QUANDO A GENOVA SI FACEVANO LE GRANDI OPERE PORTUALI

QUANDO A GENOVA SI FACEVANO LE GRANDI OPERE PORTUALI…

Oggi se ne parla soltanto, da tanto tempo!

Porto di Genova. Da molto tempo ormai si parla di spostare più al largo l’attuale diga Duca di Galliera per consentire il passaggio sicuro delle navi “container” in epoca di gigantismo navale. La discussione sulle tre opzioni da scegliere per il piano finale dell’opera, gigantesca e molto costosa, è in atto proprio in questi giorni e i giornali ne riportano puntualmente i disegni - le varie fasi e problematiche.

La foto computerizzata riprodotta qui sotto rappresenta una delle soluzioni in cui vede la futura diga esterna che è nelle menti dei suoi progettatori.

La vecchia diga, costruita tra le due guerre, appare ancora nella ricostruzione digitale per rimarcare visivamente le distanze utili per la navigazione e manovra interna delle navi. La vecchia Duca di Galliera sarà demolita nel momento in cui le banchine saranno protette dalla nuova diga.

 


Al momento questa é la soluzione più gettonata

Sono passati 100 anni dalla nascita del Porto Nuovo ai piedi della LANTERNA, e l’intero sistema portuale genovese soffre, già dai primi Anni ’60 del secolo scorso, della mancanza di spazi per la crescita costante del numero di navi e, da circa 20 anni anche per le loro dimensioni per cui oggi si parla di GIGANTISMO NAVALE.

Del futuro del Porto di Genova avremo o avranno modo di parlarne e scriverne le future generazioni, tenendo presente che in Italia non c’è nulla di più definitivo del provvisorio e nulla di più provvisorio del definitivo.

Lo dicono in Francia da due secoli (il n’y a que le provisoire qui dure), ma l’arguzia ci sta così a pennello che la ascriviamo di volta in volta a Flaiano, a Prezzolini o ad altri padri putativi delle citazioni orfanelle. E’ uno di quegli aforismi vezzosi con cui amiamo commiserarci; e invece dovremmo studiarlo come una legge scientifica per decifrare il tempo fuor di sesto della politica.

TRA LE DUE GUERRE IL PORTO DI GENOVA INIZIA LA SUA CORSA VERSO PONENTE

- NASCE IL “PORTO NUOVO” SOTTO LA LANTERNA

- HA LE “BANCHINE A PETTINE” -

- L’ARTEFICE SI CHIAMA

UMBERTO CAGNI


Porto Nuovo- I moli a pettine davanti alla Lanterna

 

UMBERTO CAGNI conte di Bu Meliana è stato un ammiraglio ed esploratore italiano. Ricoprì le cariche di senatore del Regno e commissario al Consorzio autonomo del porto di Genova.

Nel 1911 all'inizio della guerra italo-turca sbarcò a Tripoli nella Libia ottomana occupando la città con poche centinaia di soldati. Durante la prima guerra mondiale guidò la flotta d'incrociatori di Brindisi e poi della base navale della Spezia.

Con Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, il 12 giugno 1899 l'ammiraglio Umberto Cagni salpò da Christiania (oggi Oslo) sulla baleniera di legno di 350 tonnellate Jason, (ribattezzata Stella Polare) per tentare di raggiungere il Polo Nord per via “di superficie”, cioè su quel mare di ghiaccio e raggiunse la baia di Teplitz. Erano imbarcati, oltre a Cagni e a Luigi Amedeo, dodici italiani, tra cui gli amici (Querini, Cavalli, Molinelli), otto norvegesi (che costituivano l'equipaggio), un centinaio di cani da slitta, provviste alimentari e attrezzature varie.

L'ammiraglio lasciò il servizio militare nel 1923. Morì nel 1932 e fu sepolto nella sua città natale, Asti.


Umberto CAGNI

Politecnico di Torino

Corso di Laurea Magistrale in
Pianificazione Territoriale, Urbanistica e Paesaggistico‐Ambientale

IL CONCETTO DI “CENTRO STORICOE LE SUE TRASFORMAZIONI NELLA GENOVA DEL NOVECENTO:
C
ITTÀ E PORTO NELLE POLITICHE PER IL CENTRO STORICO

Relatore:
Prof. Andrea Longhi

Candidata: Rachele Gangale

Riportiamo la pag. 168

Nella relazione del 1929 del presidente del Consorzio Autonomo del Porto, l’Ammiraglio Cagni, tra le opere in corso di realizzazione per l’ampliamento portuale, vennero indicate la nuova arteria GenovaSampierdarena e la nuova sedeferroviaria lungo la spiaggia di Sampierdarena.118
I successivi quattro anni furono decisivi per l’ulteriore ampliamento dello scalo portuale fino al Polcevera. Nel 1933 risultarono infatti pressoché ultimate le opere di difesa a mare del Bacino Mussolini con il prolungamento del molo di ponente per 3.400 metri. Nel 1933 fu completata la realizzazione dei primi due sporgenti previsti, Etiopia ed Eritrea, con un incremento di piazzali per attività portuali di 25 ettari, funzionali ad un incremento del 22% della capacità commerciale dell’intera struttura portuale. Nello stesso anno venne completata la diga di sottoflutto di ponente e appaltati, per un importo di 28 milioni, gli ultimi tre sporgenti previsti nel progetto. All’inizio del conflitto i primi due sporgenti erano funzionanti: entrambi erano infatti dotati di magazzini e di impianto ferroviario.119


Proposta di sistemazione del bacino di Sampierdarena elaborata dall’ing. Albertazzi, nel 1928 (A.S.C.G.) F.BALLETTI, B. GIONTONI, Una città tra due guerre, DE FERRARI EDITORE S.R.L., GENOVA, 1990, P.29


bacino di Sampierdarena in corso di costruzione (A.S.A.)

F.BALLETTI, B. GIONTONI, Una città tra due guerre, DE FERRARI EDITORE S.R.L., GENOVA, 1990,P.29


Il porto di Genova nel 1934

 

G. BORZANI, Cento anni di pianificazioni, IN Merci, strutture e lavoro nel porto di Genova tra ‘800 e ‘900, M.E. TONNIZZI, FRANCOANGELI, GENOVA,2000, P.213

MARE NOSTRUM RAPALLO, con i suoi relatori, è stata numerose volte invitata dalla A Compagna” presso la sede di Palazzo Ducale. Per chi non lo sapesse, parliamo dell’Associazione storica e culturale ligure più antica del capoluogo regionale fra quelle attive. Fondata nel 1923, ha in passato varcato i confini regionali con una sede a Torino; il nome è stato tratto dall'antica Compagna Communis, nucleo del costituendo comune e futura Repubblica di Genova.

DA A COMPAGNA RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

A COMPAGNA

Articolo a firma Umberto Cagni, pubblicato sul bollettino n° 3 – Marzo 1929

È stata di questi giorni, pubblicata la Relazione sulle «Opere costruttive, i Servizi, le Tariffe, le Maestranze› del Porto di Genova, pel 1928». L’Ammiraglio Cagni, ha scritto una delle più belle pagine della storia millenaria del nostro grande emporio marittimo. È storia vissuta, della quale Egli è narratore ed artefice: utilissima per segnare non solo il corso degli avvenimenti attuali, ma per tracciare le linee maestre dell’immediato futuro. Col 1928 si è chiuso il ciclo delle opere a ponente che prendono nome da Vittorio Emanuele III, di quelle a levante che prendono nome dal Duca degli Abruzzi. E si apre il ciclo delle nuove grandiose opere che prendono nome da Benito Mussolini. Sarebbe interessante poter seguire lo scritto dell’ammiraglio Cagni in tutti i particolari che riguardano l’attività del porto: i mezzi di scarico, l’ordinamento del lavoro e delle tariffe, il traffico. Le contingenze dello spazio ci costringono a stralciare alcuni dei punti più rilevanti che riguardano le opere costruttive, opere meravigliose delle quali è meritorio rimanga in queste pagine il ricordo; come è meritorio che rimanga un segno di gratitudine verso l’illustre Presidente del Consorzio Autonomo.

L’attività del porto

L’anno 1928 ha segnato per il movimento portuale di Genova una ripresa ascensionale veramente confortante a cui à [sic] fatto riscontro un intenso fervore di opere e di provvedimenti da parte dell'Amministrazione consortile nel preparare tempestivamente gli adeguati mezzi portuali per gli ulteriori sviluppi dei traffici.

Il totale del movimento di quest’anno (salvi i più esatti accertamenti che saranno oggetto della consueta relazione statistica di prossima pubblicazione) si aggira infatti su tonn. 8.624.000 delle quali circa 7.151.000 sbarcate, 991.000 imbarcate e 482.000 di bunkers, il che significa un aumento di oltre 878.000 tonn. negli arrivi e di 72.000 tonn. negli imbarchi, una diminuzione di circa 77.000 tonn. di bunkers; in totale un maggior incremento di circa 873.000 tonn. sul 1927, in modo che il movimento complessivo segna una cifra mai raggiunta per il passato.

Il Bacino Vittorio Emanuele III

Nel campo delle opere portuali va posto in evidenza il lavoro compiuto nel Bacino Vittorio Eman. III, già aperto al traffico nel 1925, il quale è ormai ultimato coll’entrata. in esercizio del suo secondo sporgente (il Ponte S. Giorgio) completamente attrezzato, realizzando così dai 5 a 6 nuovi accosti per piroscafi con carbone, con fosfati ed eventualmente con minerali alla rinfusa.

Complessivamente il Bacino Vittorio Emanuele III, adibito di regola allo sbarco dei carboni e dei fosfati, disporrà di 2100 metri di banchina utilizzabile e capace di 15 accosti serviti complessivamente da 40 elevatori elettrici. dotati di una velocità pratica di sbarco di tonn. 2000 di carbone all’ora.

IL BACINO VITTORIO EMANUELE III – L’OFFICINA DI RIPARAZIONE ELEVATORI

 

Il Molo di Ponente

La risacca che nell’inverno scorso, durante i forti venti da libeccio, disturbava il lavoro in questo grande bacino dei carboni, è stata definitivamente eliminata con l’avvenuto compimento del Molo di Ponente, il quale ridossa uno specchio acquo [sic] di oltre trecentomila metri quadrati, che rimane fin d’ora a disposizione del traffico, mentre, senza l'accennata opera, sarebbe stato utilizzabile soltanto tra quattro anni.

Il molo predetto è stato costruito in trenta mesi ed è costato circa 10 milioni di lire in confronto dei 12 previsti. Fu eseguito con cassoni di calcestruzzo gettati entro casse-forme di tipo speciale, portati galleggianti sul posto e riempiti di calcestruzzo in modo da costituire così dei blocchi di m. 12 X 6 X 6,50. Esso è lungo 400 metri, e la sua testata, che era prevista a 130 m. dalla diga foranea, è stata invece portata a soli m. 80 dalla diga stessa, in modo da chiudere con maggior efficacia l’accesso del mare di libeccio.

IL MOLO DI DIFESA DI PONENTE

 

Il Porto Duca degli Abruzzi

Il Porto Duca degli Abruzzi, con uno specchio acqueo di 40.000 mq. viene a resultare fra l’antico Molo Giano ed il nuovo Molo di scirocco Umberto Cagni, fra i quali si è costruita una leggera diga a piloni per difendere dai residui oleosi galleggianti lo specchio acqueo stesso. Il Molo Umberto Cagni misura uno sviluppo di m. 690 e, colla diga foranea, difende l’avamporto e le calate del vecchio porto dalle frequentissime agitazioni di scirocco, inconveniente molto serio, lamentato sempre per il passato.

Il molo sarà prolungato ancora di 40 metri, in modo che l'imboccatura del porto da m. 293, come è attualmente, si ridurrà a m. 250, misura giudicata più che sufficiente per la manovra di entrata delle navi.

Questo piccolo porto costruito in appena due anni, è, com’è noto, destinato alla marina da diporto dalla quale traggono vita tante interessanti industrie delle nostre riviere e che contribuisce a formare quello spirito marinaro, mai abbastanza sviluppato nel nostro popolo.

Sulla calata di questo porto è già costrutta la grandiosa sede del R. Yacht Club e presto vi sorgeranno anche quelle minori del Rowing Club, della Società di Canottaggio Elpis e della benemerita Società Ligure di Salvamento, in modo che questo specchio acqueo, dove troveranno sicuro ormeggio i candidi yachts della marina da diporto, avrà una degna cornice di decorosi edifici, sicché potrà gareggiare per sicurezza, comodità ed eleganza coi più noti ritrovi dello sport nautico del Mediterraneo.

Il nuovo Bacino da Carenaggio

Ad appena tre anni da quando, nel maggio 1925, Sua Maestà Vittorio Emanuele III faceva brillare la prima mina di scavo del nuovo bacino da carenaggio, quest’opera, invero grandiosa, era compiuta, ed ospitava, il 19 luglio u. s., il primo grande transatlantico, il Conte Rosso.

Tutte le costruzioni che l’alacre nostro armamento ha varato in questi ultimi anni, e che prima dovevano valersi, per le operazioni di carenamento e di raddobbo, di bacini militari in Italia o, peggio, di quelli stranieri, possono essere accolte in questo bacino, la cui lunghezza è superiore alle massime lunghezze dei piroscafi modernissimi.

Le dimensioni del bacino sono infatti: lunghezza del gargame esterno alla testata interna dell’emiciclo: m. 240 - larghezza, tra le pareti verticali interne: m. 32 - Profondità della soglia esterna del bacino: m. 11 - Capacità: mc. 90.000.

E, se nuove prossime costruzioni dovessero superare di qualche decametro lo sviluppo del bacino, provvidenze di non difficile né costosa attuazione possono venire adottate per servire anche ai nuovi piroscafi, senza turbare per nulla l’esercizio di questo.

Per l’esecuzione dell’opera che è costata circa 32 milioni, si sono scavati 110.000 metri cubi di terra e 40.000 di roccia; si sono impiegati in media 200 operai; si è adoperato un complesso di lamiere e di ferri laminati, per le due porte, del peso di 700 tonnellate; si sono costruiti 60.000 metri cubi di murature diverse.

I magazzini per l’esportazione sul Ponte Caracciolo

Sul ponte Caracciolo i grandi magazzini in cemento armato destinati al concentramento del servizio di imbarco, ed ai quali fu posto mano al principio dell’annata, sono in avanzatissima costruzione, esempio notevole di celerità edilizia. Quest’anno vi si sono compiuti lavori per Lire 8.000.000 circa e se ne prevede il completamento entro il primo semestre 1929. La superficie complessiva dei vari piani sarà di mq. 24.000.


 

I MAGAZZINI PER L’ESPORTAZIONE A PONTE CARACCIOLO

La Stazione Marittima Passeggeri

Quest’anno ha visto anche accelerati i lavori per il compimento della grandiosa Stazione Passeggeri a Ponte dei Mille. Tutta l’ala di ponente è da tempo completamente arredata ed in esercizio, il corpo centrale è pressoché ultimato anche nei suoi rifinimenti interni; dal 15 ottobre u.s. si è inoltre iniziata la costruzione dell’ala di levante, che sorgerà sull’area dell’antica stazione quest’anno demolita. È anche ultimata la piattaforma centrale, sopraelevata di 7 metri sul piano di calata e che costituirà il piazzale dal quale si staccherà il grande viadotto destinato a congiungere la Stazione alla Piazza Principe, presso il monumento al Duca di Galliera, al disopra dei fasci dei binari e della nuova grande arteria che unirà via Milano a via Carlo Alberto. Sono ora in avanzato corso le fondazioni dei piloni di sostegno del viadotto stesso, nonché le opere di deviazione del grande fognone del Lagaccio, che veniva a trovarsi lungo l’asse delle fondazioni stesse.

Si prevede che per l'ottobre 1929 la Stazione sarà completa e risulterà, per comodità ed eleganza, superiore a qualsiasi altra stazione marittima.

LA STAZIONE MARITTIMA PASSEGGERI A PONTE DEI MILLE

La nuova arteria Genova - Sampierdarena

Quest'anno ha anche visto, ad opera del Consorzio, finalmente aperto il varco alla nuova grande arteria Genova Sampierdarena, attraverso la cava rocciosa della Chiappella, che prelude al completo sbancamento di tutto il colle di San Benigno. Sono stati espropriati ed abbattuti i caseggiati verso Sampierdarena che ricadevano sul tracciato; ed ora si sta sistemando la sede stradale colla relativa fognatura e pavimentazione.

LA NUOVA STRADA GENOVA SAMPIERDARENA

I mezzi meccanici

Né l’Amministrazione Consortile ha trascurato quanto si attiene all’attrezzamento ed alla manutenzione del porto.

Sul Ponte S. Giorgio (l’ultimo entrato in esercizio) sono stati installati 9 elevatori elettrici di tipo moderno; sono pronte le 9 gru elettriche destinate ai nuovi magazzini dell'imbarco al Ponte Caracciolo; si è iniziata la costruzione di altre 24 grue [sic] pure elettriche, e si sta procedendo all’arredamento dei ponti Caracciolo ed Assereto, in armonia alle destinazioni a ciascuno assegnate.

Colle opere costruite dall’Amministrazione, è giusto citar ancor quelle dovute all’iniziativa privata incoraggiata dal Consorzio (il quale ha dato in concessione le aree necessarie) e che contribuiscono ad aumentare potentemente la efficienza del Porto.

I GRANDI ELEVATORI DI CARBONE

Depositi olii minerali

Tra quelle che, pur essendo state iniziate negli anni decorsi, sono state perfezionate o completate in ogni loro parte nel 1928, oltre ai grandi magazzini per cotoni per mq. 11.000 di superficie coperta, costruiti dalla Società Esercizio Magazzini al Molo Vecchio, ricorderò il grande stabilimento della Società Generale degli Olii Minerali, a levante della Calata Stefano Canzio, e quello per gli Olii Lubrificanti della «Vacuum Oil» alla Calata della Sanità.

Specialmente notevole lo stabilimento per gli Olii Minerali che è capace, nei suoi otto serbatoi metallici, di oltre quarantamila tonnellate di olii combustibili.

I DEPOSITI PER GLI OLI MINERALI

La grande centrale termo-elettrica

La grandiosa Centrale termo-elettrica, la cui costruzione fu iniziata nel 1927 a cura del Consorzio Centrali Termiche, alla radice del ponte S. Giorgio. è completamente ultimata, come edificio e pressoché anche negli impianti interni dei macchinari.

Per la celerità di costruzione, per la potenza e la bontà dei macchinari impiantati, questo stabilimento costituisce una magnifica prova della capacità dei tecnici italiani e della potenzialità della siderurgia nazionale.

L’edificio misura 275.000 mc. ed è costrutto e racchiuso in una gigantesca ossatura metallica, pesante oltre 6000 tonn.

La centrale è disposta per una potenza totale di 130.000 KW di cui la metà già pronta a funzionare.

 

L’OFFICINA TERMODINAMICA «CONCENTER»

Lo spianamento del promontorio di S. Benigno

Procedono inoltre alacremente, in base alla legge 9 febbraio 1927, n. 321, le operazioni di esproprio e di demolizione delle proprietà sul colle di San Benigno, per accelerare l`inizio dei lavori di spianamento di questo promontorio che divide Genova da Sampierdarena e la cui eliminazione, non solo faciliterà la fusione delle due città, ma offrirà delle aree pianeggianti per oltre 37 ettari che, con quelle che si otterranno dai riempimenti lungo la spiaggia di Sampierdarena, daranno a Genova quello che finora le mancava per essere un porto franco veramente efficiente: gli spazi necessari agli stabilimenti industriali, che potranno lavorare per l`esportazione in franchigia doganale.

LA NUOVA STRADA GENOVA SAMPIERDARENA

Il nuovo bacino Benito Mussolini

La consegna dei lavori per la prima parte del nuovo Bacino Mussolini dinanzi a Sampierdarena, appaltati per Lire 74.500.000, venne effettuata il 16 aprile di quest’anno e già sono stati eseguiti m. 600, su 800 in progetto, della sottostruttura della diga foranea (Principe Umberto) e la demolizione della soprastruttura del molo di difesa del porticciuolo di servizio per il cantiere dei massi.

Questa prima parte del bacino consterà di due ponti lunghi m. 400 e larghi 130 con relativi magazzeni ed arredamenti, e, com’è detto nella relazione 22 dicembre sopra riportata, aggiungerà al porto 25 ettari di piazzali e ben 1100 m. di banchina praticamente utilizzabile, alla quale potranno lavorare simultaneamente 15  piroscafi accostati: aumenterà cioè di oltre un quinto la capacità del nostro porto 'rendendo possibile (coll’attuale intensità per metro lineare) un movimento annuo di 10 milioni di tonnellate; ma, come ho dimostrato nella relazione 22 dicembre, già riportata, essa sarà insufficiente qualora si voglia che questo movimento si svolga in maniera più comoda e più economica e cioè ad una quota assai inferiore a quella sforzata di 850 tonn. alla quale è costretto a lavorare oggi.

Riassumendo, possiamo, con giusto orgoglio di Italiani, constatare che il nostro porto lavora con ordine e fervore, che ogni anno accresce la propria attività e che vanta masse lavoratrici di grande abilità, inquadrate e protette come in nessun altro porto del mondo.

Nell’aumentata possibilità di lavoro e di conseguente benessere, le maestranze hanno anzi visto il frutto della disciplina e si sono rese conto della nobiltà della funzione delle classi lavoratrici, quando questa si esplichi nell'orbita e pei fini della Nazione.

Possiamo oggi dire che nel nostro porto, grazie al sincero e sano spirito di collaborazione, che è l’essenza del Fascismo, il lavoro non ha arresti di sorta e che sotto il potere moderatore del Consorzio, fiancheggiato dall’assidua opera dei Sindacati Nazionali, tutte le eventuali divergenze fra datori di lavoro e lavoratori vengono pacificamente ed onestamente risolte.

Questa concordia di animi ci affida che, mercé l’ingrandimento del porto ed il miglioramento delle vie ferroviarie d’accesso, Genova potrà mantenere il primato nel Mediterraneo e reggere vittoriosamente il confronto coi più grandi porti stranieri.

Il Presidente

U. Cagni

 

CARLO GATTI

Rapallo, martedì 2 Febbraio 2021


STORIE DI MARE - IL CAPPUN MAGRO

IL CAPPUN MAGRO


Dipinto di Marco Locci

Negli Anni ‘60 del secolo scorso, quando si partiva per un rimorchio d’altura in Mediterraneo con 8 membri d’equipaggio e non si faceva, per una sorta di prudenza scaramantica, la previsione di ritorno a Genova, imbarcavamo provviste cibarie e il m/r Brasile (29 metri di lunghezza) si trasformava in una grande cambusa di cui faceva parte anche la cabina del Comandante, il frigo di bordo aveva le stesse dimensioni di quello di casa.


 

Un marinaio di Camogli, che non mancava mai tra l’equipaggio, aveva il compito di presentarsi alla partenza con una decina di sacchi di “gallette del marinaio”, la cui fama si era diffusa da S. Rocco di Camogli.

INTERMEZZO

LA GALLETTA DEL MARINAIO

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=533;juan&catid=52;artex&Itemid=153

Mi spiego meglio. Le gallette non solo rappresentavano una bandiera da sventolare, un’antica tradizione da rinverdire, ma era ancora in quegli anni una vera e propria arma di riserva: una necessità culinaria per l’impossibilità di panificare a bordo quando finiva la scorta di pane fresco acquistato presso il panificio del caroggiu più vicino a Ponte Parodi. In poche parole, le gallette erano destinate ad entrare in gioco durante le situazioni d’emergenza che esamineremo tra breve.

Per chi non è avvezzo a certe situazioni nautico-marinare, come la navigazione invernale nel Mare Nostrum, la prudenza scaramantica di cui parlavo all’inizio, la spiego con un esempio: il rimorchio di una nave, spesso era un relitto sbandato, senza equipaggio, si trainava con circa 600/700 metri di cavo che, nella sua parte centrale aveva un pescaggio di circa 10/20 mt, come una petroliera carica di quei tempi, per cui era imperativo navigare, al limite dei 5 nodi di velocità, al largo delle coste per non perdere il cavo sui bassi fondali e di conseguenza anche la nave rimorchiata.

Purtroppo, con questo tipo di problema, eravamo condannati a navigare in mare aperto senza il ridosso della terraferma, quando le burrasche invernali infuriavano ed il rimorchio a volte tentava di sorpassarci prendendo più vento di noi…. e, a questo punto la navigazione diventava “manovrata”, si allungavano i tempi alla ricerca di una golfata dove accorciare il cavo e “puggiare” attendendo il passaggio della depressione per poi ripartire.

A volte le depressioni si susseguivano…e l’attesa si faceva lunga e nervosa e si capiva che presto saremmo finiti nella “capunnadda”… un modo di dire che preludeva alla scarsità di cibo fresco. Da quel momento a bordo tutti si mettevano a pescare e via radio si contattavano i pescherecci della zona per scambiare pesce fresco con stecche di sigarette, bottiglie di Porto e Fundador.

Se il peschereccio aveva catturato pesci prelibati, la nostra cappunadda poteva trasformarsi in un cappun magro sui generis, magari non proprio farcito con verdura appena raccolta…ma assolutamente gustoso e profumato.

Si raggiungeva quasi sempre lo scopo perché avevamo molti amici pescatori un po’ dappertutto e poi in mare, lo sapete benissimo, la solidarietà la si vive e non la si predica soltanto!

Dopo questa lunga premessa é ora d’entrare nel tema!


Pareggia Ligure

 


E non possiamo farlo senza ricordare le imbarcazioni liguri dei secoli passati: Galee, Bovi, Tartane, Navicelli, Paregge, Leudi e tante altre che, senza motore, affrontavano le nostre stesse situazioni pericolose appena descritte.

Le rotte battute dai naviganti erano sempre le stesse fin dall’antichità, controllate dal dio MARE, un dio senza età che impone leggi imprevedibili che ancora oggi non si rivelano pienamente alla scienza umana, un dio che rispetta chi gli fa l’inchino, chi non lo sfida ma lo asseconda in ogni suo capriccio: per gli sbruffoni, i cosiddetti padroni del mare, ha sempre nuovi prodotti da offrire, ossia lezioni a base di legnate che in mare si chiamano COLPI DI MARE…che non perdonano!

Dalle galee ai leudi: secoli d’esperienza marinara accumulata dai nostri avi marinai, e che abbiamo ereditato insieme alle ricette per risolvere il problema della scarsità di cibo, ricette che nacquero per necessità dalla fantasia dei marinai che impararono a sfruttare gli avanzi della cambusa di bordo dopo un mese di navigazione prolungata oltre i limiti delle previsioni spesso causate da soste e puggiate di fortuna.

ECCO DA DOVE NASCE IL CIBO CHE OGGI VIENE CELEBRATO SULLE TAVOLE DEI MIGLIORI RISTORANTI…. Dalla capunnadda al cappun magro il passo è breve.

Ambedue le ricette sono realizzate utilizzando come base una galletta ammollata in acqua e aceto, pesce salato (tonno e alici) e, se possibile, olive, origano e un po’ d’olio: in pratica l’equivalente della capponadda, ovvero la parente povera del CAPPON MAGRO di cui oggi recuperiamo un po’ di storia.

La definizione che spesso si dà di questo piatto è la seguente:

Il cappon magro è un antico piatto tradizionale ligure a base di pesce e verdure. Il termine "magro" indica il suo essere un piatto di magro, riservato cioè ai giorni di penitenza e quaresimali. Il pesce e la verdura di cui è composto vengono serviti su una base di  galletta che abbiamo già conosciuto.

Molti, se non tutti gli armatori medievali genovesi, erano nobili che spesso s’imbarcavano sulle loro navi per raggiungere i Domini politici territoriali, fondaci, basi militari, mercati e consolati del Medio Oriente e del Mar Nero per curare i loro interessi mercantili.

Durante questa forzata convivenza tra aristocratici e gente di mare, ci furono scambi di esperienze e conoscenze che passarono alla storia. Per quel che ci riguarda in questo articolo, nel passaggio di questi piatti dalle galee alle tavole dei nobili nei loro castelli, la ricetta si arricchì, infatti gli ingredienti diventarono più raffinati e al pesce si aggiunsero la verdura e la salsa verde capace di armonizzare i sapori rendendo l’insieme impareggiabile.

Si trattò di un evento dinamico naturale che seppe viaggiare nei secoli fino a portare queste degustazioni marinare, sui ricchi banchetti blasonati, ed oggi nei più rinomati ristoranti ed alberghi della penisola dove è possibile ammirarli e gustarli con arricchimento di pregiati ingredienti e persino decorazioni con ricercate verdure e spezie provenienti da lontano.

Nei libri contabili di alcune famiglie nobili genovesi si trovano riferimenti inequivocabili al cappon magro, sia come piatto dei giorni di magro – magari in versione più sobria – sia come portata fastosa da ostentare durante i banchetti ufficiali tenuti in giorni di astinenza dalle carni.



Oggi la caponadda, soprattutto in Riviera, è piatto estivo rinomato e nella frazione di San Rocco, a luglio, dà luogo a una sagra assai frequentata.

ECCO finalmente LA RICETTA che aspettavate.

dosi per quattro persone – con quattro gallette da marinaio (fuori dalla Liguria sono quasi impossibili da trovare, le potete sostituire con fette di pane che biscotterete, oppure con freselle pugliesi o con qualunque cracker che sia in grado di reggere l’acqua senza impregnarsi troppo, il pane azzimo o i Wasa non sono il massimo ma all’occorrenza possono andare.

La ricetta del CAPPON MAGRO:

Gli ingredienti della ricetta del cappon magro sono:

  • 75 grammi di mosciame di tonno (tonno secco, anche questo arduo da trovare: potete sostituirlo con la bottarga),

  • tre acciughe salate,

  • 150 grammi di tonno al naturale (c’è chi usa quello sott’olio, ma l’olio delle conserve non è granché e rischia di coprire il pregiato olio evo che userete voi),

  • trenta olive taggiasche (non date retta a quelli che dicono le spagnole o le Cerignola),

  • tre uova sode tagliate a rondelle,

  • una cipolla (di Tropea, suggerisco),

  • quattro pomodori maturi,

  • 150 grammi di fagiolini,

  • un bicchiere di aceto bianco,

  • un bicchiere di olio evo,

  • acqua e sale

Naturalmente non c’è bisogno di dirvi di lessare i fagiolini e di togliergli i fili, di affettare la cipolla e il pomodoro, di ammollare il pane in acqua e aceto badando che non si impregni troppo e conservi un po’ di croccantezza, e infine di mescolare tutto e condire con l’olio, l’aceto che resta e il sale.

RICETTA DEL CAPPON MAGRO DELLO CHEF DELL’HOTEL MIRAMARE DI RAPALLO

https://video.ilsecoloxix.it/levante/la-ricetta-il-cappon-magro-del-miramare-di-rapallo/7504/7505

 

CARLO GATTI

 

Rapallo, 13 Gennaio 2021

 


CENNI STORICI SUI FORTI GENOVESI

FORTI GENOVESI

CENNI STORICI

PARTE PRIMA

La Genova turistica é tutta da scoprire perché i genovesi amano tenere i loro SEGRETI nell’anonimato. Questa peculiarità tutta ligure, ci porta spesso a fare tappa lungo i suoi itinerari nascosti, poco reclamizzati e quindi sconosciuti, uno dei quali ci porta oggi a visitare i 16 FORTI che le fanno da cornice.

GENOVA è stata, da sempre, epicentro della vita politica e culturale del Mediterraneo per la sua posizione strategica. Per difendere questa posizione Genova si è lungamente dotata di mura, torri e castelli. Della cerchia più interna (e più antica) rimangono pochi tratti di mura, alcune porte e alcune torri medievali. Delle "nuova mura" costruite tra il 1700 e il 1800, invece, rimangono notevolissime testimonianze cancellate dall'espansione della città solo nella parte a mare (in particolare con l'abbattimento del promontorio tra la città e Sampierdarena). In questo percorso, che lambisce e protegge la città, si trovano forti, mura, torri, polveriere ancora in buone condizioni e in un contesto naturale bellissimo e quasi incontaminato per una città così stretta tra il mare ed i monti come è Genova.

 

ELENCO DEI FORTI: Forte Begato; Forte Belvedere; Forte Castellaccio; Forte Crocetta; Forte Diamante; Forte Fratello Minore; Forte Puin; Forte Quezzi; Forte Ratti; Forte Richelieu; Forte San Giuliano; Forte San Martino; Forte Santa Tecla; Forte Sperone; Forte Tenaglia.

QUADRO STORICO DI RIFERIMENTO AGLI AVVENIMENTI STORICI TRATTATI

 

L’assedio di Genova (1747) è un episodio della Guerra di Successione austriaca ed ebbe luogo quando l’esercito austriaco, al comando del conte di Schulenberg, provò a conquistare, senza successo, la capitale della Repubblica di Genova. Gli austriaci avevano preso e successivamente perso Genova l’anno precedente, e fecero della conquista della città ligure il loro principale obiettivo militare durante il 1747 prima di prendere in considerazione altre campagne militari contro il regno di Napoli e l’invasione della Francia.

Le forze di Schulenberg raggiunsero la periferia della città in aprile, ma rendendosi conto di non avere forze a sufficienza per lanciare un’offensiva, dovettero attendere fino a giugno l’arrivo di dodici battaglioni di fanteria dei loro alleati del Regno di Sardegna. Questo ritardo permise agli spagnoli e ai francesi di mandare altre truppe in città al comando del duca di Boufflers per rafforzare la guarnigione.
L’avvicinarsi delle forze franco-spagnole al comando del maresciallo Belle-Isle indusse i sardi a ritirarsi, e Schulenberg abbandonò l’assedio accusando gli alleati.

Il fallimento dell’assedio portò a reciproche recriminazioni tra austriaci e piemontesi, ed entrambi andarono a lamentarsi con i loro alleati britannici per il presunto tradimento l’uno dell’altro.

L’Assedio di Genova (1800) svoltosi fra il 6 aprile e il 4 giugno 1800, ha visto contrapporsi la Prima e la Seconda Repubblica Francese contro la Seconda Coalizione per la difesa della città ligure.

La seconda coalizione antifrancese (1799-1802) fu l’alleanza tra numerose potenze europee costituita per strappare alla Francia rivoluzionaria le sue conquiste sul continente e schiacciare la Rivoluzione restaurando l’antico regime.

In Italia, dopo la lunga serie di sconfitte subita dai francesi nell’estate del 1799, gli Austriaci ripararono dietro l’Appenino ligure e il Piemonte. Il Primo Console Napoleone Bonaparte affidò il comando delle forze (circa 40.000 soldati) al generale Massena.

Il 5 aprile Melas attaccò i francesi, questi ultimi respinsero gli austriaci senza troppe difficoltà, ma il secondo attacco rivelò che il primo si era trattato solo di un diversivo, poiché questa volta attaccarono 60.000 uomini divisi in 4 colonne verso Savona per frammentare il già debole fronte francese, mentre l’ala sinistra austriaca occupò Recco e respinse il settore destro fino a Nervi, a Nord Federico di Hohenzollern conquistò il Passo di Cadibona.  In 3 giorni la manovra venne completata spezzando in due l’armata d’Italia.

Massena, rendendosi conto di essere stato tagliato fuori e circondato dal nemico, il 10 aprile si asserragliò con i suoi uomini dentro Genova e attese; siccome per mare era impossibile ritirarsi, poiché la Gran Bretagna con una squadra navale bloccò il porto già diverso tempo prima, impedendo quindi ogni tipo di approvvigionamento alla città;
In particolare fu proprio la difficoltà di reperire cibo a mettere in ginocchio il capoluogo ligure.

La città, come già detto, soffriva da diverso tempo a causa dello scarso approvvigionamento di cibo, attenuato in parte dai pochi velieri che riuscirono a entrare in porto prima del blocco navale britannico, dimostrandosi così provvidenziali.
Tuttavia la fame nella città era dilagante, siccome oltre agli 85 mila genovesi si aggiunsero altri 35 mila profughi delle zone vicine, da sommare ai 15 mila soldati di Massena, e gli scarsi approvvigionamenti portati dalle imbarcazioni che fortunosamente riuscirono a entrare nel porto prima del blocco navale.
Si ricorda che numerosi Leudi rivieraschi e da Rapallo in particolare, portarono nottetempo provviste alimentari ai genovesi affamati letteralmente sfidando il blocco navale inglese.

Già prima dell’asserragliamento di Massena in città (10 aprile), la squadra navale inglese, guidata dall’ammiraglio Keith, bombardò con i vascelli Cormoran e Camaleon Genova.
La città venne accerchiata anche da terra dalle forze austriache, che per oltre due mesi non fecero passare nessun tipo di approvvigionamento o di informazione in città, fattore che influenzò fortemente le decisioni di Massena.
A questo punto al generale nizzardo non rimase altra scelta che resistere il più possibile nella speranza che l’Armata di Riserva possa giungere in suo soccorso.
A minare il suo tentativo, però, oltre al nemico si aggiunsero anche la carestia e una violenta epidemia.
Organizzò delle cucine all’aperto per chi non aveva mezzi per cucinare dedite alla distribuzione di zuppe vegetali e con dei “buoni” assegnava nominalmente i più bisognosi alle famiglie benestanti affinché gli fornissero l’aiuto necessario per sopravvivere.

Le trattative e la resa

Il 2 giugno, termine di scadenza dato da Napoleone a Massena per l’arrivo delle sue truppe in supporto, quest’ultimo non vedendo cambiamenti si decise a trattare i termini della resa, non sapendo che però Bonaparte aveva già minacciato gli austriaci al punto da far ordinare al generale Ott di sollevare l’assedio, che tuttavia proseguì in seguito alle richieste di quest’ultimo di prolungare la data di ritirata.
Pose però come condizione di non far apparire in nessun punto del trattato la parola capitolazione, minacciando di concludere immediatamente i negoziati in caso contrario.
Inaspettatamente però i nemici si dimostrarono incredibilmente accondiscendenti e disposti ad accettare i termini posti dallo sconfitto, anche perché si era resa necessaria una celere conclusione delle trattative pervia dell’avvicinamento delle truppe del Primo Console.
Il 5 giugno subito dopo l’uscita delle truppe francesi dalla città gli imperiali austriaci vi entrarono sfilando per le vie genovesi.

MAPPE DEI FORTI GENOVESI

LE SENTINELLE DELLA SUPERBA

I forti ottocenteschi sono uno dei simboli della città di Genova. Eppure le loro massicce moli di pietra, alla sommità dei colli erbosi dell’entroterra, sembrano “un altro mondo” rispetto a quello mediterraneo della vicina riviera, che si abbraccia con un unico colpo d’occhio, o a quello metropolitano delle strade e delle case, che ribolle fino alle pendici delle alture…

Questo itinerario inizia e termina nel centro città, fra treni, traffico e musei, ma per gran parte del suo percorso attraversa un ambiente naturale e culturale che è altrettanto genovese del centro storico, delle Strade Nuove Patrimonio dell’Umanità UNESCO e dei grattacieli in vetro e cemento, ma è profondamente diverso nell’aspetto e nella sostanza, talmente diverso che chi non lo conosce fatica a immaginare che possa esistere a così breve distanza – meglio: in così intima unione – con una città di quasi 600.000 abitanti, storicamente ed economicamente legata al mare.

 

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FORTE SPERONE



Rappresenta il punto chiave delle fortificazioni genovesi ottocentesche ed è situato proprio al vertice delle "Mura Nuove" del 1630. Questa costruzione fu probabilmente inglobata nelle Mura Nuove all'epoca della loro costruzione (1629-1633).

Forte Sperone ha una struttura complessa, su tre distinti livelli ad altitudini diverse. Il primo livello, quello in cui si apre l'ingresso principale, ospita magazzini, locali di servizio e cisterne; al secondo livello vi erano gli uffici e le camere per ufficiali e graduati, al terzo gli alloggiamenti per i soldati. La struttura ospitava una guarnigione di circa 300 soldati, che potevano arrivare a 900 in caso di necessità. L'importanza del forte era testimoniata dalla consistenza dei suoi pezzi d'artiglieria: 18 cannoni di varie dimensioni, nove obici e numerosi pezzi di dimensioni minori.

In epoca napoleonica fu progettata una cortina muraria di "chiusura" verso la città, per la difesa del forte da eventuali sommosse popolari. Questa cortina, nella quale fu inserito il monumentale portale d'ingresso, fu costruita dal Genio Militare Sardo dopo il 1815.
Il portale d'ingresso, sovrastato da uno stemma sabaudo in marmo, è dotato di
ponte levatoio, ancora presente con il suo meccanismo di sollevamento.

Durante i moti del 1849 fu occupato per breve tempo dai rivoltosi, i quali tuttavia lo abbandonarono alla spicciolata vedendo gli eventi volgere in favore dell'esercito regio.

Storia recente

Dopo la dismissione delle fortificazioni genovesi, decisa nel 1914 durante la Prima guerra mondiale, nel forte furono ospitati prigionieri di guerra croati e serbi. Dal 1958 al 1981 fu utilizzato come caserma della Guardia di Finanza, e successivamente preso in consegna dal Comune di Genova, che vi ha organizzato manifestazioni culturali nel periodo estivo.

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FORTE CASTELLACCIO

La cinta del forte comprende anche l’ottocentesca Torre della Specola (1817/20) - caratterizzata dalla forma poligonale e dal ricorso all’uso...

 

Ci occuperemo di questo FORTE nella SECONDA PARTE di questa ricerca che sarà dedicata al rapporto tra il CASTELLACCIO ed alcuni importanti Enti Marittimi.

 

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FORTE BEGATO


Forte Begato è un'opera fortificata compresa nelle “MURA NUOVE” a difesa della città di Genova, costruita su un vasto pianoro lungo il ramo della cinta difensiva che dal Forte Sperone scendeva lungo il crinale della Val Polcevera.

Il possente complesso del forte, munito di bastioni angolari e cortile centrale é sostenuto da un ampio terrapieno.

Nel 1818 il governo sabaudo su questo sito fece costruire la caserma, i cui lavori di costruzione si protrassero fino al 1830. Tra il 1832 e il 1836 fu completato il recinto bastionato che si affaccia sull'attuale strada, isolando il complesso dalla città.

Durante i moti del 1849 il forte fu occupato dai rivoltosi, che da lì potevano controllare la Val Polcevera attraversata dalla strada di accesso a Genova dei soldati regi. Dal forte i rivoltosi bombardarono i soldati regi che avevano rioccupato la collina di San Benigno e il Forte Tenaglia.

Nei giorni successivi, vedendo gli eventi volgere in favore dell'esercito regio, i rivoltosi abbandonarono il forte, che le autorità militari, prendendolo in consegna dopo la resa del 10 aprile, trovarono vuoto.

 

Storia recente

Durante la Prima guerra mondiale nel forte furono rinchiusi i prigionieri di guerra austriaci impiegati nelle opere di rimboschimento del monte Peralto.

Durante la Seconda guerra mondiale vi furono approntate delle postazioni contraeree. Nel 1941 un bombardamento aereo inglese distrusse completamente uno dei quattro bastioni. Dopo l’8 settembre 1943 il forte fu occupato dalle truppe tedesche, che lo tennero fino alla fine del conflitto.

Il forte è chiuso al pubblico, e nonostante il suo interesse storico e architettonico, e la costosa opera di restauro, il forte é lasciato a sé stesso. Il giorno 8 ottobre 2015, il Forte è ufficialmente passato di proprietà, dal Demanio Pubblico al Comune di Genova.

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FORTE TENAGLIA (forse Tenaglie)


Forte Tenaglia (208 s.l.m.)  è un'opera fortificata risalente al 1633, originariamente inserita nell'andamento delle “Mura Nuove” a difesa della città, sulle alture i Sampierdarena in un crinale dominante sulla Val Polcevera. Deve il suo nome alla particolare conformazione architettonica che assomiglia ad una tenaglia, opera che in architettura militare viene detta “opera a corno”.

Il possente complesso del forte, munito di bastioni angolari e cortile centrale, sostenuto da un ampio terrapieno, fu edificato tra il 1818 e il 1831.

Nel 1747 durante l'assedio austriaco, la linea occidentale delle mura fu rinforzata secondo i dettami dell'ingegnere spagnolo J. Sicre, per poi essere quasi abbandonato fino al 1797 anno di una rivolta antifrancese, in cui nel forte si asserragliarono l'11 luglio, alcuni insorti, sconfitti dalle truppe del generale Dupont. Nel 1914 l'intero sistema difensivo genovese, ritenuto ormai inadeguato, venne abbandonato, passando dal Demanio Pubblico Militare al Demanio Patrimoniale dello Stato. Nel 1917 vi vennero rinchiusi prigionieri di guerra dell'esercito austro-ungarico. Tuttavia all'inizio del Secondo conflitto mondiale l'esercito modificò le vecchie postazioni sull'opera, edificando quattro piazzole per pezzi di contraerea da 88/56, oggi ancora visibili, nei pressi delle quali furono realizzati piccole strutture per il servizio della guarnigione. Dopo l'armistizio dell’8 settembre 1943, il forte passò nelle mani della Wehrmacht, e fu danneggiato da un bombardamento alleato, effettuato per indurre la guarnigione alla resa, che diroccò in parte sulla cortina meridionale.

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TORRE SAN BERNARDINO


Torre San Bernardino (205 m. s.l.m.) situata sulle alture di Staglieno, è una delle torri ottocentesche costruite a difesa del nucleo della città di Genova, la sua costruzione risale intorno al 1832; terminata cinque anni dopo, fu prevalentemente utilizzata come postazione avanzata della vicina porta San Bernardino. Costruita tra il 1820 e il 1825, questa torre in laterizio presenta notevoli affinità con le altre torri di Genova, quali Torre Quezzi e Torre Monteratti, contraddistinta però da una struttura più snella. A metà Ottocento, la torre era utilizzata come "Caserma, Corpo di Guardia e deposito polveri" fino al 1914, quando viene utilizzata tra vari passaggi e concessioni, per diversi scopi, tra cui abitazione civile.
Nel 1934 Torre San Bernardino passa di proprietà del Comune, e attualmente risulta in stato di abbandono.

La torre è strutturata su tre piani, di cui uno interrato adibito a magazzino con una cisterna per l'acqua. Al piano terra sono presenti 3 cannoniere e numerose feritoie, come al primo piano, dove inoltre la cannoniera presenta ancora l'originale inferriata in ferro ancora funzionante.
All'interno della torre sono ancora presenti gli anelli per l'imbrigliamento dei cannoni, la comunicazione ai vari livelli è assicurata da una ripida scala che porta fino al terrazzo del tetto, in cui si nota la lieve pendenza per il reflusso delle acque che incanalate in un canale portava l'acqua nella cisterna sotterranea. Le artiglierie presenti nella torre comprendeva un cannone da 9 pollici BR (Ret), oltre alle varie armi da fuoco portatili.

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PUIN


È uno dei forti meglio conservati tra tutti quelli che componevano il sistema difensivo ottocentesco della città di Genova.
Il Forte Puìn è il primo dei forti fuori le Mura che si incontrano dirigendosi verso nord, dopo essersi lasciati alle spalle Forte Sperone, che in passato rappresentava il limite nord della cinta muraria a protezione della città di Genova. A nord del monte Peralto, proseguendo lungo la dorsale che divide la val Bisagno e la val Polcevera sono presenti alcune fortificazioni isolate che traggono origine dalle fortificazioni campali allestite nel 1747, per fronteggiare le truppe austriache durante la Guerra di successione austriaca, nei punti in cui erano posizionate delle ridotte.

La realizzazione di Forte Puin fu ideata nel 1815 dagli ingegneri del Corpo Reale del Genio Sardo, con lo scopo di riempire il vuoto nel crinale tra lo Sperone e il Forte Diamante. I lavori iniziarono nel 1815, con la costruzione della torre centrale, mentre tre anni dopo fu iniziata la cinta di protezione attorno completata nel 1828. I lavori terminarono nel 1830, ed intorno a metà Ottocento l'opera disponeva di due cannoni campali da 8 cm, due obici lunghi, due petrieri e quattro cannoncini. La torre, a pianta rettangolare, poteva ospitare una guarnigione fissa di 28 soldati, a cui in caso di necessità se ne potevano aggiungere 45 da sistemare "paglia a terra".

Il forte venne poi abbandonato nell'ultimo decennio dell'Ottocento, e "radiato" dalle liste militari del 1908.

Oggi il forte dopo gli interventi degli anni '60 e dopo piccoli interventi da parte del Comune di Genova, è in buone condizioni, ma al momento non è visitabile.

 

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FRATELLO MINORE


Forte Fratello Minore è un'opera fortificata che si trova sulle alture di Bolzaneto, in Val Polcevera. Il forte sorge sulla vetta del Monte Spino (622 m s.l.m), una delle due collinette che formano la cima del monte popolarmente chiamato “Due Fratelli”, in posizione dominante.

Il Forte Fratello Minore è costituito da una torre quadrata inserita all'interno di un recinto bastionato, originariamente accessibile mediante un ponte levatoio, oggi non più esistente.

La struttura ospitava una guarnigione di 12 soldati, che potevano arrivare a 40 in caso di necessità.

La dotazione d’artiglieria comprendeva tre cannoni da 12 GRC Ret puntati verso la Val Polcevera (dei quali sono ancora visibili i resti delle piazzole), ed un altro più piccolo rivolto verso il Fratello Maggiore. Il magazzino a polvere poteva contenere 1.200 kg di esplosivo.

I rilievi noti come “Due Fratelli” rivestirono un importante ruolo strategico già durante l'assedio del 1747, Queste postazioni erano protette da una linea trincerata, dalla quale si diramavano altre trincee di sbarramento (delle quali restano ancora oggi tracce visibili), per contrastare eventuali sortite delle truppe austriache.

Durante l'assedio del 1800 la zona fu nuovamente teatro di violenti combattimenti tra Francesi e Austriaci, culminati con la battaglia del 30 aprile, quando le truppe francesi del generale Nicolas Soult conquistarono definitivamente queste postazioni; in questi combattimenti rimase ferito Ugo Foscolo, che si era arruolato nella Guardia Nazionale Francese. Il forte Fratello Minore fu costruito a partire dal 1816 e inizialmente, come il Fratello Maggiore e il Puin, era costituito da una semplice torre quadrata. Solo nel 1830 fu decisa l'aggiunta del recinto bastionato.

Alla fine dell’800 il forte, ritenuto non più strategico dalle autorità militari, fu abbandonato, per essere poi utilizzato, durante la Seconda guerra mondiale come alloggio del responsabile della postazione contraerea posizionata sui ruderi del Fratello Maggiore.

Attualmente abbandonato, è liberamente accessibile ma in condizioni di degrado.

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FORTE DIAMANTE


Forte Diamante (667 mt. s.l.m.), posizionato sulle alture tra la Val Polcevera e la Val Bisagno, prende il nome dal monte su cui è stato eretto tra il 1756 ed il 1758 a presidio della posizione dominante terminale della dorsale che si sviluppa a nord dello Sperone. La sua funzione era, insieme ai forti Fratello Maggiore, Fratello Minore e Puin, quella di proteggere lo Sperone (una dei tre settori vulnerabili delle Mura Nuove) come parte di un sistema di difesa avanzata a catena, secondo la logica del campo trincerato

Nella primavera del 1800 il forte, difeso dai francesi della 41ª Demi-Brigade del comandante di Compagnia Bertrand, fu al centro di un violento combattimento quando gli austriaci, guidati dal conte di Hohenzollern, vi avevano posto un feroce assedio; il 30 aprile gli austriaci, con un attacco fulmineo, conquistarono le allora semplici "ridotte" dei "Due Fratelli" e il conte di Hohenzollern intimò la resa al Bertrand con le seguenti parole:

«Vi intimo, Comandante, di rendere all'istante il vostro Forte, altrimenti tutto è pronto ed io vi prendo d'assalto e vi passo a fil di spada. Potete ancora ottenere una capitolazione onorevole. Davanti a Diamante alle 4 di sera. Conte di Hohenzollern.»

La risposta determinata di Bertrand non si fece attendere:

«Signor Generale, l'onore, che è il pregio più caro per i veri soldati, proibisce imperiosamente alla brava guarnigione che io comando, di rendere il Forte di cui mi è stato affidato il comando, perché possa acconsentire alla resa per una semplice intimidazione, e mi sta troppo a cuore Signor generale, di meritare la Vostra stima per dichiararvi cha la sola forma e l'impossibilità di difendermi più a lungo, potranno determinarmi a capitolare. Bertrand. »

Il presidio francese del Diamante (circa 250 soldati) non si arrese e grazie all'intervento del generale Nicolas Jean de Dieu Soult, secondo del generale in capo la piazza di Genova (il futuro maresciallo André Massena) partito dal forte Sperone con due colonne di fanteria di linea, gli austriaci furono ricacciati alle posizioni di partenza.

L'ultimo fatto di rilevanza si ebbe nel 1857, quando un gruppo di rivoltosi mazziniani tentò di occupare il forte dopo aver assassinato un sergente, ma l'azione non durò a lungo e il fallimento dei moti che contemporaneamente dovevano aver luogo in città, portò alla fine dell'azione sul Diamante.

La fortificazione fu abbandonata definitivamente dal demanio militare nel 1914 e mai più utilizzata. All'interno del forte, si trovano la caserma a tre piani, utilizzati come cappella, magazzino e camerate per la guarnigione che poteva variare da 40 a 100 uomini. Cinque grandi obici posizionati verso nord, e due cannoncini a difesa dell'ingresso.


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FORTE CROCETTA

Costruito nel periodo napoleonico su di un’area a 157 metri di altitudine, che aveva in precedenza ospitato anche un monastero.

Il forte si trova poco a monte di Belvedere, sulle alture di Sampiedarena. È situato presso il borgo della Crocetta, sull'area già occupata dal seicentesco convento degli Agostiniani e dall'annessa chiesa del Santissimo Crocifisso.

Impulso alla fortificazione del sito, si ebbe nel 1747 durante l'assedio austriaco di Genova. Solo dopo la caduta dell’Impero Napoleonico, gli inglesi che per un breve periodo occuparono la città, piazzarono sull'altura dei pezzi d’artiglieria rivolte verso la foce del torrente Polcevera. Nel 1849 durante i moti popolari, la fortificazione fu adibita a carcere per i rivoltosi catturati dai soldati del generale La Marmora, in seguito liberati, ma non prima di aver subito il terrore dell'estrema condanna.

Dismesso dal demanio militare nel 1914 e sgombrato dei pezzi d'artiglieria inviati al fronte, a varie riprese fu abitato fino al 1961, e fu anche usato come rifugio per sfollati durante il Secondo conflitto mondiale.

 

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FORTE BELVEDERE

114 metri di altitudine, in una zona già precedentemente fortificata presso il Santuario del Belvedere. Importanza strategica, questo sito, la dimostrò anche nell'assedio del 1747, dove la sistemazione di due ridotte con pezzi d'artiglieria, bastarono a resistere all'urto dell'attacco austriaco. Attacco che l'ingegner de Sicre contrastò con uno sbarramento d'artiglieria fuoco contro fuoco con quello della batteria di Coronata, piazzata sul versante opposto della val Polcevera, tenuta dagli austro-piemontesi.

La posizione fortificata del Belvedere dimostrò la sua utilità il 22 aprile 1800, quando due battaglioni francesi mossero per attaccare la colonna austriaca del Reggimento "Nadascki", le cui avanguardie si erano spinte fino a raggiungere il ponte levatorio della Lanterna.

Nel 1815 dopo la caduta dell’Impero Napoleonico, e l'annessione della Liguria al Regno Sabaudo, iniziarono i lavori per la sua realizzazione. L'opera è stata completata intorno al 1827.

Nel 1914, in seguito alla dichiarazione di Genova "città aperta", le strutture militari furono dismesse e i pezzi d'artiglieria inviati al fronte. Durante il Ventennio Fascista, i locali della Batteria Belvedere Superiore furono utilizzati come "camere di punizione", come testimoniano le scritte e i disegni dei prigionieri. Durante la Seconda guerra mondiale, il forte fu armato nuovamente, con quattro cannoni contraerei da 76/,45 poi nel 1943 il complesso fu occupato dai tedeschi che lo tennero fino alla conclusione del conflitto.

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FORTE RICHELIEU

Il Forte, che sorge sul colle dei Camaldoli a 415 metri di altitudine.

Nel 1747 è affidato all'ingegnere dell'esercito di Spagna J.Sicre. Il 16 novembre dello stesso anno i lavori iniziarono, e per decreto il ridotto fu al Maresciallo Armand du Plessis de Richelieu e assunse il nome di "Forte Richelieu". Il sito, che rivelò la sua importanza strategica durante l'assedio austriaco del 1747, fu quindi dotato di una fortificazione bastionata a pianta rettangolare in cui collocare delle artiglierie.

Nel 1809, in pieno dominio francese, il complesso subì l'ampliamento del perimetro in larghezza, con la ricostruzione delle cortine laterali, il rialzo di tutta la cinta bastionata e l'ampliamento del bastione di ponente con la ricostruzione della cortina di collegamento con l'altro bastione.

A metà Ottocento il forte fu armato con sette cannoni da 16 centimetri, un cannone "campale" da 8, cinque obici lunghi ed otto cannoncini, e poteva ospitare circa ottanta soldati.

Nel 1849 durante i fervori dei moti rivoluzionari, il forte era occupato da 16 militi della Guardia Nazionale che presidiarono da soli la fortezza;

Storia recente

Nei primi del Novecento l'opera fu presidiata da un distaccamento di fanteria, e durante la Grande Guerra utilizzata, analogamente ai forti vicini, come carcere per i prigionieri di guerra austriaci.

Dal 1959 l'accesso è precluso al pubblico in quanto fu installato al suo interno un ripetitore RAI -tutt'oggi ancora presente ed operativo.

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FORTE SANTA TECLA

I forti si trovano alle spalle dell’ospedale di San Martino

 

Costruito nel XVIII secolo a 180 metri sul livello del mare, nel luogo dove sorgeva l’oratorio di Santa Tecla, da cui prende il nome.

Nello spiano dove oggi sorge il Forte, esisteva una chiesetta omonima risalente all'XI secolo e nell'anno 1339 appartenente al Doge di Genova Simon Boccanegra. La costruzione del Forte vero e proprio fu pianificata nell'ambito della più vasta opera di fortificazione della città in opposizione agli assedi austriaci. Così nel 1747 il De Sicre riferiva:

«"L'opera che si propone è un quadrato di trenta "toises" di poligono interno, difeso da due fronti di opera a corno che sarà dalla parte verso i Camaldoli [...]; quest'opera secondo i miei calcoli che ho già presentato alla Ec. Giunta, potrà costare cento quattordicimila lire in moneta di Genova, con poca differenza"

Durante il 1800, il Forte era uno dei contrafforti a difesa del settore orientale della città, perché utile alla difesa del perimetro di Albaro, del quartiere di San Martino, della Madonna del Monte e perché ben collegato al Forte Richelieu.

Nel 1849 durante i moti popolari il Forte fu occupato, come il vicino Forte Richelieu, da insorti e senza colpo ferire fu riconquistata dalle Regie truppe in pochi giorni, come tra l'altro avvenne per Forte Richelieu.

La fortificazione fu poi utilizzata occasionalmente da reparti militari fino alla prima metà del Novecento, durante la Grande Guerra, i locali del Forte furono adibiti a carceri per prigionieri austriaci.

 

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FORTE QUEZZI


Edificato nel XVIII secolo, a 289 metri sul livello del mare, restaurato nel XIX secolo, danneggiato durante la seconda guerra mondiale, è abbandonato.

Forte Quezzi (285 m.s.l.m.) è un forte che domina parte della val Bisagno e quella di Quezzi. È prossimo ad un altro forte Monteratti.

L'ideazione di un forte sulle alture orientali del Bisagno avvenne intorno al 1747, quando la città di Genova l'anno prima fu minacciata dall'avanzata dell'esercito austro-piemontese arrivato ad assediare le alture del vicino monte Ratti, sopra l'abitato di Quezzi.

Dopo l'annessione di Genova al Regno di Sardegna nel 1814, l'obiettivo era quello di impedire al nemico di inoltrarsi nella valle del Bisagno, per questo scopo.

Una relazione militare del 1830 analizzò la condizione del Forte, che venne considerato di scarsa importanza, in quanto in "cattivo stato", e in quanto "la sua posizione non pare essere di grande utilità nella difesa; converrà lasciarlo cadere, e perciò non si faranno più riparazioni."

Storia recente

Durante la Seconda guerra mondiale il primo piano fu demolito per far posto ad alcune postazioni di artiglieria contraerea, armate con sei cannoni da 76/45; che insieme ad altre postazioni lungo il crinale sul versante dell'abitato di Quezzi erano parte della difesa contraerea della città.

Al termine del conflitto il forte fu completamente abbandonato, e depredato di ogni cosa, oggi è un cumulo di rovine lasciate a sé stesso, con mura crollate, rimaste riconoscibili solo quelle perimetrali, e fa da ricovero per greggi.

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FORTE RATTI o MONTERATTI


Il Forte Monteratti o Forte Ratti (560 metri sul livello del mare) è una caserma militare di Genova edificata tra il 1831 ed il 1842 dal Governo Sabaudo per difendere, per l'appunto, il rilievo "Monte Ratti", posto alle spalle dei quartieri genovesi di Marassi e Bavari, da eventuali assedi del nemico che avrebbe potuto, da lì, dirigersi indisturbato verso gli allora piccoli borghi di Sturla, Albaro, e San Martino (oggi quartieri di Genova), da cui puntare verso il capoluogo.

Nel giugno del 1747 Genova fu assediata dagli austriaci, che conquistarono e occuparono il Monte Ratti nonostante la rapida costruzione di ridotte e accampamenti a difesa del rilievo. Riconquistata la posizione dai genovesi il mese successivo, per sollecitazioni del Duca di Bissj e poi del Duca di Richelieu, fu approvata la delibera per la costruzione di opere campali sul monte Ratti, affidata all'impresario De Ferrari.

Monte Ratti fu al centro di un altro assedio nel 1800, sempre da parte dell'esercito austriaco, che conquistò facilmente la ridotta, poi riconquistata il 30 aprile dello stesso anno dai francesi (che allora estendevano il loro dominio anche sulla città di Genova), che costrinsero alla resa un battaglione di 450 austriaci.

Nel 1819, dopo l'annessione della Liguria al Regno Sabaudo, fu decisa, per la difesa del monte, la costruzione di due torri difensive a pianta circolare; entrambe non furono terminate, anche se i loro resti sono ancora ben visibili.

Tra il 1831 e il 1842 vennero gettate le basi per la costruzione di una snella caserma che si estendesse per quasi tutti i 250 m di lunghezza dello spiano sovrastante l'abitato di Quezzi. Fu realizzato quindi il Forte Monteratti, che nella sua costruzione inglobò la preesistente torre, divenuta parte integrante della struttura difensiva. La facciata del forte è diretta verso la città mentre sul retro erano collocate le artiglierie puntate verso la val Bisagno.

Storia recente

Durante la Grande Guerra il Forte fu usato come prigione per i coatti austriaci. Durante il Secondo conflitto mondiale questa postazione contraerea fu utilizzata prima dal Regio Esercito e, dopo l’8 settembre 1943 da reparti della Wehrmacht.

FONTI:

I FORTI DI GENOVA - Aldo Carmine - Sagep Editrice

I QUARTIERI DI GENOVA ANTICA - Giulio Miscosi - Tolozzi Editore

STORIA DLLA REPUBBLICA LIGURE - Antonino Ronco - Sagep Editrice

STORIA D'ITALIA DAL RISORGIMENTO AI NOSTRI GIORNI - Sergio Romano -Longanesi

Ricerca a cura di:

Carlo GATTI

Rapallo, 10 Dicembre 2020

 


IL BARCHILE - STORIA DI UNA FONTANA GENOVESE

IL BARCHILE

STORIA DI UNA FONTANA GENOVESE

Le fontane di Roma dimostrano come i romani abbiano sempre avuto una gran passione per le acque pubbliche, dagli acquedotti alle terme e come, dopo i secoli della decadenza, tale passione si sia esternata nella costruzione delle numerose fontane (oltre 2.000) che ancora oggi ornano vie e piazze romane.

Il grande musicista bolognese Ottorino Respighi ne immortalò alcune con il suo celebre poema sinfonico LE FONTANE DI ROMA (1916) ricco di suggestioni descrittive legate ad elementi musicali naturalistici e alla cultura popolare italiana.

Quell’antico classicismo mitologico romano approdò anche a Genova lasciando il BARCHILE nel cuore del nostro scalo, precisamente nelle calate interne, ed aveva lo scopo di dare prestigio alla città e al suo porto.

Intorno al BARCHILE solevano radunarsi gli equipaggi delle galee genovesi di ritorno dalle missioni anti saracene. Si lavavano e si ritempravano cantando quei ritornelli che aleggiavano da sempre tra le calate e che furono in seguito ripresi e immortalati da Faber per la gioia degli italiani di ieri e di oggi!


Il Ponte Reale visto da ponente

Nel 1643 la fontana fu commissionata dai facoltosi membri dei Protettori delle Compere di S. Giorgio (Istituto e prodotto tipico della storia genovese, fu la prima organizzazione di un debito pubblico in istituto bancario e di emissione che viene via via assumendo anche funzioni di compagnia coloniale e di navigazione) a Pier Antonio e Ottavio Corradi (i progettisti della vasca) e realizzata da Giambattista Garrè. I quattro delfini capovolti invece sono opera di G.B. Orsolino mentre la statua alata, allegoria della fama, aggiunta nel 1673, è stata scolpita da Jacopo Garvo.

La fontana di cui parliamo risale al 1647 fu progettata dall’architetto AICARDO per essere posizionate sul prolungamento del PONTE REALE, che era la proiezione che collegava gli SCAGNI armatoriali alle CALATE INTERNE del Porto Vecchio. Nel 1647, per arricchire la fontana con un getto più consistente, i vertici di Palazzo San Giorgio decisero di captare le acque provenienti dall'Acquasola. Per l'occasione venne costruito un acquedotto in tubi di marmo che, scorrendo sotto la terra, arrivava fino al Ponte Reale.

Nel 1673 la fontana venne spostata sul prolungamento di Ponte Reale, dove rimase per oltre cent'anni, sino al 1790.

Dal 1861, con un'apposita delibera municipale, il BARCHILE fu spostato al centro di Piazza Colombo. Pare che la causa della “trasmigrazione” fosse dovuta all’aumento del traffico commerciale sulle banchine del porto. Inizialmente la scelta non fu gradita, perché quella FONTANA era un vero e proprio Simbolo della Repubblica di Genova: manifestazione di ricchezza, storia e tradizione per tutti i portuali e non solo...

Lentamente Piazza Colombo acquisì più importanza, specialmente dopo i riassestamenti della viabilità cittadina di inizio Novecento e la fontana divenne parte integrante ed apprezzata della Piazza.

Anna Draghi Photo

Piazza Colombo - Il gruppo marmoreo è composto, nella parte inferiore di quattro delfini avvinghiati, in quella superiore di quattro cariatidi anch'esse intrecciate che levano in alto una grossa coppa di marmo dal cui centro si alza una fama alata* che suona il nicchio marino.

(Note prese in prestito dal Dizionario delle Strade di Genova)

*Fama Alata (dal latino fari che significa parlare), personificazione della voce pubblica nella mitologia romana, era una divinità allegorica.

Della sua personificazione parla Virgilio immaginandola creata dalla Terra dopo Ceo ed Encelado.

La si immaginava come un mostro alato gigantesco capace di spostarsi con grande velocità, coperto di piume sotto le quali si aprivano tantissimi occhi per vedere; per ascoltare, usava un numero iperbolico di orecchie e diffondeva le voci facendo risuonare infinite bocche nelle quali si agitavano altrettante lingue.

Questo mostro alato rappresentava allegoricamente le dicerie che nascono, si diffondono, acquistano credibilità, non fanno distinzione tra vero e falso, amplificano e distorcono a piacimento i fatti.

Anche Ovidio ne dà un'ampia descrizione nel libro XII delle Metamorfosi, collocandola ai confini della terra, all'interno di un edificio bronzeo, con un numero elevatissimo di entrate, nelle quali riecheggiavano tutti i vocaboli, anche quelli appena bisbigliati.


Questa fotografia fu scattata nel corso nel 2004. In occasione degli eventi legati a “Genova 2004 Capitale Europea della Cultura”, venne istallato in piazza Colombo un impianto scenografico per illuminare Il Barchile ovvero la fontana posta al centro della Piazza dove l’opera fu traslocata nel 1861 per abbellire la nuova piazza ottocentesca voluta dall’architetto Resasco. Non solo bellezza ma anche utilità visto che Il Barchile fungeva da abbeveratoio per cavalli e muli provenienti dalla campagna che vi transitavano carichi di verdure verso il Mercato Orientale.


Guardiamola più da vicino con due scatti del BRAVO fotografo Luciano Roselli che ringrazio anche a nome dei followers di Mare Nostrum Rapallo



Come diceva Eugenio Montale nella sua celebre lirica “Non chiederci la parola”.

“Anch’io non so chi sono ma so cosa non sono: Non sono un professore non ne posseggo i titoli, non sono un poeta non ne ho la sensibilità, né uno storico non ne annovero le competenze e nemmeno mi appartiene l’essere scrittore. Allora chi sono, chiederete voi? Sono un folle innamorato di Genova che soffre nel vedere la sua amata dimenticata e non rispettata. Ecco questo mio sito è da intendersi come un atto di amore per la propria bella. Genova è come una matura signora, un po’ in là con gli anni ma talmente ricca di fascino che per farti innamorare non ha nemmeno bisogno di svelarsi e tu, a poco a poco, rimani inebriato dalle sue meraviglie”.

Carlo GATTI

Rapallo, 7 Gennaio 2020


L’AFFONDAMENTO DELLA MOTONAVE PAGANINI

 

28 giugno 1940

L’AFFONDAMENTO DELLA MOTONAVE PAGANINI


Rappresentazione pittorica del naufragio

Una tragedia dimenticata, come l'ha definita qualcuno, o comunque poco nota. È quella dell'affondamento della motonave Paganini, esplosa il 28 giugno 1940 al largo di Durazzo. A bordo del piroscafo c'erano oltre novecento soldati: provenivano per la maggior parte dalla Toscana, e in particolare da tre reparti fiorentini.


Due belle e felici immagini della PAGANINI in navigazione


L’affondamento della motonave “Paganini” fu forse il primo disastro della Seconda guerra mondiale. In quei giorni, si ammassavano truppe in Albania destinate all’occupazione della  Grecia.

La sera del 27 Giugno del 1940, la motonave Paganini salpa da Bari facendo rotta per Durazzo. Si tratta di una nave civile di poco meno di 2.500 tonnellate, noleggiata alla Tirrenia.


L'imbarco avviene nella confusione più totale: non ci sono elenchi, per anni questo particolare agevolerà le illusioni di molte famiglie. Addirittura, quattro soldati di Anghiari fanno un salto a casa a casa per salutare le famiglie, perderanno la nave a loro destinata, saliranno sulla Paganini, per loro significa la morte. Un altro perde la nave per andare a comprare le sigarette, prenderà il piroscafo successivo, si salverà.

Al tramonto del 27 giugno il convoglio, formato dalla Paganini, da una nave cisterna, e dalla nave scorta cacciatorpediniere Fabrizi, parte alla volta dell'Albania.


La nave sbandata é in preda al fuoco, tra poco s’inabisserà

All’alba del 28 giugno la nave M/N PAGANINI ha un sussulto causato da un’esplosione nella stiva N.2. Immediatamente divampa un furioso incendio, la cui causa è tutt’ora controversa.

Le fiamme si levano subito altissime, grida, disperazione, panico. Il naufragio avviene alle 6,15 mentre la motonave si trova al largo di Durazzo.

A bordo del piroscafo, che può trasportare 58 passeggeri, oltre alle merci, vi sono oltre 900 soldati del diciannovesimo reggimento artiglieria e una sezione dell'Istituto geografico militare, entrambe di stanza a Firenze.

La maggior parte proviene della Provincia di Firenze, altri dalle città e dalle zone circostanti: Mugello, Chianti, Val di Sieve, Valdarno. Di queste zone si contano numerosi caduti, dispersi e naufraghi che furono tratti in salvo. Centinaia erano i soldati della val di Sieve presenti in Albania, inquadrati nei Reggimenti della Divisione Venezia.
Dei circa 220 morti e dispersi, secondo la lista pubblicata fino dalla sera dell’11 luglio, il 90% delle vittime era in forza al 19° Reggimento Artiglieria della Divisione di Fanteria Venezia di stanza a Firenze, con sede alla Caserma Baldissera, detta la Zecca.
In un mare di fuoco, i soccorsi sono difficili e scarsi, nonostante la vicinanza della costa albanese. Per molti giorni non si hanno notizie, poi l'11 luglio i famigliari apprendono dai giornali della sorte dei loro cari.

Il ministero della guerra invia alle famiglie le solite fredde parole di circostanza. I bollettini di guerra non parleranno mai dell'accaduto.

Secondo le indagini esperite dal tribunale di Tirana nel luglio 1940 l'incendio, scoppiato nella stiva n. 2 della motonave, è dovuto a sabotaggio.

Quanti furono i morti, i dispersi, i mutilati? Incertezze e carenze burocratiche hanno alimentato per anni le speranze di chi non si rassegna alla fine dei loro cari. C'è poi il mistero dei grandi invalidi: feriti straziati, privati degli arti e della vista che sarebbero stati ospitati in alcuni istituti fiorentini. Circostanza, anche questa che avrebbe alimentato la speranza di alcune madri e mogli che per anni sono state alla ricerca dei loro cari.

Il naufragio della Paganini è passato sotto silenzio, per quasi settant'anni non si è riusciti a sapere quasi niente. Cos'è accaduto veramente? Quanti sono i morti e i dispersi? Sono molti i misteri che hanno avvolto la fine della motonave che è costata la vita a oltre 219 soldati, secondo le fonti ufficiali, secondo altri la cifra complessiva sarebbe di 340 uomini.

Fa da sfondo alla tragedia il pressapochismo e l'impreparazione che caratterizza l'entrata in guerra dell'Italia e la vicenda della Paganini ne è la riprova lampante: soldati, armi, muli, paglia, fieno e macchinari sono sistemati alla rinfusa nelle stive e ammassati in coperta, mancano le scialuppe di salvataggio e le vie di fuga non sono adeguate all'abbandono veloce della nave, i giubbotti di salvataggio non sono adeguati e molti non sanno usarli.

La storiografia ufficiale si è dimenticata della Paganini, rimasta invece nella memoria di molti. Ogni anno nella basilica della Santissima Annunziata a Firenze è celebrata una Messa in suffragio dei caduti. L'appuntamento si ripeterà anche quest'anno alle 12 di lunedì 28 giugno.

IL DIFFICILE RECUPERO DEI NAUFRAGHI

La Fabrizi affiancò la Paganini sul lato dove si erano concentrati più uomini, e l’equipaggio della torpediniera si prodigò nel recuperare quanti più uomini possibile. In tutto la torpediniera riuscì a trarre in salvo 437 naufraghi, tra cui parecchi feriti ed ustionati, anche in modo grave.


Due immagini d'epoca della Paganini in fiamme al largo di Durazzo

Il relitto della Paganini, la cui posizione era nota ad alcuni abitanti di Durazzo, è stato ritrovato ed identificato nel gennaio 2009 da un gruppo di subacquei guidato da Cesare Balzi. La nave giace a 35 metri di profondità a 2,4 miglia dalla riva tra Durazzo e Capo Pali (ed a quattro miglia dall’uscita del porto di Durazzo), sbandata di 45 gradi a sinistra, con le strutture superiori che giungono a 28 metri; la prua è rivolta a sudovest, con rotta 210°. La zona prodiera è la più danneggiata, con parte del ponte e della plancia che sono crollate (non solo per effetto dell’incendio, ma anche a causa della pesca con la dinamite effettuata da alcuni pescatori locali), mentre la poppa è relativamente ben conservata, in particolare la poppa estrema, unica parte della nave a non essere stata raggiunta dall’incendio del 28 giugno 1940. I locali interni sono ricoperti da uno strato di sabbia e fango. La campana della Paganini è stata recuperata e restaurata ed è conservata dal National Center of the Stocktaging of Cultural Properties del Ministero del Turismo, Cultura, Gioventù e Sport dell’Albania, a Tirana.

Ogni anno, il 28 giugno – sin dal 1941, vengono commemorati i caduti della Paganini con una messa celebrata nella Basilica della Santissima Annunziata a Firenze.

ALCUNI DATI TECNICI E STORICI

Motonave mista da 2424 (o 2427) tsl, 1421 tsn e 2985 tpl, lunga 85,34-89,61 m, larga 12,19 e pescante 6,4, con velocità massima 13,7 nodi. Appartenente alla Società Anonima di Navigazione Tirrenia, con sede a Napoli, ed iscritta con matricola 55 al Compartimento Marittimo di Fiume.

Breve e parziale cronologia.

15 novembre 1927

Impostata nel Cantiere Navale Triestino di Monfalcone (numero di costruzione 194).

23 luglio 1928

Varata nel Cantiere Navale Triestino di Monfalcone.

29 settembre 1928

Completata per la Compagnia Adria Società Anonima di Navigazione, con sede a Fiume. Ha cinque gemelle: DonizettiPucciniRossiniVerdiCatalani (la serie «Musicisti»), tutte destinate ad andare perdute in guerra, tre di esse con fine particolarmente tragica. Possono trasportare 58 passeggeri più le merci.

1° gennaio 1937

Trasferita alla società Tirrenia, che ha assorbito la compagnia Adria. Unitamente alle gemelle, la Paganini, noleggiata dal Commissariato per la Marina Mercantile (Ministero delle Comunicazioni), presta servizio sulla linea n. 32 (Fiume-Venezia-Ancona-Bari-Catania-Malta-Messina-Palermo-Napoli-Livorno-Genova-Imperia-Marsiglia-Barcellona-Tarragona-Valencia-Fiume per totali 3997 miglia nautiche).

10 giugno 1940

L’Italia fa il suo ingresso nella seconda guerra mondiale; la linea n. 32 viene sospesa e la Paganini viene fermata a Livorno.

La motonave viene poi noleggiata dal Ministero della Marina (senza essere requisita; altra fonte data l’inizio del noleggio al maggio 1940, anziché al giugno) per trasportare truppe in Albania, in previsione dell’invasione della Grecia.

18-26 giugno 1940

Lavori di adattamento alla mansione di trasporto truppe: nelle stive prodiere e poppiere vengono sistemate centinaia di cuccette per i soldati; vengono realizzati box per alloggiare gli animali; poi la nave si trasferisce a Taranto e qui viene armata con un cannone da 120/45 mm, sistemato a poppa, e due mitragliere contraeree binate da 13,2 mm, collocate sul cielo della plancia.

Per chi desiderasse approfondire l’argomento, segnalo il blog:

CON LA PELLE APPESA AL CHIODO

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Carlo GATTI

 

Rapallo, 6 Novembre 2019

 


CORALLI

Manuela Maria Campanelli, biologa e giornalista per diverse testate tra cui il Corriere della sera, si occupa di divulgazione scientifica dal 1992.

CORALLI

Nel Queensland (Australia) esiste la Grande Barriera Corallina, iscritta nella lista del Patrimonio dell'Umanità nel 1981, è la più grande del pianeta (si estende per 2300 km), gode di una grandissima biodiversità ed è formata da miliardi di piccolissimi organismi, "i polipi del corallo" che incessantemente, modificano con il loro lavoro la morfologia del pianeta. Non a caso per la sua ampiezza è l’unico organismo vivente della Terra visibile dallo spazio!

 

Immergersi con le bombole nelle profondità delle acque e nello stesso tempo contribuire alla salvaguardia dei coralli. A consentire questa doppia attività è il progetto STE (Scuba Tourism for the Environment – Red Sea Biodiversity Monitoring Program) appena ripartito dopo lo stop dettato dal Ministero degli Esteri per le mete turistiche egiziane: esso si propone infatti di monitorare la biodiversità delle scogliere coralline del Mar Rosso con l’aiuto di turisti volontari che trascorrono le vacanze nelle località di Sharm el-Sheikh, Marsa Alam, ma anche in luoghi meno noti ma ricchi di coralli quali Berenice, l’Egitto Meridionale, il Sudan, fino a Yanbù Al-Bahr e Rabigh sulla costa araba. Un vero e proprio esempio di citizien science , cioè d’impiego dei cittadini per indagare la scienza che in questo caso coinvolge subacquei ricreativi e snorkelisti che usando maschere e pinne potranno osservare solo la parte più superficiale della barriera corallina: entrambi raccolgono osservazioni che si trasformano poi in dati e quindi in un quadro completo del benessere di ciò che hanno visto.

Comportamenti sostenibili innanzitutto

Venirne a conoscenza è semplice. Basta consultare il sito www.steproject.org  o bussare direttamente alla porta dei centri di diving aperti nelle rinomate mete egiziane. <<A impartire ai turisti volontari lezioni di biologia marina ci pensa il Marine Science Interdisciplinary Research GROUP (MSG - www.marinesciencegroup.org ), un gruppo di ricercatori, studenti universitari e personale formato che sul posto organizzano dei seminari volti ad affinare l’osservazione, a illustrare le problematiche di conservazione delle specie e a insegnare come approcciare la barriera corallina nella maniera meno impattante possibile, sia fuori dall’acqua con comportamenti sostenibili (limitare l’uso di detergenti, non comprare souvenir fatti di corallo…) e sia dentro il mare: imparare a valutare il giusto assetto d’immersione, per esempio la quantità di chili necessari per contrastare il galleggiamento, è estremamente importante per rimanere a mezz’acqua senza cadere sul fondo e andare addosso alla barriera>>, dice Stefano Goffredo, ricercatore del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna.

Un specifico monitoraggio

 

A ogni partecipante verrà consegnata una scheda di monitoraggio che dà notizie su 65 parametri sulla quale riportare le specie di interesse (circa una sessantina) e la loro frequenza di distribuzione rispetto all’atteso. In altre parole si chiede a ciascuno di essi di riportare quali organismi sono stati avvistati e in questo caso qual è la loro abbondanza: indicazioni valide sono anche quelle relative al ritrovamento di coralli morti, sbiancati, rotti o di rifiuti. Dalla somma delle osservazioni si ricava un quadro completo degli organismi che popolano l’area monitorata e cosa vi sta succedendo. Come si fa a sapere se i dettagli riportati dai volontari sono affidabili? <<La validazione dei dati raccolti viene eseguita da alcuni nostri studenti o ricercatori che, immergendosi a loro volta con i turisti, ma senza interferire con l’attività di questi ultimi, raccolgono a loro volta dettagli e osservazioni. Alla fine si confrontano le schede, quelle dei ricercatori ritenute corrette con quelle dei volontari: di solito si trova un’affidabilità del 60 per cento, del tutto paragonabile a quella riscontrata in altri progetti>>, spiega Stefano Goffredo. E’ un valore troppo basso, dite voi?

I risultati ottenuti

In realtà sapere quasi in tempo reale ciò che succede su vaste aeree geografiche ha costi enormi. L’approccio citizien science (uso di volontari per indagare la scienza) si è pertanto dimostrato un giusto compromesso per seguire i veloci cambiamenti degli ecosistemi, causati da modificazioni del clima e influenzati anche dall’uomo, senza commettere grosse imprecisioni. Non a caso Horizon 2020, il principale strumento di finanziamento dell’Unione Europea volto a sovvenzionare progetti di ricerca , ha previsto lo sviluppo di un sistema di monitoraggio di città e campagne impiegando i cittadini chiamati a segnalare precisi parametri per esempio tramite smart phone. MSG è tuttavia pioniere del metodo citizien science dato che ha iniziato a utilizzarlo dal 1999. E i risultati sono stati numerosi. A oggi sono state raccolte 30 mila schede che hanno dato indicazioni importanti sullo stato di biodiversità marina di 114 siti di rilevamento del Mar Rosso.

 

Dalla teoria alla realtà

Il monitoraggio effettuato dai volontari ha consentito d’individuare differenze tra aree di uno stesso territorio marino e di osservare disuguaglianze significative nella qualità delle barriere coralline tra le zone meridionali di Hurghada e quelle settentrionali di Sharm. <<Queste ultime sono infatti meglio conservate in quanto da sempre nei parchi protetti che le costituiscono è vietato l’ancoraggio libero delle barche che avviene su boe fisse>>, dice Stefano Goffredo. Le autorità locali sono tuttavia consapevoli dell’importanza di salvaguardare la biodiversità anche di questi luoghi turistici perché fanno da serbatoio alla capacità riproduttiva delle larve degli organismi che formano le barriere coralline. Il Ministero e l’Ente del Turismo Egiziano oltre a finanziare il progetto STE organizzano ogni anno un incontro in cui valutano i risultati ottenuti dal monitoraggio effettuato dai nostri ricercatori e ascoltano i consigli che vengono loro dati affinché possano trasformarsi in provvedimenti pratici. Un esempio? Da qualche anno hanno messo le boe fisse per l’ormeggio delle barche anche a Hurghada e mantenuto le zone parco a Sharm.

I nostri coralli

Livorno, Calafuria, profondità 30 metri. Corallium rubrum dimensioni 7-8 cm

Si parla tanto dei coralli che popolano il Mar Rosso o tanti altri luoghi del mondo e mai di quelli che vivono nelle nostre aree marine. <<Ben quaranta sono le specie che si trovano nel Mare Mediterraneo e quindi anche in acque italiane>>, dice Stefano Goffredo. <<Abitano ambienti sia illuminati e sia bui e riescono a raggiungere densità di popolazioni elevate o dominanti. Sebbene non formino scogliere coralline come nei Tropici, costituiscono tuttavia un elemento costruttivo dell’ambiente>>. Un esempio noto a tutti è il corallo rosso, assai diffuso oltre i 40 metri di profondità: lo stesso corallo è tuttavia molto abbondante a basse profondità in prossimità di Livorno ed è dominante nelle grotte buie a fianco del quale si sviluppano altre specie di coralli. Una specie di corallo bianco di profondità, la Lophelia pertusa, forma invece dei veri e propri banchi nei Mari Ionio e Tirreno.

Scenari possibili

 

Perché ci si preoccupa tanto della sopravvivenza dei coralli? In altre parole, se periscono, quale scenario si configurerebbe? L’economia dei Paesi emergenti di sicuro ne risentirebbe: il loro Pil è infatti basato sul turismo richiamato dalle barriere coralline e sulla pesca che questi stessi coralli consentono essendo l’inizio di una catena alimentare soprattutto in acque oceaniche. Verrebbe inoltre meno la protezione delle coste: le scogliere coralline fanno in un certo senso da scudo alle erosioni e agli tsunami. Negli anni ’80 nei Caraibi una malattia ha attaccato le scogliere coralline della Giamaica colpendo dapprima i ricci, organismi erbivori che controllano le alghe verdi, e successivamente l’intero ecosistema che si è trasformato in una distesa di coralli morti con sopra le alghe. I pesci che depongono le uova e trovano rifugio nella tridimensionalità della  struttura della scogliera corallina potrebbero nel tempo addirittura estinguersi.

Manuela Campanelli

Rapallo, 28 Luglio 2018


L'ASSO NELLA MANICA

 


L'ASSO NELLA MANICA

BY JOHN GATTI4 GENNAIO 2021•12 MINUTI


La fase di studio, propedeutica all’acquisizione delle competenze necessarie a renderci titolati e in grado di svolgere un determinato compito, determina – in larga misura – i confini entro i quali spazierà la nostra abilità.

Sarebbe forse più giusto dire che:

“l’apertura mentale con cui affrontiamo lo studio, stabilisce i limiti della vastità delle nostre conoscenze”.

Questo perché il nostro cervello è portato a semplificare tutto il possibile e, il più delle volte, raggiunge il suo scopo agendo per esclusione:

elimina, per motivi di efficienza, ciò che reputa superfluo

succede, quindi, che tendiamo a dimenticare quanto il cervello ritiene – a suo insindacabile giudizio – inutile o, ancora peggio, altera i ricordi adattandoli agli assunti già immagazzinati nella nostra memoria, secondo il principio per cui:

è meno dispendioso, in termini energetici, consolidare convinzioni già acquisite, anche se sbagliate, piuttosto che sovrascrivere informazioni già registrate.

Pensando a quanto ho scritto sopra, si materializza nella mia mente l’immagine di un aspirante pilota che si presenta all’esame con un sacco colmo di nozioni, formule, definizioni e simulazioni.

Una volta vinto il concorso, vedo l’allievo cominciare il suo anno di apprendimento con il sacco pieno da una parte e un sacco vuoto dall’altra.

Fin dai primi giorni quello pieno comincia a vuotarsi:

parte del contenuto viene dimenticato, perché inutile nella pratica, mentre una quantità modesta passa nell’altro sacco, quello che contiene la teoria necessaria a supportare l’esperienza.

Il ragionamento non è né bello né lineare.

Semplicemente il cervello fa il suo lavoro: elimina ciò che cataloga come superfluo e conserva ciò che ritiene utile.


Potrei disquisire a lungo sui vantaggi e gli svantaggi del modo di operare del cervello applicato alla manovra delle navi, ma il risultato è più o meno questo:

il pilota esperto ha uno stile personale che, purtroppo e di fatto, confina le sue conoscenze; all’interno di questi limiti c’è tutto il suo sapere, fatto di esperienza, di minimi calcoli e di soluzioni efficaci; di infinite ripetizioni, di automatismi e di spazi fisici/temporali compresi tra il momento “x” e il punto di non ritorno.

È giusto. Il fine è quello che conta.

Saper gestire perfettamente il necessario numero di opzioni permette di agire con tempestività, sicurezza ed efficacia.

Il resto è fumo.

Beh, non è proprio così… però, se osserviamo le cose da un punto di vista pratico, è evidente che un pilota che opera a Genova ha poca esperienza e poco interesse all’approfondimento della manovra nella nebbia, nei ghiacci o nei fiumi, perché diventa, nel tempo, esperto nella conduzione della nave in presenza di vento e negli spazi ristretti.

Un concetto realistico, che però presenta i suoi limiti.

Saper gestire l’ordinario è scontato e imprescindibile. Il buon pilota si vede nell’emergenza o quando l’ordinario sconfina nello straordinario, costringendolo a tirare fuori l’asso dalla manica.

È per questo che due “sacchi” non bastano e non ci possiamo permettere di rinunciare a portare, tra i nostri bagagli, anche uno zainetto.

Cambiare manovra per sfruttare un vento o una corrente troppo forti; avere sempre una via di fuga o un piano “B” in caso di rottura del cavo del rimorchiatore o di un’avaria della nave; decidere per tempo quando è il momento di fare dietrofront e ricominciare la manovra; sapere quando e come sfruttare le ancore, i cavi, la barca degli ormeggiatori o un ridosso di fortuna… e così via per le innumerevoli situazioni in cui ci si può trovare.

Il nostro zainetto deve contenere soluzioni potenti per situazioni difficili.

Ero a bordo di una nave chimichiera lunga 100 metri, scarica e ormeggiata con il fianco di dritta in banchina.

Potrebbe sorgere spontanea una domanda:

“Perché, negli esempi, spesso si parla di navi di modeste dimensioni?”

Perché le grandi navi, il più delle volte, hanno macchine e thrusters potenti e utilizzano i rimorchiatori. Questo non vuol dire che siano più facili da manovrare o che i problemi siano meno frequenti, piuttosto che l’intervento del pilota, quando gli elementi sotto controllo sono limitati, è più facilmente comprensibile da chi legge.

Elica a passo fisso destrorsa, bow thruster da 300 cavalli.

Quando era stata ormeggiata, due giorni prima, le condizioni meteomarine erano ottime ed era prevista una sosta di poche ore. Perciò, all’arrivo, confidando sull’effetto destrorso dell’elica e sul bow thruster, si era deciso di non dare fondo l’ancora di sinistra.

Un ritardo nella partenza, dovuto a problemi commerciali, fece sì che la situazione cambiasse radicalmente: 20 nodi di vento da scirocco schiacciavano la piccola nave in banchina e, la mancanza di un’ancora data fondo a sinistra ad allargare la prora e un thruster dalla potenza insufficiente, rendevano la manovra di disormeggio alquanto delicata.

Insieme a me c’era un allievo con circa 6 mesi di anzianità, praticamente a metà del suo percorso formativo.

Un’occasione importante per scoprire il livello di preparazione che aveva raggiunto.


Disegno di Garipoli M.

Lasciò due spring a prora e, con il timone tutto a dritta, mise la macchina avanti molto adagio. Ben presto la poppa cominciò ad allargarsi dalla banchina, mentre la prora si appoggiò a un ottimo parabordo.

L’allievo continuò ad allargare la poppa – giustamente – fino a un angolo apparentemente esagerato: il timore, piuttosto fondato, era che, una volta messa la macchina indietro, il vento facesse cadere la poppa sullo spigolo vivo della banchina poco distante.

Aveva impostato la manovra nel modo giusto, ma la sua idea era che, una volta mollati gli springs, l’effetto destrorso dell’elica avrebbe mantenuto la poppa e che il thruster sarebbe riuscito a far rimontare la prora al vento.

In realtà, con nave così scarica, avrebbe dovuto immaginare uno sviluppo dinamico differente e impostare una strategia per i passaggi successivi.

Ma andiamo per ordine.

La prora sfilò lungo la banchina alla costante distanza di un paio di metri, senza accennare ad allargarsi.

La poppa, nonostante l’effetto dell’elica, cadeva con una lentezza costante e la probabilità di finire contro lo spigolo era piuttosto elevata.

L’allievo aumentò la macchina fino a indietro tutta  e mise il timone tutto a sinistra per sfruttare anche questa componente.

La poppa si stabilizzò ma la prora cominciò a perdere qualcosa.

Quando arrivammo ad avere un discreto abbrivo indietro e la poppa libera dallo spigolo, fu evidente che la prora non sarebbe passata indenne.

Intervenni facendo fermare la macchina, mantenni il timone tutto a sinistra e avviai, per qualche secondo, l’avanti adagio.

La nave restò abbrivata indietro, anche se rallentata, e la prora – beneficiando di quell’aiuto – si allargò quel tanto che bastò a farle superare lo spigolo.

Subito dopo la situazione fu la seguente: poppa al vento e prora nella direzione opposta all’uscita.

L’allievo rimise la macchina indietro per aumentare l’abbrivo, dopodiché diede avanti adagio con timone tutto a dritta cercando di evoluire ma, non appena la nave si trovò al traverso del vento, non ci fu più verso di far salire la prora… e intanto lo scafo scarrocciava verso un’altra banchina.

Avrebbe dovuto usare più potenza di macchina, per sperare di ottenere qualcosa! Infatti – per avere un buon effetto evolutivo – occorre una buona spinta propulsiva immediata e tanto timone, altrimenti si va avanti e si gira poco.

Attesi ancora qualche minuto poi, per non correre il rischio di scadere troppo verso la banchina raggiungendo il “punto di non ritorno”, intervenni dando fondo una lunghezza all’ancora di dritta e fermai tutto.

Nel giro di qualche minuto la nave, con la prua vincolata dalla catena, ruotò mettendosi al vento.

Salpammo e procedemmo verso l’uscita.


PH: Parisi F.

Da questo esempio risulta evidente che, in certe circostanze, sfruttare l’ancora per evoluire è la scelta più semplice ed efficace.

Dare fondo, con pochissima catena e la presenza di un po’ di vento o corrente, permette di ruotare quasi su sé stessi.

Il fatto di dare meno lunghezze possibili, ci permette di operare in poco spazio e di salpare agevolmente una volta raggiunta la direzione voluta.

Ci si deve abituare all’utilizzo dell’ancora.

Decidere di dare fondo, non è scontato come agire sui thruster o usare lo spring per allargare la poppa.

Il feedback emotivo che emerge dal decidere di aprire il freno del verricello è – in mancanza di familiarità con l’azione – l’incertezza cognitiva dell’atto stesso e delle sue conseguenze:

· ho     -  ho dato fondo nel punto giusto?

· ho      -  ho dato abbastanza catena?

· rius    -  riuscirò a dragarla o a fermare la nave in tempo?

· e c     -  e così via.

Nella pratica i margini operativi non sono così stretti: in caso di errore posso filare più catena, dragare l’ancora per spostare la sua posizione, aumentare o diminuire la macchina e, se proprio le cose non vanno come dovrebbero, salpare e ripetere l’operazione.

Più usiamo gli strumenti presenti nello zainetto più diventiamo disinvolti, precisi e bravi.

Più si mantengono ampi i confini in cui spaziano le abilità, più chance si hanno nel momento del bisogno.

 


 

 


VENTI DI STORIA SU CAMOGLI

VENTI DI STORIA

SU CAMOGLI

Nel giorno di Natale 2020, dedichiamo queste righe a chi è appassionato di ricerche marinare.

Uno scrittore di mare molto legato a Camogli.

La nostra memoria non deve - non deve - oscurare nel tempo chi scrive e chi ha scritto di mare e del suo scenario globale.


GIO BONO FERRARI

A Camogli, è vissuto il suo storico marittimo per eccellenza, cioè Gio Bono Ferrari, che scrisse con meticolosi dettagli le vicende di un secolo fitto di vicende e personaggi dell'epoca della vela. Ferrari, che morì nel 1942, fu anche un attento storico della nostra Città, che però scrisse raramente delle navi a propulsione meccanica.

 

ALBUM FOTOGRAFICO

MUSEO MARINARO GIO' BONO FERRARI

 

 

 

VITTORIO G.ROSSI


Ne parlò invece un altro autorevole e famoso scrittore-giornalista di mare che amò Camogli: il Sammargheritese Vittorio G. Rossi. Rossi - tra l'altro - si diplomò al nostro Istituto Nautico nel 1925 e navigò su navi mercantili a vapore; coprì inoltre numerose e rilevanti cariche nell'ambito marittimo.

Esiste un terzo studioso, molto noto a livello internazionale, ma forse a pochi Camogliesi: Tomaso Gropallo.


Il Marchese Gropallo (1898 - 1977), di stirpe nobile Genovese (tralasciamo qui la sterminata storia della sua famiglia), è noto ai ricercatori Camogliesi di cose marittime per il suo celebre ed utilissimo "Il Romanzo della Vela" (ed. Mursia, 1973). E' vero che Gropallo dedicò ampio spazio (come è giusto che sia!) ad Armatori, Capitani e Navi Camogliesi però, oltre questa letteratura, non sapevamo gran che della persona-scrittore. Rileggendo alcuni Bollettini del Santuario del Boschetto, intendiamo che, in effetti, Gropallo fu molto legato alla nostra Città.

Visitò molte volte il Museo Marinaro, anzi ne fu un appassionato collaboratore, specialmente nella fase di inaugurazione del 1938, quando la mostra si insediò nel ridotto del Teatro Sociale; a quell'epoca, il suo primo Direttore fu proprio Giò Bono Ferrari, del quale Gropallo era molto amico. Nel nuovo Museo, lo scrittore raccolse ovviamente molte notizie per i suoi testi. Inoltre, era il presidente nazionale - insieme all'armatore Francis Ravano - della "Amicale Internationale des Capitaines au Long Cours Cap-Horniers" (A.I.C.H.), alla quale erano nel 1971 ancora iscritti con onore tre "Albatross" Camogliesi: Prospero Figari (Sciabecco), Edoardo Figari e Prospero Antola; e proprio nel 1971, ebbe luogo l'ultima riunione dei Cap Horniers a Camogli.

Gropallo - che era avvocato - fu anche docente di Diritto ed Economia Marittima proprio al nostro Istituto Nautico per vari anni; lo studioso inoltre realizzò a quei tempi vari testi di Diritto e Storia della Navigazione, utili anche ai naviganti.

Per quanto enunciato sopra, consideriamo perciò Tomaso Gropallo un significativo ricercatore, studioso, cultore e storico della Marineria di Camogli.


Immagine: "Monumento dedicato ai Cap Horniers a Capo Horn" tratto da http://www.cap-horniers.fr/CHLC/Historique.html.

La fessura al centro rappresenta un albatross, cioè il titolo che veniva attribuito a quel Capitano che aveva l'abilitazione al "lungo corso" ed aveva doppiato il Capo Horn almeno una volta su nave a vela.

di Bruno MALATESTA

CAPITANI DI CAMOGLI

VITTORIO G. ROSSI - GIORNALISTA, SCRITTORE E UOMO DI MARE

di CARLO GATTI - (Rapallo Arte)

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=580;vittorio&catid=52;artex&Itemid=153

CAPO HORN - L'inferno dei Marinai

di CARLO GATTI - (Navi e Marinai-Mondo Marittimo)

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=484;horn&catid=53;marittimo&Itemid=160

Rapallo, 28 Dicembre 2020


SPEZIA - “LA PORTA DI SION” UNA STORIA CHE NON TUTTI CONOSCONO

 

OGNI ANNO SPEZIA RICORDA

“LA PORTA DI SION”

UNA STORIA CHE NON TUTTI CONOSCONO


Pagina dimenticata quella dell'Operazione Exodus che ci fornisce l’idea di una città che ha fatto dell'accoglienza e della solidarietà la propria carta di identità. Spezia, infatti, è conosciuta come "porta di Sion".

Alla fine della seconda guerra mondiale il golfo spezzino divenne la base di partenza degli scampati ai lager nazisti, che ora guardavano al mare con la speranza di lasciarsi alle spalle le guerre e gli orrori nazisti dei lager.

Nel porto di Spezia erano pronte a partire due imbarcazioni, la FEDE di Savona e il motoveliero FENICE, che avrebbero condotto 1014 profughi ebrei nella loro "terra promessa": Israele. Tutto era pronto, ma alcune navi inglesi bloccarono l'uscita dal porto alle due imbarcazioni venendo a creare così una situazione di crisi internazionale. I profughi a bordo della nave dichiararono lo sciopero della fame e riuscirono così ad attirare l'attenzione delle maggiori autorità inglesi (autorizzate a controllare l'afflusso in Palestina) che cedettero alle volontà dei profughi.


SPEZIA

Monumento commemorativo

Dalla Porta di Sion alla Terra Promessa

Un cuore spezzato e le onde del mare che lo raccolgono

 

Il 17 giugno 2019, su questo Molo Pagliari, nel punto in cui all’epoca c’era la “Porta di Sion”, é stato inaugurato il monumento alla memoria:

SULLE ALI DELLA LIBERTA’

alla presenza di una delegazione di Israele e dalla vice ambasciatrice in Italia, a ricordo delle vicende del 1946.


Presenti il rabbino capo di Genova Giuseppe Momigliano e i discendenti dei protagonisti di quell'evento, i nipoti di Yehuda Arazi e Ada Sereni, alla cui memoria è stata dedicata la piazza all'inizio del molo. All’inizio dell’anno in corso 2020, il percorso della memoria é visitabile da tutti. Un messaggio che il Comune di Spezia lancia alle generazioni future.

Il monumento commemorativo, insieme a un percorso espositivo su molo Pagliari, in forma di simbolo rappresenta quella che probabilmente è la vicenda storica più importante della città di Spezia e che nel 2006 le è valsa la medaglia d’oro al valore civile.


Perché Spezia - Porta di Sion?

- Perché da qui, dopo la Seconda guerra mondiale, partirono navi cariche di ebrei che cercavano una vita migliore nel futuro Stato d’Israele.

- Per la grande solidarietà che gli abitanti di una Spezia devastata dalle bombe seppero dimostrare nei confronti di migliaia e migliaia di ebrei sopravvissuti all'Olocausto.


LO STORICO MOLO PAGLIARI

Nel 1946, da questo molo salparono la Fede e la Fenice e, nel 1947, salpò la storica nave Exodus.


La FENICE ribattezzata ELIAHU GOLOMB


La FEDE

I loro corpi avevano conosciuto la persecuzione nazista, lo sterminio, la Shoá, l’inferno dei lager, ma ora, come ci mostra la foto, questi reduci guardano al mare con la speranza di lasciarsi alle spalle l’Europa degli orrori e di raggiungere la “Terra promessa”.


La nave EXODUS 1947

IL PREMIO EXODUS 2019


“L'importanza che la città della Spezia riserva ogni anno al premio Exodus
– dichiara Marina Piperno – rivela la sensibilità e la volontà di tenere viva la storia e la memoria degli eventi che hanno fatto della città e dei suoi cittadini un importante luogo di riferimento per tutto Il mondo ebraico e per coloro che hanno a cuore la storia del nostro Paese”.

Lia Levi scrittrice e giornalista, è stata insignita del “Premio Exodus 2019” con la seguente motivazione: “In riconoscimento del profuso impegno nell’attività di testimonianza della Shoah e nella promozione della conoscenza della cultura e religione ebraica in Italia e in Europa”.


Marina Piperno è stata insignita della “menzione speciale Exodus 2019” con la seguente motivazione:
“In riconoscimento della sua attività di ricerca attraverso l’arte cinematografica e documentaria delle diaspore delle famiglie ebraiche italiane nel Novecento”.

Levi ha accolto con gioia la notizia del riconoscimento: “A volte capita che ti passi per la testa

l’idea che bisognerebbe inventare delle nuove parole per esprimere nella loro complessità certe specifiche sensazioni e pensieri che ti si stanno muovendo da dentro. Ecco, ci troviamo oggi proprio davanti a uno di questi casi – dichiara Lia Levi - La notizia che il Comitato Scientifico di una città come la gloriosa La Spezia (medaglia d’oro al merito per la tangibile solidarietà offerta agli ebrei sopravvissuti allo Sterminio) mi ha scelta come destinataria del premio Exodus mi è stata fonte di profonda emozione. Quelle “nuove parole” che mi piacerebbe usare per esprimerla al meglio, si sa, non esistono. Vi prego perciò di accettare quelle che accompagnano tutti i giorni mettendoci voi, attraverso le misteriose vie dello spirito, quella carica di reminiscenze, entusiasmo e commozione che spero di essere riuscita a trasmettere. Un grande rabbino ha detto che l’ebraismo, con la sua scontentezza sacra non pretende certo di cambiare il mondo ma solo di “aggiustarlo”. E questa mi sembra essere anche la forza portante della gente della Spezia e di tanti altri che riescono ad operare per render migliore il nostro pianeta”.


Pagliari e Fossamastra al centro di un percorso del ricordo degli eventi del 1946 che legano per sempre Spezia e Israele

UN PO’ DI STORIA

Il Mediterraneo, negli del primo dopoguerra, é attraversato da un popolo in fuga, reduce dalla sua più grande tragedia e disposto a tutto pur di ritornare alla terra lasciata 2000 anni prima. Dalle nostre coste salparono in massa per raggiungere clandestinamente la Palestina, o come preferivano chiamarla, Eretz Israel, la terra di Israele.

Il nostro Paese, pur devastato dalla guerra, offrì loro rifugio e li aiutò a partire dai suoi porti, sicuramenti gli italiani di allora sentivano il peso di scelte sbagliate: come l’infamia delle leggi razziali di pochi anni prima, e sentivano il dovere di farsi perdonare.

IL PROBLEMA: la Gran Bretagna, potenza occupante, sia in Italia che in Palestina, si oppose con tutte le forze a questo esodo di massa per non contrariare gli arabi in rivolta che temevano di diventare minoranza in quel paese.

Il Mossad le Aliyah Bet (organizzazione segreta, progenitore del famoso servizio di intelligence israeliano) fu incaricato da Ben Gurion di portare in Eretz Israel il maggior numero di ebrei della diaspora e spingere la comunità internazionale ad approvare la nascita dello stato di Israele.

Due capi di grande intelligenza e audacia entrarono in scena: Yehuda Arazi e Ada Sereni. Lui, soprannominato “il re degli stratagemmi”, ricercato dagli inglesi che avevano messo una taglia sulla sua testa per aver rubato armi in quantità dai depositi britannici per conto dell’Haganà.

Lei, alto borghese romana d’origine, espatriata negli anni 20 in Palestina, dove aveva fondato insieme al marito Enzo, un eroe del sionismo, il kibbutz Givaat Brenner, e ora pronta ad usare tutte le sue conoscenze italiane per aiutare la causa. Abbiamo incontrato, esperti e testimoni diretti e indiretti, come i discendenti di Yheuda Arazi, e Ada Sereni; e ripercorso i luoghi di questa vicenda, un giallo politico intricato e appassionante, ma anche una toccante storia umana di cui ora vi proponiamo uno stralcio.

Il Comandante Yehuda Arazi, conosciuto con diversi pseudonimi e costretto a celarsi sotto false spoglie, racconta la nipote, guidava l’Istituto per l’emigrazione illegale sorto nel 1938. Il caso internazionale del maggio 1946, il cui epicentro fu proprio il porto della Spezia, vide le imbarcazioni Fede e Fenice preparate a trasportare 1.014 profughi.

La Gran Bretagna, forza occupatrice, regolamentava l’afflusso controllato dei sopravvissuti in Palestina, indicato in 75.000 ebrei da rimpatriare in cinque anni. Ma tale numero si rivelò decisamente insufficiente: l’Europa rifiutava gli ebrei di ritorno dai campi di sterminio, già vittime di un forte senso di straniamento, e ciò aumentò il desiderio della comunità internazionale di ritornare verso la propria terra promessa. Arazi radunò così il flusso migratorio verso i porti italiani, in particolare in quello spezzino, presso il quale la comunità ebraica, ferma sulle banchine per settimane, ricevette, dopo un primo sospettoso approccio, forte solidarietà dagli spezzini.

Il governo britannico continuava a fermare la missione clandestina di Arazi, e le imbarcazioni non potevano partire. Gli spezzini, intanto, continuavano a portare cibo e conforto alla gente ammassata sulla banchina, piena di speranza e al contempo esasperata.
Fu proprio il sostegno della gente locale, la resistenza dei profughi marcata con un lungo sciopero della fame, l’attenzione dei media internazionali e la visita di Harold Lasky, presidente dell’esecutivo del Partito Laburista britannico, che portarono in ultimo le autorità londinesi a decidere di far salpare le due imbarcazioni dal Molo Pirelli, a Pagliari, alle ore 10 dell’8 maggio 1946.
In particolare fu con Harold Lasky, che sollevò la necessità di non affamare uomini, donne e bambini che già avevano patito sofferenze indicibili, che Arazi intavolò un’appassionata trattativa per raggiungere l’obiettivo.

La prima nave di profughi, il Dallin (già Sirius) partì da Monopoli il 21 agosto 1945 con soli 35 immigrati a bordo.


La questione dell’immigrazione ebraica scoppiò come caso internazionale nel maggio 1946: l’epicentro della crisi divenne il porto della Spezia dove erano in allestimento due imbarcazione, la Fede di Savona e il motoveliero Fenice, pronte a trasbordare 1.014 profughi. Come in parte abbiamo già visto, oltre a Yehuda Arazi, detto dottor Paz, l’operazione La Spezia fu preparata da Ada Sereni e Raffaele Cantoni, responsabile della comunità ebraica italiana.

Così nella notte tra il 7 e l’8 maggio 1947 la nave Trade Winds/Tikva, allestita in Portogallo, imbarcò 1.414 profughi a Porto Venere. Nelle stesse ore era giunta nelle acque Golfo della Spezia, proveniente da Marsiglia, la nave President Warfield, un goffo e pesante battello. La nave venne ristrutturata nel cantiere dell’Olivo a Porto Venere per la più grande impresa biblica dell’emigrazione ebraica: trasportare 4.515 profughi stivati su quattro piani di cuccette dall’altra parte del Mediterraneo.

Ma soprattutto quell’operazione godette dell’aiuto di tutta la città della Spezia, già stremata dalla guerra e distrutta dai bombardamenti. Proprio il sostegno della gente, la resistenza dei profughi, l’intervento dei giornalisti di tutto il mondo e la visita a bordo di Harold Lasky, presidente dell’esecutivo del Partito laburista britannico, costrinsero le autorità londinesi – le cui navi bloccavano l’uscita dal porto della Spezia - a togliere il blocco alle due imbarcazioni che salparono dal Molo Pirelli a Pagliari alle ore 10 dell’8 maggio 1946.

 


LA NAVE EXODUS

A narrarci le peripezie dei profughi dello sterminio ebreo ci ha pensato nel 1958 Leon Uris con il celebre romanzo EXODUS, tema ripreso nel libro Il comandante dell’Exodus di Yoram Kaniuk, incentrato sulla figura di Yossi Harel, classe 1919, il marittimo che cercò di portare a Haifa ottomila occhi che avevano visto l’inconcepibile… tanti bambini e orfani, volti dal sorriso indecifrabile.

A EXODUS fu dedicato anche un bellissimo film del 1960 di Otto Preminger interpretato da Paul Newman, Peter Lawford e Eva Marie Saint.

Paul Newman nel film di Otto Preminger "Exodus" del 1960

 

La Exodus mosse da Porto Venere ai primi di luglio del ’47, sostò a Port-de-Bouc….

Purtroppo in quel celebre film s’ignora totalmente il vergognoso cambiamento di rotta della nave EXODUS dopo la sosta nel porto francese Port-de-Bouc, nel Golfo del Leone, in cui i profughi rifiutarono lo sbarco e gli inglesi li riportarono in Germania ad Amburgo; li fecero sbarcare con la forza e l’inviarono nel campo di Poppendorf, un ex lager trasformato in campo di prigionia per gli ebrei!

Il nome Exodus da allora significò il desiderio di giustizia per l’immigrazione ebraica. Ma solo con la fine del mandato britannico i profughi sarebbero potuti tornare in Palestina.

L’imbarcazione divenne un simbolo, prese il nome di Exodus, raggiunse le coste della Palestina, venne attaccata dagli Inglesi e avviò la nascita dello stato di Israele con tutte le conseguenze che sappiamo.


I passeggeri sulla nave nell'attesa della partenza

 

La Fede, la Fenice e la Exodus si mossero tutte dal Golfo di Spezia, una dicitura che non compare nelle carte geografiche israeliana. La Spezia in Israele è infatti indicata col nome di:

«Schàar Zion», Porta di Sion.

Nel nome di Exodus la città di Spezia porta nel Mediterraneo l’idea della pace, della convivenza per il dialogo tra i popoli, e opera tramite il Comitato Euro Mediterraneo Cultura dei Mari, presieduto dal Sindaco della Spezia, Ogni anno La Spezia ospita in Premio Exodus dedicato all’interculturalità.

La nave EXODUS impiegata nelle scene del film era ben diversa da quella reale rappresentata qui sotto.

La nave dei superstiti della Shoah che sfidò gli inglesi

Il nome della nave lo conoscono tutti, grazie al kolossal hollywoodiano, tratto dal romanzo di Leon Uris, diretto nel 1960 da Otto Preminger, con Paul Newman e Eve-Marie Saint: Exodus.

Il film, come il romanzo non si riferiva solo alla vicenda reale della nave piena di profughi ebrei abbordata nel 1947 dalla marina inglese, ma all’intera nascita dello Stato d’Israele. Pur se molto romanzata, la storia della nave piena di sopravvissuti dei campi di sterminio e diretta in Palestina si basava comunque su un episodio reale, che destò immenso scalpore ovunque nel ‘47 ed ebbe certamente un peso nella decisione di far nascere Israele.

Milioni di ebrei scampati alla Shoah vivevano nei campi profughi allestiti in Germania e Austria. L’Inghilterra, che manteneva dal 1919 il Mandato sulla Palestina, aveva limitato il numero di profughi ebrei accettabile a 75mila in cinque anni. La maggior parte degli ebrei che dai campi profughi arrivavano in Palestina dovevano quindi passare per i canali dell’immigrazione clandestina. Più precisamente dovevano passare per Shàar Zion, ‘la porta di Sion’ che era e tuttora è chiamata La Spezia. Le navi clandestine partivano da qui. O almeno ci provavano. Nel maggio 1946 due imbarcazioni stracariche di profughi, la  Fede di Savona e il motoveliero Fenice furono bloccate nel porto dalle navi inglesi. I 1014 passeggeri stipati si trovarono in condizioni terribili mentre il braccio di ferro proseguiva. A sbloccare la situazione fu soprattutto la solidarietà dell’intera popolazione, seguita dall’arrivo di nugoli di giornalisti da tutto il mondo e infine del presidente dell’Esecutivo dei Laburisti Harold Lasky, che si recò di persona a portare la solidarietà del partito ai profughi. Gli inglesi alla fine cedettero e le due navi salparono l’8 maggio del 1946.

Esattamente un anno dopo salpò da Portovenere un’altra nave, la Trade Winds, ribattezzata Tikva, con 1414 profughi a bordo. Poco prima nel Golfo un’altra nave, destinata a una sorte molto più drammatica e ancora più clamorosa di quella delle navi bloccate l’anno precedente

La President Warfield era una grossa nave costruita nel 1927 nel Delaware. Per anni aveva scorrazzato turisti su e giù per il fiume Potomac, poi, nel 1942 era passata all’esercito, che la aveva usata per lo sbarco in Normandia, il 6 giugno del 1944. Due anni dopo fu comprata dall’Haganah, l’organizzazione ebraica che in quel momento si occupava di trasferire illegalmente ebrei, molti dei quali sopravvissuti ai lager, in Palestina.

Anche la President Warfield, dopo essere stata fornita di mezzi adeguati a respingere un eventuale arrembaggio inglese, inclusi tubi in grado di spargere vapore e olio bollente, partì da Baltimora diretta a Portovenere il 25 febbraio del 1947. Nel frattempo era stata ribattezzata EXODUS 1947.

SEGUE UN APPROFONDIMENTO

ECCO LA VERA STORIA DELLA NAVE EXODUS:

Nei cantieri Olivo di Portovenere l’Exodus subì un refitting in modo da poter ospitare un numero enorme di profughi, quasi 5 mila, molti più di quanti non avessero viaggiato con i carichi precedenti, per lo più partiti a loro volta da Portovenere. Dal porto ligure la nave si diresse verso Sète, sulla costa meridionale della Francia, dove il 10 luglio 1947, 170 camion trasportarono 4500 profughi ebrei, nella grande maggioranza sopravvissuti ai campi di concentramento, tra cui 950 bambini. Nella notte tra il 10 e l’11 luglio la nave, con bandiera dell’Honduras, lasciò la costa francese, ufficialmente diretta in Colombia, ma la mèta era in realtà il porto di Haifa.

E’ improbabile che l’Haganah sperasse davvero di sfuggire al controllo degli inglesi con una nave di quelle dimensioni e con un carico così folto. Molto più probabilmente l’intenzione era sin dall’inizio quella di creare un caso clamoroso. La marina inglese, in effetti, seguì con un cacciatorpediniere e alcune navi da guerra l’Exodus sin dall’uscita del porto di Sète. Le navi britanniche affiancarono quella dei profughi fino al limite delle acque internazionali, mentre di fronte al porto di Haifa veniva schierata una vera flotta: 45 navi da guerra. Il 18 luglio, arrivati a 40 km dalla costa, le navi inglesi speronarono l’Exodus poi, dopo aver sparato una quantità esorbitante di lacrimogeni, la abbordarono. Negli scontri con i passeggeri ci furono tre morti e decine di feriti.

L’Exodus fu scortata sino ad Haifa. Di qui i profughi furono imbarcati su tre navi che dovevano riportarli in Francia, a Port-de-Bouc, 40 km da Marsiglia. Ci arrivarono il 2 agosto, ma i profughi rifiutarono di scendere dalle navi. La Francia scelse di non intervenire per sbarcarli con la forza.

Lo stallo si prolungò per tre settimane, con le tre navi ferme di fronte al porto francese. Il Comitato speciale dell’Onu per la Palestina si riunì d’urgenza. L’attenzione di tutto il mondo concentrata sulle migliaia di sopravvissuti che rifiutavano di lasciare le navi. Il danno d’immagine per l’Inghilterra fu immenso anche perché l’odissea dei profughi dellExodus ricordava sin troppo da vicino quel che era successo una decina d’anni prima, quando il mondo intero aveva chiuso le frontiere agli ebrei che cercavano di lasciare un’Europa già minacciata dall’ombra nazista.

La sola alternativa, per il Regno Unito, era deviare la nave verso la parte della Germania occupata dall’esercito inglese ma era comprensibilmente una scelta che il governo di sua maestà esitava a fare. Riportare i sopravvissuti dei lager in quella stessa Germania che ce li aveva rinchiusi, ridotti pelle e ossa dal lungo assedio prima sulla Exodus e poi sulle navi che li avevano riportati in Europa significava rendere ancora più micidiale il colpo inflitto all’immagine dell’Inghilterra.

Alla fine tuttavia gli inglesi si rassegnarono. Le navi furono indirizzate nel porto di Amburgo, i passeggeri furono fatti scendere con la forza e smistati in due campi di internamento. Moltissimi scapparono di nuovo. Alcuni raggiunsero la Palestina. Molti però furono catturati di nuovo e rinchiusi nel campo di Famagosta, a Cipro, fino al voto dell’Onu che decretò l’esistenza dello Stato d’Israele.

Il viaggio dell’Exodus è rimasto un capitolo essenziale nella storia della nascita di Israele. Ma quella nave abbordata, sballottata da una costa all’altra, da un porto all’altro, carica di bambini, donne e uomini che venivano dalla più mostruosa persecuzione della storia, ma a cui lo stesso non veniva permesso di trovare riparo, diventò il simbolo dei profughi di tutto il mondo.

Nella RICERCA dello storico Achille Rastelli dedicata all’esodo degli Ebrei dall’Italia, pubblicato  sul sito di Mare Nostrum, vengono menzionati (in grassetto) due navi: AVVENIRE e CICCILLO che furono costruite nel CANTIERE NAVALE GOTTUZZO di Chiavari. Il nostro socio Comandante Ernani Andreatta, discendente del ramo Gottuzzo, mi ha fatto pervenire la foto del prezioso dipinto del bravo pittore Amedeo Devoto il quale riassume, amplia e storicizza la vita di queste due imbarcazioni che parteciparono al trasferiento, non privo di pericoli, di tanti profughi dai lager nazisti alla Terra Promessa.

Con un semplice clic su Vista-Ingrandisci potete gustare i passaggi cronologici di queste navi divenute, loro malgrado, famose.

 


Carlo GATTI

Rapallo, 8 Novembre 2020


I FILETTI DEL MONTANA

I FILETTI DEL MONTANA

Era un pomeriggio torrido d’estate.
-Giumìn- dissi- qualè stata la volta che te la sei vista più brutta, sul mare?-
-Certamente a Bandar Abbas, nel '79-
-E' stato durante una tempesta?-
Lui rise e negò col capo:
-No. Ero sulla terraferma, coi piedi ben piantati per terra!-

-Eh...?-
-Quando si naviga capitano i momenti brutti, ma te lo aspetti, perché il mare è forte e imprevedibile. E’ molto peggio subire quello che non dipende dal mare!-
-Cioè?-
-I dirigenti che ti mandano allo sbaraglio, per esempio!-

-Beh, non capisco lo stesso!-
-In una guerra civile, per esempio, o una rivoluzione!-
Mi venne in mente solo allora l'episodio, raccontatomi dalla figlia di Giumìn quando eravamo due giovani gazzelli. -Bandar Abbas...un momento... non è quel porto del Golfo Persico dove hanno portato a morire la Michelangelo?- -Certo, proprio lì!-
Tacqui, perché ricordavo l'episodio.
Sua figlia, nonché mia socia di maggioranza da 38 anni, mi aveva già raccontato quell'avventura:
-Lo sai che mio padre è stato con la Michelangelo ad Ambarabas, nel Golfo Persico?-
-Dove?- ribattei, maligno - Ambarabàs, Ciccìs, Coccòs... le tre civette sul comòs?-

“Scemo!” aveva ribattuto “per poco lui ci ha lasciato la pelle, laggiù, sai? Vergogna!”
Che figura da fesso! Dopo tanti anni me ne vergogno ancora.

Era sera d'estate, dunque, e Giumìn si faceva vento con una copia della “Settimana Enigmistica”. Sorseggiavamo una bibita, e dalle finestre entrava un'aria rovente.
-Che caldo...- dissi.

-Mai caldo come là. Nessun posto al mondo è caldo come il Golfo Persico!-
Giumìn era rimasto coinvolto in uno sporco affare.
La rivoluzione di Khomeini.


T/n MICHELANGELO – In partenza da Genova.

Viaggio Inaugurale

-Che bella nave era, la Michelangelo, la più bella di tutte! Peccato che sia stata costruita quando già tutto il mondo andava in America volando! La “Mike”! Sono stato Direttore di Macchina, lì. Quando arrivavamo a New York l'operatore del porto ci salutava così: “Hello, Mike!”-



-... ed è finita a morire a Bandar Abbas-
-Già. Era diventata una perdita economica enorme, una voragine! Pensa, oggi la gente farebbe a pugni per fare una crociera Vintage sulla Mike o sulla Raffaello, ma allora le crociere non erano di moda. Rheza Palhavi, lo Scià di Persia, le aveva pagate in petrodollari sonanti e aveva deciso di farne caserme-scuola per la sua Marina Militare. Le ha ancorate vicino alle basi, di fronte all'isola di Qeshm, nello stretto di Hormoz-
-E tu come sei finito lì?-
-Come ti dicevo, conoscevo la nave perché ero stato Direttore di macchina. La Direzione della Compagnia ha proposto a me e ad altri ufficiali una trasferta per istruire i persiani sulla condotta delle macchine. Naturalmente non hanno calcolato che ci mandavano allo sbaraglio!-

-Nel bel mezzo di una rivoluzione... -
-Hanno detto che non c'era alcun pericolo per noi. Invece gli americani della base lì vicina se l'erano già svignata e tutta la Persia eruttava fuoco e fiamme!-
-Ma, scusa, non ti eri informato prima di partire?-
-Chi si immaginava una situazione come quella, allora?

-Sicché sei andato all’avventura... - dissi con un po’ d’ironia.
Giumìn sembrò adombrarsi
-Certo, siamo partiti senza immaginare che ci cacciavamo in un ginepraio! Ho firmato un contratto di trasferta di tre mesi!-
-Scusa, Giumìn, scherzavo!-
-Appunto! Non c'è da scherzare. Pensa: una pianura di sabbia rossa, sabbia e baracche e poco altro.

La MICHELANGELO E LA RAFFAELLO nella rada di Bandar Abbas (IRAN)



In mezzo a quel nulla una base della Marina persiana, e la magnifica Michelangelo che cominciava a fare la ruggine. E una folla di persone che non ci volevano. Appena scesi a Bandar Abbas il mio amico Galleno, di Chiavari, mi ha detto: “Cosse g'han 'sti chì, Marcheise, da amiàne stortu?”

“Nu u so, Galèn...” ho risposto “a pa: na pignatta c'a bugge!”

La radio parlava di Rivoluzione Islamica-
-Che allora non si sapeva cosa fosse...-
-Già. L'abbiamo capito subito a nostre spese, però!-
Fece una smorfia e disse:
-“Bella Madonna ca-a...” mi ha detto Galleno “l'è mai puscibile che se parte in missile da e Indie u ne vegne propiu a picca: in te braghe a niatri?” Ebbene, andò proprio così!-
Certo, pensai: l'Occidente non aveva realizzato appieno le proporzioni della crisi, o forse aveva fatto finta di nulla. - Cercai di consolare Galleno - disse Giumìn- “Vedrai, quando saremo sistemati a bordo sarà diverso...”. Ci avevano detto che ci saremmo stati accolti dagli ufficiali della Marina persiana, e uno di loro in effetti ci aspettava in coperta, ma capimmo presto che Mustafà, coi suoi baffetti, contava tanto quanto il due di briscola!-
-In che senso, Giumìn?-
-Il nostro ruolo sulla Mike era soltanto di consulenti. Dovevamo in teoria controllare i sistemi della nave e insegnare a mantenerli in attività. In realtà...-
-In realtà vi siete trovati fra l'incudine e il martello...-
-Già. Anche tra gli ufficiali si respirava un'aria sinistra: hai presente la calma prima della tempesta?-
-Io non ho mai navigato, Giumìn, ma spesse volte ho conosciuto la calma prima dei temporali. C'è un'aria particolare, hai ragione!-
-Eh, vabbè...-
Mi fece capire garbatamente che un temporale non è proprio una tempesta...
-Così siamo saliti a parlare con Mustafà-
-L'ufficiale di coperta... -
-Già, il due di briscola. A pensarci oggi, credo fosse solo un poveraccio che cercava di barcamenarsi. Sembrava un don Abbondio coi baffetti, un vaso di coccio tra i vasi di ferro!- -Bella immagine, Giumìn!-
-Grazie. Non mi permetto di giudicarlo, né voglio dire che i suoi colleghi fossero pazzi, ma si sentiva che avevano contro di noi una rabbia atavica. Incomprensibile, soprattutto. Noi non gli avevamo fatto niente, anzi, eravamo lì solo per aiutarli, capisci?-
Credetti di capire il loro smarrimento, e annuii.
Avevo provata una sensazione simile a Sharm El Sheik, nel 2000, mentre leggevo un libro in spiaggia. Sulla copertina campeggiava la figura di un pugnale arabo. Un bagnante del luogo, in vacanza come me, mi aveva rivolto di colpo la parola: “Hey!” mi aveva detto. Gli avevo sorriso e lui... aveva fatto il gesto di estrarre un coltello e colpirmi.
“Un idiota!” avevo pensato, lì per lì, ma l'anno dopo, a settembre, avevo capito il senso del suo gesto.
-Tornando a Mustafà- proseguì Giumìn- ...insomma, pareva che facesse fatica a tenere buoni i suoi. A suo modo era un vero gentleman. Però era un gentleman secondo il costume arabo...-
-Cioè?-
-Diceva sempre di si, va bene, domani, e l'indomani eravamo punto a capo. Gli chiedevo: “Quando arrivano i rifornimenti per noi, Mustafà?” “Tumorru” diceva, e non arrivava un accidente di niente. “Quando arrivano?” chiedevo il giorno dopo “Suun comin, tumorru”-
-E non si arrivava niente!-
-Già, niente di niente. Cercavo di arrivare a un accordo e lui si profondeva in scuse. Spiegava che mancavano i camion, che mancava la gente, che il pesce era scappato via dal Golfo, eccetera. La conclusione era sempre la medesima!-
Ridacchiai:
-Già, l'immagino. “Tumorru”!-
-Certo. Ora, come Direttore di macchina era mio compito approvvigionare la mia gente, ma come avrei potuto, senza rifornimenti? Saremmo morti di fame: io, gli ufficiali e la bassa forza!-
-Mi rendo conto... bloccati lì, dentro a una nave in disarmo, circondati da una folla ostile e numerosa...-
-Per di più anche alcuni tra i miei hanno iniziato a mugugnare. Hai presente i sindacati degli anni '70?-

-Si, me li ricordo-
-Remavano contro, pretendevano, volevano scioperare. Non capivano che bastava incrinare appena il vetro per farci fare tutti a pezzi!-
-Contro il loro stesso interesse?-
-Già, non è incredibile? Facevano assemblea, contro il “Padrone”-
Sorrisi:
-Che eri tu?-
-Che ero io, capisci? Mi ci vedi?-
Giumin è l'uomo più mite che si possa immaginare, sempre pronto a comprendere e a mettere pace. Provai a figurarmelo circondato da cialtroni e fanatici. Si, pensai, doveva essere stata ben dura, per lui!
-Insomma, gli bolliva la “bujacca”, di qua e di là... bolliva la nostra e bolliva la loro. Tutto contribuiva a logorarmi i nervi! La Compagnia continuava ad assicurarci aiuto, protezione, bla bla... consigliava di fidarci degli ufficiali persiani!-
-Cioè di Mustafà!-
-Si, Mustafà!-
Fece una smorfia.
-Cos'hai fatto, allora?-
-E' successo un miracolo! Al culmine delle disgrazie sono arrivati Pasquariello e il pick up della base americana, che non si sa come era rimasto a nostra disposizione, e funzionava...-
-Chi era Pasquariello?-
-Pasquariello Carmine, da Torre del Greco, un genio. Fu la Madonna a suscitarlo, proprio quando non sapevo più dove sbattere la testa. Venne a trovarmi una sera, in cabina. “Comandante Marchese”, disse, “chisti ce vonno fammurì!

Chista è fame...” “E allora che cosa proponi?” ho detto io “Perché non andiamo a comprare al mercato?” ha detto lui, e io ho riposto “come si fa ad andare a comprare al mercato tipo massaie, in un casino come questo?” Eppure, in quei momenti qualcosa scatta. Quando ci hai pensato tanto arrivi a capire che pensare non serve a nulla. C'era naturalmente il pericolo che ci facessero fuori, ma la fame è una molla potente, sai?-
-Il ragionamento non fa una grinza!-
-Avevo il vantaggio dei dollari. Come responsabile degli uomini tenevo la cassa della Compagnia, per pagare i rifornimenti a Mustafà!-
Spalancai gli occhi, incredulo:
-Sei uscito fuori di lì coi dollari addosso?-
-Per forza. Con cosa potevo pagare? Avevo una cintura porta soldi coi soldi. Io, Pasquariello, e il Pick up. Lui comprava e io pagavo-
Sgranai gli occhi:
-Voi due soli?-
-Proprio così. Ma non fu merito mio. Fu l'abilità di Pasquariello a salvarci la vita. Cominciò a concionare coi venditori del mercato, pescatori, ortolani, macellai, pollaioli...-
-Ma come faceva? Parlava l'arabo?-
-Macché, parlava in napoletano! E quelli lo capivano, cioè, in qualche modo si capivano! Litigavano, contrattavano, tiravano sul prezzo e alla fine è avvenuto il miracolo!-
- Cioè?-
-Lo stimarono!-
-Per i dollari?-
-Mah, anche! Credo però che non fosse solo per quello. Gli arabi hanno un talento commerciale, lo sai...-

-Già-
-Hanno riconosciuto il talento del commerciante! Ti ho sempre detto che i napoletani sono un grande popolo, che si mette in moto nei momenti di necessità...-
Giumìn stimava molto le doti partenopee. “Grandi doti e gran difetti”, diceva.
-Dopo tre o quattro giorni abbozzava a capirsi sui prezzi, e dopo dieci rispondeva pure in arabo. Io l’aspettavo chiuso nella Jeep e pregavo che riuscissimo a portare al cuoco abbastanza da mangiare per tutti!-
-E ci siete riusciti!-
-Foscia!... dopo una settimana venivano ad aspettarci fuori dalla nave con le mercanzie. Quanto pesce, e buono! Alla fine arrivava di tutto, pane, uova, carne di montone e d'agnello!-
Sgranai gli occhi.
-Alla fine quasi mi divertivo. “Quasi”, bada! La sera io facevo la lista della spesa dell’indomani, poi me la mettevo nel taschino della giubba e salivo sul ponte a parlare a Mustafà. Gli chiedevo i viveri per l'indomani, e lui
diceva ...-
-“Tumorru”, credo...-
-Già, tumorru, suun, gias coming..., e iniziava la discussione che durava circa mezz'ora. Alla fine mi chiedeva le palanche dei rifornimenti, e ricominciava la discussione. Altra mezz’ora. Lui mi chiedeva di nuovo i soldi, e io...-
Scoppiai a ridere:
-E tu gli rispondevi ... tumorru, suun, jast comin ...-
Annuì ridendo:
-Si. L'indomani andavamo al mercato e tornavamo coi rifornimenti freschi. Messi a posto gli stomaci, tutto si calmò. Gli ufficiali iraniani si massaggiavano la pancia nel sentire il profumo della cucina e ci chiedevano qualche piatto!-
-Ma Mustafà non ci faceva la figura del fesso?-

-Vai a capire! Si instaurò un quieto vivere tipicamente arabo. Mustafà sapeva che io sapevo, e io sapevo che lui sapeva. Discutevamo seriamente ogni sera e ogni mattina, io gli chiedevo i rifornimenti e lui mi chiedeva i soldi!- -Voleva il pizzo?-

-Macché, era miliardario di famiglia! Era una pura questione di forma. Quando usciva faceva sempre in modo che qualcuno dei suoi sentisse che mi chiedeva i soldi. Diventò una specie di canzonetta. I miei lo chiamavano “U Tumorru”. “Cosse u t'ha ditu staseia u Tumorru?”- mi chiedeva Galleno. “Taxi, c'u te sente!” gli rispondevo io “Figurite se u capisce u zeneize?”-
-E tu?-
-Io gli davo la risposta più logica: “Manimàn u ghe l'ha imparou u Pasquarìn!”-
Finalmente Giumin rise davvero:
-Ti sei divertito, in buona fine!-
-Macché! A questo punto ci si sono messi quei “macacchi” che c'erano tra di noi, a farmi tribolare!-
-I sindacalisti?-
-Già. Alcuni erano vere carogne e sobillavano gli altri col loro atteggiamento. Ma io ormai mi ero scafato-
-Cos'hai combinato, Giumìn?-
-All'ennesima assemblea, quando hanno minacciato di andarsene, invece di mettere pace come al solito...-
-...li hai mandati a quel paese!-
-Macché! Li ho invitati a partire... ho che nessuno li avrebbe trattenuti. Così hanno fatto marcia indietro, e si sono messi la lingua in tasca!-
Giumìn, vero gentleman, non avrebbe mai detto dove si erano messi davvero la lingua...
-Il peggiore di tutti, un tuo conterraneo di Sestri, l'ho anche incontrato dal barbiere, pochi mesi fa. Vecchio io, vecchio lui. Pontificava con le mani in tasca, sbruffone come allora. Mi ha riconosciuto e se l'è squagliata. Aveva paura che raccontassi al barbiere la brutta figura che ha fatto! Se ne ricorda ancora!-
Era tutto contento che quel macacco se ne ricordasse ancora!
Il che mi fece piacere, e mi fece sperare con tutto il cuore che non considerasse anche me un macacco per averlo trapiantato a Sestri ponente, paese di ferri arrugginiti, dalla sua amata Pra, terra di basilico
-Galleno gli aggiunse pure un insulto, tanto preciso che non te lo posso ripetere. Comunque finalmente arrivammo al termine del nostro turno. Avevo perso dieci chili, ero magro e smilzo come quando è finita la guerra, nel '45. Quando l'aereo è decollato, ti giuro, ho visto tutti farsi un segno della Croce. Tutti quanti. Anche i comunisti, di nascosto!- -Che avventura!- ho detto.
-Ah!- ha aggiunto poi- Non ti ho ancora raccontato il meglio! I “filetti del Montana”!-
-Filetti del Montana? In mezzo al deserto?-
-La base americana aveva dei rifornimenti che i marines non avevano fatto in tempo ad evacuare, e le celle frigorifere si stavano scaricando. Una sera è salito a parlarmi Pasquariello: “Comandante Marchese” ha detto “alla base ci sta un mucchio di carne che tra poco va a male. Potremmo portarla qui...” “Qui? E’ imposs...?” Mi sono fermato subito, però, sia perché ci aveva salvato la vita, sia perché da quella bocca non potevano uscire che lampi di genio. “Spiegati!” gli ho detto “Comandante, gli arabi non mangiano quella carne perché è macellata nel sangue!” “E quindi, a noi cosa c’importa... Pasquariello?” gli ho detto. “E’ di prima qualità” ha detto lui “un bendidio, comandante!” E io: “Quanta ce n'è?” “Una, due...” “Due quintali? “No, ehm...” ha detto “tonnellate... forse quattro!” “Quattro tonn...!” “Ehm, comandante, che vi devo dire? Quando la carne è in padella non si capisce più com'è stata macellata” “E allora?”ho detto “Ecco, ci sta a Hormoz 'nu paesano che tiene il ristorante e l'albergo. Se si porta via i filetti tutti assieme dà nell'occhio, ma se li viene a prendere qui poco a poco... comandà, se le celle si spengono tutto quel bendidio va a male. Le nostre funzionano ancora bene...” -

-Ah, ho capito! S’era messo d’accordo con paesano!-
-Sai cosa ho fatto? Mi sono tolto il berretto con la visiera e mi sono grattato la testa!-
-Ti prudeva la testa? -
-No. Non volevo fargli capire che mi levavo tanto di cappello!-
Ho annuito, d’accordo con lui.
-Comunque ci sbafammo un mucchio di carne del Montana e io recuperai una parte del peso che avevo perso. Ne portammo anche a quelli della Raffaello, che stavano peggio di noi. In più quel bravo ragazzo di Pasquariello ci portò, per riconoscenza del suo paesano di Hormoz, un po' di “formaggio!”-
Stetti a lungo con gli occhi spalancati, poi compresi: -Formaggio? Ah, ho capito!-
-“Formaggio”, si. Così la storia ebbe un lieto fine, ti pare?- -Beh, mi pare proprio di si- -Soprattutto tornammo a casa salvi!-
-Aveste dei fastidi durante il viaggio di ritorno? Se non erro i diplomatici dell'ambasciata americana sono stati sequestrati in quel periodo...-
-No, per fortuna non è successo niente. Solo durante il trasferimento all’aeroporto abbiamo assistito a una cosa orribile! La lapidazione di una donna! Sentivamo le urla di terrore della donna e il ringhio della folla inferocita. Sembravano gli ebrei che gridano “Barabba”! Quando penso alla Passione di Gesù risento sempre l'urlo di quella folla, e le implorazioni della sventurata...-
Giumìn abbassò la testa sul collo e ci pensò su, poi la rialzò di scatto e i suoi occhi presero un'espressione intensa:
-La folla è bestiale, caro mio... sembrava di stare in un girone dell'inferno, coi diavoli che ballano la giga. Poi il nostro autobus è stato preso a sassate, e io mi sono sentito un verme-
-Un verme? E perché?-
-Perché pregavo che non finissimo come quella donna...- -Già!-
-Per fortuna però siamo ripartiti, e quella banda di folli è sparita alla nostra vista. Fin quando l'apparecchio non ha staccato le ruote da terra, però, te lo giuro, nel mio didietro non ci sarebbe passato neanche un filo di ragnatela!- Sospirò, e io sospirai con lui.
-Beviamoci sopra, Giumìn, è passata!-
La sera d'estate era scesa, magica, e si era levato un vento fresco.

Fine.

CARLO LUCARDI

Rapallo, 9 Ducembre 2019