CITY OF ADELAIDE Il relitto trasformato in una foresta galleggiante
CITY OF ADELAIDE
Il relitto trasformato in una foresta galleggiante
CARRICK fu un clipper a motore ausiliario costruito nel 1864 dai cantieri William Pile & Hay di Sunderland con il nome di City of Adelaide per la DeVitt & Co. di Londra per i viaggi in Australia di merci e passeggeri.
Fu lussuosamente attrezzato per il massimo comfort dei passeggeri di prima classe. La seconda e la terza venivano attrezzate quando necessario.
Stazza 860 tonnellate. Lunghezza metri 53,85.
Venne varato il 7 maggio 1864.
Dal 1864 al 1893 è stato utilizzato per trasporto di merci varie e di emigranti verso l'Australia ed al ritorno con lana australiana per l'Inghilterra.
Era una delle poche navi che nella seconda metà dell'800 facevano regolari viaggi su quella rotta e da sola diede grande impulso allo sviluppo australiano: si calcola che il 60% della popolazione del Sud Australia possa rintracciarne l'arrivo degli antenati nei manifesti di bordo di questo bastimento.
I viaggi vennero effettuati sempre con le vele; molto raramente e per pochi tratti fu utilizzato il motore ausiliario successivamente montato.
Dal 1865 al 1887 è stato riadattato internamente per adibirlo al trasporto di emigranti verso il Nord America ed al ritorno carico di legname per l'Inghilterra.
Nel 1887 fu rivenduto ai Dixon's di Londra, riarmato a brigantino ed utilizzato per il solo trasporto merci.
Nel 1893 cessò l'utilizzo delle vele. In quell'anno è stato disalberato ed utilizzato per diversi servizi: per trent'anni, sino al 1923, dalla Southampton Corporation come lazzaretto di isolamento per i malati di colera.
Nel 1924 venne acquistato dall'Ammiragliato Britannico che lo ricostruì ribattezzandolo Carrick, lo portò a Glasgow e e per i successivi ventitrè anni lo utilizzò come Comando della Divisione Clyde della Marina, per la Riserva Navale e per il servizio alloggiamenti.
Attualmente si trova ad Irvine nel North Ayrshire in Scozia, sede di un museo.
ISOLA MAGNETICA QUEENSLAND – AUSTRALIA
Magnetic Island si trova all'interno del Parco Marino della Grande Barriera Corallina, dichiarata Patrimonio dell'Umanità, ma è caratterizzata da un paesaggio differente dalle tipiche foreste pluviali tropicali che coprono le altre isole della zona. Intorno a 275 milioni di anni fa, le forze della natura crearono uno straordinario paesaggio fatto di terreni rocciosi e massi giganteschi. Il livello delle precipitazioni registrato a Magnetic Island è inferiore rispetto alle zone umide tropicali a nord e alle Isole Whitsunday a Sud. Il suo clima è tipico dei tropici asciutti e il territorio è coperto da foreste di eucalipti.
I proprietari storici di Magnetic Island, gli aborigeni Wulgurukaba, abitano sull'isola da migliaia di anni. Nella loro lingua, l'isola si chiama "Yunbenun". I cumuli di conchiglie, gli utensili in pietra e i siti d'arte rupestre sono testimonianze fisiche del loro forte legame con l'isola. Magnetic Island oppure Headland, venne così denominata da James Cook il 7 giugno 1770, mentre viaggiava lungo la costa orientale dell'Australia, mentre superava l'isola, sentiva un effetto magnetico sulla bussola della sua nave.
Il Magnetic Island National Park copre più di metà della superficie di Magnetic Island e offre oltre 24 chilometri di sentieri percorribili a piedi. L'itinerario Forts Walk, percorribile in un'ora e mezza di cammino, consente di ammirare forti della Seconda guerra mondiale, incredibili panorami e, talvolta, di incontrare un koala. Mount Cook sorge al centro dell'isola ed è il punto più alto. Durante i mesi estivi (da dicembre a febbraio) le tartarughe marine nidificano sulle spiagge.
ALBUM FOTOGRAFICO
A cura di PINO SORIO
sta galleggiante La denominazione di Magnetic Island (conosciuta localmente come "Maggie") si trova al largo della costa di Townsville nel nord del Queensland.
La CITY of ADELAIDE fu una nave a vapore varata nel 1864 a Glasgow-Scozia.
In seguito fu convertita in “barque” per il trasporto di merci. Nel 1912 prese fuoco. E nel 1916, quel che rimase dello scafo andò ad incagliare nella Baia di Cockle (Isola Magnetica-Australia).
Durante la Seconda guerra mondiale quattro persone furono uccise durante le esercitazioni degli aerei della RAAF che avevano individuato il relitto e se ne servivano come bersaglio.
GATTI CARLO
Rapallo, 4 Ottobre 2019
GINOSTRA, Terra di Dio. Un viaggio senza fiato tra acqua e fuoco
GINOSTRA
TERRA DI DIO
Un viaggio senza fiato tra acqua e fuoco
di Martina Bernareggi
6.3.2013
Il semplice fatto di approdare al porticciolo di un villaggio accessibile esclusivamente dal mare, isolato dal resto del mondo, è motivo di riflessione: dal momento in cui si mette piede sul primo scoglio di Ginostra ci si sente in totale balia delle forze della natura. Il vulcano, lo Stromboli, respira incessantemente sotto le pareti scoscese: è lui a dominare l’isola mentre il mare tutto attorno detta le sue leggi. L’atteggiamento umile e contemplativo è l’unico consentito all’essere umano.
L’assoluta pace, l’assenza di distrazioni, di inquinamento acustico e luminoso creano quindi le condizioni ideali per un soggiorno full-immersion (in tutti i sensi) di apnea, anche se un prezzo da pagare esiste. Infatti, il primo impatto per un apneista che si trova sull’isola più a nord delle Eolie per cercare anfratti sommersi e profondità, è già di per sé abbastanza estremo: cinque ripide rampe da percorrere in salita con zavorra e attrezzatura sono solo l’assaggio delle successive scarpinate necessarie a raggiungere i pochi, impervi accessi al mare.
Martina Bernareggi
Ma se è vero che la conquista ha un sapore del tutto differente quando accompagnata dal sudore della fronte, allora gli stupendi fondali di Ginostra, l'acqua cristallina, i paesaggi sommersi e le specie marine che li popolano risulteranno quanto di più bello si possa desiderare e l’atmosfera quasi mistica in cui si è immersi renderà il tutto un’esperienza indimenticabile.
Conformazione geologica e fondali
Di origine vulcanica come le altre isole dell’arcipelago delle Eolie, Stromboli è formata da roccia magmatica che sortisce due effetti principali sull’ambiente (e di conseguenza sulle acque circostanti): oscurità e calore.
I fondali attorno all’isola sono costituiti dalla parte sommersa del vulcano, conformazioni rocciose ricche di anfratti e sifoni generati da un’erosione massiccia. La spiegazione scientifica di questi particolari geositi è da ricercare nelle caratteristiche della roccia magmatica. Senza scendere troppo nel particolare, il magma in ambiente subacqueo solidifica rapidamente sia per il brusco passaggio da temperature molto elevate alla temperatura ambiente, sia per un abbassamento di pressione, originando in questo modo rocce dalla grana molto fine, particolarmente soggette all’azione erosiva degli agenti esterni.
Tutto ciò si traduce per l’apneista in uno spettacolo sottomarino suggestivo e particolarmente adatto a stimolare la curiosità e la voglia di scoperta; soprattutto quando, intenti ad esplorare un anfratto o distratti da un incontro inatteso, ci si rende conto che un solo respiro può durare più a lungo di quanto si sia mai creduto.
L’acqua cristallina lascia trasparire gli scuri fondali fino ad una profondità di circa 20-25 metri e quando la luce del sole filtra tra le onde i riflessi variano dal verde smeraldo al blu intenso. A differenza del paese di Stromboli, presso cui è possibile trovare piccole spiagge nere formate da fine pietrisco igneo, a Ginostra l’accesso al mare è consentito esclusivamente attraverso gli scogli in tre punti.
Accessi al mare
Il porto. E’ forse l’accesso meno pittoresco, ma sicuramente il più comodo e immediato. E’ possibile raggiungere l’acqua scendendo degli scalini oppure calandosi con cautela dai grossi massi posti attorno al molo, dove alcune piscine naturali fanno da anticamera al mare aperto. Già a pochi metri di profondità è possibile incontrare diverse specie marine, spesso nascoste e mimetizzate tra le rocce. Con un po' di attenzione non sarà difficile distinguere piccoli scorfani, polpi, cernie brune e alcuni esemplari di stummo (così è chiamato nel dialetto locale un pesce simile alla tracina, ma senza spine) tranquillamente adagiati su una pietra o rintanati in qualche fessura.
Lazzaro. Dista circa 15-20 minuti di cammino dalla parte centrale di Ginostra. Il sentiero, che si snoda al sotto delle bianche case in stile eoliano fino ad un minuscolo porticciolo, può risultare decisamente ostico in alcuni tratti. Si consiglia dunque l’utilizzo di scarponcini da trekking o comunque calzature comode. Si accede al mare tramite una darsena che scivola morbidamente tra le onde.
In questa zona, su un fondale massimo di circa diciotto metri, è facile divertirsi anche in pochi metri d'acqua grazie a camini, tunnel ed un ampio arco sommerso che rendono l'esplorazione subacquea accattivante e particolarmente indicata per chiunque cerchi un'esperienza intensa in profondità poco elevate. Potrebbe infatti non esservi mai accaduto di entrare in un tunnel dove per qualche secondo si vede solo un gran buio. O meglio, potrebbe esservi accaduto in qualche incubo: il diametro di quel tunnel inizia a rimpicciolirsi e tutto intorno c'è solamente acqua. La consapevolezza che dall'altra parte esiste una via d'uscita e che la distanza da percorrere è alla propria portata, sono elementi sicuramente fondamentali per mettere l'apneista nella condizione di affrontare la situazione. Ma il resto dipende da una convinzione che deve nascere nella sua mente, la convinzione che quell'ambiente in realtà non sia ostile, ma intimo ed accogliente, ed il fatto di potervi accedere, di potersi insinuare nelle viscere della roccia, rappresenti fondamentalmente un privilegio.
La chiesa. Una sentiero che parte dal sagrato porta ai grossi scogli sottostanti la chiesa. Il fondale è formato anche in questo punto da massi di roccia magmatica che lasciano spazio di tanto in tanto ad ampie chiazze di poseidonia. Durante l'esplorazione ci si accorge dei resti di un antico vascello a vapore, grosse caldaie e lamiere sono disseminate su un'ampia area. Salpe e saraghi di piccola taglia sono un incontro abbastanza facile attorno alla profondità di dieci metri, mentre un occhio attento non si farà sfuggire le piccole murene che, sporgendo di poco il capo dalle rocce, si guardano attorno circospette, curiose quanto diffidenti, pronte a ritirarsi al minimo segnale di pericolo. Gusci rotti e conchiglie svuotate indicano la presenza qua e là di tane i cui inquilini più riservati si guardano bene dal lasciarsi osservare.
In barca
L’utilizzo di una piccola imbarcazione consente di raggiungere alcune tra le zone migliori per le immersioni, altrimenti precluse all'esplorazione dell'apneista che decide di entrare in acqua munito delle sole pinne. Girando in senso orario attorno all’isola in pochi minuti si raggiunge la sciara del fuoco, uno scenario mozzafiato di cui però si può godere solo mantenendo le debite distanze. Esiste, infatti, un limite segnalato da una boa oltre il quale è vietato procedere a causa del pericolo rappresentato dalla frequente caduta dei massi scagliati in aria dalla bocca del vulcano. Sostando con l’imbarcazione di fronte alla sciara è possibile ascoltare i boati dello Stromboli che rompono il silenzio mentre una colonna di fumo si innalza al di sopra del cratere.
Proseguendo verso il paese di Stromboli si raggiunge, ad un miglio dalla costa, l'isolotto (sarebbe meglio definirlo un grosso scoglio) chiamato Strombolicchio. La leggenda vuole identificare questo scoglio con il tappo scagliato in mare dal vulcano durante un'eruzione. In realtà si tratta di una formazione di origine vulcanica più antica dell'isola di Stromboli, che il tempo ha ridotto ad un isolotto di roccia frastagliata con pareti a strapiombo sul mare. La parte sommersa scende in verticale nell’acqua con leggere variazioni di pendenza a seconda del versante, formando delle pareti che si perdono nel blu. Proprio accanto a queste pareti è possibile effettuare stupende immersioni e sfidare i propri limiti sfruttando il riferimento visivo degli scalini naturali che scandiscono la profondità mentre si è impegnati nella discesa. Attorno a questo grosso scoglio, nell'acqua limpidissima, si incontrano pesci di media e grossa taglia e non è inusuale, tra castagnole e salpe, imbattersi in qualche banco di barracuda.
L'assoluta limpidezza delle acque che circondano Strombolicchio è sicuramente un grosso sprone per l'apneista alla ricerca della profondità. La discesa risulta piacevole e naturale e il riferimento della parete, con tutti gli organismi marini che la popolano, un valido aiuto per l'orientamento (da non dimenticare che le correnti attorno all’isolotto sono piuttosto intense)
La notte
Se durante il giorno Ginostra stupisce per i colori del mare e i paesaggi surreali, addirittura lunari in alcuni casi, è durante la notte che il villaggio si accende, sprigionando tutto il suo fascino. La volta celeste è punteggiata da una miriade di stelle e, luna permettendo, è possibile vedere la via lattea spiccare come un chiaro sentiero che attraversa il cielo. Accanto al luccichio del manto stellato, Ginostra regala anche un altro genere di spettacolo "scintillante": sono i lapilli rossi lanciati in aria dai crateri attivi del vulcano. Se le acque nere non vi mettono a disagio, il suggerimento è cimentarsi in un'immersione in notturna, sia per provare l'ebbrezza di un tuffo nelle tenebre guidati solo da un fascio di luce che di tanto in tanto svela qualche forma di vita, sia per osservare, sdraiati supini sul pelo dell'acqua, uno spettacolo inebriante.
Come arrivare
Il villaggio di Ginostra è raggiungibile solo via mare:
Siremar (navi, aliscafi)
Ustica Lines (aliscafi)
Snav (aliscafi)
Alilauro (aliscafi)
Partenze da Napoli, Milazzo, Reggio Calabria, Cefalù e Palermo
Dove alloggiare
B&B Luna Rossa
Via Piano, 3
98050 GINOSTRA DI LIPARI (Me)
Tel.: 090-9880049 - 090-9812305
www.ginostra-stromboli.it
Dove mangiare:
Ristorante Il Puntazzo
98050 Ginostra di Stromboli (ME)
tel. 090-9812464
e-mail: puntazzo@tiscali.it
ISOLA DELLE ROSE-UNA STORIA TUTTA ITALIANA
ISOLA DELLE ROSE
MICRO-NAZIONE
UNA STORIA TUTTA ITALIANA…
la Piattaforma ISOLA DELLE ROSE che mise in allarme lo Stato Italiano
L'isola delle Rose, nome ufficiale Repubblica Esperantista dell'Isola delle Rose, fu il nome dato a una piattaforma artificiale di 400 m² che sorgeva nel mare Adriatico a 11,612 km al largo della costa tra Rimini e Pesaro e 500 mt al di fuori delle Acque Territoriali italiane; costruita dall’ingegnere bolognese Giorgio Rosa, il 1º maggio 1968 autoproclamò lo status di Stato indipendente, ma di fatto fu una MICRO-NAZIONE.
L'Isola delle Rose, pur dandosi una lingua ufficiale (ESPERANTO), un governo, una moneta, e un’emissione postale non fu mai formalmente riconosciuta da alcun Paese del mondo come nazione indipendente. Occupata dalle Forze di Polizia italiane il 26 giugno 1968 e sottoposta a Blocco Navale, l'Isola delle Rose fu demolita nel febbraio 1969. L'episodio venne lentamente dimenticato, considerato per decenni solo come un tentativo di “urbanizzazione del mare” per ottenere vantaggi di natura commerciale.
Solo a partire dal primo decennio del 2000 esso è stato oggetto di ricerche e riscoperte documentarie imperniate invece sull'aspetto utopico della sua genesi.
Area: 400 m²
Anno di fondazione: 24 giugno 1968
Dichiarazione d'indipendenza: 1º maggio 1968
Inno: Steuermann! Laß die Wacht! (Timoniere! Lasciali guardare!) - dall’Olandese Volante di R. Wagner
Territori rivendicati: piattaforma artificiale abbandonata a 11,6 km al largo della Costa Italiana.
Sebbene abbia avuto vita breve, l’Isola delle Rose, lo Stato indipendente al largo di Rimini potrebbe aver segnato una tappa importante per la storia dell’umanità, e il suo valore è stato riscoperto solo di recente. A raccontare la sua incredibile storia è un film uscito di recente, che svela tutti i segreti della micro-nazione che durò solamente 55 giorni.
L’AMBIENTE
Il ritrovamento del campo-gas a Ravenna confermò l'ipotesi che non pochi giacimenti si potessero trovare nel mar Adriatico e, nella prima metà degli anni '50, l'AGIP effettuò la prima campagna di rilievi sismici marini in Italia.
Nella seconda meta degli anni '50 iniziò anche la fase di ricerca diretta con perforazioni di pozzi nel Mar Adriatico. Il primo ritrovamento fu il campo di Ravenna-Mare a cui rapidamente seguirono quelli di Cervia Mare, Porto Corsini nell’offshore romagnolo-emiliano e Santo Stefano Mare nel medio adriatico. A questi si aggiungeranno i campi di Agostino, Porto Garibaldi e di Barbara nel mare Adriatico settentrionale nel periodo 1967-71. Parallelamente all’espandersi dell’attività di ricerca offshore, venne sviluppata la capacità produttiva della Saipem, sempre del gruppo ENI, con la costruzione di impianti di perforazione per l’attività esplorativa offshore.
L’ammucchiata di Piattaforme in Adriatico…
La piattaforma CERVIA-A (foto sopra)
La piattaforma CERVIA-K (foto sotto)
Che dire? L’idea di costruire una piattaforma offshore per attività ludiche, fuori dalle acque territoriali italiane, non poteva sicuramente venire in mente ad un giovane ingegnere del golfo Tigullio … dove l’orizzonte è ancora oggi la proiezione di un cielo pulito, ben lontano da altre realtà italiane ormai contaminate da impianti industriali di qualsiasi tipo.
Si è portati quindi a pensare che l’avventura che affascinò l’Ingegnere Giorgio Rosa, non fosse affatto in contraddizione con il mondo che aveva davanti alla sua costa già da qualche anno.
Ma c’è dell’altro: per noi di una certa età, è sufficiente un piccolo sforzo di memoria per ricordare quel 1968 attraversato da forti tensioni e contraddizioni: da una parte le lotte politiche in piazza e le rivolte degli operai nelle fabbriche; dall’altra la voglia di ripartire, la liberalizzazione dei costumi sessuali, lo spirito imprenditoriale e l’idea che per quella generazione di giovani tutto fosse possibile, non solo, esisteva pure il movimento hippie italiano portatore d’idee pacifiste. La lista è lunga: la lotta al consumismo, la love generation importata dagli USA ed una plateale assenza di regole.
“In questo clima di fermento, Rimini comincia ad affermarsi in Italia come località turistica ma soprattutto come luogo di possibilità, di divertimento e di un certo liberismo”.
Con questa premessa che ci racconta dell’aria che la gioventù romagnola respirava a pieni polmoni, Giorgio Rosa sceglie Rimini per mettere in piedi il suo progetto. Si tratta della costruzione di una piattaforma al largo della località balneare che, in un primo momento, doveva essere un’attrazione turistica con bar, uffici e camere d’hotel.
Ma questo non era che l’inizio, presto quel cumulo di piloni e ferro diventeranno un’utopia. L’utopia della libertà, di farsi e costruirsi uno STATO proprio dove poter vivere con le proprie leggi e le proprie regole.
CHI ERA GIORGIO ROSA?
Il 19 Dicembre 1950 GIORGIO ROSA 25 anni, si laurea in ingegneria all’Università di Bologna.
Dopo aver lavorato un anno alla Ducati, apre il suo studio e comincia a collaborare con il Tribunale di Bologna come Perito oltre a svolgere la sua normale attività di ingegnere presso i cantieri della città. Chi lo ha conosciuto in questa fase della sua carriera – soprattutto chi lo ha incontrato in Tribunale – ne parla come di un professionista scrupoloso, sull’orlo del maniacale… sicuramente un osso duro!
Intorno alla metà degli anni ‘50 comincia a insegnare presso un Istituto Tecnico, nel frattempo (1960) si sposa con Gabriella Clerici con la quale condivide anche il progetto dell’Isola delle Rose. Insieme fondano la Spic (Società Per Iniezione Cemento), la società che presenterà il progetto embrionale della piattaforma al largo dell’Adriatico, sottoforma di richiesta “di effettuare delle sperimentazioni in mare”.
La sua biografia ci racconta di un uomo pacato ma fermo nelle intenzioni. Instancabile lavoratore, sempre presente sul suo cantiere galleggiante. Un uomo che quando gli viene detto di stare alle regole s’inventa la sua indipendenza e si mette contro lo stato Italiano.
Giorgio Rosa e sua moglie
LA STORIA DELL’ISOLA DELLE ROSE
minuscola micro-nazione.
Il progetto della piattaforma al largo delle acque di Rimini consiste in una struttura di 5 piani con bar, negozi, attività commerciali e camere d’hotel per essere un’attrazione turistica per le migliaia di turisti estivi che ogni giorno affollavano le spiagge della Riviera Romagnola.
Dopo una fase iniziale di studio reciproco delle intenzioni tra Giorgio Rosa e lo Stato italiano, matura abbastanza presto il sospetto che la creazione di una “zona franca” fuori dalle Acque Territoriali, possa nascondere interessi stranieri di varia natura: impianto di missili russi, bisca clandestina, luogo di perdizione sessuale ecc…
Emergono forti tentativi di contrasto da parte dell’Autorità Marittima che, ogni volta, si sente rispondere dall’ingegnere:
“Io non devo rispettare nessuna regola perché la mia piattaforma si trova fuori dalle acque territoriali italiane”
Ben presto l’ISOLA DELLE ROSE appare sulle prime pagine della Stampa italiana, il caso diventa nazionale e centinaia d’imbarcazioni lasciano la costa per andare a curiosare l’impianto che ancora non è neppure agibile, ma la gente vuole dimostrare la propria solidarietà a questi nuovi eroi, forse ingenui e visionari, ma coraggiosi e determinati.
Sicuramente l’ingegnere e i suoi adepti, tra cui la futura moglie, non hanno previsto così tanta partecipazione e sostegno morale alla loro causa.
Tutti i giornali italiani si occupano della vicenda. Immagine tratta da “L’Isola delle Rose, la nazione che visse solo 55 giorni”
LA FILOSOFIA DEL PROGETTO
La sua idea, una vera e propria utopia, era quella di dare vita ad uno Stato indipendente in cui non vi fossero regole, dove gli abitanti potessero convivere in armonia sulla base di un unico, importante valore: la libertà. Era la fine degli anni ’50 quando Rosa diede il via ad un progetto incredibile, che trovò i primi ostacoli in alcuni problemi tecnici e nelle lungaggini della burocrazia italiana. Le autorità italiane avevano già intimato la rimozione di qualsiasi impedimento che potesse creare pericoli per la navigazione. Chi ha navigato sa benissimo quanto la nebbia da quelle parti sia un nemico molto insidioso.
Tuttavia, l’ingegnere portò avanti senza sosta la sua iniziativa, che richiese anni per la realizzazione. La piattaforma marina crebbe pian piano, sempre sotto l’occhio attento delle autorità, che non poterono però fare nulla per impedirlo. Un vero e proprio isolotto artificiale di appena 400 metri quadri emerse dalle acque a poco più di 11 km di distanza dalla costa romagnola. la posizione venne scelta accuratamente, affinché la piattaforma si trovasse appena al di fuori delle acque territoriali italiane.
Finalmente, nel 1967 l’isola venne aperta al pubblico e si preparò ad accogliere i suoi abitanti. L’anno seguente, e più precisamente il 1° maggio 1968, venne dichiarata la sua indipendenza e Giorgio Rosa venne eletto Presidente della Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose.
La micro-nazione adottò infatti l’esperanto come lingua ufficiale, una decisione chiaramente volta a sancire la propria sovranità e indipendenza dallo Stato italiano. E i provvedimenti seguenti furono in linea con questa necessità:
L’Isola delle Rose (Insulu de la Rozoj) si diede un governo, emise la propria moneta e persino dei francobolli.
Ma nessuno Stato riconobbe mai la sua indipendenza, e la micro-nazione durò appena 55 giorni.
Questa è una piccola “dichiarazione di guerra” che spinge la politica italiana a occuparsi della cosa in modo serio. Vengono fatte diverse interrogazioni parlamentari e il 25 Giugno 1968 l’Isola viene occupata militarmente dalle forze dell’ordine italiane che diedero vita ad un blocco navale e presero possesso della piattaforma, obbligando gli unici due residenti a sbarcare. Ebbe inizio un lungo dibattito tra le varie forze in gioco, ma fu Giorgio Rosa a soccombere: la sua oasi di pace avrebbe dovuto essere smantellata. Fu la Marina Militare ad occuparsi della demolizione, con diverse scariche di esplosivo.
A bordo resta solo il custode che non può essere toccato perché fuori dalle acque territoriali. L’isola delle Rose viene conosciuta in tutt’Europa, i giornali tedeschi prendono a cuore la vicenda e si schierano dalla parte dell’ingegnere e della sua impresa. In quei giorni arrivano lettere di stima, ma soprattutto richieste di cittadinanza e proposte di acquisto per gli spazi presenti sull’isola.
Nonostante tutto dopo mesi di battaglie legali – l’11 e il 13 Febbraio 1969 viene abbattuta con l’utilizzo di 2 tonnellate di esplosivo.
Finisce così un sogno. Le idee di un uomo visionario che si oppose alle regole e alla burocrazia, intenzionato a creare un’isola felice in mezzo al mare… Dell’Ingegner Rosa si è detto tutto, della sua furbizia di costruire fuori dalle acque territoriali, del suo progetto di fare dell’isola una macchina da soldi e perfino di prendere la parte dei russi nella Guerra Fredda…
Ovviamente non è possibile conoscere le intenzioni dell’Ingegnere Rosa, sta di fatto che questo è stato e rimane un bellissimo sogno di libertà!
La piattaforma viene distrutta nel febbraio del 1969. Immagine tratta da “L’Isola delle Rose, la nazione che visse solo 55 giorni” di Giambene
NUMERI E CURIOSITÀ SULL’ISOLA DELLE ROSE
1. L’indipendenza idrica – l’isola era indipendente dal punto di vista idrico, viene infatti individuata una falda di acqua potabile a 280 mt di profondità.
2. Le attività già avviate: al momento dell’occupazione sulla piattaforma erano presenti un bar, un negozio di souvenir, un ufficio postale (il timbro) e una banca.
3. Gli abitanti – sull’isola hanno vissuto una coppia di riminesi che ne gestivano il bar e un uomo di Città di Castello che faceva da custode. I tre avevano affittato la piattaforma e avevano il mandato di gestire le attività dell’Isola.
4. La mostra a Vancouver – nel 2008 un museo canadese ha realizzato un’installazione in cui l’Isola delle Rose veniva paragonata all’Isola Utopia di Tommaso Moro.
5. I resti – nel 2009 sono stati ritrovati resti di muri e della struttura metallica che ha sorretto l’Isola delle Rose.
LA CRONOLOGIA DELLA STORIA DELL’ISOLA DELLE ROSE
- 1960 – l’azienda guidata da Rosa e sua moglie presenta alla Capitaneria di Rimini la richiesta per effettuare delle sperimentazioni in mare. I sopralluoghi vengono fatti direttamente da Giorgio Rosa.
- 1964 – comincia la costruzione della piattaforma. Vengono impiegati operai riminesi, mentre il primo traliccio è stato costruito a Pesaro. Ci sono voluti 2 anni solo per gettare le basi e creare gli attracchi della piattaforma.
- 1965 – una mareggiata porta via il primo traliccio posato ma non ancorato e quel poco di piattaforma che era stata già posata.
- 20 Agosto 1967 – l’Isola è pronta per essere aperta al pubblico.
- 1 maggio 1968 – Giorgio Rosa dichiara l’indipendenza dell’isola.
- 25 Giugno 1968 – la piattaforma viene occupata militarmente dalle forze dell’ordine italiane.
- 5 Luglio 1968 – viene fatta la prima interrogazione parlamentare al Ministro dell’Interno per sapere quale fosse l’atteggiamento dello Stato italiano nei confronti della piattaforma.
- 7 Agosto 1968 – il tribunale di Bologna decide per la distruzione della piattaforma.
- 11 e 13 febbraio 1969 – la piattaforma viene abbattuta con 2 tonnellate di esplosivo.
- 26 Febbraio 1969 – una mareggiata fece inabissare quello che restava dell’Isola delle Rose.
IL FASCINO DELLA STORIA CHE ORA DIVENTA UN FILM
La storia dell’Isola delle Rose è talmente assurda da sembrare un film, eppure è una storia realmente accaduta al largo di Rimini. Uno stato indipendente sorto e crollato nell’arco di 55 giorni. Di questa storia incredibile e del suo geniale quanto folle costruttore è stato girato un film, diretto da Sydney Sibilia e disponibile su Netflix dal 9 dicembre.
L'incredibile storia dell'Isola delle Rose, costruita in mezzo al mare Adriatico al largo delle coste di Rimini dall'ingegnere bolognese Giorgio Rosa è la storia del sogno visionario di un ingegnere bolognese, che ha trasformato un’utopia in realtà, anche se per soli 55 giorni, attirando l’attenzione del governo italiano e non solo. Si tratta di una storia molto particolare e poco conosciuta in Italia, riportata all’attenzione del grande pubblico grazie a un nuovo film targato Netflix, diretto dal regista Sidney Sibilia (già dietro la macchina da presa per la trilogia di “Smetto quando voglio”) e con protagonista l’attore Elio Germano.
Il film disponibile dal 9 dicembre 2021 è stato presentato così da Netflix: “Se non conoscete Giorgio Rosa, rimediamo subito: è un ingegnere che nel 1968 ha costruito un’isola in mezzo al mare e l’ha dichiarata indipendente, sfidando lo stato italiano”.
La storia non finisce qui, perché nonostante le cariche di dinamite l’Isola delle Rose si ostinò a rimanere in piedi. Servì un’imponente burrasca, che ebbe luogo il 26 febbraio 1969, a farla inabissare e a decretare definitivamente la sua morte. Pian piano vennero raccolti tutti i materiali abbandonati sul fondale, e la storia dell’Isola delle Rose venne dimenticata.
Il regista Sydney Sibilia ha portato sui nostri schermi la versione cinematografica dedicata proprio alla micro-nazione che nacque e morì al largo delle coste di Rimini. L’incredibile storia dell’Isola delle Rose vanta un cast notevole, con Elio Germano ad interpretare l’ingegnere Giorgio Rosa, affiancato da grandi attori quali Luca Zingaretti, Matilda De Angelis e Fabrizio Bentivoglio.
Impossibile rimanere indifferenti a una storia tanto affascinante quanto poco conosciuta. Negli ultimi anni, infatti, è diventata oggetto di un documentario di Stefano Biasulli e Roberto Naccari e del citato libro di Veltroni, edito nel 2012.
- Nome: Insulo de la Rozoj
- Status politico: Micronazione
- Fondatore: Ingegnere Giorgio Rosa
- Anno di nascita: 1 maggio 1968, la piattaforma viene dichiarata “stato indipendente”
- Anno di morte: 11-13 Febbraio 1969, l’isola viene abbattuta con 2 tonnellate di esplosivo
- Numero di abitanti: 3 abitanti
- Grandezza: 400 mq
- Distanza dalla terraferma: 11.612 km dalla costa di Rimini, 500 mt fuori dalle acque nazionali
- Organi Politici presenti: Presidenza del Consiglio dei Dipartimenti, 5 Dipartimenti (Presidenza, Finanze, Affari Interni, Industria e Commercio, Relazioni).
- Bandiera: di colore arancione con tre rose rosse su uno scudo sannitico bianco
- Moneta: Mills, cambio con la Lira 1:1. Non vennero mai prodotte
- Francobolli: da 30 Mills, ne sono state emesse 5 serie
C costo dell’affitto: 1.350 mila lire l’anno
- Lingua Parlata: esperanto
- Durata dell’indipendenza: 55 giorni
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Il 10 dicembre 2020 - L’amico Fabio Pozzo ha scritto sulla STAMPA:
"Giorgio Rosa ha vissuto sino a 92 anni, nella sua Bologna (è morto nel marzo 2017). L’uomo che si è fatto Stato ha pensato fino all’ultimo alla sua isola. «La mia storia dimostra che un uomo normale non può farsi un’isola», scherzava l’ingegnere. Fondò la Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose («Io non parlavo l’esperanto, ma era un modo per rimarcare la diversità dell’isola, per esaltarne la libertà»), una superficie di circa 400 metri quadrati ricavata su una piattaforma artificiale da lui costruita (e brevettata), ancorandola a quasi 12 km da Rimini, 500 metri oltre le acque territoriali italiane, nel 1968, in piena rivoluzione sociale. «Ma io non avevo tempo per queste cose», diceva. Gli hanno dato anche del fascista, ex repubblichino, missino. “Ho votato solo due volte dal 1945. Per Guazzaloca sindaco di Bologna e per il primo Berlusconi. Ma mi sono pentito», aveva replicato.
Emise francobolli (ricercatissimi dai collezionisti; «Spedivamo lettere che venivano regolarmente sottoposte ad annullo postale in Italia») e si dotò di una divisa monetaria, il Mills, mai battuta. La bandiera era costituita da tre rose rosse con il gambo verde, su un campo bianco di uno scudo su sfondo arancione. Per l’inno fu preso un passo dell’Olandese volante di Richard Wagner. Vi aprì un bar-ristorante, pensava a negozi. In Romagna stava appunto sbocciando il turismo, l’isola strana diventò un’attrazione. Ci si andava in barca, amministratori e operatori a terra apprezzavano".
Carlo GATTI
Rapallo, 19 Gennaio 2021
LUNAZIONI, STAGIONI E SEGNI ZODIACALI DEL 2021
Il S.T.V Vincenzo GAGGERO (Associazione IL SESTANTE-Chiavari) e nostro socio, ci invia le
LUNAZIONI, STAGIONI E SEGNI ZODIACALI DEL
2021
Ed aggiunge …
Un anno buono, senza eclissi visibili in Italia e con le Lune "giuste" nel senso che le lune nuove, a partire da Agosto, sono ai primi del mese.
MARE NOSTRUM RAPALLO RINGRAZIA
ESODO EBREI-IL CONTRIBUTO ITAIANO alle navi dell'Aliyah Beth 1945-1948
ESODO EBREI
Il Contributo italiano alle navi dell'Aliyah Beth 1945-1948
di Achille Rastelli
· Gennaio 4, 2015
Presentato al Convegno AIDMEN tenuto a Roma il 17 novembre 2007 presso la Confraternita di San Giovanni Battista de’ Genovesi.
Dallo stesso convegno vedere anche La Scuola nautica del Bethar di Enrico Ciancarini.
Sostenuti dal sogno del Movimento sionista del focolare ebraico e spinti dalle paure degli anni Trenta diventate poi la realtà della Shoah, circa 125.000 ebrei affrontarono il pericoloso viaggio per mare nel periodo 1934-1948 nonostante i numerosi ostacoli posti dalla dura opposizione del Governo britannico.
All’inizio gruppi sionisti organizzarono e addestrarono dei giovani nei paesi europei e iniziarono a farli arrivare in Palestina, fra questi gruppi c’era già il Mossad e il Bethar. Il mandato inglese su quel territorio era stato assegnato in seguito alla Grande Guerra a cui era seguita la dichiarazione Balfour che aveva promesso una casa nazionale agli ebrei. La popolazione ebrea era dell’11% nel 1922 ed era salita al 30% nel 1937. Iniziarono le ostilità da parte degli arabi e che portarono a migliaia di morti. Per tentare di calmare la situazione gli inglesi introdussero delle limitazioni all'immigrazione ebraica mettendo nel 1939 il tetto di 75.000 immigrati per i successivi cinque anni.
L’EMANUEL con la bandiera ufficiosa ebraica
Lo scoppio della guerra e l’espansione sempre più grande della Germania nazista spinsero alla creazione di una massa di gente sempre più grande che cercava di scappare ad una morte quasi certa, ma erano pochi i paesi che volevano, o potevano accogliere un numero sempre maggiore di fuggiaschi perseguitati.
L’Agenzia ebraica per la Palestina nell’immediato dopoguerra diede vita ad un movimento per portare la gente in quel territorio; si alleò quindi al Mossad e diede vita all’operazione chiamata Aliyah Bet. Ci furono numerosi problemi, come la difficoltà di trovare le navi che erano a rischio confisca, le assurde leggi messe in atto in alcuni paesi per impedirne il viaggio, i rischi della navigazione, armatori disonesti e i tentativi inglesi di bloccare il traffico.
Fra tutti questi problemi c’è da rilevare la grande presenza di navi d’origine italiana coinvolte in questo traffico che ebbe un andamento alterno.
La prima fase, come detto, avvenne fra il 1934 e la primavera 1945, quando si sviluppò sempre di più l’antisemitismo nazista che invase quasi subito l’Austria e una parte della Cecoslovacchia provocando un’ondata di profughi e continuò per tutta la guerra con tentativi più o meno riusciti con la partenza da nazioni alleate della Germania, ma che consentivano un’emigrazione forzata dalle circostanze. Dalla fine degli anni Trenta e per gli anni di guerra il traffico si svolse con navi che partivano dai porti della Jugoslavia, della Romania e della Bulgaria fra difficoltà d’ogni genere fra cui anche il rinvio ai porti di partenza da parte degli inglesi.
Già nel 1934 una nave l’Emanuel, uno schooner a tre alberi, aveva innalzato una bandiera che faceva riferimento all’ebraismo con il sigillo di Salomone (o stella di Davide) al centro.
Il piroscafo STRUMA a Istanbul
Avvennero anche delle tragedie come quella dello Struma: partito da Costanza l’11 dicembre 1942 con 767 passeggeri, fu bloccato a Istanbul per due mesi dietro pressioni degli inglesi con la scusa che non era adatto alla navigazione.
Dopo lunghe discussioni la nave fu rimorchiata in Mar Nero per farla tornare a Costanza fra le urla di disperazione dei passeggeri, ma fu silurata dal sommergibile sovietico SC 213 comandato dal tenente di vascello Denezhko e si salvò solo una persona. Per inciso, su questa nave fu fatta da parte di un gruppo di sommozzatori inglesi una immersione commemorativa nel 2000.
Subito dopo la fine della guerra la pressione degli ebrei sopravvissuti alla Shoah era diventata molto forte, alimentata anche dal fatto che in Polonia, come a Kielce, avvenivano ancora dei pogrom con numerose vittime e nessuno voleva tornare in territori dove aveva subito tremende sofferenze.
Le prime partenze clandestine avvennero dall’Italia, un po’ per la sua posizione geografica, ma anche perché la principale centrale per l’immigrazione clandestina era il nostro Paese, grazie all’attivismo del capo del Mossad in Italia, Yehuda Arazi, e di Ada Sereni.
Alcune navi erano già partite dall’Italia: la Dalin era partita da Bari il 21 agosto 1945 con 35 persone a bordo, ma non si conosce l’origine di questa unità. Italiano erano invece il Nettuno (poi Natan) che effettuò due viaggi da Bari, in agosto 1945 con 73 persone e in settembre con 79.
Pure italiani erano il Gabriella, partito nel settembre 1945 dal Pireo con 40 persone e il Pietro, con due viaggi da Taranto nel settembre e nell’ottobre 1945
con 168 e 174 persone.
L’AMORTA come HANNA SHENESH
La prima unità di una certa importanza fu l’Amorta (poi Hannah Shenesh) partita da Vado il 14 dicembre 1945 con 252 passeggeri. La nave finì incagliata a Naharyia e tutti raggiunsero terra mediante delle corde.
L’HANNAH SHENESH in servizio nella Marina Israeliana
Fu poi la volta del motopeschereccio Rondine, ribattezzato Enzo Sereni: nel gennaio 1946 partì da Vado con 908 emigranti a bordo e arrivò il 17 di quel mese ad Haifa, catturato però da una nave inglese.
La successiva unità italiana fu il piroscafo Fede, ribattezzato Dov Hos, che doveva partire nell’aprile 1946 da La Spezia con 1014 passeggeri, ma fu bloccato dalle autorità italiane sollecitate dal governo inglese. Arazi approfittò dell’occasione per organizzare uno sciopero della fame che fu sospeso quando il segretario del partito laburista inglese Harold Laski salì a bordo per avviare un negoziato. Nel frattempo gli italiani accordarono la partenza purché una parte dei passeggeri passasse su un’altra nave, il motopeschereccio Fenice che adesso si chiamava Eliahu Golomb. Entrambe le unità poterono arrivare legalmente a Haifa.
Il RONDINE come ENZO SERENI
Il 30 luglio 1946 partì da un posto imprecisato dell’Italia il piropeschereccio Maria Serra (poi Katriel Yaffe) con 604 persone e il 3 agosto partiva sempre dall’Italia il Giuseppe Bertolli (poi Twenty Three) con 790 emigranti. Il primo fu catturato dagli inglesi e il secondo dovette accettare la cattura dopo una dura resistenza.
Nel frattempo erano partite dall’Italia altre 5 navi (una da Vado), ma non di bandiera italiana.
Il 23 agosto 1946 effettuava un secondo viaggio il Fede, questa volta con il nome di Arba Hacheruyot con 1.024 passeggeri. La nave fu catturata dopo una dura resistenza nel corso della quale alcuni immigrati annegarono.
Il FENICE come ELIAHU GOLOMB
L’11 settembre 1946 partiva dall’Italia l’Ariella, ribattezzato Palmach con 611 persone e il 9 ottobre 1946 partiva con 611 imbarcati per un secondo viaggio il Fenice, questa volta con il nome di Bracha Fuld con 806 persone. Entrambe le unità furono catturate e sul Palmach ci fu anche un morto.
Fino al marzo 1947 non partirono altre navi di origine italiana mentre altre navi di origine diversa partirono da Taranto e Metaponto. Il 18 gennaio 1947 partiva da Sète l’italiano Merica (ora Lanegev) con 647 passeggeri. Fu catturato dopo una dura resistenza che provocò morti e feriti.
Il GALATA come SHEAR YISHUV
Il 4 marzo 1947 da Metaponto si dirigeva verso la Terra Promessa il Susanna (poi Shabtai Lozinsky) con 823 passeggeri e il 7 aprile 1947 partiva dall’Italia il Galata (Shear Yashuv) con altri 768. Il primo arrivò inosservato sulla costa presso Gaza, il secondo fu catturato dagli inglesi mentre era molto sbandato. Il 15 maggio 1947 partiva da Bari il motoveliero Orietta (poi Mordei Hagetaoth) con ben 1.457 persone, ma fu catturato dagli inglesi. Il luglio 1947 vide l’avventura del President Warfield, più noto come Exodus 1947 con 4.554 passeggeri, ma nello stesso mese partivano le navi italiane Bruna (Haleli Gesher Aziv) con 685 persone e il Luciano (Shivat Zion) con 411 persone, entrambi catturati senza resistenza.
L’EXODUS 1947
Per quanto riguarda l’Exodus 1947 c’è da ricordare un avvenimento drammatico: tutti gli emigranti catturati furono deportati su tre navi dagli inglesi ad Amburgo, creando uno scandalo internazionale. Era inconcepibile che chi era sfuggito alla Shoah venisse portato nel paese che ne era stato responsabile. Gli ebrei furono poi portati in campi situati nella zona statunitense dove ebbero un documento di priorità per l’emigrazione.
In novembre 1947 partivano lo Albertina ora Alyah (forse era già il Pietro) con 182 persone e il Raffaelluccio poi Kadima con altre 794. Il primo fu trovato dagli inglesi abbandonato sulla spiaggia di Naharyia, il secondo fu catturato.
Nel dicembre 1947 partiva da Civitavecchia il Maria Cristina, ora Lo Tafchidinu, e dalla Corsica il Giovanni Maria ora 29 November con 680, entrambe catturate senza resistenza.
L’inizio dell’anno vide un altro grande avvenimento: due grandi navi, Pan York e Pan Crescent, stavano arrivando da Burgas in Bulgaria con più di 15.000 emigranti, ma il Mossad accettò di dirottarle direttamente a Cipro dove i passeggeri furono internati.
Nel 1948 arrivarono quasi soltanto navi italiane partite da porti italiani: Archimede poi Ha’umot Ham’uchadim arriva il 1° gennaio 1948 con 537 emigranti.
Silvia Starita poi Giborei Etzion arriva il 31 gennaio 1948 con 280 emigranti.
Ciccillo poi Yerusheliam Hanetzura arriva il 12 febbraio 1948 con 670 emigranti.
Sette Fratelli poi Lekomemyut arriva il 20 febbraio 1948 con 699 emigranti.
Esmeralda poi Yechiam arriva il 28 marzo 1948 con 769 emigranti.
Vivara poi Tirat Zvi arriva il 12 aprile 1948 con 798 emigranti.
Michela poi Mishmar Haemek arriva il 24 aprile 1948 con 782 emigranti.
Borba poi Lanitzachon arriva il 16 maggio 1948 con 189 emigranti.
Cristina Tuglia poi Medinat Yisroel arriva il 17 maggio 1948 con 243 emigranti.
L’ultima unità italiana è il Fabio (Krav Emek Ayalon) arrivato il 29 maggio 1948 con 706 emigranti.
Quasi tutte queste unità furono catturate meno le ultime tre che arrivarono dopo la nascita dello Stato d’Israele, avvenuta il 14 maggio 1948.
In conclusione su 69 partenze 37 avvennero dall’Italia, 18 dalla Francia, 3 dalla Grecia, 3 dalla Jugoslavia, 4 dalla Bulgaria, altre sconosciute. Ada Sereni ne conta 40, forse perché considera partite dall’Italia anche Exodus 1947 e le due Pan Crescent e Pan York che furono modificate in Italia.
Su 69 viaggi, poi, 33 avvennero su navi di origine italiana.
Per quanto riguarda il numero dei trasportati, furono 72.845 gli ebrei che viaggiarono nel programma aliyah Bet, 33.302 quelli partiti dall’Italia e 23.246 quelli partiti su navi italiane.
Una storia particolare è quella del Ben Hecht (ex PY 31 Uss Cythera) che nel 1957 fu comprato dai Fratelli Capano per la Navigazione Libera del Golfo e viaggiò per 40 anni fino al 1998 nel golfo di Napoli con il nome di Santa Maria del Mare.
Un’altra storia particolare è quella del piroscafo greco Haghia Zoni che fu utilizzato nell’aprile 1939 dal questore di Fiume Giovanni Palatucci per far fuggire 800 ebrei: si trattava dell’ex Taranto, costruito nel 1899 dal Cantiere Orlando di Livorno.
Per tornare alla predominanza dell’Italia, questa è dovuta, secondo me, a un fattore oggettivo e uno soggettivo: il primo è dovuto al fatto che l’Italia era “il ponte di lancio” migliore per il Medio Oriente: la Grecia era afflitta da una dura guerra civile, la Jugoslavia era una dittatura con molti problemi interni ed era difficile muovere nel suo territorio grandi masse di profughi.
Bisogna tenere presente che il problema logistico era notevole, considerando che siamo nel primo dopoguerra: bisognava muovere senza dare nell’occhio gruppi di 600/800 persone, provvedere agli alloggi, ai viaggi, ai rifornimenti e all’assistenza igienico-sanitaria. L’unica alternativa valida era la Francia, ma il viaggio dalla Provenza era molto più lungo. Il fattore soggettivo era la maggiore facilità di muoversi in Italia dove, pur con le difficoltà del dopoguerra, si poteva contare su assistenze continue e su appoggi più o meno taciti delle popolazioni locali; c’è da considerare anche l’attivismo delle comunità ebraiche italiane che agevolarono i viaggi.
Anche per quanto riguarda l’acquisto di navi, anche questo doveva esser facile, così come trovare i cantieri dove effettuare le necessarie modifiche alle strutture per ospitare i passeggeri: si trattava quasi sempre di piccole navi da carico o motopescherecci, tutti non attrezzati per trasportare persone.
Per quanto riguarda i cantieri di provenienza delle unità, si nota una prevalenza dei canteri liguri o toscani: per i primi si ricordano l’Albertina che era del cantiere Sangermani di Riva Trigoso, il Rondine di Galleani e Osterle di Arenzano, il Fede di Serra Cervo di San Bartolomeo, il Merica di Briasco di Sestri Ponente, l’Avvenire e il Ciccillo di Gotuzzo di Chiavari, il Luciano di Calamaro di Savona. Per i cantieri toscani si notano il Silvia Starita della Cooperativa mastri d’ascia e calafati di Viareggio, il Bruna e il Susanna di Benetti di Viareggio, il Sette Fratelli di Gamba di Viareggio, il Giuseppe Bertolli di Picchiotti di Viareggio. Ricordiamo ancora il Raffaelluccia del Cantiere Navale Peloritano di Messina, il Maria Cristina di Tortorella di Salerno, il San Michele di Starita di Piana di Sorrento, il Vivara di Mazzella di Torre del Greco, l’Orietta dei CNR di Ancona e infine l’Esmeralda di Schiavon di San Pietro in Volta. E’ ovvio che il Mossad non li comprava dai cantieri ma dagli armatori, in ogni modo le unità italiane davano una garanzia di qualità pur essendo economiche. Nessuna naufragò, grazie anche all’abilità degli equipaggi, italiani volenterosi ed ebrei che avevano frequentato scuole nautiche come quella di Civitavecchia o erano dei reduci di guerra delle marine alleate.
Per quanto riguarda gli armatori che hanno venduto le navi, per alcune di esse non sono riuscito a risalire ai proprietari perché si trattava di unità costruite durante la guerra e nel primo dopoguerra, una ricerca ancora da completare. Per altre ho trovato armatori di tutta l’Italia: Liburnum di Livorno (Fenice), Mario Bianchi di Genova (Giovanni Maria), Mario Starita di Napoli (Raffaelluccio e Silvia Starita), Tito Neri di Livorno (Luciano), Ernesto Leva di Riva Trigoso (Merica), Onofrio Giacomino di Torre del Greco (Orietta), Tomei di Viareggio (Giuseppe Bertolli), Adragna di Trapani (Ariella) e altri ancora.
Il LINO affondato a Bari
Una breve osservazione riguarda il contributo italiano alla nascita della Marina israeliana. Subito dopo la proclamazione della nascita dello Stato d’Israele le nazioni arabe che lo circondavano gli mossero guerra e i soldati di questa nuova nazione si trovarono nella necessità di costruirsi anche una marina, con mezzi molto spesso improvvisati. Fra le armi di risulta che riuscirono a procurarsi cannoni italiani di vecchio tipo da 76 mm, 102 mm e 120 mm. Soprattutto però riuscirono ad ottenere dei barchini esplosivi del tipo MTM con i quali ottennero i primi successi navali. Ora sia i cannoni sia i barchini, anche se fuori servizio, erano gestiti dalla Marina Militare italiana per cui è molto probabile che sia stata una fornitura riservata alla nuova nazione.
La corvetta MISGAV con cannoni di origine italiana
Dall’Italia partivano però anche forniture di armi per i paesi arabi e Bari era un po’ il centro principale di questo traffico che venne contrastato dal Mossad. Dapprima affondarono nel porto pugliese il trasporto Lino che aveva a bordo 8.000 fucili e 10 milioni di colpi, provenienti dalla Cecoslovacchia e diretti all’Egitto. Le armi furono recuperate e imbarcate sul trasporto Argiro che però fu catturato dagli israeliani con tutto il carico il 24 aprile 1948.
Un'ultima considerazione: questa che ho narrata è una storia di navi, ma non basta: manca la storia degli uomini, sapere come viaggiavano, chi li ha aiutati, sotto quale bandiera navigavano, questa è una storia ancora tutta da scrivere: io non la conosco, se qualcuno la conosce la narri, è un contributo per la storia.
In conclusione questo lavoro, sulla quale ha lavorato molto lo storico navale statunitense Paul Silverstone e dalla quale sono partito per evidenziare il contributo italiano, racconta di una delle numerose migrazioni che sono avvenute nel corso dei secoli nel Mediterraneo e che hanno contribuito, pur fra guerre, massacri e odi di tutti i tipi, a creare una cultura comune di questo mare, grazie anche all’Italia, ponte fra tutte le terre.
Rapallo, 1 Novembre 2020
A cura di Mare Nostrum Rapallo
DESIDERIO
DESIDERIO
Il gruppo dei ragazzi sostava irrequieto nella piazzetta davanti a un bar dove avevano già consumato l’apericena ed ora dovevano decidere dove andare a finire la serata.
- Ma è così difficile scegliere, per me c’è una scelta sola: la discoteca - sbottò Marco.
- Allora io non vengo - disse Maria ho promesso a mio padre, che non era prevista la discoteca ed ora voglio tener fede alla mia promessa, poi neanche mi piace la discoteca.
- Ma, come parli? Sembra che stai facendo i voti per farti suora. -
- Mi hai capito lo stesso. -
- Cosa non ti piace della discoteca – le chiede Andrea.
- Tutto quel baccano, quel saltellare da soli sulla pista, io la trovo alienante. -
- Cosa ci vuole per accontentare tutti? Io un’idea ce l’avrei. Guardate che mare, sembra che si sia vestito da sera con quella strada dorata dove si specchiano le stelle. - dice Chiara.
- Ecco, ha parlato la poetessa - borbotta Stefano - secondo te stiamo tutta la sera a guardare il mare?
- Ci facciamo il bagno, scemo. -
Maria si sente fuori posto e non vorrebbe deludere Andrea, che le piace, ma il bagno di notte! -
- Non abbiamo il costume.. - prova a dire Maria.
- Mutandine e reggiseno li hai è come un bikini. -
Intanto tre ragazze entusiaste dell’idea si sono già buttate in mare, ma nude.
Maria capisce che non ha più scuse se vuol continuare a frequentare Andrea, mette il vestitino su uno scoglio ed entra.
Che esperienza galleggiare, sentirsi leggera, il mare potente e così delicato.
- Allora ti piace - dice Andrea – vedi quanto siamo sciocchi, se chiedi in giro la maggior parte delle persone non ha mai fatto il bagno in mare di notte. Ora però vieni un po’ qui. -
I ragazzi si abbracciano e Andrea, con il tono stupito chiede: - Ma, sei senza reggiseno.-
- Ti dispiace? - Figurati, non ho mai visto colline così belle! – Ecco io starei tutta la vita, così, come sono adesso, con la testa appoggiata sulla tua collinetta, magari dove si tocca, perché sto per affogare. –
Maria si sente come un libro ancora da sfogliare, un fulmine benefico l’ha percorsa dalla punta dei piedi sino alle ciglia, facendola assomigliare a un frutto ancora acerbo sulla via della maturazione.
- E’ meglio che torniamo a riva. - dicono insieme e con una bella risata finiscono la serata.
di ADA BOTTINI
Rapallo, 11 Ottobre 2019
IL NAUFRAGIO DEL P.FO RAVENNA
IL PIROSCAFO PASSEGGERI RAVENNA viene affondato da un U-BOOT tedesco
Al largo di Capo Mele (Liguria)
PRIMA GUERRA MONDIALE
4 Aprile 1917
272 persone vennero salvate da diciotto barche di pescatori locali. Le vittime furono soltanto 6. Il relitto del piroscafo RAVENNA giace a quasi 100 metri di profondità tra Laigueglia e Andora. Davanti al santuario di Nostra Signora delle Penne a Capo Mele.
La strada statale SS1 scorre da Laigueglia a Marina di Andora passando per il promontorio di Capo Mele davanti al quale avvenne il naufragio.
Il faro di Capo Mele è situato sull’omonimo promontorio che divide le località di Laigueglia e Andora provincia di Savona (Liguria).
Piroscafo RAVENNA
ALCUNE NOTE STORICHE
La battaglia dell'Atlantico incentrata principalmente sugli attacchi dei sommergibili tedeschi al traffico mercantile alleato fu, durante la Prima guerra mondiale (1914-1918), il confronto più importante e protratto nel tempo tra le Marine inglese e statunitense da un lato e la Marina tedesca dall'altro che contrastava i rifornimenti dagli USA all’Europa sulle rotte più battute.
Nel maggio del 1915, l'U-20 tedesco affondò il transatlantico RMS LUSITANIA. Delle 1.345 vittime, 127 erano civili americani. L'evento fece rivolgere l'opinione pubblica americana contro la Germania e fu uno dei fattori principali dell'entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco degli Alleati durante la prima guerra mondiale.
Il 31 gennaio 1917 la Germania dichiarò che i suoi U-Boot si sarebbero impegnati in una “guerra sottomarina indiscriminata”
Al culmine dell’azione degli U-Boote, nella primavera del 1917, erano state affondate non meno di 800 navi per circa 2 milioni di tonnellate. Nel giugno dello stesso anno le perdite raggiunsero: 3.880.000 tonn.
U-Boot è il termine tedesco per indicare genericamente i sommergibili, ed è l'abbreviazione di Unterseeboot, letteralmente "battello sottomarino”. Il termine è utilizzato nelle altre lingue per indicare i battelli sottomarini utilizzati durante la Prima e la Seconda guerra mondiale dalla marina militare tedesca (Kriegsmarine). Talvolta è utilizzata la forma anglicizzata U-Boat.
Il piroscafo RAVENNA non é ricordato dalle comunità locali come “relitto”, ma soltanto con il suo nome: là giace a circa 100 metri di profondità il RAVENNA…
Come se l’atto di vigliaccheria compiuto dal KILLER tedesco non avesse avuto successo, nonostante il piroscafo fosse stato colpito con molta precisione nella fiancata destra da un micidiale siluro e venisse inghiottito dal mare in pochi il 4 aprile 1917. Un affondamento che non divenne una tragedia del mare perché 272 persone vennero salvate da diciotto barche di pescatori locali. Le vittime furono soltanto 6.
Il salvataggio compiuto con grande coraggio e tempismo dagli uomini della costa, sempre attenti con lo sguardo rivolto verso il mare. Questo é il vero ricordo che é rimasto nel cuore di quei pescatori laiguegliesi che a distanza di 102 anni continuano a tramandarselo di padre in figlio.
Dalla Rocca di Gibilterra gli inglesi controllavano il transito di tutte le navi ma la tecnologia degli strumenti navali era ancora agli albori per cui l’entrata in Mediterraneo dell’U-boot tedesco non fu segnalata. Tuttavia da diverse imbarcazioni venne segnalata la presenza di motovelieri di un certo tipo che venivano usati per rifornire i sommergibili avversari. Le Capitanerie alzarono il livello di vigilanza. Anche il presidio militare (Corpo di Guardia di Fanteria) di Capo Mele fu allertato ma … era orma troppo tardi!
Da un ingiallito quotidiano trovato dal giornale AVVENIRE.IT leggiamo l’interessante intervista al Comandante del RAVENNA poco dopo il salvataggio.
Buongiorno Comandante, prima di tutto come sta’? Si è rifocillato?
«Si certo grazie, beh considerando le circostanze direi che c’è andata bene. Siamo a qui a raccontarla dopo tutto…».
Bene iniziamo allora, le farò delle domande piuttosto secche, sa dobbiamo compilare un questionario circa tutte le azioni di sommergibili nemici contro navi mercantili. La sua si chiamava?
«“Ravenna”, piroscafo nazionale “Ravenna”».
Il suo nome Capitano?
«Pasquale Zino».
Porto di partenza?
«Buenos Aires».
Quando siete partiti?
«Esattamente un mese fa, il 4 marzo 1917».
Porto di destinazione? «Genova».
La posizione della nave, data e ora all’avvistamento del sommergibile?
«A circa 2,5 miglia al largo di Capo Mele, oggi 4 aprile 1917 alle ore 09:15 avvistammo un siluro».
Data, ora e posizione della nave quando questa venne affondata e/o abbandonata?
«4 aprile 1917, h.09:30 a 2,5 miglia al largo di Capo Mele Laigueglia».
Mentre le parole del capitano, interrogato poche ore dopo aver abbandonato per ultimo la sua nave, risuonavano nella stanza della Regia Delegazione di Porto di Laigueglia, i passeggeri e l’equipaggio erano all’asciutto. Non grazie alle insufficienti scialuppe di salvataggio ma al soccorso portato da 38 pescatori a bordo di 15 barche di Laigueglia e 3 di Alassio. Uomini con decine d’anni di duro lavoro sulle spalle, con i figli in guerra, che mollarono le reti già calate e remarono con tutta la forza che avevano nelle braccia verso il piroscafo. Le barche lo circondarono come per tenerlo a galla traendo in salvo 189 passeggeri e 83 membri di equipaggio: 272 persone. All’appello ne mancarono 6, perite nello scoppio del siluro lanciato dal sommergibile tedesco U52. I pescatori non riuscirono a caricare subito tutti e fecero più volte la spola tra il molo e il punto dell’affondamento. Tra quelli rimasti in mare, in attesa, un marinaio si aggrappò all’anta di un armadio. Quando tornarono a prenderlo non si separò più da quel pezzo di legno: rientrato a casa dipinse su di esso la scena del salvataggio con una dedica alla Madonna. I “reordi” – così erano detti i pescatori – lavorarono anche al recupero degli oggetti che via via affioravano: vele, remi, bussole, recipienti di latta, casse, fanali a globo di vetro, tele, timoni, secchi, valigie… E alla fine attesero un pezzo di carta. Non una banconota ma un attestato che certificasse la loro azione eroica, da mostrare con orgoglio ai figli scampati al fronte. Il tempo e la burocrazia diventarono nemici imbattibili.
Nel centesimo anniversario, la lettera dal Quirinale al sindaco di Laigueglia Franco Maglione in cui si sottolinea «il partecipe sentimento di vicinanza del Presidente Mattarella per questa dolorosa ed eroica pagina di storia», l’inaugurazione di un memoriale e la consegna di un encomio solenne agli eredi rintracciati dei salvatori (la ricerca da parte del Comune è tuttora in corso), hanno saldato il debito morale dello Stato. Nella tre giorni settembrina dei festeggiamenti in onore di San Matteo, patrono di Laigueglia (nella classifica dei borghi più belli d’Italia), sono previste altre iniziative in memoria del “Ravenna”. Una nave, non un relitto.
Fonte: Agenzia BOZZO – Camogli
LA STORIA DELLA NAVE RAVENNA - DATI NAVE E TESTIMONIANZA DEL COMANDANTE TEDESCO
Il piroscafo Ravenna - Dati principali:
Impostato nel 1899 nel cantiere Nicolò Odero di Genova per conto della Compagnia Italia S.A. di Navig a
Varato: 2.3.1901.
Dislocamento: 4.101 tsl e 2.549 tsn.
Lunghezza: mt. 110,69
Larghezza: mt. 13,25.
Un fumaiolo, due alberi.
Una motrice a triplice espansione da 2.500 hp,
Velocità: 12 nodi.
Passeggeri: 42 passeggeri in cabina, 1.250 per emigranti nella stiva.
Equipaggio: 70.
Il 5 giugno 1901 (altre fonti citano il 18) salpò da Genova per il viaggio inaugurale con destinazione Montevideo e Buenos Aires.
Dal gennaio al marzo 1903, noleggiata dalla tedesca Hamburg-Amerikanische Packetfahrt A.G., fece tre viaggi sulla rotta Genova - Napoli - New York.
Il 27 aprile 1903, di ritorno da New York, al largo della costa algerina perdette l'elica e fu rimorchiato a Gibilterra dal piroscafo britannico Calabria.
Nel 1904, ripresi i viaggi in Sud America, incluse gli scali di Rio de Janeiro e Santos.
Il 31 marzo 1906, noleggiato dalla Navigazione Generale Italiana, fece un viaggio Genova - Palermo - New York.
Allo scoppio della guerra italo-turca del 1911 il piroscafo venne requisito:
dal 13 ottobre 1911 al 20 marzo 1912 fu utilizzato come trasporto materiali e truppe tra Napoli e Tripoli.
Il 5 gennaio 1916 venne ancora requisito dal Regio Esercito per il trasporto truppe in Albania.
Il 19 marzo 1916 l'Esercito, per evitare omonimie, diede all'unità il nome di Ravenna I.
Agli inizi del 1917 riprese il servizio civile riprendendo anche il primitivo nome.
Il 4 aprile 1917 l'unità stava rientrando a Genova da Buenos Aires. Mentre navigava lungo la costa ligure, giunta a due miglia al largo di Capo Mele la vedetta avvistò la sagoma di un sommergibile in direzione dell'Isola Gallinara e diede l'allarme.
Il comandante tentò di cambiare rotta per scansare il siluro. Per poco non vi riuscì ed il piroscafo venne colpito a poppa. L'affondamento fu rapido: le stive poppiere vennero allagate e la nave, non appena prese la posizione verticale, colò a picco alla pos. 44°00’N – 08°28’E ed ora giace a 90 m. di profondità.
Nonostante il rapido evolversi degli eventi si ebbero solo sei vittime, tra cui un membro dell'equipaggio.
Il siluro venne lanciato dal sommergibile tedesco U 52 al comando del cap. Hans Walter.
Una parte dei naufraghi raggiunse la riva nuotando; altri vennero recuperati dai pescatori di Andora e di Albenga.
Al momento dell’affondamento il Ravenna aveva nelle stive un carico di 60.000 quintali di lana greggia argentina, 31.000 quintali di sego, carbone, cavalli e macchine agricole.
Solo nel 1930 iniziarono i lavori per il recupero del carico, a cura dei palombari della Sorima che, con la nave Rostro, usarono mine elettriche per aprire il relitto.
Estratto dal Giornale di Bordo del comandante Hans Walther del
smg. SMU 52.
3 aprile 1917:
Il vento proveniente da sud ovest esclude qualsiasi attività.
Durante il giorno rimaniamo attraccati, di notte sott’acqua.
4 aprile 1917 : Emersi dopo una notte sott’acqua.
4 aprile 1917 : Emersi, fermi, tempo pessimo, proviamo verso mezzogiorno, usiamo il periscopio perché è impossibile l’osservazione diretta dal ponte. Posizione di attacco davanti ad una nave a vapore con rotta verso Est. Attacco, impossibile avvicinarsi, causa cambio rotta della nave di 90°. Nascosti sott’acqua poi riemersi ed ormeggiati.
4 aprile 1917 : Emersi, e ritornati in immersione con rotta verso la costa. Sotto Alassio avvistiamo due piccoli battelli a vapore. A sud-ovest avvistiamo una colonna di fumo, facciamo rotta verso l’avvistamento. Nave a vapore con rotta verso Genova, facciamo fuoco con il siluro N° 1. Il vapore è colpito a babordo ed affonda in 15 minuti. Dal numero delle scialuppe (12) e dall’armamento (un cannone da 12 cm) e secondo la misura visiva ritengo la grandezza di 7000 t.s. Un accertamento più esatto non è possibile in quanto da sud ovest si vede nuovamente fumo all’orizzonte e più navi sono in vista. Facciamo rotta verso di loro. Tutte le navi si avvicinano alla costa: emersi per fare fuoco, veniamo investiti da fuoco nemico proveniente dalla costa.
Capitano Hans Walther
Carlo GATTI
Rapallo, 5 Settembre 2019
COME ABBIAMO TROVATO L’U-BOOT DI CAMOGLI
COME ABBIAMO TROVATO L’U-BOOT DI CAMOGLI
Autore: Eva Bacchetta - Fotografo: Lorenzo Del Veneziano
U455 SUB N 243 - DICEMBRE 2005 . DOVREBBE ESSERE L’U 455, DATO PER DISPERSO IL 6 APRILE 1944 CON TUTTO L’EQUIPAGGIO. PROBABILMENTE URTO’ UNA MINA AMICA, O FORSE FU UN SUO STESSO ORDIGNO A ESPLODERE MENTRE VENIVA LANCIATO IN MARE. L’IPOTESI POTREBBE ESSERE CONFERMATA DAL FATTO CHE LA DEFLAGRAZIONE GLI SQUARCIO’ LA POPPA. LA SCOPERTA AQUISTA UN’ IMPORTANZA ANCORA MAGGIORE SE SI CONSIDERA CHE SI TRATTA DEL PRIMO SOMMERGIBILE TEDESCO RINVENUTO IN MEDITERRANEO. LA TECNICA DELLE IMMERSIONI.
Il varo di un U-Boot
I fantasmi degli uomini che abitano le centinaia di relitti sommersi sepolti nelle profondità marine del golfo di Genova, aleggiano inesorabili sopra la superficie di quel mare che nel corso degli anni ha voluto far rivivere nella storia dei tempi alcune di quelle anime, attraverso la nostra umile testimonianza nel ritrovare e nel descrivere gli scafi affondati nell’oscurità e nel buio di una distesa di acqua diventata, dal momento della perdita, loro segreta tomba di ferro. Da quando abbiamo dedicato parte delle nostre energie al ritrovamento di relitti dimenticati nell’oblio del tempo e solo scritti nella antichità del mare, un particolare battello affondato ha incuriosito le nostre menti ed ha animato la ricerca e sostenuto i nostri sforzi: un sommergibile tedesco dato per disperso nel 1944 nel mare antistante Portofino. Come riferisce Clive Cussler, famoso ricercatore di relitti sperduti, in uno delle sue opere: “Per mettersi alla ricerca di un relitto perduto, non occorre l’appoggio del governo o dell’università, non occorre un camion pieno di costose attrezzature e nemmeno aver ereditato un milione di dollari. Quel che serve davvero sono l’impegno, la perseveranza e l’immaginazione. Ci sono cose fatte dall’uomo che non si possono trovare mai. Alcune non andarono mai perdute, altre sono frutto dell’immaginazione di qualcuno e tutte le altre non si trovano nemmeno nelle vicinanze di dove si suppone siano. La ricerca è la chiave di tutto. Le ricerche possono migliorare la probabilità del successo o farci capire che non ci sono speranze. Se e quando un relitto decide di farsi trovare, vuol dire che si tratta di un puro caso. La verità è che la ricerca per un dilettante, è una noia mortale. Ti ritrovi a ballonzolare fra le onde, a sfinirti di sudore, mentre ti sforzi di vincere il mal di mare osservando la linea sempre retta dello schermo del tuo ecoscandaglio. Eppure, quando sullo schermo compare una immagine oppure quando vedi una traccia diversa e ti rendi conto che hai incontrato una anomalia o qualcosa di simile a quello che stai cercando, l’attesa si fa palpitante. E allora, il sangue, il sudore, le lacrime spese sono dimenticati. Ti senti pervaso da una sensazione di trionfo, che è meglio di qualsiasi vittoria. Quando i sub riemergono e ti dicono che ciò che hai trovato è quello che stavi cercando, allora ancor di più ti senti rincuorato e soddisfatto. C’è sempre il fattore “sorpresa” e quello che trovi potrebbe non essere quello che stavi cercando e per di più non sapevi nemmeno che proprio quello fosse lì! “
U-Boot della Classe VII C in navigazione
La meraviglia ha caratterizzato il mese di agosto di quest’anno a causa del ritrovamento di quello che non credevamo essere proprio li!!!! Un alone di mistero ha da sempre contornato la storia di tale U-BOOT, tanto da farlo diventare una leggenda a cui tutti avvaloravano un filo di verità. Un sommergibile che nei racconti della gente si spostava da un punto all’altro dell’immensa distesa del blu infinito nel Mare di fronte a Genova, tanto da far pensare che l’equipaggio potesse cambiarlo di posto di qua e di la per scappare, avvalorando ancora di più la leggenda e avvicinando la vicenda dell’U-Boot alle storie misteriose di pirati dominatori dei mari e di fantasie straordinarie. Un famoso corallaro narrava di essere sceso sui resti del battello, di averne riconosciuto lo scafo perfettamente integro ad una profondità di circa 80/90 metri davanti a Cala dell’Oro; la sua morte avvenuta alla fine degli anni 90 aveva messo a tacere ogni diceria riguardante questa leggenda lasciando il sommergibile avvolto da una nebbia impossibile da dissipare.
Riccio Melone
Il corallaro nulla aveva lasciato a prova della sua interessante scoperta e quella micidiale arma da guerra del 3 Reich continuava indisturbata la sua missione di segretezza. Negli ultimi anni tante giornate abbiamo perso nello scandagliare i fondali dagli 80 ai 95 metri, da Cala dell’Oro a Punta Chiappa con la speranza di trovare un innalzamento di quel terreno altrimenti aridamente piatto e riportare alla luce la vicenda di quella nave ormai nascosta nelle braccia protettrici di un mare che a volte non lascia adito a nessuna illusione. Grazie alla nostra fama di ricercatori di relitti scomparsi e per la nostra passione per la scoperta e la ricerca del passato,veniamo contattati dal padre di uno dei nostri collaboratori, Andrea, il quale ci informa di una zona in cui frequentemente si reca per pescare. Il fondo è sui 120 mt. e molte volte, dice, chiazze di olio o gasolio arrivano in superficie dalla profondità. Parte della primavera la dedichiamo alla ricerca anche sui volumi che disponiamo. Si dice che alla fine della guerra i tedeschi vistisi perduti buttarono in mare molti armamenti, fra cui carri armati, camion, cannoni mai più ritrovati. Forse una nave riposa li sotto e accantoniamo la ricerca del sottomarino. Partiamo con gli occhi fissi su uno schermo dell’ecoscandaglio la cui immagine non cambia mai, intere distese deserte di pianura ineluttabilmente priva di qualsiasi forma di vita anche extraterrestre.
La chiglia dell'U-Boot e Il periscopio dell'U-Boot
Ad un certo punto un segnale non nitido si innalza dal fondale di 120, 115 fino a 75 metri! Non siamo sicuri della conformazione di quel che il trasduttore cosi’ faticosamente ha letto riportando l’immagine sullo schermo, ma decidiamo ugualmente di scendere e perciò programmiamo un tuffo, vista la profondità molto impegnativa ad estate inoltrata. Scendere a quelle quote non è semplice, la prudenza prende il sopravvento sulla curiosità e sull’avventura; non sappiamo cosa ci aspetta la sotto, forse un relitto, ma il segnale poco definito dell’ecoscandaglio non ci fa presagire niente di buono. Il primo agosto si parte alla volta di quel punto misterioso che un po’ ci avvicina per l’enigma al famoso sottomarino. La squadra è composta da Lorenzo Del Veneziano, Massimo Croce e Gianluca Bozzo in assistenza profonda, mentre in assistenza lungo la cima di discesa, Loredana, Roberto, Peter che forniranno le diverse bombole in caso di emergenza. Ad un via di Lorenzo lanciamo il pedagno, composto da un blocco di cemento pesante 50 kg; la cima arancione sfreccia rapidamente nel blu, come un rettile che insegue la sua preda, dopo quarantacinque secondi si ferma bruscamente. Tutto è pronto un ok e giù, verso un ignoto che sarà presto rivelato. Il mare in quel punto è di un blu intenso e sembra voler invitare i subacquei verso un segreto nascosto per tanti anni e mostrane un lato fino ad allora dimenticato e sepolto in una miriade di vita e di movimento. Alla quota di 100 metri Lorenzo, come da programma, lascia i due compagni; purtroppo il pedagno non si è fermato nel punto più alto di quel qualcosa che vive nelle profondità marine e ancora solo l’elemento liquido copre la loro visuale. Dopo circa venti metri Lorenzo arriva sul fondo, incuriosito da una cima tesa verso l’alto la segue, risale in diagonale per alcuni metri: un’ombra minacciosa incombe su di lui, alza lo sguardo e lo vede, enorme, integro, perfetto, come una lama piantata nel cuore di un uomo, sparge tutto il suo sangue sul fondo di un mare che lo ha soppresso per sempre, condannandolo all’oscurità eterna dei tempi.
Torre dell'U-Boot
Lorenzo riconosce distintamente la torretta, di quello che capisce essere un sottomarino, in tutta la sua circonferenza, intatta con i paraspruzzi sporgenti quasi a voler distruggere qualsiasi forma vivente possa avvicinarsi. Parte dello scafo è lanciata verso la lontana superficie come a voler fuggire da quelle sabbie mobili che come un feroce felino lo hanno inghiottito, senza nessuna pietà, nelle sue fauci. Mille stati d’animo si diffondono nel cuore di Lorenzo; timore, rispetto, reverenza al pensiero di uomini che forse giacciono in quella tomba di ferro affondata nel buio e dimenticata dall’umanità intera, ma anche gioia, orgoglio e un senso profondo di vittoria per aver riportato alla vita una vicenda data perduta nel nulla. E’ un sottomarino, forse proprio quello dell’antica leggenda, intatto in tutta la sua linea assottigliata dello scafo, una terribile ed invincibile macchina da guerra che ora giace inerme e sconfitta, dominata, ma nello stesso tempo protetta, da una massa enorme di acqua che non vuole lasciarla andare via. Il tempo programmato termina, Lorenzo si dirige rapidamente verso i suoi due compagni di cui vede distintamente le luci, simili a due occhi amici nella nebbia. Nel Mar Ligure risultano dispersi due sottomarini, mai più ritrovati, artefici di battaglie di una guerra la cui lezione l’uomo non ha mai voluto imparare, ma anche vicende di uomini scomparsi per la loro patria che non hanno potuto avere un degno e meritato ricordo da parte dei loro cari. I due battelli sono L’Usurper, battente bandiera inglese, disperso nell’ ottobre del 1943 nel Golfo di Genova. L’Usurper parti’ da Algeri il 24 settembre diretto alla Spezia; Il 3 ottobre ha ordine di spostarsi nel Golfo di Genova; non rispose al segnale successivo dell’11 ottobre. Con molta probabilità fu affondato dal battello anti sommergile tedesco UJ2208 il 3 di ottobre del 1943, il quale fece rapporto di un attacco ad un sottomarino nel Golfo di Genova proprio in quel giorno. Il secondo battello è l’ U-BOOT tedesco 455, il quale era partito dalla base di Tolone e era alla sua decima missione in Mediterraneo. Ultimo contatto avvenuto fu alla Spezia dove avrebbe dovuto unirsi agli UJ che lo avrebbero scorato fino in Francia, incontro mai avvenuto. Si pensa che il sommergibile sia affondato nell’aprile del 1944 su mina amica. Questa vicenda è ancor più avvolta dal mistero in quanto in quei giorni non ci sono notizie di nessun attacco alleato nel Mar Ligure. L’immersione successiva effettuata con Gabriele Paparo, permette a Lorenzo di scattare alcune fotografie dal cui studio si evince con un buon margine di sicurezza essere un U-BOOT tedesco. Nelle settimane successive abbiamo l’onore di avere presso il nostro Centro Luigi Casati e Jean Jackes Bolanz per organizzare una spedizione finalizzata ad una documentazione foto-video che possa farci capire qualcosa di più sul battello misterioso. Nelle immersioni di esplorazione, sei in tutto, vengono scattate parecchie fotografie e qualche tassello al puzzle viene lentamente aggiunto. Si tratta indubbiamente di un sommergibile tedesco classe VII C, presumibilmente appunto U-455. Lo scafo perfettamente integro per due terzi di nave, si trova piantato nel fondo del mare con la prua rivolta verso l’alto simile ad un animale agonizzate che lotta furiosamente per restare appeso alla sua precaria esistenza. Nella parte prodiera sottilissima nella sua estremità sono nettamente distinguibili i timoni di profondità, rivolti verso l’alto ad avvalorare l’ipotesi che il battello navigasse in immersione e, sentendosi colpito, cerco’ disperatamente di riemergere, ma l’acqua fu più veloce ad inghiottirlo. Sul lato di dritta l’ancora saldamente ferma al proprio posto; su tutto il ponte sono visibili i resti del teak che lo ricoprivano, quasi totalmente annientato dalla forza divoratrice del mare.
Sul ponte dell'U-Boot con Gigi
La visione della torretta è simile ad un incontro con un essere soprannaturale di cui avere timore, qui dove il sommergibile raggiunge la sua massima circonferenza, regna indiscussa e dominante verso quei sudditi che ora sono solo subacquei che osservano in silenzio lo spettacolo e che non ne riconoscono la sovranità. Nella sua parte principale sono chiaramente individuabili l’antenna di superficie o radiogoniometro riposta nel suo vano, il rilevatore ottico completamente mimetizzato dalla miriade di ostriche e microrganismi che hanno camuffato perfettamente anche ogni parte dello scafo, il periscopio il cui occhio artificiale timidamente ricerca un nemico che ora non c’è più e la bussola incastonata nella consolle. Il portellone principale appare aperto e lascia lo scenario ad un tunnel totalmente privo di luce e di vita. Lorenzo e Gigi, dedicano parte di una immersione alla pulizia dell’ingresso per valutare la possibilità di entrare all’interno dello scafo. E’ Gigi il prode avventuriero che, sentendosi nel suo Habitat, tenta l’ingresso nello stretto tunnel, ma dopo pochi attimi Lorenzo lo vede tornare indietro; tutto è sigillato e chiuso, ogni segreto del battello rimarrà per sempre custodito all’interno delle sue profonde viscere. Sulla torretta si possono vedere i paraspruzzi e la ringhiera; nella parte di poppa lo scafo è visibile ancora per circa una quindicina di metri. Sul fondo sono riconoscibili i resti della parte poppiera, tutto è disordine e distruzione, avvolto nel buio e nella profondità il fiero battello pare vergognarsi della sua triste fine; parte dello scafo si rialza in una sorte di richiesta di aiuto che non arrivò mai. Sul fondo sono sparse la poppa con individuabile un’elica e i resti distrutti forse di un siluro. La visione d’insieme data dalla posizione del battello è suggestiva ed emozionante, la buona visibilità presa quasi in tutte le discese ha permesso di ammirarne la maestosità e la fierezza dello scafo che sembra ancora voler svolgere il suo dovere. Lo scafo è affusolato e sottile, sul ponte si può vedere l’argano per l’ancora e il portello per l’evacuazione di emergenza.
Il sub Lorenzo del Veneziano con il suo amico Gigi intorno allo scafo.
Sulla parte prodiera e sulla estremità della torre sono presenti i resti dell’antenna che giacciono inoffensivi come due moncherini simbolo di una lotta mai vinta. Pensare che li hanno camminato uomini durante una guerra devastatrice da un senso di doveroso rispetto e fa apparire il tutto avvolto da un segreto che non può essere rivelato. Il glorioso sommergibile che tanto si era mimetizzato ha forse trovato oggi la sua pace e il riposo eterno; non possiamo esprimere nessun giudizio sull’andamento e sulle conclusioni di una guerra che ha portato da entrambe le parti perdite umane devastanti, ma possiamo renderci testimoni di un rinvenimento di grande interesse per chiudere un paragrafo dello studio del passato che era rimasto insoluto. Il sommergibile tedesco dato per disperso dalla Kriegsmarine nel Mar Ligure, pare essere proprio li. La classe del battello perduto era un VII C e più precisamente l’U-455, quello che giace in fondo al nostro Mare genovese appartiene è quella classe; ora il suo silenzio è stato rotto dalla soddisfazione di aver ridonato la memoria a chi era stato ormai abbandonato per sempre e per una scoperta subacquea di notevole valore.
I BATTELLI DI TIPO VII
Dietro la nascita , lo sviluppo e la sconfitta dell’arma subacquea tedesca si cela Karl Donitz. Fu lui infatti che ne sviluppò e migliorò i progetti. I classe VII furono quelli che lui volle per combattere la guerra, i loro successi furono il diretto risultato delle sue tattiche e la sconfitta analogamente fu dovuta ai suoi errori. Donitz dedico’ alla Marina tutta la sua esistenza; allo scoppio delle ostilità divenne “Konteradmiral“ e gli venne attribuito il titolo di Comandante in Capo degli U-Boot, fino ad arrivare a Comandante in Capo della Kriegsmarine e , sul finire della guerra, successore di Hitler a Capo del governo. La produzione su larga scala era dovuta al fatto che Donitz aveva chiaro in mente la necessità di svolgere una guerra di tonnellaggio; compito della Marina Tedesca era quello di interrompere le linee di comunicazioni da cui l’Inghilterra dipendeva attraverso l’attacco dell’unica arma disponibile a dispetto della netta superiorità di superficie dell’avversario. Da qui la famosa tattica dei “branchi di lupi“ che effettuavano serie di attacchi in forze allo scopo di abbattere più forze mercantili nemiche possibili. I tipo VII erano battelli a scafo singolo, lo scafo resistente a tenuta stagna svolgeva anche la funzione di scafo esterno. Attorno allo scafo resistente, a prua e a poppa, veniva realizzato un rivestimento leggero e permeabile che serviva per scopi idrodinamici e forniva gli spazi necessari per ospitare le casse di zavorra. Nel tipo “C" venne inserita un’ ulteriore cassa per incrementare la riserva di spinta positiva. Inoltre due strutture laterali, controcarene esterne, lunghe ed affusolate, contenevano altre casse zavorra e depositi per il carburante. Lo spazio fra lo scafo resistente ed i rivestimenti esterni era in gran parte bagnato, ma alcuni spazi erano a tenuta stagna o nei quali l’ingresso e l’uscita dell’acqua erano voluti e controllati per bilanciare il battello o per portarlo nell’assetto desiderato. Esternamente la struttura dell’estrema parte prodiera era a libera circolazione d’acqua ed in essa si trovavano gli sgusci per la fuoriuscita dei siluri, i servomeccanismi per i portelli esterni dei tubi lancia siluri e l’argano dell’ancora, oltre le casse di zavorra. L’ancora veniva ritratta sul lato di tribordo, all’altezza dell’estremità anteriore dei tubi lanciasiluri; i cui portelli aprivano verso l’interno e una volta richiusi combaciavano perfettamente con le linee della murata. I timoni orizzontali comparivano su ciascun lato del rivestimento prodiero. Sopra i timoni, vi erano le aperture per il sistema di sensori idrofonici. Subito sopra trovavano posto due diaframmi circolari del sistema telefonico subacqueo, mentre altri due erano una cinquantina di centimetri verso poppavia.
La coperta che fungeva da naturale proseguo del rivestimento dell’estrema prua che raggiungeva il centro nave, detto anche “vela”, era ricoperta completamente da un pagliolato in assi di legno. Le murate erano caratterizzate da una lunga fila di aperture piuttosto ampie per favorire l’ingresso e il deflusso dell’acqua. Per lo stesso scopo era stata prevista la lunga e sottile fessura fra il rivestimento della coperta e le controcarene esterne. Parecchie sezioni del pagliolato erano incardinate a portello o completamente mobili per permettere l’accesso ai boccaporti sottostanti che venivano sfruttati per immagazzinare vari materiali ed equipaggiamenti, tra i quali i siluri.
La plancia della falsatorre (la parte esterna della torretta) era pieno di supporti e vari equipaggiamenti; lì alloggiavano la custodia cilindrica del periscopio di ricerca e subito dopo quella di attacco, l’ottica per l’attacco in superficie, il supporto del faro di segnalazione e uno sguscio per il ricovero dell’antenna del radiogogniometro. Su entrambi i lati erano posizionate le luci di via in appositi recessi. Il condotto di aspirazione dei diesel si trovava sotto il rivestimento di coperta poppiero e risaliva fino sotto l’armamento dell’antiaerea posta sulla falsatorre. Le aperture attraverso cui l’aria entrava erano ricavate sulle fiancate della stessa, la bussola era situata sulla parte anteriore della vela. Inoltre la parte anteriore della plancia era dotata di un bordo paraspruzzi. Spostandosi verso poppa, come nel caso del rivestimento di prua, anche qui troviamo una struttura d’acciaio ricoperta con un pagliolato in legno; proseguendo si nota il boccaporto stagno delle cucine, il portello dello scivolo siluri poppieri, e la sezione mobile sotto la quale vi era il tubo lanciasiluri posteriore, inoltre, come a prua, tre paia di bitte rettraibili. Nell’estrema zona poppiera trovavano collocazione i supporti delle eliche, la seconda coppia di timoni orizzontali e quelli direzionali. Infine vi era una grande cassa zavorra poppiera sistemata all’interno del rivestimento che circondava il tubo lanciasiluri. Lo scafo resistente era una struttura a sezione circolare del diametro di 4,7 metri, lo spessore variava dai 16 ai 18,5 mm a centro nave, in corrispondenza della camera di manovra.
Un ponte divideva gli spazi interni dello scafo in due livelli, quello principale in cui viveva ed operava l’equipaggio ed il doppio fondo dedicato principalmente a serbatoi e depositi. Da prora a poppa si trovavano i seguenti compartimenti:
Camera di lancio prodiera: La parte anteriore dello scafo era interamente dedicata ai tubi lanciasiluri, alle sistemazioni per il loro funzionamento e a quelle per la movimentazione e lo stivaggio dei siluri. Qui trovavano posto dai quattro ai sei siluri più armi di riserva e relativi equipaggiamenti. La camera di lancio ospitava a volte parte delle cuccette per l’equipaggio, sei per lato, subordinate comunque alle esigenze funzionali dell’armamento. Sotto il deposito siluri vi era una paratia curva al di sotto della quale si trovava la cassa d’assetto di prora e le due casse di compensazione per controbilanciare la diminuzione del peso determinata dal lancio dei siluri.
Alloggi prodieri equipaggio: Divisi dal vano precedente da un boccaporto, questo compartimento era più spazioso del precedente, anche perché gli occupanti erano generalmente dei graduati. Vi era una toilette con doccia, degli armadietti e quattro cuccette per i sottoufficiali con tre piccoli scaffali per gli oggetti personali. E un tavolo dove consumare i pasti. Un'altra leggera paratia con un portello divideva questo compartimento con quello successivo dedicato agli ufficiali. Il locale era composto da due cuccette per lato, un tavolo e quattro guardaroba relativamente ampi. L’ufficiale in comando aveva una propria cabina a poppavia a sinistra. A poppavia dell’alloggio del comandante si trovava la camera di manovra, mentre di fronte ad essa i locali dedicati ai sensori acustici e agli apparati radio. L’area sotto il ponte di questa sezione veniva occupata dal compartimento accumulatori prodiero, a poppa del quale vi era un deposito munizioni per il pezzo d’artiglieria e le mitragliere sistemate in coperta. Sui entrambi i lati vie erano collocati delle estensioni del serbatoio carburante anteriore collegate attraverso le paratie stagne.
Camera di manovra: Durante l’immersione il comando e controllo della nave veniva esercitato dalla camera di manovra. In questo locale perciò si trovavno tutti i sistemi di governo e le valvole per l’allagamento delle casse. Al centro la stanza era dominata dalle colonne dei due periscopi, uno di ricerca e subito dietro quello di attacco. La timoneria principale si trovava all’estremità anteriore del compartimento. Nel doppio fondo trovavano la loro collocazione casse e serbatoi.
Torre: Tra i due periscopi vi era un boccaporto stagno con una scala a pioli dalla quale si accedeva alla torretta. La torretta era estremamente angusta, sporgeva dallo scafo per poco più di due metri e conteneva tutti gli equipaggiamenti necessari al lancio dei siluri. Sul cielo di questo piccolo compartimento un portello stagno permetteva l’uscita sulla plancetta della falsatorre.
Alloggiamenti poppieri e cucine: Attraverso un portello stagno si accedeva agli alloggi sottoufficiali poppieri, quattro per lato, con relativi armadietti. Nella parte posteriore era situata una cucina dotata di lavello, fornelli elettrici e due cambuse.
Sala Macchine: Era occupata interamente dai due grandi motori diesel per la propulsione in superficie e relativi accessori.
Sala motori elettrici e camera di lancio poppiera: diviso da una paratia era ubicato il locale contenente i due motori elettrici per la propulsione in immersione. Vi erano due grossi compressori per l’aria e dietro il tubo lanciasiluri poppiero con il serbatoio di aria compressa ad esso associato. Sotto il ponte era collocato il siluro di riserva e dietro, la cassa di compensazione, mentre la cassa di assetto poppiera era a poppavia del deposito di ricarica.
U 455 nel dettaglio. Possiamo affermare con un buon margine di sicurezza che il battello da noi ritrovato sia U 455, anche se nessun potrà mai averne l’assoluta certezza in quanto lo scafo è ineluttabilmente sigillato e nulla manifesta al di fuori di esso, tranne essere l’emblema di morte e alienazione dell’umanità intera. I primi battelli della classe VII, come il sottomarino in questione, sei per la precisione furono commissionati nel 1934. Furono i primi di oltre settecento esemplari. Nel corso della storia del loro sviluppo, che si spinge fino al 1944, i battelli di tipo VII furono realizzati in sei diverse versioni. L’U455, battello tipo VII C, fu costruito dal Cantiere Deutsche Werke AG, Kiel Gaaden; ordinato il 16 gennaio del 1940 e varato il 21 Giugno del 1941. Iniziò il suo dovere di macchina da guerra nell’agosto del 1941 sotto la 5 flottiglia a Kiel come nave scuola, li si fermò fino al dicembre dello stesso anno. Nel gennaio del 1942 fino al febbraio del 1944 venne trasferito alla 7 flottiglia a ST Nazaire e dal marzo del 1944 fino al giorno della sua scomparsa aprile 1944 operava presso la base di Tolone nella 29 flottiglia. Due uomini comandarono il fiero battelo dal 21 agosto 1941 fino al 22 novembre del 1942 Hl Hans-Heinrich Giessler e dal 22 novembre del 1942 fino al 6 aprile del 1944 KL Hans Martin Scheibe.
Il comandante Giessler
MISSIONI DEL U-455
15.01.1942- 28.02.1942
Primo viaggio-missione attiva. U455 parte da Kiel sotto il comando di Hans-Heinrich Giessler e arriva a Bergen dopo sei settimane.
21.03.1942-30.03.1942 Secondo viaggio-missione attiva. U455 parte da Bergen sotto il comando di Hans-Heinrich Giessler e dopo solo una settimana arriva a St. Nazaire.
16.04.1942-10.06.1942 Terzo viaggio-missione attiva. U455 parte da St. Nazaire sotto il comando di Hans-Heinrich Giessler e torna a St. Nazaire dopo otto settimane di missione. Durante questo incarico colpisce due unità che navigavano in convoglio scortate dal ON89 e dal SL111 Il 3 maggio 1942 affonda la nave inglese BRITISH WORKMAN, mentre l’11 giugno la nave inglese GEO H JONES.
22.08.1942-28.10.1942 Quarto viaggio-missione attiva. U455 parte da St. Nazaire sotto il comando di Hans-Heinrich Giessler e torna a St. Nazaire dopo nove settimane e mezza di missione.
24.11.1942-24.01.1943 Quinto viaggio-missione attiva. U455 parte da St. Nazaire sotto il comando di Hans-Martin Scheibe e ritorna a St. Nazaire dopo oltre otto settimane di missione.
23.03.1943-23.04.1943 Sesto viaggio-missione attiva. U 455 parte da St. Nazaire sotto il comando di Hans-Martin Scheibe e torna a St.Nazaire dopo quattro settimane di missione. Durante questo viaggio colloca delle mine che provocarono l’affondamento dell’unità francese ROUENNAIS il 25 aprile del 1943
30.05.1943-31.07.1943 Settima missione attiva. U455 parte da S. Nazaire sotto il comando di Hans-Martin Scheibe e vi ritorna dopo meno di nove settimane. Durante questo mandato il 2 giugno viene attaccato da un aereo nemico ( RAF 248 squadra ) e subisce lievi danni; viene nuovamente attaccato il 19 giugno da un aereo (USAAF 2 squadra), anche in quest’occasione esce illeso dallo scontro grazie alla nave appoggio che lo ha prontamente difeso senza però abbattere il mezzo.
20.09.1943-11.11.1943 Ottavo viaggio- missione attiva U455 parte da St. Nazaire sotto il comando di Hans-Martin Scheibe e arriva a Lorient dopo sette settimane e mezzo di missione.
06.01.1944-03.02.1944 Nono viaggio- missione attiva U455 parte da Lorient sotto il comando di Hans-Martin Scheibe e arriva a Tolone dopo quattro settimane.
22.02.1944-06.04.1944 Decimo viaggio-missione attiva U455 parte da Tolone sotto il comando di Hans-Martin Scheibe e viene dato per disperso il 6 aprile 1944. Nessun superstite.
L’IMMERSIONE VISTA DA LORENZO DEL VENEZIANO
La discesa sul sommergibile è sicuramente da considerarsi tra le più impegnative che io abbia pianificato nel Mediterraneo. Le difficoltà sono molteplici, profondità e corrente , sono le più importanti oltre alla luminosità che a quelle quote nel Mar Ligure è notevolmente ridotta. Per scendere ho utilizzato un rebreather a circuito chiuso elettronico automiscelante, BUDDY INSPIRATION, con diluente 8% di ossigeno e 70% di Elio, pressione parziale dell’ossigeno costante a 1.3, che ritengo mi abbia dato un buon margine di sicurezza rispetto al convenzionale circuito aperto. Vantaggi a livello decompressivo e la tranquillità di avere una scorta di gas notevole. A profondità cosi’ elevate il manometro di un sistema a circuito aperto scende molto rapidamente comportando comunque nel subacqueo un minimo stress dovuto alla gestione della scorta di gas. In ogni caso per affrontare una eventuale emergenza nel caso di guasto della macchina avevo con me un 12 litri di trimix 12% di Ossigeno e 50% di Elio, un 10 litri di Ean 36 e un 7 litri di Ossigeno puro, oltre varie bombole che avevo precedentemente posizionato sulla cima di discesa. Ho effettuato nove immersioni tutte con BUDDY INSPIRATION, massima profondità raggiunta 120 metri, profondità media delle immersioni 105 metri; i tempi di fondo compresi fra 18 e 20 minuti, mi hanno comportato un RUN TIME compreso fra i 90 e i 110 minuti. Il programma decompressivo da me utilizzato è stato RGMB. La visibilità incontrata è stata sempre discreta anche se in alcuni casi la corrente, a volte anche sul fondo, ci ha costretto a limitare la nostra ricerca esclusivamente sullo scafo del relitto. Abbiamo esplorato intorno allo carena per un raggio di circa dieci metri trovando pezzi di lamiera contorti ed non identificabili. Ho effettuato un numero discreto di fotografie con scafandro ed illuminatori Foto Leone che spero possano avere dato l’idea dello stato di conservazione del sommergibile, oltre un video con camera digitale e scafandro autocostruito . Un ringraziamento particolare a Luigi Casati, Jean Jackes Bolanz, Gianluca Bozzo, Massimo Croce, dott. Guido Parodi, Loredana De Sole, Massimo Mazzitelli, Roberto Liguori, Gabriele Paparo, Luca Pozzi Sponsor: Giòsub - Dive System - Foto Leone
Webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 19 febbraio 2013
IL MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA PASSA ALLA MARNA MILITARE
IL MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA (CHIAVARI)
PASSA ALLA
MARINA MILITARE ITALIANA
COMUNICATO STAMPA
SALA STORICA DELLA SCUOLA TELECOMUNICAZIONI FF AA. DI CHIAVARI
ATTO DI DONAZIONE DI ERNANI ANDREATTA E FIGLIA GABRIELLA
Giovedi 10 Dicembre 2020 ore 16.00
Alle 16.00, di Giovedi 10 Dicembre c.a., presso il noto studio notarile del Dott. Alberto CECCHINI in Chiavari, si è concluso l’atto di donazione del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari allo Stato Maggiore della Marina.
La parte donante era costituita dal Comandante Ernani Andreatta, fondatore e curatore del museo stesso, e dalla figlia Gabriella in Westermann che per alcuni numerosi reperti ne era proprietaria. Il Capitano di Vascello Nicola Chiacchietta, per una importante parte di reperti, ha firmato la donazione per la scuola Telecomunicazioni FF AA di Chiavari, mentre il Capitano di Vascello Leonardo Merlini ha firmato la donazione per conto del Museo Tecnico Navale di La Spezia. In questo secondo elenco sono contemplati preziosi cimeli di epoca Marconiana come le radio degli anni ‘20 e ‘30 e altri reperti originali appartenuti alla nave laboratorio “Elettra” di Guglielmo Marconi. Detti beni, viene specificato nell’atto di donazione, rimarranno però collocati nella sezione "MUSEO MARINARO TOMMASINO - ANDREATTA" presso la Scuola Telecomunicazioni FF.AA. di Chiavari ma potranno essere impiegati, a insindacabile giudizio della Marina Militare, in altre sedi per scopi culturali e di promozione della storia marittima e navale. Non escluso, aggiunge Andreatta anche l’importante “Cantiere della Memoria” di La Spezia semprechè questo ne faccia richiesta alla Marina Militare.
Dopo essere passati attraverso varie commissioni, in quanto il valore storico e scientifico dei reperti doveva essere valutato dallo Stato Maggiore della Marina prima dell’acquisizione, la donazione ha seguito un lunghissimo iter di quasi 10 anni ma solo nel 2020 ha subito una insperata “accelerazione” per le varie autorizzazioni grazie all’impegno del C.V. Nicola Chiacchietta Comandante della Scuola TLC e del Capitano di Fregata Marco Rainoldi, Direttore della Sala Storica della Scuola. La donazione ha potuto aver luogo anche per l’impegno dell’Ammiraglio di Squadra Alberto Bianchi che al tempo del suo incarico di Comandante delle Scuole della Marina Militare diede per primo il suo benestare che ha potuto concretizzarsi soltanto con le importanti autorizzazioni concesse dall’Ammiraglio di Divisione Giorgio LAZIO Comandante in Capo di Marina Nord che ha sede a La Spezia.
Hanno contribuito alla concessione della donazione anche il Capo di Stato Maggiore Amm. Isp. Davide Gabrielli.
Altre autorizzazioni sono pervenute dall’Ufficio di Consulenza Legale del Comando Marittimo Nord nella persona del Consulente Legale C.V. Giuseppe Sfacteria, dove il Capitano di Corvetta Ludovica Sarcina era il responsabile incaricato della trattazione della pratica.
Il definitivo atto di donazione è stato quindi autorizzato dallo Stato Maggiore della Marina Militare considerando appunto l’interesse della Marina Militare ad accettare la menzionata donazione, tenuto conto del “valore culturale e storico” della stessa. Sono oltre 800 mq. di importantissimi reperti e cimeli che proiettano Chiavari in un posto di grande rilievo culturale di mare assieme al Museo Tecnico Navale di La Spezia ed al Museo Storico Navale di Venezia. Attualmente questi musei sono tutti chiusi in attesa che l’imminente vaccino ci porti fuori dalla pandemia del Covid 19.
I due Testimoni richiesti all’atto di donazione non potevano che essere Giancarlo BOARETTO e la sua gentile Consorte Paola FERRARIS che sono stati fondamentali per la conservazione del Museo Marinaro. Vorrei ricordare che il Museo Marinaro era entrato alla Scuola TLC di Chiavari in forma temporanea nel 2008 autorizzato Capitano di Vascello Giuseppe Bennardi Comandante pro tempore della Scuola a quella data. Il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta, è stato fondato a Chiavari nel Rione Scogli il 7 Luglio 1997. Era stato originato da una cospicua donazione di Franco “Mario” Tommasino co-fondatore del Museo che però purtroppo è mancato un anno dopo nel 1998. Si sono aggiunti così molti preziosi utensili dei Maestri d’ascia e Calafati dei Cantieri Gotuzzo che si sono presto sommati a numerose donazioni dei nipoti delle maestranze che avevano lavorato nei Cantieri degli Scogli. La sua prima sede è stato proprio nell’antica Casa Gotuzzo, costruita nel lontano 1652, dove aveva occupato tutti i fondi disponibili. Nel 2001 il Museo veniva trasferito a San Colombano Certenoli nella balconata dell’Expò Fontanabuona a Calvari su richiesta dell’allora presidente dell’expò Dott. Angelo Barreca. Nel 2008 veniva ulteriormente trasferito alla Scuola Telecomunicazioni FF AA per lungimirante concessione, come detto, del Comandante Pro Tempore di allora C.V. Giuseppe Bennardi. Nel 2013 subiva un altro trasloco interno alla Scuola TLC che gli destinava più idonei e congrui locali e spazi.
Il 13 Ottobre 2014 La Sala Storica ed il Museo Marinaro subivano la disastrosa alluvione che invadeva con acqua e fango, per una altezza di 60 cm di altezza tutte le sale museali. Per fortuna tutti i preziosi cimeli e reperti erano a circa 90 cm e pertanto la marea d’acqua e fango non ha distrutto fisicamente nulla. Ma le pulizie e le manutenzioni sono durate circa 6 mesi.
Con tre traslochi e una alluvione ho avuto uno straordinario aiuto da alcuni volontari che voglio qui nominare. In primo luogo i summenzionati Giancarlo BOARETTO e consorte Paola FERRARIS quindi nel tempo Enrico Paini, Francesca Perri, i giovani Francesco Ulivi e Francesco Materno, e i radio amatori Mario Mura, Paolo Serravalle e Luigi Senarega. Non ultima mia moglie Simonetta Pettazzi che ancora adesso, quando libera da impegni, continua a collaborare nei definitivi inventari dei reperti e nelle pulizie delle sale Museali. Ultimamente la Scuola TLC ha stipulato un accordo di collaborazione con l’associazione Culturale il SESTANTE sia con il Past Presidente Enzo Gaggero, uno dei più grandi esperti d’Italia di cieli stellati, e il Nuovo Presidente Sergio Falcone coadiuvato dai soci Piergiorgio Ricotti, Debora Ottone, Domenico Canepa, Sandro Arpe e Mauro Pecorari.
Ho anche il piacere di ringraziare il Notaio Alberto CECCHINI per essere riuscito a districarsi nella impervia navigazione attraverso le istituzioni della Marina Militare dove ha naturalmente trovato un grande aiuto, come “piloti”, da parte dei Com.te Chiacchietta e Rainoldi. La sintesi dell’atto di donazione è stata da tutti molto apprezzata nonostante all’inizio ci fosse “molta nebbia all’orizzonte” come si dice in termini marinari!
In tutti questi anni ho molto apprezzato il sostegno e non solo dell’Associazione Culturale “Mare Nostrum” di Rapallo in particolar modo dal suo storico presidente Comandante Carlo Gatti e dal compianto scrittore e giornalista Emilio Carta. Da molti anni la storia del Museo Marinaro può essere immediatamente visionata nel sito www.marenostrumrapalo.it cliccando sull’icona a tendina sempre presente nel sito. Così come essendo socio UNUCI (UNIONE NAZIONALE UFFICIALI IN CONGEDO D’ITALIA) di Chiavari e socio ANMI (ASSOCIAZIONE NAZIONALE MARINAI D’ITALIA) di Santa Margherita Ligure e Rapallo dove ho tanti “vecchi” amici come l’ex AUCD sommergibilista Luciano Cattaruzza e ne ho conosciuto e apprezzato molti altri nuovi perché tutti legati alla cultura di mare
Ma, se la storia Marinara di Chiavari è stata riportata alla luce, posso orgogliosamente affermare che soltanto per l’impegno e la disponibilità della Marina Militare ha potuto concretizzarsi grazie alla messa a disposizione dei locali della Scuola Telecomunicazioni FF. AA. di Chiavari. Voglio qui ringraziare tutti i Comandanti pro tempore della Scuola non ultimo quello che ha concluso, concretamente, questo lungo itinerario e cioè il C.V. Nicola CHIACCHIETTA. Una speciale menzione di ringraziamento al C.F. Marco Rainoldi per avermi sempre aiutato, con professionalità e pazienza, nella donazione conclusa in questi giorni. Non voglio dimenticare il Comandante Silvano Benedetti che aveva iniziato la pratica di donazione nel lontano 2011 e conclusa solo ieri, i passati aiutanti Maggiori come Luigi Pansa e Vito Casano così come i Marescialli Giovanni Maresca, Maurizio Venuto e Antimo Sternativo. Amedeo Devoto un genio del Rione Scogli ha avuto un posto preminente anche nel diorama del Rione Scogli costruito con il validissimo aiuto di Giancarlo Boaretto, così come lo ha avuto Stefano Risso detto “Nitti” anche lui un genio degli Scogli ormai scomparso.
Purtroppo, carenti se non assenti sono stati i contributi e gli aiuti da certe istituzioni civili di Chiavari. Ma voglio qui ricordare che il Comune di Chiavari con l’attuale Sindaco Marco di Capua ha intitolato a “LUNGOMARE DEI GOTUZZO” - Costruttori Navali, la passeggiata dove sino al 1935 sono stati varati tanti grandi velieri proprio dai tre GOTUZZO, FRANCESCO detto Mastro Checco, dal Figlio LUIGI e dal Nipote EUGENIO detto “Mario”. Un grande ricordo molto apprezzato da tutti che ha fatto dimenticare le costruzioni denominate in seguito “la Montecarlo degli Scogli” per la loro “esuberanza architettonica”.
Il Museo Marinaro è stata una mia fatica che ho condotto con il solo aiuto di pochi volontari pensando che con la volontà si può arrivare a tutto. E così è stato, ringraziando ancora coloro i quali hanno partecipato volontariamente a questa impresa più che decennale e che certo non termina qui.
PRO SCHIAFFINO, presidente onorario e grande storico del Museo Marinaro di Camogli ha spesso affermato: "Chiavari aveva molto di più di Camogli perché aveva anche importantissimi Armatori e Cantieri Navali che Camogli non aveva per questioni di spiaggia”. Ma Chiavari, continuava Schiaffino, è la prima di tutte le cittadine della riviera, anche di Camogli, ma a Chiavari non l’avete mai capito !
Mi spiace constatarlo, ma a Chiavari manca completamente la cultura del mare e certe istituzione civili non hanno mai capito l’immensa storia di lavoro e di fatica che per secoli è stata protagonista costruendo e varando centinaia di grandi e maestosi velieri oceanici attraverso i suoi Cantieri navali, dei Gotuzzo, dei Tappani e dei Beraldo e all’operato di grandi armatori, come i Dall’Orso che sono arrivati a possedere oltre 50 velieri che andavano in tutto il mondo a commerciare e a trasportare merce.
Un ultimo grande pensiero ai “miei” Pescatori degli Scogli che ho conosciuto tutti nel dopoguerra e che ho fatto conoscere attraverso il volume di “Chiavari Marinara- Storia del Rione Scogli”. Così, dopo l’epoca della grande navigazione a vela in cui Piazza Gagliardo era soprannominata “CIASSA DI BARCHI”, il suo nome popolare di “PIAZZA DEI PESCATORI” è giustamente diventato un simbolo di questa epopea che anche nei Pescatori è stata grande come “quell’epoca eroica della vela” purtroppo spesso dimenticata. Ma basta visitare il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta, che ora fa parte integrante anzi è di proprietà della Sala Storica della Scuola Telecomunicazioni FF.AA. per rendersi conto di quanto affermo. GRAZIE MARINA MILITARE!
Grazie per l’attenzione.
S.T. di Vascello e Comandante di Marina Mercantile
Ernani Andreatta
Allegate fotografie dell’atto di donazione.
COMMENTO
La lettura del RAPPORTO sul passaggio del MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA alla MARINA MILITARE ITALIANA, ci offre l’occasione di ONORARE un grande Campione: il Comandante Ernani Andreatta (foto sopra), il quale ha speso gran parte della sua vita per “conoscere il mare e amarlo profondamente”.
Ma la sua grande sfida é stata quella di traferire i suoi SENTIMENTI MARINARI a tutti noi, amici della sua infanzia che, a quel mondo di velieri e di navi ci siamo dedicati, prima da giovani e poi da adulti seguendo la sua scia luminosa che ancora oggi ci attrae come la cometa in questi giorni di festa.
Tuttavia, la sua sfida é andata oltre! Con le numerose battaglie vinte e perse, tra delusioni sofferte ma anche gratificanti é riuscito a creare un interesse intorno ai suoi reperti marinari che dal basso é salito prima lentamente, e poi vertiginosamente verso i piani alti della cultura navale italiana.
Oggi, come leggiamo nel rapporto, il nostro Nanni é felice, e noi con lui, per aver raggiunto il suo massimo obiettivo: il salvataggio di importantissimi reperti navali che saranno custoditi nelle mani della nostra Marina Militare, la quale sarà sempre VIGILE su quella storia di uomini e navi anche quando noi ce ne saremo andati a navigare tra le nuvole…
In questo “passaggio di consegne”, non solo generazionale, il testimone porta con sé sentimenti antichi e moderni che affondano le radici in due parole che si assomigliano: mare e amore, due valori che nel “duro” Nanni appaiono poco, ma noi sappiamo quanto siano presenti in ogni suo atto compiuto i tutti questi anni.
Nanni, noi ti ringraziamo per le parole che hai dedicato nel RAPPORTO a Mare Nostrum Rapallo, al suo sito che conserva i risultati del tuo immane lavoro e che oggi, con le sue 55.000 visite, é testimone del suo VALORE, del tuo VALORE!
Carlo GATTI
MANOVRE E METEO: ANCHE L'OCCHIO VUOLE LA SUA PARTE
Ph: J.Gatti
MANOVRE E METEO: ANCHE L’OCCHIO VUOLE LA SUA PARTE
by JOHN GATTI • 25 NOVEMBRE 2020•11 MINUTI
Le previsioni metereologiche interessano tutti ma, per alcuni, l’informazione relativa all’evoluzione dei fenomeni atmosferici – il più possibile precisa – è uno degli ingredienti fondamentali del piano strategico a breve e a lunga distanza.
Abbiamo parlato del gigantismo navale in questi articoli (Una manovra a lieto fine) (MSC Istanbul. La prima nave da 400 metri a Genova) (L’arrivo delle grandi navi) e di quanto l’intensità del vento e la forza del mare influenzino la loro possibilità di gestione.
In quest’altro articolo abbiamo visto come il Tavolo Tecnico, che si riunisce quotidianamente per studiare le previsioni dei movimenti portuali del giorno successivo, ponga particolare attenzione alle condi-meteo.
In effetti, il vento e il mare dettano le regole del gioco.
Nella visione d’insieme occorre valutare la normalità:
- numero di navi in arrivo e in partenza, movimenti portuali,
- manovre contemporanee e particolari
Ogni situazione descritta ha bisogno, o meno, di piloti, rimorchiatori e ormeggiatori. La corretta programmazione consente un’ottimizzazione dei tempi – che si traduce in risparmio di soldi per l’utenza – nel contenimento dei rischi e in un’efficienza generale.
La “normalità”, descritta sopra, può essere attaccata da vari fattori, quali:
- gestione di navi di grandi dimensioni in contemporanea;
- manovre particolari che prevedono l’impegno per lungo tempo dei servizi tecnico nautici;
· ma - condizioni meteomarine negative; ecc...
In questo caso, occorre valutare accuratamente le armi che si hanno a disposizione per affrontare eventuali imprevisti o un peggioramento delle condizioni.
Se si attende vento molto forte, per esempio, in base al numero disponibile di rimorchiatori, di eventuali shore-tension, agli ormeggi assegnati e alle dimensioni, si pianifica il numero di navi che possono stare contemporaneamente in una determinata banchina, la sequenza delle manovre e la strategia d’intervento.
La "Concordia" nel suo ultimo trasferimento da Prà a Genova.
Fin qui siamo nell’ordinario.
Le cose cambiano quando la sfera di cristallo si rompe…
Era una tranquilla notte d’estate e, con un collega, uscivamo in pilotina incontro a due navi: una portacontenitori lunga 140 metri per lui e una piccola ro-ro di 90 metri per me.
Mare piatto e assenza di vento; tutte e due erano navi che scalavano frequentemente il nostro porto; comandanti simpatici. Ingredienti non indispensabili, ma che contribuivano a un clima sereno e rilassato.
La Norlandia era una nave “vecchietta”, dotata di due macchine, senza thrusters, di poco pescaggio e, spremendo i pochi cavalli che aveva, riusciva a raggiungere a malapena la velocità di 8/9 nodi.
Mentre passavo il traverso del rosso dell’imboccatura, sentii al VHF il mio collega che chiamava il solito rimorchiatore previsto per la sua manovra.
Stavo chiacchierando tranquillamente con il comandante quando mi accorsi che poco più avanti, nell’area dell’avamporto, la superficie del mare non specchiava più: una brezza leggera disegnava strisce alterne di chiaro/scuro tremolanti sullo sfondo delle luci portuali.
Niente di grave, un po’ di aria fresca che scivolava dai monti ci avrebbe solo rinfrescato dalla calura estiva, almeno così pensavo fino a quel momento.
Dieci minuti più tardi cominciai a preoccuparmi; vedevo distintamente una nube di carbone, illuminata dalle torri faro presenti in una banchina, spostarsi verso sud: la brezza si era trasformata in vento e, da quello che percepivo, soffiava ad almeno 20 nodi.
Chiamai per radio il mio collega per avvisarlo ma, ovviamente, anche dove si trovava lui la situazione stava cambiando velocemente.
Tenete presente che non era ancora assolutamente un’emergenza. Si trattava, se così si può dire, di un innalzamento dell’attenzione, di una manovra che, da facile, stava diventando via via più impegnativa. Ero convinto che il vento avesse raggiunto il suo picco; d’altra parte era estate, le previsioni erano di tempo ottimo e fino a qualche minuto prima era calma piatta.
I dieci minuti successivi procedemmo a ridosso di alcune ostruzioni portuali e, di conseguenza, il vento calò notevolmente, ma il fumo quasi orizzontale di una ciminiera, posta parecchio più a ponente, rivelava la persistenza di una situazione da non sottovalutare.
Terminata la parte di canale protetta, il vento ci investì nuovamente e dovetti aumentare la macchina per contenere lo scarroccio verso la diga. Raggiungemmo un equilibrio con 8 nodi di velocità e un’andatura di bolina.
Non c’era tempo per chiamare un rimorchiatore e, contando sempre sull’errata convinzione che il vento non sarebbe aumentato ulteriormente, proseguii.
Anche perché ormai eravamo quasi arrivati al punto di evoluzione.
30 nodi.
Cominciavo a essere preoccupato.
A quel punto mi restavano due possibilità: non evoluire, mettere la prua al vento, dare fondo e aspettare l’arrivo del rimorchiatore, oppure continuare come da programma.
La nave era vecchiotta e tutt’altro che potente, ma era piccola – e quindi avevo un discreto spazio a disposizione – due macchine – che mi avrebbero aiutato nella rotazione facendo coppia – ed ero riuscito a sopravventarmi per bene.
Optai per la seconda soluzione.
Puntai la prora sullo spigolo di ponente della prima banchina, velocità 7 nodi. Contavo sul ridosso della testata per guadagnare ancora qualche metro sul vento.
Misi le macchine indietro tutta.
Quando la velocità scese a 5 nodi fermai la sinistra e, poco dopo, la direzione della prora si spostò liberando lo spigolo. Un minuto dopo persi il ridosso e il vento, picchiando sulla prua, mi aiutò nell’evoluzione… questo fino a quando tutta la nave non uscì allo scoperto, perché a quel punto iniziò uno scarroccio deciso, anzi, molto deciso.
Aspettai che la prora cadesse meglio e, per aiutarla, utilizzai un colpetto avanti con la dritta e tutto il timone a sinistra.
Dovevo portare la poppa al vento nonostante il timore di non avere sufficiente potenza di macchina per arrestare la corsa verso il cemento della diga.
Finalmente arrivò il momento di rimettere le macchine indietro tutta.
La nave rallentò, in maniera costante ma molto lenta.
Ci fermammo a pochi metri dalle ostruzioni restando in posizione di stallo per alcuni interminabili minuti.
Poi, finalmente, cominciammo a risalire il vento.
Non fu facile arrivare in banchina, anche perché, senza thruster e con poca potenza di macchina, il vento ci impediva di tenere sotto controllo la direzione, facendoci cadere ora da una parte e ora dall’altra.
È stata una manovra che con il comandante abbiamo ricordato numerose volte negli anni a seguire. A nessuno dei due era mai capitato di trovarsi in mezzo a un cambiamento così repentino della situazione meteo.
Ph: J.Gatti
Cosa ci portiamo a casa da questa esperienza?
In realtà molte cose, ma oggi voglio mettere l’accento sull’importanza di cogliere i segnali.
Un’occhio attento – e quello di chi manovra lo deve essere sempre in modo particolare – deve saper cogliere i segnali che arrivano dall’ambiente in cui opera.
L’anemometro, presente su quasi tutte le navi, indica la forza e la direzione del vento in quel momento e in quella precisa posizione.
La situazione, presente qualche centinaio di metri più avanti, potrebbe essere completamente diversa.
Propongo un elenco dei modi in cui possiamo ottenere le informazioni che ci interessano:
. Al primo posto abbiamo un’accurata previsione meteo; sono molte le possibilità di schiarirsi le idee, reperendo quanto d’interesse dai numerosi siti disponibili e, per esigenze più approfondite, esistono realtà consolidate, di grande esperienza e affidabilità come, per esempio, navimeteo.com, l’applicazione LaMMA Meteo, e diverse altre che forniscono dati molto personalizzati a seconda delle esigenze e delle preferenze.
. Al secondo posto metto le stazioni meteo dislocate nell’area di interesse: quelle curate dalle Autorità di Sistema, quelle presenti nei terminal, nei vari aeroporti, fino ad arrivare agli anemometri di cui sono dotate le gru di banchina. Di solito, cercando bene, si ottiene una buona copertura della situazione del vento;
. Il terzo posto, ma non per questo meno importante, lo dedico agli indicatori naturali. Un’occhiata alle navi alla fonda ci può far capire se siamo in presenza di corrente e se questa vince sul vento; il fumo, di qualsiasi tipo, ci offre un’indicazione abbastanza precisa di intensità e direzione; la superficie del mare, piatta, appena segnata, striata di bianco, la presenza di “pecorelle” o addirittura di moto ondoso all’interno di acque ridossate, sono segnali molto precisi.
Il progetto della nuova Torre Piloti, uscito dalla matita dell’architetto Renzo Piano – una persona dalle qualità umane e professionali incredibili – prevede un lungo e sottile palo, somigliante a un’antenna, sulla sua sommità. I suoi movimenti di flessione offriranno un’indicazione istantanea della forza e dell’intensità del vento alle navi che imboccano il porto.
Ricordiamoci che l’orografia generale cambia la situazione radicalmente, anche a distanza di poche decine di metri, per questo motivo è importante avere più indicatori possibili e, soprattutto, non sottovalutarli mai.
Presentazione del progetto "Torre Piloti"
Amm. Melone, Arch. Piano, Pres. Merlo, C.P. Gatti
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