivamente alla bruciatura, si eseguiva la chiusura stagna delle commensure delle tavole con stoppa cacciata dentro a forza, ed in seguito la carena veniva ricoperta con pece calda stesa con rudimentali pennelli, costruiti con pelli dl pecora legate ad un bastone ed immersi nelle pece calda liquefatta in un paiolo sopra un braciere. Le attrezzature per fare calore erano: fascine di stipa da ardere, le fraschiere (gabbie di ferro per contenere fascine ardenti che tenute vicino alla carene, bruciavano la vecchia impeciatura), un tripiede per il fuoco, una caldaia per le pece, un ramaiolo per raccoglierla dalla caldaia ed un imbuto per impecire le commensure delle tavole del ponte, lanate (cioè quella specie di pennelli fatti di pelle dl pecora). Nei cantieri e negli arsenali i calafati erano maestranze tenute in grande considerazione. Per la qualifica di stagnatore di vie d'acqua, il calafato, insieme al carpentiere, veniva imbarcato in numero vario sulle navi, soprattutto su quelle da guerra per intervenire prontamente a chiudere le falle provocate dalle palle di cannone dei cannoni nemici. Nelle navi durante il combattimento il calafato era sempre pronto a chiudere eventuali vie d' acqua, con lastre dl piombo, uova di struzzo e simili. Le uova di struzzo erano grossi tappi in legno a forma conica usati per chiudere i fori nel fasciame provocati dalle palle di cannone.
Il calafataggio veniva eseguito nel seguente modo: dati i forti spessori delle tavole di fasciame le commessure venivano allargate per alcuni metri con lo scalpello posto perpendicolarmente alle tavole, poi con un raschino ad uncino chiamato "maguglio" veniva asportata la vecchia calafatura, se esisteva. Successivamente a colpi di maglio sul fuoco si filava la stoppa catramata per ridurla al giusto diametro e si inseriva la stessa nella fessura con i ferri a palella molto acuti per spingerla il più possibile in profondità. La stoppa era spinta nel commento non totalmente ma a segmenti l'uno di seguito all'altro in rapida successione di colpi di maglio ben assestati sulla testa del ferro. Preparati così alcuni metri si ripassava sempre con la palella e spingere tutta la stoppa ed a premerla; a volte con le profondità della commensura era necessaria anche una seconda passata di stoppa. Finita l'operazione con le palelle, la stoppa doveva essere compattata all'interno con ferri dal taglio largo chiamati "calca stoppa". Questi ferri portavano nel taglio una rigatura e canale, semplice doppia o tripla secondo le larghezza della commensura. Anche questo lavoro di pressatura avveniva a colpi di maglio e quando la quantità della stoppe era molta e resistente doveva essere eseguita con un ferro calca stoppa simile ad un 'accetta senza taglio con manico chiamato "paterosso" battuto con una mazza di ferro da 3 chilogrammi. Come abbiamo già visto, lo strumento più originale del calafato è il maglio, possiamo solo aggiungere che si tratta di un martello interamente in legno di leccio o rovere a due teste, con possibilità dl colpire sia da una parte che dall'altra; in prossimità della bocca (da colpire) vi è un anello in ferro che evita le spaccature del legno. Le dimensioni sono 33 cm di larghezza circa, con un manico di 38 cm, il peso è di un chilogrammo. In genere era fatto a mano ed ognuno aveva il proprio, perché si doveva adattare alla forza e alla lunghezza delle braccia di chi lo usava. ll rumore provocato dal martello creava sordità e spesso stress nervoso; i calafati, perciò, erano detti "sordi e maleducati". Generalmente il calafato praticava solo quest'arte ma non era raro incontrare maestri d'ascia che sapessero esercitar egregiamente anche il mestiere del calafato. Questi erano gli operai più ricercati.
CALDARO DA PECE
TENDI COMANDO
MUSEO MARINARO TOMMASINO/ANDREATTA – CHIAVARI
GLI ATTREZZI DEL MAESTRO D’ASCIA E DEL CALAFATO
Foto di Gun Gatti
Questo martello, con le iniziali EG in rilievo, serviva ad Eugenio Gotuzzo per firmare le tavole che entravano nel suo cantiere. Bastava un colpo secco per marchiare qualsiasi tipo di legno.
Carlo GATTI
18 agosto 2016
P.fo G.DONIZETTI affonda il 23 settembre 1943-1584 morti
P.fo G.DONIZETTI
affonda il 23 settembre 1943
1584 le Vittime
Dal Comando Grupsom – X°fit riportiamo:
LE GRANDI TRAGEDIE DELL’EGEO
(Dodecaneso) Sito italiano....
Il P.fo DONIZETTI in navigazione
Il piroscafo Gaetano Donizetti di 3.428 tonnellate di stazza, apparteneva alla Società di Navig. Tirrenia quando fu sequestrata dalla Kriegsmarine dopo la dichiarazione dell’Armistizio (8 settembre 1943).
L’unità giunse a Rodi il 19 settembre 1943 con le stive piene di cannoni, munizioni e truppe di rincalzo per il Generale Kleeman. Nell’isola, la Divisione corazzata ‘Rhodos’ aveva già vinto la sua battaglia. Crollati i vertici italiani, avvenuta la resa, i marinai e gli artiglieri erano scesi dalle batterie, i fanti erano stati costretti ad uscire da postazioni spesso duramente difese, gli avieri - presi di mira nei loro campi dai panzer e dai bombardieri - dovettero abbassare le loro armi davanti al nuovo nemico. Nel momento più drammatico della disarticolata resistenza, mancò del tutto l’appoggio inglese. La preziosa Rodi per la quale gli Stati Maggiori dell’Esercito di Sua Maestà Britannica avevano architettato almeno tre piani d’invasione nel corso del conflitto, stava diventando una fortezza tedesca che doveva, in tempi stretti, alleggerirsi della inutile presenza di trentacinquemila prigionieri in buona parte decisi alla resistenza passiva. Questa imponente presenza di braccia avrebbero, viceversa, trovato collocazione sul continente nel lavoro coatto.
La Donizetti in manovra
Di qui la necessità di un rapido anche se rischioso sgombero, con qualunque mezzo, non escluso l’aereo, con qualsiasi natante, piccolo o grande che fosse. Eccoci quindi alla ‘Donizetti’, resa disponibile in tutta fretta mediante un frenetico lavoro di scarico. Prima di una serie di navi ‘negriere’, la ‘Donizetti’ cominciò ad imbarcare internati la mattina del 22 settembre 1943. I Tedeschi intendevano ‘stivare’ almeno 2100 prigionieri - come bestie - negli spazi già difficili per 700. Il Col. Arcangioli, incaricato di coordinare l’operazione, s’accorse che superato il numero di 1600 uomini, la stiva sarebbe diventata un infernale carnaio. Di sua iniziativa sospese il tristissimo afflusso su per gli scalandroni, ma i tedeschi reagirono riprendendo immediatamente gli imbarchi, e solo quando si resero conto che Arcangioli aveva ragione, si fermarono a quota 1835. 256 uomini in meno che furono salvati da un ripensamento formulato controvoglia all’ultimo istante.
Era già buio quando la ‘Donizetti’ salpò da Rodi il 22 settembre. Tenendosi sotto la costa orientale di Rodi, la nave diresse per sud-ovest, passò davanti a Lindos e venne a trovarsi alle 01,10 poco al largo di Capo Prasso, estrema punta meridionale dell’isola. La scortava una silurante con equipaggio tedesco al comando dell’Oberleutnant Jobst Hahndorff. La piccola unità - 610 tonnellate, armata con due cannoni da 100 - era al terzo cambio di mano e dopo essere nata francese col nome ‘La Pomone’, era diventata FR 42 per la Marina italiana ed infine TA 10 per la Kriegsmarine.
Nelle stesse acque non troppo profonde, ma prossime alla “fossa di Scàrpanto”, il cacciatorpediniere britannico ‘Eclipse’ colse sul proprio radar i bersagli delle due unità che procedevano di conserva. La Royal Navy si era impegnata sin dai primi giorni dopo l’armistizio, in una vera e propria caccia ai convogli tra le isole. Partendo dalle basi lontane di Alessandria e di Cipro, unità veloci battevano i canali di Caso e di Scàrpanto e risalivano verso nord – ovest calcolando la giusta autonomia per operare al buio. L’obiettivo era quello di far piazza pulita di qualsiasi natante senza attardarsi mai; l’ordine era di disimpegnarsi a tutto vapore per trovarsi, all’alba, fuori dall’Egeo e il più lontano possibile dai ricognitori e bombardieri della Luftwaffe.
Quella notte l’Eclipse’ stava operando una ricerca tra Rodi e Scàrpanto assieme all’unità gemella ‘Fury’. Più a nord, tra Stampalia ed Amorgos, altri due caccia, il ‘Faulknor’ e il ‘Vassilissa Olga’ - (destinato quest’ultimo, tre giorni più tardi, a colare a picco in coppia con l’Intrepid’ nella baia di Portolago) - stavano conducendo un’analoga operazione. La messa a punto dell’’Eclipse’ prima di aprire il fuoco fu rapidissima. Fulmineo il tiro. La Donizetti affondò in pochi istanti trascinando nel gorgo 600 avieri, 1110 marinai, 114 sottufficiali e 11 ufficiali dei quali, in assenza di sopravvissuti e di liste nominative redatte all’imbarco, non si sono conosciuti i nomi. Con altrettanta rapidità la TA 10 finì la sua randagia carriera sotto le salve implacabili dell”Eclipse. Trascinatasi alla meglio sino ad un centinaio di metri dalla terraferma, posò lo scafo lacerato sugli scogli di Prassonisi lasciando emergere la plancia e il fumaiolo. I superstiti dell’equipaggio trovarono temporaneo rifugio nell’area abbandonata della batteria ‘Mocenigo’. Il Col. Arcangioli venuto da Rodi col permesso del Comando tedesco per conoscere i dettagli del disastro e raccogliere gli scampati all’ecatombe, non trovò naufraghi, né ebbe notizie di essi dai matrosen della TA 10. L’Eclipse, dopo i lanci e le salve andate a segno, si era eclissato dando il massimo dei giri alle eliche. Solo più tardi seppe di aver firmato la prima grande tragedia dell’Egeo, fino a quel momento. Una tragedia che si sarebbe potuto evitare con una segnalazione tempestiva. La Defence Security Office del Dodecanneso, ad una richiesta della Commissione per la tutela degli interessi italiani in Egeo, rispondeva con tono glaciale e burocratico che la ‘Donizetti’… ”was sunk in a naval action south west of Rhodes on 23th september 1943”. Null’altro.
Dal sito GRUPSOM riportiamo: La Motonave DONIZETTI, classe “musicisti”, era stata varata nel 1928 per conto della ADRIA SA di navig. con sede a Fiume; era di tipo misto, cioè attrezzata al trasporto di passeggeri di merce varia, aveva una stazza lorda di 2428 t. lungh. di 97 mt. Nel successivo riordino delle linee cosiddette ‘sovvenzionate’, la Donizetti entrò a far parte della TIRRENIA SA di Navig. La nuova Società “entrò” in guerra con ben 56 navi uscendone con 7 soltanto in grado di poter prendere ancora il mare, essendo state per la maggior parte requisite dalla Regia Marina o comunque impiegate nel trasporto dei rifornimenti verso la sponda nordafricana, e sacrificate nell’immane bagno di sangue che fu la Battaglia dei convogli. La Donizetti venne requisita il 16 Ottobre 1940 e impiegata massivamente per il trasporto di truppe e materiali bellici nelle acque dell’Egeo. Fu proprio in quelle acque, Iraklion (Creta), che venne sorpresa dall’armistizio proclamato l’8 Settembre 1943. Subito catturata dai tedeschi, si rivelò l’asso nella manica per costoro che dovevano affrontare e risolvere il problema dell’evacuazione di migliaia di militari italiani, specialmente dalle isole Egee e quelle del Dodecanneso, dove la maggior parte delle nostre guarnigioni, non disposte a continuare la guerra al fianco dell’ex alleato, avevano ottemperato al proclama di Badoglio. Per questa enorme massa di militari d’ogni arma e specialità, l’unico destino era l’internamento in Germania. La Donizetti venne inviata a Rodi da dove partì la sera del 22 settembre: come consuetudine teutonica, e senza eccessivi formalismi, furono letteralmente “stivati” a bordo 1584 militari italiani, mentre altri avevano preso posto sul mercantile DITMARSCHEN, ex Dimitrios del 1903 e di 1171 tsl catturata dai tedeschi in Egeo il 25 Aprile 1941. Per maggior tranquillità, il comando tedesco aveva fornito al piccolo convoglio la scorta della Torpediniera TA-10, ex LA POMONE francese. Non fecero molta strada, dacché quella stessa notte, a Levante di Rodi, la formazione venne attaccata sia da aerei inglesi che da forze di superficie costituite dai caccia HMS Eclipse e HMS Fury. Ripetutamente bersagliate dalle salve, dalle bombe e dai mitragliamenti a bassa quota, nessuna delle navi riuscì a salvarsi, affondando in pochissimo tempo. Sulla Donizetti non vi furono superstiti, ma è lecito intuire quali soprusi dovettero subire quei poveri soldati chiusi nelle stive e senza scampo, da parte dei loro aguzzini tedeschi, così come accadde analogamente su altre navi nei giorni a seguire. Ricordiamo brevemente, che dalla stessa isola di Rodi, quel fatale 22 settembre, l’Ammiraglio Campioni, in veste di Governatore di quelle isole, fu catturato e prelevato insieme a due suoi ufficiali ed inviato in aereo in un campo di concentramento in Germania che lasciò nel Gennaio del 44 per andare incontro al suo destino. Fu solo grazie alle pressioni del Colonnello Angiolini, che alcune centinaia di militari non persero la vita sulla Donizetti giacchè i tedeschi avevano deciso di imbarcarne più di 2000: l’ufficiale riuscì a convincere i tedeschi che non era assolutamente possibile riuscire ad imbarcarne così tanti in uno spazio tanto esiguo. Dopo l’affondamento della Donizetti, il TA-10 andò ad incagliarsi presso Prassonisi dove fu trovata dal Comandante Arcangioli partito alla vana ricerca di naufraghi. Qualche giorno dopo, un ulteriore incursione aerea inglese, ne provocò irrimediabilmente la perdita. In quest’ennesimo quanto inutile sacrificio, perirono: il 2° Capo Cannoniere V. Restagno, nativo di Canosa ma residente a Savigliano, classe 1911 – il Marinaio C.Cosso, nativo di Sommariva Bosco, classe 1921 – il Marinaio R.Dalmasso, nativo di Revello e residente ad Airasca, classe 1918.
Ufficio Storico della Marina.
Ai numerosi visitatori che richiedono informazioni sui naufraghi della Seconda guerra mondiale, consiglio la seguente prassi da seguire.
Di norma, i dati relativi a specifiche navigazioni e campagne di unità della Regia Marina, della Marina Militare e navi da carico militarizzati sono conservati all'UFFICIO STORICO DELLA MARINA MILITARE (USMM);
Per i contatti, vedi il link che segue:
http://www.marina.difesa.it/storiacultura/ufficiostorico/Pagine/default.aspx
L'Ufficio Storico non effettua ricerche "per conto terzi", ed è quindi necessario recarsi a Roma nella sua sede, su appuntamento. Tuttavia il servizio è efficiente perché, segnalando in anticipo qual è l'ambito della ricerca, gli addetti fanno trovare al ricercatore i faldoni già pronti nella sala consultazione, avendoli reperiti nell'archivio sotterraneo in precedenza.
Converrà, in sede di contatto con l'USMM, specificare in modo approfondito di cosa si necessita, onde verificare se hanno ciò che occorre, vale a dire una valutazione preventiva del materiale disponibile, soprattutto per evitare un viaggio a vuoto a Roma.
Carlo GATTI
Rapallo, 27 aprile 2013
L'ULTIMO CORDAIO
L’ULTIMO CORDAIO
San Fruttuoso di Camogli
In tutte le città marinare del nostro Paese, così come in tanti piccoli borghi antichi che si affacciano sul mare, ci sono vicoli, strade, quartieri dedicati ai cordai. Sono le tracce di una millenaria attività legata alla pesca in tutte le sue forme, alla cantieristica e quindi alla navigazione.
La canapa coltivata un tempo nella Pianura Padana, approdava nel grande porto di Genova e non solo, per essere trasformata in sagole, gomene e grossi cavi d’ormeggio per le navi in transito. Oggi l’antico artigiano-CORDAIO si é fatto industriale.
Di quel vecchio canapo che s’impregnava di mare e triplicava il suo peso, rimangono alcuni reperti soltanto nei musei marinari. Le tappe successive ci parlano di cavi sintetici colorati, e cavi misti che sono solitamente costituiti da fibre vegetali e fibre sintetiche o da fibre vegetali e fili d'acciaio che, opportunamente intrecciati fra loro, formano un complesso caratterizzato da notevoli doti di resistenza, elasticità e maneggevolezza molto tenaci fin nei piccoli calibri, per arrivare all’ultimo tipo: il DYNEEMA, quasi senza peso e con un carico di rottura simile a quello dell’acciaio.
Il mondo corre veloce e ogni giorno si scrolla di dosso antichi mestieri, tanti artigiani insieme ai loro attrezzi dai nomi dialettali impronunciabili.
Patrimoni ormai in disarmo di cultura locale che vengono salvati ogni giorno in umide cantine interrate che, simili a ospiti inutili ed indesiderati, ringraziano e tolgono il disturbo...
Chi resta é conscio di tradire la propria storia e si consola dicendo: “Guai a chi me li tocca!!!”
Molti sono quelli che rinunciano a questa sfida impari contro la modernità, altri invece non mollano “o mestê” imparato con tanto sudore e gran sacrificio fino a considerarlo un patrimonio familiare da tramandare ai giovani.
“Sarebbe come tradire la mia famiglia che mi ha insegnato prima a parlare e poi a tenere in mano questi antichi attrezzi che ci hanno dato da mangiare per secoli”.
Questa lucida fierezza la vediamo scolpita sul viso bruciato dal sole di Marietto Scevola, l’ultimo cordaio nativo e residente a San Fruttuoso di Capodimonte (Camogli) che ci spiega:
“Le corde oggi sono realizzate con fibra di cocco ed altro materiale molto più moderno, ma un tempo mio padre e, prima ancora mio nonno, le producevano con una lavorazione più lunga e complessa, con la lisca, erba spontanea del monte di Portofino che veniva raccolta dai contadini e portata a San Fruttuoso proprio per la produzione di corde.
Un tempo trasportavamo con i gozzi le corde finite a Camogli, dove le cooperative di pescatori, dopo averle srotolate sul molo, intrecciano le reti da pesca”.
Ci parli un po’ della LISCA.
La lisca é un’erba diffusa sul Promontorio di Portofino. Si presenta in cespugli molto densi. Ha foglie lunghe circa un metro. Fornisce un materiale fibroso ricavato dalle foglie che serve per fare cordami, legacci, stuoie o tessuti grossolani. Oggi la lisca é considerata specie protetta, quindi non più utilizzabile.
Oggi le antiche corde in fibra vegetale sono sostituite da quelle sintetiche, più facili da realizzare ma di simile resistenza; così il mestiere del cordaio tradizionale o cordaiolo è scomparso, mentre sino a metà del ‘900 era un lavoro svolto in quasi tutti i borghi del levante. Delle tante corderie industriali ne rimane invece solo una a Rossiglione, nell'entroterra di Genova.
“I cordaioli erano attivi a Camogli, S. Margherita Ligure, Rapallo, Chiavari, Lavagna e Sestri Levante, nonché in numerose frazioni dell'entroterra. A parte qualche cordaiolo della zona del Promontorio di Portofino che riusciva a sfruttare la lisca.
Fin dai tempi antichi, le corde di lisca erano fatte, come dicevo, dai miei avi-cordai, una specie vegetale di cui si sfruttavano le foglie lunghe e tenaci. Oggi la lisca sopravvive in ottima salute e in numerosi esemplari all'interno del Parco Regionale di Portofino”.
Quali prodotti si lavoravano con la lisca?
“Con essa si realizzavano corde molto resistenti alla salsedine, leggere, ma capaci di assorbire acqua e affondare, note un tempo come "cavi d'erba". A S. Fruttuoso di Camogli, sino ai primi anni '60 si producevano numerose corde di lisca. La richiesta di questi cordami proveniva essenzialmente da pescatori della Riviera Ligure di Levante. La lisca forniva una corda particolarmente morbida e maneggevole, impiegata dai pescatori a bordo dei gozzi per salpare il Tartanone o Ganglo. Con quest'attrezzo veniva effettuata un tipo di pesca a strascico con una sorta di sciabica recuperata da una barca adeguatamente ancorata. La rete veniva tirata a bordo e quindi le corde dovevano essere il più possibile morbide e maneggevoli per non stancare e rovinare le mani. La lisca si prestava bene a questo scopo e veniva usata inoltre per realizzare le reti della Tonnarella di Camogli. A S. Fruttuoso di Camogli tre famiglie erano impegnate contemporaneamente nell'attività di pesca e in quella di raccolta della LISCA, mentre un'altra famiglia si occupava della costruzione di cordami. Le vecchie attrezzature sino a qualche tempo fa venivano ancora utilizzate per la preparazione dei cavi della Tonnarella, lavorando la fibra di cocco proveniente dall'India. La lisca è infatti una specie tutelata in tutta l'area del Parco Regionale di Portofino.
ALBUM FOTOGRAFICO
Intreccio dei "Cavi" della Tonnara
Le grosse corde (dette cavi), da cui è costituita la Tonnarella di Camogli, vengono intrecciate ogni anno a San Fruttuoso di Capodimonte con particolari attrezzi.
Marietto Scevola ci mostra la PIGNA di legno che separa ordinatamente i quattro legnoli, pronti a diventare un’unica cima quando il FERRETTO, con la sua testina rotante inizierà a girare velocemente.
L’instancabile Franca Chiaschetti é l’addetta ai cavi.
MARE NOSTRUM RAPALLO RINGRAZIA SENTITAMENTE i responsabili del sito Camogli & Dintorni per averci concesso la pubblicazione delle fotografie apparse in questo articolo dedicato alle nostre tradizioni locali.
Carlo GATTI
Rapallo, 25 giugno 2016
P.fo ARDENA affonda il 28 settembre 1943-720 morti
P.fo ARDENA
affonda 28 settembre 1943
720 morti
Una bella immagine del P.Fo ARDENA in manovra
L’Ardena fu costruita dal cantiere: McMillan di Dumbarton nel 1915 come fregata per la Royal Navy. Originariamente si chiamava Peony. Varata il 25 agosto 1915, aveva una stazza di 1.210 ton. Faceva una velocità di sedici nodi
e mezzo. Nel 1919 fu venduta dall’Ammiragliato, prese il nuovo nome di Ardena e fece servizio dal 1924 al 1930 nella Manica per i collegamenti tra la Gran Bretagna e la Francia. Nel1934 fu rivenduta alla Togias Line (Grecia, Pireo) e fece servizio con le isole di Chios e Metilene. Aveva una lunghezza di duecentocinquanta piedi, una larghezza di trentatré piedi e un’immersione di diciassette piedi. I motori erano a triplice espansione con tre cilindri da 350 n.h.p. La nave fu bombardata ed affondata da aerei tedeschi nel giugno del 1941, durante l’invasione della Grecia. Fu riportata a galla e riparata per conto dei tedeschi, che la adibirono a trasporto prigionieri.
Immagini del relitto dell'Ardena
MAR IONIO 28 settembre 1943
Nome della nave: piroscafo ARDENA
In navigazione da Argostoli (720 morti) la nave affonda per la collisione con una mina sganciata da un aereo britannico.
Il piroscafo tedesco ARDENA aveva a bordo 840 soldati italiani. I morti furono 720, più 59 dei 120 soldati tedeschi.
Storia relitto
Domenica 9 agosto 2009
Cefalonia - I 720 morti della nave Ardena forse vittime di sabotaggio tedesco.
Il Messaggero ROMA - Dei 1.500 soldati della ‘Acqui’, morti nell'affondamento delle tre navi che li trasportavano verso i lager tedeschi, le 720 vittime della nave Ardena, il 28 settembre, potrebbero non essere deceduti per l'urto della nave contro una mina - come dice la storiografia - ma perché gli stessi tedeschi piazzarono delle bombe a bordo della nave. Sull'Ardena, al termine della mattanza di Cefalonia, furono imbarcati 840 militari italiani: nell'affondamento perirono i 720 che si trovavano nelle stive. Sull'ipotesi della volontarietà del massacro sta lavorando l'Associazione nazionale Divisione Acqui, presieduta dall'aretina Graziella Bettini, dopo alcune immersioni sul relitto compiute dai tecnici del Centro studi attività subacquee, che avrebbero trovato indizi in questo senso. La Bettini, figlia del colonnello Elia Bettini, fucilato a Corfù dai tedeschi, ha deciso di rendere nota questa ipotesi alla vigilia di una cerimonia che si svolgerà il 14 agosto nel mare di Cefalonia, con la partecipazione di una nave della Marina militare italiana. Nei giorni precedenti un gruppo di subacquei compirà altre immersioni sul relitto dell' Ardena alla ricerca della verità. Il giorno della commemorazione, sul fondale verrà deposta una lapide.
Ancora un reperto del relitto
“UNA ACIES”
Nave Ardena La cerimonia del 14 agosto nel mare di Argostoli
Nel precedente Notiziario era stata data notizia della cerimonia che si sarebbe svolta il 14 a- gosto 2009 a Cefalonia, nel mare antistante la baia di Argostoli, con la deposizione di una targa in ricordo dei 720 soldati della Divisione Acqui che, chiusi nelle stive, morirono nell’affondamento della nave Ardena, la quale li avrebbe dovuti portare prigionieri a Patrasso, per poi essere inviati nei campi di internamento nazisti. Nei giorni 12 e 13 agosto erano previ- ste immersioni sul sito della nave per riprese e documentazioni.
“Oggi, con voi autorità, con voi amici, con voi reduci dell’Acqui, è presente anche il ricordo della cerimonia del 14 agosto scorso a Cefalonia, nelle acque antistanti Argostoli, durante la quale lo Stato Italiano, con autorità greche ed italiane, e con tanti nostri connazionali, per la prima volta dopo 66 anni, ricordava, con noi dell’Acqui, i 720 giovani che affondarono con la nave Ardena nelle acque cefaliote.
Questo è il messaggio che mi onoro di portarvi oggi e che idealmente pongo ai piedi del nostro monumento. Nel 1943, il 28 settembre, 840 giovani dell’Acqui, che erano sfuggiti ai massacri tedeschi, avvenuti dopo la resa a Cefalonia (e Corfù), stanchi ed annientati dal dolore dei compagni morti nelle battaglie e nelle stragi naziste, sicuramente in quel giorno, quando furono imbarcati sulla nave Ardena, nutrivano la speranza, in quel 28 settembre ’43, che la prigionia cui erano destinati sarebbe finita presto e che presto avrebbero potuto tornare a casa.
Ma dopo pochi minuti dalla partenza la nave colò a picco...e con lei 720 acquini...Solo 120 si salvarono.
Le loro ossa giacciono ancora in fondo al mare: ma la loro voce, se si fa silenzio in noi ed intorno a noi, si può oggi sentire in questo parco dell’Acqui, in questo luogo nobile, ove si può riscoprire se stessi, la propria identità.
Perché non basta che abbiano dato la vita, che abbiano consegnato alla storia le loro scelte. Qui siamo obbligati a domandarci il senso del gesto di tanti migliaia di giovani; ed il dono della loro vita ci interroga.”
Ufficio Storico della Marina.
Ai numerosi visitatori che richiedono informazioni sui naufraghi della Seconda guerra mondiale, consiglio la seguente prassi da seguire.
Di norma, i dati relativi a specifiche navigazioni e campagne di unità della Regia Marina, della Marina Militare e navi da carico militarizzati sono conservati all'UFFICIO STORICO DELLA MARINA MILITARE (USMM);
Per i contatti, vedi il link che segue:
http://www.marina.difesa.it/storiacultura/ufficiostorico/Pagine/default.aspx
L'Ufficio Storico non effettua ricerche "per conto terzi", ed è quindi necessario recarsi a Roma nella sua sede, su appuntamento. Tuttavia il servizio è efficiente perché, segnalando in anticipo qual è l'ambito della ricerca, gli addetti fanno trovare al ricercatore i faldoni già pronti nella sala consultazione, avendoli reperiti nell'archivio sotterraneo in precedenza.
Converrà, in sede di contatto con l'USMM, specificare in modo approfondito di cosa si necessita, onde verificare se hanno ciò che occorre, vale a dire una valutazione preventiva del materiale disponibile, soprattutto per evitare un viaggio a vuoto a Roma.
Carlo GATTI
Rapallo, 27 aprile 2013
A 50 ANNI DALLA MORTE DI GILBERTO GOVI
A 50 ANNI DALLA MORTE DI
GILBERTO GOVI
A cinquant'anni dalla sua scomparsa, Genova celebra Gilberto Govi (1885-1966) con il progetto Gilberto Govi. Cinquant'anni dopo, ideato da Eugenio Buonaccorsi e realizzato dal Comune di Genova per onorare la vitalità del fondatore del teatro dialettale genovese e per tentare una lettura organica della sua multiforme attività.
Cinquant’anni dopo la sua morte, Gilberto Govi continua a rappresentare una delle figure più note e amate della nostra città, un simbolo con cui viene identificata l’anima della terra ligure. Govi ha utilizzato strumenti che sono quelli universali del grande teatro: una strepitosa mimica facciale, toni stralunati, ritmi straordinariamente efficaci delle battute e caratteri così forti e definiti nei suoi personaggi da costruire un’immagine “storica” di Genova e del genovese, che si è diffusa in tutto il mondo.
Lina Volonghi era solita ripetere: “Quando la gente e i critici lodano il mio senso di responsabilità e disciplina, lodano Gilberto Govi. Da lui ho imparato i tempi comici, il rispetto per il pubblico, il donarsi con estrema semplicità e grande sacrificio.”
Segue una testimonianza di Renzo Bagnasco
Faro di Punta Vagno – Genova
I giardini che portano il nome del grande commediografo genovese Gilberto Govi risalgono agli anni Ottanta.
Chi arriva o parte da Genova per nave, entrando o uscendo dal porto proprio sotto il faro di Punta Vagno, dove i piloti vanno ad accogliere le navi, non si accorge di essere sornionamente osservato da chi questa Città ha meglio rappresentato: l’attore Gilberto Govi, la cui statua è collocata nei giardini a lui intestati (li volle entrambi l’allora Sindaco Cerofolini, genovese doc).
Recitando in tutta Italia ci rese simpatici anche oltre confine, come vedremo fra poco. Genova, che qualcuno definì “matrigna”, pare non se lo sia più ricordato, proprio quest’anno che il 26 Aprile ricorreva il cinquantenario dalla morte. Non esiste di quella statua una cartolina che la ritragga fra le curiosità attrattive ne nessuna TV locale la inquadra mai, e credo, neppure la pagina genovese de IL SECOLO XIX l’ha mai segnalata, e allora lo facciamo noi con modestia, ma con l’amore verso questa nostra terra e lo vogliamo ricordare con un episodio inedito.
Nel 1981 visto che nessuno ne parlava più anche se le sue commedie per televisione erano seguite, noi (in allora) di Tele Genova prendemmo l’iniziativa di erigergli una statua. Si mobilitarono Vito Elio Petrucci e parecchi fra i più grandi cantautori e personaggi genovesi per, attraverso trasmissioni mirate, raccogliere fondi: dal grande cuore dei genovesi non arrivò una lira ma per fortuna intervennero le Banche e la statua fu realizzata dal Professor Stelvio Pestelli. Non fu compito facile perché ognuno vedeva Govi in base al personaggio che più gli era rimasto in mente, ma lui se ritratto come era, non lo avrebbe riconosciuto nessuno: si trovò un compromesso. Saputa la notizia, l’Associazione dei Liguri in Ticino, la vollero colà per esporla nella piazza delle Banche a Lugano.
Vi rimase una settimana fra la partecipazione di tutta la Città. Nell’occasione venne presentato dagli autori presso la locale importante libreria Melisa, il volume appena stampato < Lui Govi > di Vito Elio Petrucci e Cesare Viazzi con foto di Leoni, il fotografo che immortalò tutta Genova. Nel Palacongressi di Lugano proiettarono il film “Diavolo in convento”, e l’ultima sera vi fu uno spettacolo, sempre nel Palacongressi, presentato e coordinato da Pier Antonio Zannoni della Rai e vi parteciparono Petrucci, illustrando Govi come attore, il Maestro Renato de Barbieri suonò sul suo Guarnieri del Gesù alcuni Capricci di Paganini e la sua performance venne ripresa, come per altro il resto, dalla Televisione della Svizzera Italiana ma la sua fu irradiata anche in mezza Europa. In fine il Professore Mantero, il mago della mano di Savona, illustrò il risultato dei suoi studi sulle mani iperattive di Paganini affetto, secondo i suoi risultati, dal morbo di Alfan che lentamente rilassa le giunture con esito finale, per fortuna ormai solo a quei tempi, ineluttabili proprio come accadde al grande Maestro. Rientrammo, dopo questa settimana “genovese”, con statua e fondi colà raccolti che ci permisero di pagare tutti i debiti.
Perché però noi, a vario titolo gente di mare, parliamo di Govi oltre le premesse ?: perché lui spesso rappresentò un operatore del porto che portò a far conoscere a tutti i “furesti”, l’esistenza dei frugali “scagni”, vero cuore pulsante del porto di allora, ma altrove sconosciuti. Non dimentichiamo che, a quei tempi, si vendevano o si compravano navi di grano solo cavando dalle tasche in Piazza Banchi una manciata di ‘manitoba’ e, con una stretta di mano, l’affare era concluso quindi, più ‘nostro’ di così; ma non basta perche interpretò anche il ruolo di Giovanni Bevilacqua armatore e comandante (un tempo usava, ne sanno qualcosa i Camoglini attraverso i “carati”) nella sua indimenticabile commedia <Colpi di timone>.
BIOGRAFIA DI GILBERTO GOVI
"Si, sono genovese, anche se vanno stampando che non lo sono e se volete sincerarvene andate all'anagrafe!"
Gilberto Govi, al secolo Amerigo Armando, nasce nel popolare quartiere di Castelletto a Genova il 22 ottobre 1885, in via S. Ugo n. 13, da Anselmo, un funzionario delle Ferrovie di Modena, e dalla bolognese Francesca Gardini, detta Fanny. Gli viene dato il nome Gilberto in onore di un suo zio paterno: uno scienziato a cui é tuttora dedicata una via nella città di Parma.
Frequenta le scuole insieme al fratello Amleto, ma durante una vacanza a Bologna presso lo zio materno e attore dilettante Torquato inizia ad appassionarsi a divertirsi nel vederlo recitare. L'amore per quest'arte cresce sempre più, nonostante il padre desideri per lui una carriera nelle Ferrovie, e a dodici anni, nel 1897, recita già in una filodrammatica.
Il giovane Gilberto, ha la passione per il disegno e le caricature e frequenta per tre anni l'Accademia di Belle Arti, trovando poi lavoro come disegnatore alle Officine Elettriche Genovesi all'età di sedici anni. Dopo alcune esibizioni in un teatro di Bolzaneto, Govi s'iscrive all'Accademia filodrammatica del teatro "Nazionale" in stradone Sant'Agostino, un ambiente che Gilberto Govi considera tetro e dove é costretto a recitare in corretto italiano, in continua lotta con le regole di dizione. Ma le sue qualità di attore sono già avvertibili, tanto che alcuni critici ne rimangono colpiti. Questo però non basta a soddisfare Govi che nel sangue ha il dialetto.
La sua massima aspirazione é quella di entrare a far parte della compagnia del celeberrimo Virgilio Talli, e quando questi ebbe modo di assistere ad una sua rappresentazione fu talmente entusiasta della sua figura e dei suoi personaggi che lo stimolerà a proseguire la carriera suggerendogli di fondare un vero e proprio teatro dialettale genovese, che a quei tempi non aveva una tradizione consolidata. Con Alessandro Varaldo e Achille Chiarella, nel 1914 mette su una compagnia chiamata proprio la "Dialettale" che, dopo i primi spettacoli, riporta notevoli successi a Sampierdarena, a Sestri P. e perfino a Chiavari e Savona. Ma qui iniziano a nascere i contrasti con l'Accademia che gli pone un ultimatum: o dire addio al dialetto, o all'Accademia. Govi decide per il dialetto e si fa espellere dall'Accademia nel 1916, insieme a tutta la compagnia, dando vita ufficialmente al teatro genovese. L'attore verrà poi riammesso, come socio onorario, solo nel 1931.
Gilberto si innamora di Caterina Franchi in arte Rina Gajoni, creatrice applaudita della popolare macchietta della "Luigina", un'attrice del suo gruppo, che aveva conosciuto nel 1911 per la prima volta e la sposa con una cerimonia intima e riservata il 26 settembre 1917. Rina Gajoni sarà sempre al suo fianco anche come partner nella compagnia teatrale e i due rimangono insieme fino alla fine, per 49 anni.
Govi fonda quindi una nuova compagnia: la "Compagnia dialettale genovese" e, dopo il debutto al teatro Paganini, inizia ad esibirsi nei maggiori teatri genovesi, con una prima sortita a Torino nel 1917. Dopo un lungo apprendistato il successo a livello nazionale arriva nel 1923 quando Govi presenta al teatro Filodrammatici di Milano la commedia "I manezzi pe' majà na figgia" di Nicolò Bacigalupo. Anche il "Corriere della Sera" ne fa una buona recensione. Il successo ottenuto però non gli monta la testa: per due anni ancora mantiene il suo impiego alternando il palcoscenico al tavolo di lavoro alle Officine. Lascia il mestiere di disegnatore solo alla fine del 1923 per dedicarsi completamente al teatro, ma gli inizi non sono facili, soprattutto per la scelta del repertorio da rappresentare, ma in breve tempo supera le difficoltà con uno stuolo di autori pronti a mettersi a disposizione di un astro nascente teatrale, come Niccolò Bacicalupo, Emanuele Canesi, Carlo Bocca, Luigi Orengo, Aldo Aquarone, Emerico Valentinetti, Enzo La Rosa, Sabatino Lopez, e tanti altri.
Tutti i testi che vengono scelti sono poi modificati dallo stesso Govi, tanto che gli autori lo contattano anticipatamente per concordare eventuali modifiche ai copioni in funzione delle sue preferenze. Redatti in italiano, i testi sono poi tradotti dall'attore in rigoroso dialetto genovese. Inoltre la sua abilità di disegnatore gli permette di inventare le maschere da cui nascono i personaggi da portare in scena. Disegna una serie di locandine con il suo volto, tracciato dalla sua mano ferma in tutte le posizioni, di fronte come di profilo, ed in ogni sua ruga ed espressione, che vengono esposte nei foyer dei teatri nei quali si esibisce come una galleria di quadri che entusiasma ulteriormente gli spettatori gratificandoli di un valore aggiunto.
Il 1926 vede il teatro genovese varcare i confini nazionali con una tourné e in Argentina e Uruguay dove riscuote applausi oceanici. Là trova infatti numerosi genovesi emigrati. Govi presenta sui palcoscenici di tutto il mondo 78 commedie (alcune delle quali registrate dalla televisione italiana e incise anche su vinile) tra le quali si ricordano "Pignasecca e Pignaverde", "Colpi di timone", "Maneggi per maritare una figliola".
Fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale la sua carriera é sempre in crescita, con varie tourné teatrali sia in Italia che all'estero. Nel 1928 recita a Roma, 1929 é a S. Rossore ospite di Vittorio Emanuele III, 1930 di nuovo all'estero a Parigi; in quegli anni Mussolini gli dona una foto con dedica come segno di sincero apprezzamento.
Nel 1942 inizia anche l'esperienza cinematografica che lo vede impegnato in quattro film il cui esito é piuttosto insoddisfacente: "Colpi di timone" (1942), diretto da Gennaro Righelli, "Che tempi!" (1947), diretto da Giorgio Bianchi, "Il diavolo in convento" (1950), diretto da Nunzio Malasomma e infine "Lui, lei e il nonno" (1961), girato a Napoli da Anton Giulio Majano e prodotto dall'armatore Achille Lauro, il suo unico film a colori. Ma i ritmi del cinema, con le ripetute pause, e la tecnica recitativa differente rispetto a quella del palcoscenico non lo entusiasmano. Ha però l'occasione di lanciare futuri comici: i giovanissimi Walter Chiari e Alberto Sordi.
Il conflitto mondiale non risparmia però la sua abitazione genovese, colpita dai pesanti bombardamenti portati dal mare e dal cielo. La guerra lo scuote profondamente e insieme alla casa l'attore vorrebbe ricostruire anche il proprio repertorio, che sente forse ormai superato da nuove proposte; in questo periodo é attanagliato da dubbi ed insicurezze, non riesce ad avere la consapevolezza che il pubblico lo gradisce ancora, nonostante il successo delle sue commedie sia sempre forte e la gente non lo abbandoni ed accorra sempre numerosa ai suoi spettacoli in ogni città in cui recita.
Govi non fa neppure a tempo ad avere un rapporto approfondito con la televisione, nata da poco, poiché si sta ormai avviando verso la parte finale della sua carriera; il piccolo schermo, tuttavia, gli consente, con la registrazione dal vivo di alcuni suoi spettacoli, di farsi conoscere dal grande pubblico. Questo ha inoltre permesso di salvare dalla distruzione sei sue commedie. Salvataggio avvenuto in maniera rocambolesca negli anni Settanta grazie ad un impiegato collezionista appassionato di teatro. Le commedie sono state riproposte da Vito Molinari e Mauro Manciotti nel 1979 in una trasmissione su Raitre a lui dedicata. Nell'estate del 2004 vengono ritrovate e pubblicate in DVD anche sei commedie radiofoniche inedite da lui interpretate.
Govi per gli spettatori di mezzo mondo rappresenta il vero genovese: furbo, sorridente e rude. Sulla scena é riuscito ad arricchire di umori genovesi i testi delle commedie del teatro dialettale raccontando il carattere del ligure come un coesistere di contrari: maschera e sentimento, immagine esterna e linee interiori, pubblico e privato; il ligure che sa guardare oltre l'apparenza delle cose e leggere dentro se stesso con una buona dose di humour sotto gli atteggiamenti da gente seria, anzi, per dirla con il suo amato dialetto, "stundaia".
Non mancano anche importanti riconoscimenti pubblici, ma non molti dalla sua città natale: a ricordarlo all'ombra della Lanterna rimangono i giardini "Gilberto Govi", edificati solo negli anni Ottanta nella zona storica della Foce e situati sopra il principale depuratore cittadino e la Sala Govi (ex Verdi) a Bolzaneto. I riconoscimenti principali che riceve sono: nel 1948 in onore del centenario del Risorgimento, negli anni '50 partecipa a una manifestazione benefica presso il Circo nazionale Togni a Genova, nel 1957 riceve una medaglia d'oro dal sindaco.
Nel 1960 organizza nuovamente la compagnia per l'ultima stagione della sua carriera (porta in scena la commedia "Il porto di casa mia", scritta dal poeta Sabatino Lopez: a 75 anni, capisce che é arrivato il momento di lasciare il palcoscenico e dedicarsi ad un meritato riposo, dichiarando: "Il teatro è come una bella donna: bisogna lasciarla prima che sia lei a lasciare te"), nel 1965 il sindaco gli consegna un'altra medaglia d'oro che da un lato riporta la scritta "A Govi, artista illustre, massimo interprete del teatro dialettale genovese, la citté con gratitudine, 22 ottobre 1965".
Prima di ammalarsi fa in tempo a comparire ancora sugli schermi televisivi in qualche rara intervista e in diversi Caroselli. Famoso quello del 1961 per una marca di TEA dove interpreta il simpatico personaggio di Baccere Baciccia, il portiere di un caseggiato genovese, conosciuto da tutti per la sua estrema tirchieria ma adorato dai bambini, ai quali ripete una frase rimasta celebre: "Da quell'orecchio, non ci sento; da quell'altro, così cosà...".
Il 28 aprile 1966 Gilberto Govi muore nella sua città. Ai funerali, celebrati nella centrale Chiesa di Santa Zita, affollatissima, partecipa tutta la città. Tra i presenti alla cerimonia, anche Erminio Macario, visibilmente commosso.
A cura di Carlo GATTI e Renzo BAGNASCO
Rapallo, 17 Maggio 2016
M/n Mario ROSELLI - Naufragio 10 ottobre 1943 - 1302 morti
MARIO ROSELLI
Naufragio 10 ottobre 1943
1302 le vittime
La motonave Mario Roselli fu protagonista di una tra le più gravi tragedie della Seconda guerra mondiale dopo l’8 settembre del 1943. 1.300 furono le vittime su 5.500 militari italiani imbarcati.
Descrizione generale |
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Tipo |
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Classe |
Fabio Filzi |
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Proprietà |
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Costrutt. |
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Cantiere |
Monfalcone (GO) |
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Impostata |
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Varata |
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Completa |
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In serv. |
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Destino finale |
Affondata l'11 ottobre 1943 |
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Caratteristiche generali |
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6835,00 tsl |
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Lunga |
138,61 m |
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Larga |
18,92 m |
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Altezza |
12,10 m |
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Motore |
Un motore Diesel con potenza di 7500 CV, una elica |
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Velocità |
15,8 nodi |
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Capacità di carico |
9100,00 t.p.l. |
La Mario Roselli venne costruita dai Cantieri Riuniti dell'Adriatico di Monfalcone su ordinazione della Società Italia di Navigazione di Genova nel 1940 . Nello stesso cantiere vennero contestualmente costruite le navi gemelle Reginaldo Giuliani, Gino Allegri, Fabio Filzi e Carlo Del Greco, tutte su ordinazione del Lloyd Triestino.
Varata il 25 aprile 1941 , la nave venne consegnata al committente il 22 aprile 1942 requisita il giorno dopo a Trieste dalla Marina Milirae Italiana che la incorporò nel suo naviglio ausiliario di guerra .
La sua prima missione fu il rifornimento delle truppe italiane di stanza in Libia, sulla tratta Brindisi-Bengasi-Brindisi, con prima partenza da Brindisi il 16 maggio 1942. Il 24 maggio , in porto a Bengasi, venne colpita durante un attacco aereo degli alleati. Circa un mese dopo, il 23 giugno , in navigazione per Bengasi, la nave divenne bersaglio degli aerei alleati al largo di Capo Rizzuto, riportando danni rilevanti a causa dei siluri ricevuti. Assistito inizialmente dai rimorchiatori Gagliardo, proveniente da Taranto , Fauna, proveniente da Crotone. Il mercantile venne poi rimorchiato a Taranto dalla torpediniera Orsa con la scorta prima del cacciatorpedinier e Turbine e della torpediniera Partenope , e poi delle torpediniere Antares ed Aretusa . Rimorchiata da Taranto a Monfalcone nel settembre 1942 per le riparazioni, l'unità rimase in cantiere fino al 19 dicembre , quando rientrò in servizio sulla rotta Napoli-Palermo-Biserta , con cinque missioni totalizzate fino al marzo 1943. L'11 aprile dello stesso anno la nave venne nuovamente bombardata, questa volta nel porto di Napoli .
Il 9 settembre 1943 , il giorno dopo la comunicazione dell'avvenuto Armistizio di Cassibile, la Mario Roselli divenne preda bellica della Marina militare germanica , che la incorporò nel suo naviglio ausiliario di guerra. Il 20 settembre venne utilizzata per un trasporto di prigionieri italiani a Venezia , con successiva partenza per Trieste il 27 settembre.
La Mario Roselli adagiata sul bassofondale dell’isola di Corfù
M/n Alpe ex Mario Roselli
La strage di Corfù
Il 9 ottobre 1943 la motonave Mario Roselli giunse in rada a Corfù per imbarcare numerosi prigionieri italiani, circa 5.500 militari, che nei giorni prima erano stati catturati negli scontri tra i tedeschi e la resistenza , organizzata dagli stessi militari italiani. Le operazioni d’imbarco iniziarono all'arrivo della nave e si protrassero per tutta la notte tra il 9 ed il 10 ottobre; i prigionieri venivano trasbordati da riva alla nave tramite piccoli motoscafi . Ad imbarco quasi completato, alle ore 7,15 del 10 ottobre, venne avvistato un aereo alleato, che immediatamente attaccò la nave ed i motoscafi. Una bomba centrò con tragica precisione un motoscafo, stipato di prigionieri, ed un'altra, passando da un boccaporto aperto, cadde direttamente nella stiva della nave, gremita di italiani, ed esplose, causando una terribile strage e lo sbandamento della nave sulla dritta a causa dell'imbarco di acqua. Molti prigionieri sulla Roselli, non coinvolti nell'esplosione, tentarono di salvarsi gettandosi in mare, per poi affogare poco dopo. Il mare intorno alla nave si riempì quindi di cadaveri, rendendo l'idea di quanta sofferenza ed orrore si verificarono in questo tragico bombardamento su prigionieri inermi; sono state calcolate 1.302 vittime. I prigionieri a terra, capendo la gravità ed il pericolo della situazione, fecero un tentativo di fuga nelle campagne circostanti, inseguiti dai tedeschi che avevano aperto un fitto fuoco sugli inseguiti; alcuni di questi ultimi, nonostante l'odio dei greci per l'occupazione italiana, vennero aiutati e nascosti dalla popolazione, scampando a morte certa. I superstiti a bordo della nave vennero sbarcati, e la nave, gravemente sbandata, venne abbandonata in rada dove si trovava al momento del bombardamento. Il giorno dopo vi fu un nuovo attacco aereo, che causò il definitivo affondamento della Mario Roselli.
Il recupero e la ricostruzione
Nel 1952 il relitto della Mario Roselli, rimasto appoggiato sul fondale in assetto di navigazione con il fumaiolo affiorante, venne recuperato. Il recupero venne effettuato svuotando alcune cisterne di acqua dolce rimaste intatte durante l'affondamento. Reso il relitto galleggiante, fu rimorchiato ai Cantieri Navali Riuniti di Monfalcone (lo stesso cantiere dove era stata costruita la nave). La Mario Roselli, caso più unico che raro, venne ricoverata sullo stesso scalo dove era stata varata, e da dove poi ebbe luogo il secondo varo della sua vita. Terminati i lavori, l'11 giugno 1952 la motonave venne immatricolata come Alpe. La nave ricostruita aveva una stazza lorda di 6893,00 tonnellate.
Ufficio Storico della Marina.
Ai numerosi visitatori che richiedono informazioni sui naufraghi della Seconda guerra mondiale, consiglio la seguente prassi da seguire.
Di norma, i dati relativi a specifiche navigazioni e campagne di unità della Regia Marina, della Marina Militare e navi da carico militarizzati sono conservati all'UFFICIO STORICO DELLA MARINA MILITARE (USMM);
Per i contatti, vedi il link che segue:
http://www.marina.difesa.it/storiacultura/ufficiostorico/Pagine/default.aspx
L'Ufficio Storico non effettua ricerche "per conto terzi", ed è quindi necessario recarsi a Roma nella sua sede, su appuntamento. Tuttavia il servizio è efficiente perché, segnalando in anticipo qual è l'ambito della ricerca, gli addetti fanno trovare al ricercatore i faldoni già pronti nella sala consultazione, avendoli reperiti nell'archivio sotterraneo in precedenza.
Converrà, in sede di contatto con l'USMM, specificare in modo approfondito di cosa si necessita, onde verificare se hanno ciò che occorre, vale a dire una valutazione preventiva del materiale disponibile, soprattutto per evitare un viaggio a vuoto a Roma.
Carlo GATTI
Rapallo, 27 aprile 2013
ALLEVAMENTO DI ORATE E BRANZINI NEL TIGULLIO
L’ALLEVAMENTO DI ORATE E BRANZINI NEL TIGULLIO
Un settore in forte crescita grazie all’iniziativa del “rapallino” Roberto CO’
Prima d’iniziare questa esplorazione nelle acque del Tigullio per scoprire da vicino una “coraggiosa” attività, cerchiamo di definire cos’é l’ACQUACOLTURA.
L’Acquacoltura è l’allevamento di organismi acquatici tra cui pesci, molluschi, crostacei e piante acquatiche e rappresenta un settore economico molto importante della produzione alimentare, fortemente sostenuto, anche economicamente, dall’Unione Europea. Attualmente la Liguria può contare su tre impianti off-shore, con gabbie galleggianti dislocate in mare aperto, in provincia della Spezia, Genova e Savona. Le aziende liguri hanno puntato sulla produzione di un prodotto di elevata qualità specie per orate, branzini e molluschi.
Vista dell'impianto con lo sfondo di Punta Manara. La presenza di corrente costante ed il fondale elevato favoriscono la dispersione e l'assorbimento delle sostanze organiche naturalmente rilasciate dai pesci rendendo impossibile ogni tipo di accumulo al di sotto delle gabbie; inoltre il sito è stato scelto sulla base di preliminari rilievi subacquei atti ad accertare l'assenza di eventuali preesistenti biocenosi sensibili e di interesse naturalistico (praterie di Posidonie o di Cymodocea) ed infatti lo stesso è caratterizzato da fondali fangosi argillosi di origine costiera. A conferma di quanto esposto, l'attività di maricoltura è soggetta ad un piano di controllo qualitativo delle acque e dei fondali interessati dall'installazione dell'impianto (Piano di Monitoraggio Ambientale).
I punti di campionamento (scelti sia sopra che sotto corrente), i parametri da analizzare e le metodiche da utilizzare sono stati stabiliti concordemente dall'Ufficio Mare e dall'Ufficio Valutazione Impatto Ambientale della Regione Liguria e dall'ARPAL.
Le gabbie di tipo "sommergibile" che sono affondate ad ogni mareggiata, sono del tipo usate nei mari del Nord per salvare i salmoni dal ghiaccio. All'interno di ognuna nuotano pesci con una densità di 15 chili per metro cubo d'acqua. Altrove é di tre volte tanto.
Al largo di Lavagna, nel golfo del Tigullio, tra Sestri Levante e Portofino, crescono le orate e i branzini targati AQUA, in grandi vasche in mare aperto, crescono in un ambiente incontaminato, in acque cristalline con un naturale ciclo di sviluppo ed alimentazione del tutto simile a quello dei pesci selvatici.
Ing. Roberto CO’ - Presidente AQUA S.r.l.– e gli studenti
Visita allo stabilimento nel porto di Lavagna, con gli studenti della scuola primaria. Dopo aver spiegato tutte le fasi di lavorazione a terra, dalla preparazione dei mangimi, alla manutenzione della strumentazione delle barche e degli strumenti per le immersioni. La visita presenta anche le lavorazioni del pescato, la sua classificazione, incassettamento e preparazione per il trasporto e la vendita.
Dal 2000 Roberto Cò é Presidente e Amministratore della Società AQUA S.r.l. operante nel settore dell’acquacoltura offshore.
Ci può parlare della sua Azienda?
Un po’ di storia.
"AQUA é nata nel 1999 e l'anno seguente era già operativa.
Oggi AQUA, grazie alla partecipazione del progetto Idreem (Increasing Industrial Resource Efficiency in European Mariculture) nato nel 2013, può con orgoglio certificare importanti risultati, in quanto dagli studi effettuati con quel progetto é stato ulteriormente confermato che l'impianto non ha alcun impatto ambientale.
Me la sono giocata veramente tutta scommettendo soprattutto sulla serietà della mia azienda e sul mio coraggio personale. Inizialmente ho dovuto combattere contro i pregiudizi della gente, la burocrazia delle istituzioni e abbiamo dovuto imparare a fronteggiare le mareggiate. Per ottenere certi risultati occorre essere anche un po’ testardi, ma sapevamo che i risultati sarebbero arrivati anche sottoponendoci ai particolari controlli ed analisi previsti dalle Autorità competenti italiane e straniere. Nel 2004 avevamo una produzione di 40 tonnellate l'anno, nel mondo se ne producevano oltre 40 milioni e per allevare ogni chilo di pesce se ne andavano quattro di specie selvatiche. Oggi abbiamo superato le 300 tonnellate e la produzione globale i 70 milioni, mentre il rapporto tra selvatico usato come mangime e allevato é uno a uno. I siti offshore continuano ad essere solo il 20%.
Il futuro é questo?"
"Dipende dalla sostenbilità del modello: il nostro prevede gabbie in un tratto di mare spazzato da correnti e con profondità di 40 metri".
In cosa consistono?
"Le valutazioni emerse come risultato dell’attività di monitoraggio svolta dal Distav dell’Università degli Studi di Genova, sui parametri ambientali che contribuiscono a definire lo stato ecologico delle acque nella zona dell’impianto di AQUA sono di assoluta soddisfazione. Infatti l’impianto offshore di Lavagna, tra le varie forme di Acquacoltura, risulta di sicuro la più innovativa, nonché quella maggiormente garantita dal punto di vista della salute del prodotto e della sostenibilità per una serie di aspetti quali:
1 - qualità elevata delle acque di allevamento e il mantenimento di tali condizioni grazie al forte ricambio naturale (media di 250 ricambi/giorno nella gabbie di Aqua);
2 - possibilità, grazie agli enormi volumi disponibili, di mantenere basse densità (numero di animali mc. acqua) e di consentire ampi spazi per il nuoto dei pesci;
3 - garanzia di assicurare condizioni di allevamento del tutto simili a quelle naturali;
4 - l’assenza di rischi di insorgenza di patologie e quindi l’assenza di trattamenti antibiotici o disinfettanti”.
Questa é la sintesi storica dell’azienda. Vuole aggiungere qualcosa?
“Questa è la realtà di AQUA - Lavagna) oggi. Il mondo della pesca spesso e volentieri raccoglie l’eredità di tradizioni marinare molto antiche, in cui, un tempo, l’uomo e le risorse del mare sembravano essere quasi in perfetto equilibrio, in quanto risultato di una vera e propria lotta tra uomo e natura.
AQUA è la prima società del Nord Italia a svolgere integralmente il proprio ciclo di produzione in mare aperto. L'attività è iniziata nel 2000, ed i primi prodotti sono stati disponibili sul mercato a partire dal 2002. Da subito i consumatori hanno apprezzato l'elevata qualità delle orate e dei branzini allevati seguendo i nuovi standard di produzione, che hanno avuto da sempre, quale obiettivo prioritario il raggiungimento dell'eccellenza qualitativa del prodotto offerto, tralasciando gli aspetti relativi alla massimizzazione delle rese produttive”.
Qualità e rispetto del naturale ciclo di crescita dei pesci, pare essere il vostro slogan da ormai 15 anni?
Innanzitutto dobbiamo fare un cenno sull'origine della produzione: gli avannotti.
Gli avanotti arrivano da impianti, definiti avannotterie, situati in Puglia, Sicilia e Veneto (foci del Po).
La tecnica è abbastanza complessa, si basa su riproduttori che vengono tenuti in vasche apposite, che nel periodo giusto depongono le uova immediatamente raccolte e passate in altre vasche. Successivamente avviene la trasformazione in larva e poi lo svezzamento. In tutta la fase è fondamentale l'allevamento di fito e zooplancton utilizzato nelle fase iniziali di alimentazione dalle larve. La fase riproduttiva è scientificamente la più complessa di tutto il ciclo produttivo relativo all'allevamento.
Sin dall'origine, infatti, le scelte produttive sono state impostate per garantire ai nostri clienti la massima qualità possibile, partendo dalla scelta del tipo di allevamento (offshore), del Sito di allevamento e dunque alla qualità ambientale e mantenendo tale linea guida anche nelle procedure operative (Link alle procedure di allevamento). Tutto questo, insieme al continuo aggiornamento del nostro personale e all'attento studio della biologia e delle caratteristiche dei pesci allevati, ci permettono di certificare un prodotto che si distingue per:
• Qualità organolettica: sapore e consistenza delle carni;
• Qualità nutrizionale: bilanciato rapporto tra proteine e grassi;
• Sicurezza alimentare: corretta alimentazione e assenza di contaminanti e di OGM;
• Qualità igienico sanitaria: assenza di trattamenti disinfettanti e antibiotici;
I risultati conseguiti negli anni di attività hanno premiato lo sforzo e le difficoltà affrontate dall'Azienda per offrire un prodotto qualitativamente superiore, premettendo una costante crescita della diffusione del prodotto”.
Ci può introdurre nel meccanismo produttivo?
"La produzione inizia quando gli avannotti misurano circa 3 cm. Dopo 18 mesi raggiungono il peso e le misure ideali. Orate e branzini sono allevati in gabbie circolari di elevato volume (ca. 2.500 mc), in cui è continuamente monitorata la densità della popolazione in rapporto alla taglia. Gli animali hanno così a disposizione ampio spazio per il nuoto che permette il mantenimento di bassi livelli di stress e il naturale sviluppo della morfologia dei pesci, con un corretto rapporto tra massa muscolare e grassi. L'alimentazione viene condotta utilizzando solo mangimi di elevata qualità, le cui materie prime sono garantite non OGM (Organismi Geneticamente Modificati), non sono addizionati con sostanze promotrici della crescita e sono privi di contaminanti quali PCB o diossine. Queste caratteristiche non solo vengono garantite dai produttori attraverso enti certificatori, ma sono anche fatte oggetto di verifica attraverso analisi mirate eseguite sia dall'azienda, secondo un piano di autocontrollo interno, sia dalle autorità preposte (ASL, NAS) con controlli e analisi ufficiali a campione.
I risultati conseguiti negli anni di attività hanno premiato lo sforzo e le difficoltà affrontate dall'Azienda per offrire un prodotto qualitativamente superiore, premettendo una costante crescita della diffusione del prodotto”.
Ci può illustrare, per quanto possibile, il disegno tecnico dell’impianto?
Caratteristiche dell'impianto offshore
“L'area così delimitata costituisce un rettangolo di 500 metri di lunghezza per 400 metri di larghezza. L'estensione di tale area è determinata dall'ingombro effettivo sul fondale del reticolo di ormeggio, mentre l'area occupata effettivamente dall'impianto in superficie è pari ad un rettangolo di 152 metri X 72 metri, pari ad una superficie complessiva di 10.944 metri quadri. Inoltre la superficie produttiva impegnata da ogni singola gabbia è di appena 250 mq., per un totale di 1.000 mq. L'area è stata individuata sulla base delle seguenti specifiche operative:
- Qualità ecologica/ambientale buona, essendo distante da condotte e scarichi fognari.
- Fondale compreso tra i 30 e 40 metri, ideale per operare con gabbie sommergibili.
- Distanza contenuta (entro un miglio nautico) dalla base operativa a terra al fine di facilitare il controllo e l'approdo in caso di emergenza.
L'estensione dell'area superficiale è stata determinata per garantire i seguenti aspetti:
- Distanza sufficiente tra le gabbie idonea a non ostacolare il regolare passaggio delle correnti marine al fine di evitare fenomeni di "ombra" fra una gabbia e l'altra;
- Creazione di un'area perimetrale di rispetto per i natanti da diporto che tendono ad avvicinarsi attratti dalla peculiarità dell'iniziativa e dalla possibilità di incrementare le occasioni di pesca.
La localizzazione è stata definita, nelle linee generali, dopo una serie di colloqui con i responsabili della Capitaneria di Porto di S. Margherita, sulla base delle ulteriori seguenti considerazione:
- Non interferisce con il diporto nautico e con relative organizzazioni di gare di pesca sportiva e di regate veliche;
- Non interferisce con le rotte dei servizi di trasporto passeggeri locali;
- Non interferisce con la pesca a strascico in quanto la stessa è proibita su batimetriche inferiori ai 50 metri.
- Le gabbie sono 12, disposte su due file parallele di 6 gabbie ciascuna. Lo schema della disposizione è riportato nella figura seguente.
La profondità individuata è stata ottimizzata sulla base delle seguenti considerazioni:
- Sufficiente per garantire da un lato un forte ricambio idrico su tutti i lati di ciascuna gabbia e dall'altro idonea a permettere il controllo periodico da parte dei sommozzatori nei limiti di sicurezza;
- Sufficiente a evitare i rischi di frangimento delle onde in caso di condizioni meteomarine severe; compatibile con costi di ormeggio economicamente convenienti.
- Le gabbie sono caratterizzate da una capacità utile netta di 2.500 metri cubi ciascuna, in considerazione del numero totale di 8 + 4, l'impianto ha una cubatura complessiva pari 26.000 metri cubi.
Ci avviamo verso la grande incubatrice che fa crescere il prodotto e che tecnicamente si chiama GABBIA. Quali sono le caratteristiche principali delle gabbie?
“Le gabbie individuate per la realizzazione dell'impianto sono costituite da un doppio anello galleggiante, in polietilene a cui sono collegate le reti di contenimento in nylon. (vedi foto sotto)
Un sub in fase di manutenzione di tutte le parti sommerse dell’impianto.
Lo schema della struttura della gabbia
Il diametro dell'anello delle gabbie più grandi è di 19 metri, per una circonferenza di circa 60 metri, i tubi sono realizzati in polietilene HDPE 50, con diametro di 250 mm. Ai tubi è collegato il passamano per facilitare l'accesso alla gabbia ed il sostegno delle reti laterali e della rete di copertura. Anche il passamano e i relativi giunti di accoppiamento agli anelli strutturali sono realizzati in polietilene. All'interno della struttura non è quindi presente alcun elemento metallico che potrebbe facilmente essere oggetto di fenomeni corrosivi. Inoltre la struttura di polietilene facilita notevolmente operazioni di manutenzione straordinaria delle gabbie. La gabbia è sommergibile, la variazione di quota è resa possibile da una serie di valvole che consentono di allagare i tubi in polietilene”.
Cosa ci può dire del sistema di ormeggio?
Sistema di ormeggio
“Il sistema di ormeggio è del tipo tensionato, che garantisce buone caratteristiche di tenuta, ammortizzazione delle sollecitazioni sulla struttura resistente (gabbia), e la possibilità di variare agevolmente la quota della gabbia. In particolare la struttura dell'ormeggio, vista lateralmente e con la gabbia in fase sommersa, è la seguente:
L'ormeggio sul fondo occupa un rettangolo delle seguenti dimensioni: lato minore 400 metri lato maggiore 500 metri superficie complessiva 200.000 metri quadri. L'ormeggio è del tipo reticolare, costituito da due file parallele, ognuna ospitante 6 gabbie. Il reticolo è posizionato a –6 metri rispetto alla superficie del mare, ed è tenuto in posizione rispettivamente da 16 ancore e da rispettivamente 16 boe galleggianti esterne, una per ogni linea di ormeggio e 15 interne (una per ogni vertice del reticolo).
Gli stati di sollecitazione massima previsti sono stati i seguenti (desunti dalla Stato del mare, pubblicato dall'Istituto Idrografico della Marina militare e dai dati registrati dalla Rete Ondametrica gestita dal Servizio Mareografico Nazionale della Presidenza del consiglio dei Ministri:
Altezza d'onda massima: 6,6 metri
Corrente massima: 1 nodo
Conseguentemente sono stati definiti i seguenti parametri dimensionali relativi al sistema di ormeggio: Massima spinta galleggianti di ormeggio: 4.900 n - Massimo carico di rottura reticolo di ormeggio: 21 tonnellate - Massimo carico di rottura cavi collegamento reticolo gabbia: 11 tonnellate - Peso ancora 500 kg Massimo carico tenuta ancora: 47 tonnellate”.
Cosa allevate?
Le specie allevate
“Il nostro ciclo di allevamento in mare aperto è del tutto simile alle condizioni naturali di vita dei pesci selvatici. I nostri pesci impiegano 18-22 mesi di tempo per raggiungere un peso di circa 400 gr.
L'accrescimento non forzato rispetta il metabolismo naturale dei pesci, seguendo il normale susseguirsi delle stagioni, senza stratagemmi quali il trattamento con acque calde, la somministrazione di ossigeno e di additivi per la crescita o l'alimentazione forzata.
Per questo Aqua può vantare una produzione di pesce qualitativamente superiore, garantendone, inoltre, la provenienza e quindi la sicurezza”.
Branzino
Dicentrarchus labrax (Linnaeus, 1758) sinonimo: Morone labrax (Linnaeus 1758)
Specie eurialina, di taglia medio-grande della famiglia dei moronidi, ha il corpo slanciato, con due pinne natatorie dorsali separate; presenta sull'opercolo branchiale due spine piatte. Colorazione da grigio – argentato a bluastro sul dorso, argentato sui fianchi, talvolta, la zona ventrale presenta una tonalità sul giallo, sull'angolo superiore dell'opercolo presenta una macchia nera sfumata. Può raggiungere una taglia massima di 100 cm ma sono frequenti pezzature comprese tra i 20 ed i 55 cm. Abita le acque costiere fino a 100 m di profondità, ma è più comune nelle acque poco profonde; penetra negli estuari e talvolta risale i corsi d'acqua; si aggrega in gruppi compatti per riprodursi da gennaio a marzo; i maschi raggiungono la maturità sessuale nel secondo anno (23-30 cm) e le femmine nel terzo (31- 40 cm ). Predatore vorace si nutre di piccoli pesci e di una grande varietà di invertebrati tra cui gamberetti, granchi, calamari, ecc.
Orata
Sparus aurata (Linnaeus, 1758)
Sparide dal corpo ovale, abbastanza alto e compresso, il profilo della testa è regolarmente convesso; ha occhi piccoli, guance squamose con preopercolo nudo; bocca bassa leggermente inclinata. Colorazione grigio – argento; presenta una grossa macchia nera che dall'inizio della linea laterale si spande verso la sommità dell'opercolo delimitata da una zona rossiccia nella parte inferiore dell'opercolo stesso. Taglia massima di 70 cm, comune da 20 a 50 cm Specie costiera, con habitat naturale su praterie di Posidonia o fondo sabbioso e nelle zone di risacca, i giovanili fino a 30 metri di profondità, gli adulti fino a 150 metri. Eurialina, penetra nelle acque salmastre e nelle lagune costiere. Specie sedentaria, vive solitaria o forma piccoli gruppi, con periodo riproduttivo invernale. E' ermafrodita proterandra: la maggioranza degli individui sono dapprima maschi, maturano verso il primo o il secondo anno (20-30 cm) e compiono inversione sessuale verso il secondo o terzo anno di età (33-40 cm). Non si riproduce nel Mar Nero. Carnivoro, si nutre prevalentemente di molluschi (principalmente mitili che riesce a rompere grazie alla buona dentatura), ma anche crostacei e piccoli pesci; occasionalmente erbivoro.
E’ noto che la sua Azienda punta moltissimo sulla qualità del prodotto. Ce ne può parlare?
“Le eccellenti caratteristiche del sito di allevamento n onché la scrupolosa attenzione a tutte le fasi del processo produttivo, di pesca e confezionamento permettono il raggiungimento di un altissimo standard qualitativo, difficilmente riscontrabile in pesci allevati in altre realtà. Grazie alle scelte impostate nella progettazione e a quelle perseguite nella gestione, AQUA è in grado di garantire ai propri consumatori il rispetto di una serie di parametri nutrizionali, organolettici e di sicurezza alimentare che caratterizzano il prodotto offerto. Tali parametri, definiti in maniera estremamente puntuale ed in modo molto più restrittivo dei limi di legge, sono stati fissati in un disciplinare di produzione e sono periodicamente verificati su tutti i lotti commercializzati attraverso analisi di laboratorio, certificate da laboratori esterni. Riportiamo qui di seguito alcuni parametri di qualità tra i più significativi dei nostri pesci.
• Proteine: 19.5%
• Grassi su filetto: valore medio 5%
• Antibiotici: assenti
• Contenuto in acidi grassi insaturi: 70% sul totale
Scheda Informativa - Ottobre 2015
AQUA è attiva dal 1999 e dal 2000 gestisce l’impianto di maricoltura offshore posizionato al largo della costa di Lavagna.
Attualmente l’impianto produttivo è costituito da 16 gabbie di cui 12 di diametro pari a 20 metri e 4 di diametro pari a 12 metri, queste ultime sono destinate alla prima fase di preingrasso degli avannotti.
Tra le diverse forme possibili di maricoltura quella rappresentata da AQUA, condotta in mare aperto e per semplicità definita offshore, risulta essere la più innovativa e quella di più recente adozione. Nel caso specifico, gli aspetti che depongono a favore di questo modello di maricoltura, rispetto agli altri più tradizionali condotti in laguna, in vasche a terra o in gabbie installate in siti riparati, sono:
• La qualità elevata delle acque di allevamento e il mantenimento di tali condizioni grazie al forte ricambio naturale che, in media annuale, è di 250 ricambi/giorno per gabbia.
• La possibilità, grazie agli enormi volumi disponibili, di mantenere basse densità (numero di animali / mc. di acqua) e di consentire ampi spazi per il nuoto dei pesci.
• La garanzia di assicurare condizioni ambientali e di benessere per gli animali allevati del tutto simili a quelle naturali;
• L’assenza di rischi di insorgenza di patologie e, di conseguenza, l’annullamento delle pratiche di trattamento veterinario.
Considerando che il volume complessivo disponibile per l’allevamento la densità media (rapporto tra kg di pesce e volume d’acqua disponibile) durante tutto il ciclo è inferiore ai 10 kg/mc, decisamente inferiore (di 4-5 volte) quella che si può ottenere in impianti a terra o in altri impianti in gabbia in sito riparato, con evidente benessere del pesce allevato.
Le scelte qualitative che sono state impostate nella progettazione e nella gestione dell’impianto hanno permesso alla Società di mantenere nel corso degli anni un trend tendenzialmente in crescita.
Nel seguito si riporta il dato relativo alle produzioni annue ed al fatturato.
A fine 2014 la società ha prodotto circa 290 tonnellate per un fatturato pari 2.400.000 €.
I fattori e gli strumenti che hanno consentito alla Società di crescere sono stati rispettivamente:
- Il mantenimento dell’eccellenza qualitativa che ha sempre contraddistinto la produzione e che è stato ulteriormente certificato (oltre che da Legambiente Liguria e da Slow Food) anche da un recente Studio condotto dall’Università di Genova nell’ambito di un progetto commissionato dal Ministero della Salute;
- Un elevato livello di fidelizzazione del cliente intermedio e finale
- Una capillare opera di comunicazione ed informazione alla clientela condotta grazie alla partecipazione a manifestazioni e all’organizzazione di degustazioni guidate presso i punti vendita una politica di investimenti continua nel tempo focalizzata a incrementare ed ottimizzare il ciclo produttivo, che ha visto costante e continui miglioramenti che hanno riguardato tutte le tipologie di attrezzature quali gabbie a mare, reti, imbarcazioni e sala di lavorazione a terra.
STRUTTURA OPERATIVA
La società attualmente ha il seguente organigramma:
- Un presidente ed amministratore che svolge le funzioni di pianificazione degli investimenti, rapporti commerciali, amministrazione e controllo, pianificazione a medio termine delle attività.
- - Una figura svolgente funzioni amministrative.
- - Un responsabile di produzione, Biologo marino.
- Un preposto alla sicurezza, con particolare focalizzazione agli aspetti subacquei.
- - Un responsabile per l’attività commerc.
- - Due comandanti per le imbarcazioni
- - Quattro operatori tecnici subacquei
- - Due operai di supporto per le attività marinaresche
- - Tre operai per la gestione del pescato.
- Un dipendente part-time dedicato alle attività di promozione e comunicazione
- Complessivamente operano all’interno della Società 17 persone
Le strutture destinate all’allevamento sono costituite da sedici gabbie sommergibili, cosi dimensionate:
• 12 gabbie con un diametro di 20 metri ed un’altezza della rete di 10 metri per un volume di allevamento pari a 3.000 mc , ed un totale di 36.000 mc complessivi;
• 4 gabbie con un diametro di 12 metri ed un’altezza della rete di 9 metri, per un volume di 1.000 mc, ed un totale di 4.000 mc complessivi.
Sono inoltre presenti 3 imbarcazioni, rispettivamente di 16, 9 e 5 metri, desinate a pesca e manutenzione, alimentazione e supporto sommozzatori.
La società sta attualmente investendo nella realizzazione di una nuova sede con le seguenti caratteristiche:
PIANO TERRA
Locale selezione e lavorazione pescato mq 288
Magazzino e manutenzione reti mq 300
Aree logistiche per operatori subacquei mq 70
Spogliatoi e servizi mq 30
PRIMO PIANO
Uffici scala e archivi mq 156
Deposito imballaggi mq 90
Totale area disponibile mq 934
VISITA AGLI IMPIANTI
ALBUM FOTOGRAFICO
Gli operatori subacquei stanno caricando le bombole nella sede di AQUA.
Porto di Lavagna - Il comandante Efisio alleggerisce gli ormeggi
Porto di Lavagna - L’imbarcazione da lavoro AQUA 2 vista di prora
Porto di Lavagna - L’imbarcazione aspetta il via per uscire in mare
Mentre ci accingiamo ad uscire sull’imbarcazione da lavoro AQUA 2, (nella foto) il Comandante Efisio (primo a sinistra di spalle) ci racconta: “Lunedì e mercoledì sono i giorni in cui si esce alle 08 per pescare il prodotto: una pescata di orate ed una di branzini. In coperta abbiamo preparato i contenitori più grandi per i pesci e quelli più piccoli per il ghiaccio. Se va bene, rientriamo verso le 10, se c’é mare tutto viene rallentato e si rientra intorno alle 11-12. A volte anche i pesci fanno i capricci e si rifiutano d’entrare nella rete...”.
Porto di Lavagna - Nella foto vediamo la seconda imbarcazione da lavoro AQUA 1 nell’attesa di caricare il mangime destinato alle gabbie di orate e branzini.
Porto di Lavagna - Sta piovendo. La prima “imbragata di mangime” é pronta per essere calata su AQUA 1- Questa imbarcazione esce due volte al giorno, tutti i giorni, per rifornire i pesci di mangime nelle gabbie. L'Ing. CO' ci spiega: "Ai nostri diamo farina di pesce, olio con Omega 3 e farine vegetali. Niente scarti di pollo o maiali permessi dal bio ma che peggiorano il gusto, né OGM o Antibiotici".
Statisticamente é stato rilevato che mediamente, per 100 giorni l’anno, causa il maltempo, questa operazione-rifornimento in mare aperto non può essere compiuta.
“Il danno economico - ci spiega l’Ing. Co’ - é compensato dall’alta qualità del pesce che é costretto a lottare e diventare un forte nuotatore per contrastare le forti correnti e le perturbazioni meteomarine. Altri impianti, in Italia e nel Mediterraneo, vengono prudentemente allestiti dietro isole, penisole, dighe, ostruzioni varie, se non addirittura in acque con scarsa circolazione d’acqua. Noi ci siamo presi dei grossi rischi, specialmente all’inizio della attività, ma la qualità ed il successo ottenuto sui mercati dal nostro prodotto ci ripagano di tanti sforzi e preoccupazioni cui siamo sottoposti".
Il Comandante manovra dalla coperta per staccare lo scafo dalla banchina. Sullo sfondo l’attuale sede amministrativa ed operativa di AQUA che é fornita anche di depositi e banchi di lavorazione per lo stivaggio del pesce nelle cassette destinate ai camion che poi procedono immediatamente alla consegna.
Nella fase di avvicinamento, caratterizzata da un discreto “bolezumme”, si nota il campo boe che delimita e segnala il recinto che comprende le gabbie.
Fase di attracco alla gabbia dei branzini. AQUA 2 accosta prudentemente all’impianto.
Nuovoloni neri si alternano a schiarite minacciando le operazioni.
Il prezioso lavoro dei subacquei in sinergia con quello dei marinai sta per iniziare. Riemergeranno dopo un’ora circa d’immersione. Nella prima fase controllano la regolare funzionalità della gabbia: ormeggi, cavi, catene, golfali, redance, valvole, reti ecc...
L’imbarcazione é affiancata alla gabbia. Il Comandante di AQUA 1 deve scegliere la giusta posizione d’attracco rispetto al movimento ondoso. Dalla sua esperienza dipende la SICUREZZA delle successive operazioni dei marinai che si calano fuoribordo per lavorare sulle strutture tubolari, trovandosi con le gambe tra la gabbia e il bordo dell’imbarcazione. In primo piano, un marinaio si accinge a sfilare la rete destinata ad imprigionare i pesci.
In queste belle immagini, si nota la cala della rete nell’apertura praticata tramite una cerniera che riunisce, per tutto l’impianto, la rete di copertura con quella laterale. Il varco é di circa 5-6 metri.
Nella foto si nota il galleggiante a castello (posto al centro della gabbia) che tiene sollevata la rete di copertura che impedisce, di fatto, ai pesci di scappare, specialmente nella fase d’immersione della gabbia che avviene in caso di cattivo tempo.
In questa fase d’attesa, due sub posizionano (sott’acqua) la rete gialla da pesca e la aprono tramite una cerniera. I lembi della rete vengono allargati e una volta imprigionato il pescato, richiudono la rete e i marinai iniziano a sollevare a braccia lentamente l’attrezzo fino a portare i pesci a portata del retino, come vedremo nelle prossime foto.
I branzini sono a tiro di retino.
Il retino agganciato alla gru e sollevato da Efisio, viene accompagnato dal marinaio tramite un manico d’acciaio munito di un “grilletto” che apre la parte inferiore svuotando il pescato direttamente nella cassetta in coperta.
Ecco come si presenta la prima pescata di branzini che é subito ricoperta dal ghiaccio.
L’imbarcazione AQUA 1 sta distribuendo il mangime in un’altra gabbia.
Il Comandante Efisio procede ora alla seconda pescata dedicata alle orate che pesano 400 grammi ed hanno 18 mesi di vita.
A sinistra appare evidente l’abbondanza del pescato. La foto non coglie, purtroppo, gli effetti del moto ondoso. Notare la posizione del marinaio che si “barcamena” tra le sollecitazioni dell’imbarcazione e della gabbia.
La bandiera di AQUA 2 indica il vento teso, e la foto mostra il rollio che appare ancora sotto controllo. La professionalità di questo equipaggio sarà ancora più evidente con il mare mosso che metterà a dura prova il loro coraggio, senso del dovere e l’amore per questo mestiere “duro” quanto sconosciuto.
A fine giornata le tonnellate pescate e certificate sono TRE: 600 casse vendute tra i 13 e i 15 euro al chilo (qualche euro in più di quelli allevati tradizionalmente) a ristoranti, supermercati e gruppi di acquisto solidale."
Esiste una via d’uscita, una scappatoia per salvare questi impianti quando le mareggiate da scirocco e libeccio flagellano le nostre coste?
A questa mia secca domanda, il Comandante Efisio mi indica due valvole sotto la schiuma (poco visibili nella foto sopra). “In caso di previsione di mareggiata – mi spiega – cerchiamo di uscire per tempo, sia di notte che di giorno, apriamo le valvole e l’acqua di mare allaga l’anello che circonda l’impianto. Con questa zavorra la gabbia viene abbassata ad una altezza variabile di sicurezza, a ridosso del moto ondoso superficiale e da tutte le forze che la distruggerebbero in poco tempo. Quando le condizioni meteo migliorano, disponiamo di un impianto ad aria compressa che svuota l’anello e ripristina il galleggiamento”.
ROBERTO CÒ - Biografia
Mamma Ada racconta:
“Roberto nasce il 28 luglio 1963 e io gli appendo sulla culla un subacqueo della MARES che mi avevano appena regalato. Temo di avergli dato un imprinting un po' pesante. Ha sempre amato il mare. Gli piace fare il bagno con il mare grosso, per due inverni consecutivi quando aveva 15 anni andava in barca a vela con Pietro D'Ali e più c'era scirocco, più gli piaceva, ancora adesso quando ha tempo libero si mette d'accordo con qualche amico per andare a pescare al largo con la barca”.
Ada Bottini, prof e poetessa di alto gradimento, socia di Mare Nostrum Rapallo, con pochi tratti di penna ha tracciato l’identikit di suo figlio Robi. A noi non resta che immaginarlo come un figlio del nostro golfo, “come eravamo... anche noi” e come sono quasi tutti i figli dei “rapallini marinari doc”: pescatori, nuotatori, pallanuotisti, velisti, vogatori, skippers, marinai, ufficiali, comandanti, piloti, impiegati o imprenditori impegnati in attività marine, marinare e marittime. Già, siamo tutti figli di questo splendido litorale, tuttavia, leggendo l’excursus studentesco, lavorativo ed imprenditoriale di Roberto CO', ci sembra di capire che un figlio “normale” non lo sia mai stato. Massimi voti fino alla laurea in Ingegneria Meccanica, e poi ancora tra i primi al corso Allievi Ufficiali di Complemento presso l’Accademia Navale di Livorno. Roberto Co’ é per noi un self-made man che fa onore al nostro Paese per il suo coraggio, iniziativa e capacità manageriali. Roberto ha già vinto parecchie sfide, tante lo attendono ancora, ma noi siamo sicuri che presto raggiungerà il vertice del settore a livello mondiale.
Buona Navigazione Robi!!!
Roberto CO’ nasce a Rapallo il 28/07/1963 da Ada Bottini, maestra elementare e Angelo CO' artigiano vetraio.
Frequenta le scuole elementari e le medie inferiori a Rapallo; nel periodo estivo, a partire dagli 11 anni, comincia anche a frequentare la bottega vetraia di famiglia (papà e 2 zii).
A Recco segue il Liceo scientifico dove prende il diploma di maturità nel 1982, con il punteggio di 53/60. Sempre a Recco conosce la futura moglie che sposerà nel 1991 e dalla quale avrà due figli, Luca nato nel 1993 e Laura nel 1996.
Si iscrive successivamente all’Università di Genova presso la facoltà di ingegneria meccanica dove si laureerà nel 1988 con 110 e lode.
Terminati i corsi universitari, partecipa al concorso per l’iscrizione presso l’Accademia navale di Livorno, dove viene ammesso a svolgere 3 mesi di corso allievo ufficiale; successivamente svolge 12 mesi di servizio in qualità di Guardiamarina presso l’ufficio tecnico Navalgenarmi di Genova.
La scarsa predisposizione a lasciare la Liguria ed il mare lo portano a lavorare a Genova, presso aziende operanti nel settore dell’automazione e dell’informatizzazione.
Dal 1993 opera presso il Polo Tecnologico Marino Marittimo, società consortile con finalità di ricerca e sviluppo nelle tecnologie legate all’ambito marino e marittimo. La società nel frattempo opera per il completamento dell’Acquario di Genova e nella successiva gestione dello stesso fino al 1996. In questo periodo diventa responsabile delle attività di ricerca della Società, attività sviluppate a fianco della gestione dell’Acquario e riguardanti il settore del monitoraggio ambientale e dell’acquacoltura. Predispone progetti di ricerca applicata coinvolgendo istituzioni pubbliche (università, CNR) e privati, progetti che vengono finanziati dalla Regione Liguria, dall’allora Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologia (MURST) e dall’Unione Europea.
Purtroppo l’estromissione della Società dalla gestione dell’Acquario privano la stessa della prima fonte di ricavo e rendono di fatto impossibile lo svolgimento dei progetti di ricerca e conducono lentamente la Società al fallimento nel 1999.
Durante il difficile periodo prefallimentare attraversato dalla Società, collabora anche con altri Enti tra cui il più importante è senza dubbio l’INFM (Istituto nazionale di Fisica della Materia).
Nel periodo trascorso da dipendente matura competenze specifiche nei settori dell’ambiente marino e dell’Acquacoltura, nonché nella gestione di progetti di ricerca e nella ricerca di fonti di finanziamento.
Il carattere indipendente, unito al sostegno morale della moglie, lo convincono ad una svolta significativa, decide infatti di avviare un’attività in proprio nel settore dell’Acquacoltura, in cui intravede opportunità di sviluppo, a scapito di altre opportunità lavorative da dipendente.
Nel 1999 fonda la Società AQUA con oggetto sociale la realizzazione e gestione di un impianto di Acquacoltura, con sede a Lavagna, insieme all’amico commercialista Riccardo Repetto.
Dal 1990 ad oggi si occupa della gestione della Società, che nonostante non poche avversità iniziali si sviluppa e si consolida fino alla data odierna.
Ringrazio vivamente l’Ing. CO’ per avermi invitato a visitare all’impianto AQUA - Lavagna che ho potuto così documentare per i lettori di MARE NOSTRUM e non solo...
APPROFONDIMENTO scientifico sugli AVANNOTTI
Riportiamo uno studio della Agraria.org
Orata Sparus aurata L. Atlante delle specie allevate – Specie d’acqua salata.
Classificazione
Classe: Actinopterygii Ordine: Perciformes Famiglia: Sparidae Genere: Sparus Specie: S. aurata L.
Caratteristiche morfologiche
L’orata (Sparus aurata) appartiene alla famiglia degli Sparidi, ha un corpo arrotondato e compresso lateralmente con un peduncolo caudale sottile. Il profilo della testa è regolarmente ricurvo ed in mezzo agli occhi, che sono piccoli, presenta una fascia nera ed una dorata. Nella parte anteriore dell’apparato boccale possiede da 4 a 6 denti simili ai canini e posteriormente denti progressivamente meno affilati, fino a quelli di tipo molariforme. Il dorso dell’orata è di color grigio-azzurro ed i fianchi sono argentati e percorsi da linee longitudinali grigiastre. L’opercolo branchiale ha il margine rossastro, mentre la pinna dorsale presenta sfumature azzurrognole e quella caudale grigio-verdastre.
Biologia ed habitat
L’orata è una specie che riesce a vivere in acque caratterizzate da diversi regimi di temperature, purché quest’ultima non sia inferiore ai 4 °C. Questo sparide infatti è presente lungo le coste dell’Atlantico, dal Senegal all’Inghilterra, presso tutte le coste del Mediterraneo e più raramente nel Mar Nero. L’orata, pur essendo meno eurialina della spigola, al pari di quest’ultima riesce a vivere in acque con un ampio range di salinità, dall’ambiente marino alle lagune costiere, dove penetra soprattutto nella stagione estiva. Le orate nascono da ottobre a dicembre in alto mare e le forme giovanili, in primavera, tendono a spostarsi verso le acque vicine alla costa, dove c’è più abbondanza di cibo. Verso la fine dell’autunno le orate tornano verso il mare aperto dove generalmente scelgono come habitat i fondali rocciosi o caratterizzati dalla presenza di praterie di Posidonia oceanica. I pesci giovani tendono a stabilirsi in acque poco profonde mentre gli adulti possono vivere anche in acque più profonde, fino ad un massimo di 50 m. L’orata si ciba prevalentemente di molluschi ed organismi bentonici ed è una specie ermafrodita proterandra. I nuovi nati sono tutti maschi e sopra una certa dimensione, a causa dell’inversione sessuale, diventano femmine. La maturità sessuale viene raggiunta a 2 anni (20-30 cm) dai maschi, mentre per quanto riguarda le femmine la maturazione delle gonadi avviene a 2-3 anni (33-40 cm). Le femmine possono deporre da 20.000 ad 80.000 uova al giorno, per un periodo di durata superiore ai 4 mesi. In condizioni di cattività l’inversione sessuale viene condizionata dalle condizioni sociali e da fattori ormonali.
Tecniche di allevamento
In passato l’orata veniva allevata soltanto in maniera estensiva all’interno di lagune o bacini di acqua salata, mentre negli anni ’80 si svilupparono le prime forme di allevamento intensivo. La “vallicoltura” è una tipologia di allevamento estensivo praticata nelle lagune dell’Alto Adriatico, che si basa sulla cattura delle forme giovanili che migrano dal mare alle lagune. Le tecniche per portare avanti la fase riproduttiva dell’orata in cattività vennero acquisite in Italia nel 1981-1982 e verso la fine degli anni ’80, in Spagna, Italia e Grecia, iniziò la produzione di avannotti su larga scala. Questa specie da subito mostrò un’eccellente adattabilità alle condizioni di allevamento intensivo, sia all’interno delle vasche a terra che nelle gabbie a mare.
Produzione degli avannotti
Nelle avannotterie i riproduttori vengono sottoposti a regimi controllati di fotoperiodo e termoperiodo, in modo da per poter disporre di gameti maturi per il maggior numero di mesi l’anno. L’allevamento larvale può essere effettuato su piccola scala, utilizzando volumi < 10 m3 o su larga scala, con volumetrie di circa 200 m3. Nei sistemi su piccola scala è possibile controllare in modo accurato i parametri ambientali e questo permette di adottare densità elevate (150-250 avannotti/l). La tecnica su larga scala, viene portata avanti adottando densità inferiori (max 10 avannotti/l) e simulando le condizioni presenti nell’ecosistema naturale delle orate. Quest’ultima tipologia di allevamento larvale consente di produrre avannotti che dal punto di vista qualitativo sono superiori rispetto a quelli allevati ad elevate densità. Le larve di orata riassorbono il sacco vitellino ( alimentazione endogena) dopo 3-4 giorni dalla schiusa e vengono poi alimentate con organismi vivi, inizialmente rotiferi ad esempio Branchionus plicatilis. Successivamente la dieta viene integrata con nauplii di Artemia salina, fino a 25-35 giorni dalla schiusa, periodo nel quale avviene la metamorfosi. La somministrazione dell’ alimento artificiale che contiene un quantitativo di proteina pari al il 50-60%, viene effettuata quando i giovanili raggiungono 5-10 grammi di peso.
Nursery
I giovanili di circa 45 giorni di età vengono trasferiti all’interno di vasche più grandi, di forma rettangolare o circolare (10-25 m3) nelle quali avviene la fase di svezzamento. Inizialmente la densità è di 10-20 avannotti/l e la temperatura dell’acqua è di 18 °C. Nelle fasi finali, quando i giovanili raggiungono il peso di 2-3 grammi, la densità può arrivare anche a 20 Kg/m3. L’alimento viene somministrato 2 volte al giorno, in genere alle 8.00 a.m. ed alle 20.00 p.m., utilizzando progressivamente percentuali superiori di mangime artificiale.
Tecniche di ingrasso - Allevamento estensivo
L’orata, grazie alla sua elevata capacità di adattamento alle diverse situazioni ambientali ed alla varietà del suo regime alimentare, viene ancora oggi allevata in monocolture estensive e semiestensive in alcuni ambienti umidi costieri. L’allevamento tradizionale si basa sul reclutamento dei giovanili, che vengono catturati durante la migrazione dal mare alla laguna attraverso un sistema di trappole. Gradualmente la tendenza si è spostata verso l’introduzione di avannotti pescati ed infine, a partire dalla metà degli anni ’90, la metodologia che va per la maggiore è quella dell’”impesciamento”. Questa tipologia di semina viene effettuata con materiale proveniente dalle avannotterie, utilizzabile anche per l’allevamento semintensivo. La produttività dell’allevamento può oscillare da 15-30 kg/ha/anno e la taglia commerciale del pesce (300-350 g) viene raggiunta in 12-24 mesi, a seconda dell’area di riferimento, del seme utilizzato, della capacità trofica del sito e della densità di semina.
Tecniche di ingrasso - Allevamento semintensivo
Questo tipo di allevamento generalmente ha luogo all’interno delle lagune, in alcune zone che vengono delimitate con delle reti. In questi impianti, il controllo dei parametri ambientali da parte dell’uomo è superiore rispetto a quello relativo all’allevamento estensivo. I giovanili introdotti, per accorciare i tempi di allevamento e ridurre la mortalità, a volte vengono precedentemente sottoposti alla fase di pre-ingrasso negli impianti di tipo intensivo. Negli allevamenti semintensivi è frequente la pratica di fertilizzazione delle acque di allevamento, che ha lo scopo di incrementare la disponibilità di nutrimento nell’ambiente naturale. In alcuni casi il cibo naturalmente presente viene integrato con la somministrazione di un certo quantitativo di mangime artificiale ed a volte per incrementare la capacità produttiva dell’area, viene aggiunto anche ossigeno in acqua. Le densità di allevamento normalmente adottate nei sistemi semintensivi si aggirano attorno ad 1kg/m3 mentre le produzioni possono oscillare da 500 a 2400 kg/Ha/ anno, a seconda delle condizioni ambientali, delle dimensioni dei giovanili introdotti e delle disponibilità di nutrimento.
Tecniche di ingrasso - Allevamento intensivo
L’allevamento intensivo rappresenta oggi la tecnologia produttiva più utilizzata per questa specie, sia nell’area Mediterranea che in Italia. Le orate generalmente vengono allevate in vasche di calcestruzzo oppure in vasche scavate a terra ed impermeabilizzate con teli di PVC. Queste strutture hanno una volumetria che comunemente va da 200 a 3000 m3 a seconda delle dimensioni del pesce e delle scelte aziendali. Le densità di allevamento ottimali oscillano da 15 a 45 kg/m3 e per assicurare la sopravvivenza degli animali è necessario immettere ossigeno liquido nelle acque di allevamento. L’orata allevata alle temperature ottimali (18-26°C) raggiunge i 400 g in 10- 12 mesi, ma si adatta bene anche a temperature fino a 32-34°C, mentre tollera poco le basse temperature e non resiste a temperature inferiori di 4°C. Negli ultimi anni si sta sviluppando molto l’allevamento all’interno di gabbie installate in mare. Queste strutture possono essere di varie tipologie ( galleggianti, semisommerse e sommerse) e di varie dimensioni, a seconda del luogo nel quale vengono posizionate. Nel caso che il sito in questione sia ben riparato dalle mareggiate violente si possono utilizzare anche strutture semplici e di modeste dimensioni, mentre laddove le condizioni del mare sono più complicate, diventa necessario utilizzare gabbie voluminose e più sofisticate. Le densità impiegate in questo tipo di impianti sono comprese tra 10 e 15 m3 . Nel caso il materiale di partenza sia costituito da giovanili di 10 g di peso, la taglia commerciale (350-400 g), viene raggiunta in circa un anno, mentre nel caso che i giovanili abbiano un peso di 5 g, per ottenere la stessa categoria di pezzatura, sono necessari 16 mesi. L’allevamento in gabbia, rispetto a quello tradizionale a terra permette un notevole risparmio energetico, in quanto non è necessario l’utilizzo di pompe per l’approvvigionamento dell’acqua né di filtri per il trattamento delle acque reflue. D’altrocanto però la crescita degli esemplari è un po’ più lenta rispetto a quella relativa all’allevamento in vasche, in quanto la temperatura dell’acqua non può essere modificata. L’alimentazione delle orate viene effettuata tramite l’utilizzo di distributori automatici di mangime oppure a mano, soprattutto nel caso degli animali più grandi.
Produzioni e mercato
L’orata è la specie che viene più comunemente allevata nell’area Mediterranea. La Grecia è il Paese europeo che detiene il primo posto per quanto riguarda le quantità prodotte. La produzione di orata in Grecia è cresciuta notevolmente negli ultimi anni e le quantità prodotte sono passate dal valore di 38.587 tonnellate riferito all’anno 2000 al valore di 50.023 nel 2007. La produzione dell’anno 2007, in termini monetari fece riscontrare un valore totale di 269.454.000 US$. L’Italia è lo Stato europeo che evidenzia il più elevato quantitativo di prodotto importato ed è il mercato di riferimento anche per gli altri Paesi produttori. Le produzioni di orata in Italia, nonostante i livelli produttivi siano inferiori rispetto a quelli greci, negli ultimi anni hanno messo in evidenza un notevole incremento. La quantità totale di prodotto, infatti nell’anno 2000 risultò pari a 6.000 tonnellate, mentre nel 2007 raggiunse il quantitativo di 8.184. tonnellate, per un valore monetario di 78.297.000 US$. Sul territorio nazionale le regioni che dove si registrano le maggiori produzioni di orata sono la Toscana, la Puglia e la Sicilia.
Fonti bibliografiche: - Cataudella S. Bronzi P. (2001) - ACQUACOLTURA RESPONSABILE Verso le produzioni acquatiche del terzo millennio. Le specie allevate. Specie eurialine.
Carlo GATTI
Rapallo, Sabato 17 ottobre 2015