GUERRA E PACE ... AD ALLEGREZZE
GUERRA E PACE…. AD ALLEGREZZE
Fu un Agosto di sangue quello del 1944 in Val d’Aveto (GE). Siamo nelle fasi finali della Seconda Guerra Mondiale e i nazisti sono in ritirata dietro la linea Gotica dopo un anno dalla caduta del fascismo, con la collaborazione di delatori in camicia nera al servizio di Mussolini e della Repubblica Sociale di Salò.
Di giorno il marittimo ligure è occupato a tener d’occhio il mare, la nave ed il carico, ma quando riposa sogna i verdi campi, le vallate e spesso addirittura le montagne. Chi ha navigato lo sa, e quando ritorna a casa porta la famiglia a villeggiare in Trentino oppure in Val D’Aosta. Il perché di questa “transumanza” non la conosco, ma forse si tratta del desiderio di uno “stacco” geo-climatico che, tuttavia, dopo una settimana trascorsa tra le mucche scompare per fare posto nuovamente ai sogni di mare.
Fu così che dopo aver scoperto il Trentino e la Val d’Aosta c’innamorammo perdutamente della nostra più vicina Val D’Aveto, dei loro valligiani, delle loro storie e delle tante gite che dal Passo del Tomarlo si potevano fare nei dintorni: Bobbio, il Penice, Grazzano Visconti, Compiano, Bardi alla scoperta d’incantevoli borghi medievali e persino quelli “antico-romani” a Velleia.
Il destino volle che nel 1978 “gettassimo l’ancora” a 920 metri d’altezza, qualche chilometro prima di Santo Stefano D’Aveto, precisamente ad Allegrezze, un borgo di poche case che tuttavia aveva una scuola elementare, un piccolo Ufficio Postale, un negozietto di generi alimentari, un tabacchino ed una vista mozzafiato che va dal Monte Penna all’Antola da cui scendono ripoidi versanti verso il Tigullio ed il golfo Paradiso.
Nella casa attigua alla nostra abitavano i fratelli e le sorelle di ALBINO BADINELLI. Persone umili, sempre disponibili, religiosissimi con i quali ci siamo ben presto sentiti come un’unica famiglia.
Fu così che piano piano venimmo a conoscenza di ciò che accadde a quella sfortunata famiglia e all’intera comunità che si trovò, durante la Seconda guerra mondiale, in un autentico ciclone che ora cercherò di raccontare.
ALBINO BADINELLI
1920 - 1944
UN EROE IN ODORE DI SANTITA’
Il carabiniere che si costituì ai nazifascisti per salvare 20 ostaggi e l'intero paese dalla rappresaglia
Chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta
La chiesa di Santa Maria Assunta sorge in località Allegrezze di Santo Stefano D'Aveto, isolata, con orientamento Est-Ovest, preceduta da un ampio sagrato, lastricato in pietra, chiuso sul lato destro da un basso muretto, in pietra. La facciata a salienti, in pietra a vista è rinserrata agli angoli da cantonali in conci di pietra posti a risega. Al centro si apre il portale, rettangolare, con stipiti e architrave, modanati, in arenaria. Il portale è coronato da una cornice, in aggetto, su mensole a voluta, in pietra. Al di sopra del portale si apre una piccola nicchia a tutto sesto che accoglie la statua, in pietra, della Madonna Assunta. In alto, centrale, si apre il rosone circolare. I fronti laterali, nella parte alta sono forati da quattro monofore a tutto sesto, per lato. La parte bassa del fronte sinistro, corrispondente alla parete della navata minore, presenta una monofora a tutto sesto. Al fronte destro si addossa la Canonica. Al fronte sinistro, sul retro si addossa un edificio parrocchiale. Sul retro l'abside semicircolare è forato ai lati da due larghe monofore a tutto sesto. All'abside si addossa, sul retro, un volume, in leggero aggetto, con fronte a capanna, con rosone che si apre al centro del timpano. Il campanile sorge isolato a sinistra della chiesa. In pietra a vista, a pianta quadrata, su due ordini, separati da una leggera cornice marcapiano, con fronti decorati a specchi rettangolari, strombati, ad angoli smussati, termina con una cella con lesene d'angolo doriche che reggono una trabeazione curvilinea in aggetto. La cella è forata sui quattro lati da alte monofore a tuto sesto e sormontata da un tamburo ottagonale, forato su quattro lati da monofore a tutto sesto e coperto da tetto a guglia piramidale, con manto in lamiera.
L’esterno e l’interno della chiesa di Allegrezze
Eretta parrocchia nel X secolo, i primi documenti sulla locale chiesa di Allegrezze risalgono al 1287 quando un cartario del monastero di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia accertò la presenza di una cappella dedicata alla Vergine Maria.
Dipendente fino alla metà del XVI secolo dal monastero pavese fu in seguito aggregata alla pieve di Ottone in val Trebbia, in occasione della visita pastorale di monsignor Maffeo Gambara vescovo della diocesi di Tortona.
L'interno dell'edificio è diviso da colonne in ardesia - denominata anche "pietra nera" - e conserva sul muro della vasca battesimale un affresco raffigurante il Battesimo di Gesù di pittore sconosciuto, ma forse risalente al Cinquecento.
Negli anni della Seconda guerra mondiale l’artista Italo PRIMI, nato a Rapallo nel 1903 e spentosi nel 1983, da sfollato ad Allegrezze, dedicò il suo tempo alla cura architettonica e artistica della chiesa di Allegrezze riportando alla luce tesori d’arte come le colonne originali in pietra nera (ardesia) della navata centrale che erano ricoperte da comune materiale edilizio e naturalmente valorizzando altre opere importanti già esistenti.
Italo PRIMI era un artista a tutto tondo: scultore, pittore, creatore di forme e oggetti. Stimato scultore, appassionato pittore, abile decoratore e uomo legato alla sua famiglia e alla sua terra, non ha mai smesso di coltivare la sua passione per l’arte. Artista vivace e aperto a nuove sperimentazioni, ma anche uomo riservato e incline alla solitudine.
All’epoca quel piccolo angolo di mondo girava intorno alla sua chiesa, un antico santuario dedicato alla Madonna delle Grazie, da cui il nome Allegrezze. Il suo altissimo campanile è visibile dappertutto ed è tuttora il punto di riferimento della religiosità molto sentita dalle comunità montane di quel comprensorio. Il borgo si anima d’estate con la presenza di famiglie rivierasche attirate dalla posizione dominante alla quale si accede dalla costa attraverso i Passi della Forcella (875 mt.s.l.m.) o della Scoglina (926 mt.s.l.m.)
Negli anni ’80-‘90 la maggior parte dei giovani residenti abbandonarono i campi e le stalle e si trasferirono nelle grandi città in cerca di lavoro. Oggi si assiste ad un ritorno al passato molto promettente che vede alcune iniziative famigliari dedite non solo alla produzione di latte ma anche dei suoi derivati: formaggi tradizionali della vallata, e persino yogurt che sono molto richiesti per la loro fragranza.
Non hanno più riaperto il negozio d'alimentari e gli altri esercizi cui accennavo perché le anime di questo paese non raggiungono il numero di 25 e, sia i pochi residenti che i turisti, sono ormai motorizzati e raggiungono in pochi minuti il vicino comune di Santo Stefano. Le mucche sono 35, il numero è proporzionate al terreno di pascolo dei proprietari.
A questo punto vi chiederete: “ma perché Carlo ci ha portato fin quassù dopo averci abituato ai settimanali viaggi di mare … ?”
Innanzitutto, dopo questa estate infuocata, penso che una gita da queste parti vi possa solo giovare… dal punto di vista climatico e non solo… ma il vero motivo è un altro, ed è giunto il momento d’entrare in argomento.
QUADRO STORICO
Dopo lo sbarco in Sicilia degli Alleati e la caduta del fascismo il nuovo governo italiano tratta con gli Alleati per uscire dalla guerra. I tedeschi capiscono quello che sta per accadere e danno il via all’Operazione Alarico, con cui mandano consistenti truppe nella penisola. Mentre le trattative per l’armistizio vanno avanti tra ambiguità e tentennamenti da parte italiana, i nostri vertici militari si preparano al mutare degli eventi. In un documento: la Memoria Op 44, si danno disposizioni su come reagire alla probabile rappresaglia tedesca dopo l’armistizio, e si indicano chiaramente i nostri ex alleati come il nuovo nemico. Nonostante tutto, l’8 settembre ‘43 coglie il governo impreparato. Gli ordini non vengono diramati, i vertici dello Stato e delle forze armate abbandonano la capitale e lasciano i comandi territoriali, in Italia e all’estero, privi di indicazioni. Molti decidono di combattere, ma vengono presto sopraffatti dai tedeschi, che in poco tempo catturano un milione di militari italiani, la maggior parte dei quali viene condotto in prigionia nei lager di Germania e Polonia.
I Carabinieri sono tra i pochi militari che rimangono al loro posto, in virtù delle funzioni di polizia che devono svolgere e grazie alla loro presenza capillare sul territorio. In quei giorni concitati, a Torrimpietra, una località a 30 chilometri da Roma, un'esplosione causata incidentalmente da un gruppo di paracadutisti tedeschi durante un'ispezione, viene fatta passare per un attentato. I tedeschi rastrellano per rappresaglia 22 civili, destinandoli alla fucilazione. Il vicebrigadiere dei carabinieri SALVO D’ACQUISTO, di stanza in caserma, si autoaccusa dell'atto e sacrifica la propria vita per salvare quella degli ostaggi. Medaglia d'oro al valor militare, Salvo D'Acquisto diventa il simbolo della dedizione e dello spirito di sacrificio dell'Arma e il suo gesto non rimarrà isolato. Durante i venti mesi di occupazione tedesca, infatti, altri carabinieri daranno la vita per proteggere le popolazioni civili, oppure supporteranno la Resistenza e la lotta di liberazione.
Nella Val D’Aveto. Un anno dopo!
ALBINO BADINELLI (6.marzo 1920- 2.settembre 1944)
il carabiniere che si costituì ai nazifascisti per salvare 20 ostaggi e l'intero paese dalla rappresaglia.
La strada che taglia l’abitato di Allegrezze porta il nome di questo giovane carabiniere: Albino Badinelli che testimonia al passante un gesto di amore ed altruismo infiniti nel dare la propria vita per salvare quella di 20 civili avetani presi a caso e destinati alla fucilazione quali vittime di un’infame rappresaglia decisa dal comando nazifascista di Santo Stefano D’Aveto per vendicare alcuni militari caduti tra i reparti della Monterosa.
La Monterosa fu una delle unità militari create durante la Repubblica Sociale Italiana dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, nonché una delle più importanti che combatterono sotto le insegne del Fascismo repubblicano. La divisione, composta da circa 20.000 uomini era stata addestrata in Germania e quando tornò in Italia fu impiegata a ridosso delle Alpi Apuane e dell’Appenino Tosco-Emiliano ed anche nella Val D’Aveto.
ALBINO BADINELLI in alta uniforme
«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13).
Davanti al plotone di esecuzione, come Gesù in croce, Albino disse: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Un perdono che nasceva da una fede nutrita in famiglia, fin dall’infanzia. E la Chiesa guarda con crescente interesse alla sua figura.
Settimo di 11 figli di Caterina e Vittorio, contadini, Albino nasce ad Allegrezze, frazione del paesino ligure di Santo Stefano d’Aveto. Fin da piccolo, quando non è impegnato con la scuola, aiuta la famiglia nei campi. La sera, per genitori e figli, è consueta la recita del Rosario attorno al focolare. Albino porterà sempre con sé la devozione per la Madonna coltivata tra le mura domestiche ed espressa anche con il custodire, nelle sue tasche, la coroncina del Santo Rosario.
Il giovane carabiniere di Allegrezze, dopo l'8 settembre 1943, privo di comando nella Caserma di S. Maria del Taro a cui era stato assegnato, torna presso la famiglia di origine che cerca in tutti i modi di aiutare con il suo lavoro nei campi e nella ricerca del fratello disperso in Russia.
Nell’agosto 1944 diversi scontri tra partigiani e nazifascisti mettono a ferro e fuoco i paesi del circondario. Per contrastare gli attacchi della Resistenza, il comandante della Divisione Monte Rosa (maggiore Cadelo) minaccia di incendiare S. Stefano d’Aveto e di uccidere 20 ostaggi se i partigiani e gli sbandati non si presenteranno al Comando. Poiché nessuno si costituisce, terrorizzato dall’idea che venti innocenti possano essere trucidati, Albino si presenta il 2 settembre in caserma accompagnato dalla madre, invocando moderazione e pace. Viene invece immediatamente condotto davanti al plotone d’esecuzione presso il Cimitero del borgo attiguo alla chiesa, dove confida al sacerdote, un attimo prima di essere fucilato, la volontà di perdonare i suoi carnefici.
Segnalato da Tommaso Mazza, pronipote. Candidatura proposta per il Monte Stella nel 2016
Desidero a questo punto aggiungere alcune testimonianze, rese a chi scrive, dal fratello Antonio (Tony) e da sua moglie Augusta durante i lunghi pomeriggi trascorsi insieme.
“Le sue giornate passavano tra casa, campagna e chiesa. Albino leggeva molto e studiava sempre, era il più intelligente di tutti noi. Fin da bambino aveva dimostrato un forte senso religioso, intriso di profondi valori cristiani: umanità, generosità, carità, bontà d’animo e spirito di servizio. Albino era profondamente radicato nelle tradizioni religiose proprie della nostra montagna.
Albino aveva una bella voce, ed il suo canto aggiungeva solennità alle celebrazioni liturgiche in occasione delle festività, e anche quando poteva ogni mattina alle messe feriali, mentre nel tempo libero si dedicava a disegni artistici.
Diventare carabiniere era il suo sogno fin da bambino. Nel 1939 entrò all’Accademia Militare di Torino. Ai primi di marzo del 1940 venne incorporato, quale Carabiniere Ausiliario a piedi, presso la Legione Allievi Carabinieri di Roma, con la ferma ordinanza di leva di mesi 18.
Nominato Carabiniere il 10 giugno dello stesso anno, fu trasferito alla Legione di Messina il 14 successivo, per poi prestare servizio nella cittadina di Scicli. Il 2 maggio 1941 è assegnato alla Legione di Napoli per il costituendo XX Battaglione Mobilitato e giunge in Balcania, territorio dichiarato in stato di guerra, il 21 settembre 1941.
Nei primi tempi Albino non se la passò male, almeno non come nostro fratello Marino che non tornò mai più dalla campagna di Russia. Tutto cambiò nel 1944 quando, dopo la distruzione della caserma in provincia di Parma dove prestava servizio, fu invitato a tornare a casa in attesa di ordini. Molti suoi colleghi in quei mesi passarono tra i partigiani. Lui era un animo pacifico, ma aiutava come poteva coloro che si erano dati alla macchia per non essere catturati e deportati.
Nell'estate del 1944 i partigiani uccidono cinque fascisti. Per rappresaglia, il comandante Cadelo della divisione Monterosa, “Caramella” era il soprannome che gli fu dato per il monocolo che gli copriva un occhio, fece diffondere un ultimatum terribile: se i partigiani non si fossero consegnati subito, avrebbe fatto fucilare tutti i civili, tra i quali c'erano anche donne e bambini, detenuti nella Casa Littoria del paese. In più avrebbe dato ordine di incendiare Santo Stefano, come già era stato fatto con alcuni paesi vicini. Di fronte a questa prospettiva, Albino prese la sua decisione:
“Prima che uccidano qualcuno, mi presento io. Altrimenti non avrei pace”
ci disse. “Noi eravamo tutti terrorizzati, ma pensavamo che al massimo l'avrebbero portato in Germania. E invece quando “Caramella” lo vide si mise a urlare:
"Tu sei un carabiniere! Il tuo dovere è catturare i disertori!”.
Albino provò a obiettare che lui voleva solo la pace, ma "Caramella" urlò ancora più forte:
“Altro che pace! Il plotone di esecuzione ti aspetta!”.
In una delle lettere di quel periodo, il 7 giugno 1942, scrive:
«Cara mamma, non posso descriverti tutta la poesia che mi suscitò nel cuore l’immagine di quella Madonnina alla quale vengono rivolte preghiere che non potranno non essere esaudite, essendo rivolte con tanta devozione dal cuore di una madre, che con ansia implora la protezione dei figli lontani... Siate sempre tranquilli, perché ovunque Ella stenderà il Suo manto sopra di noi, ne conserveremo la devozione».
Il 21 agosto successivo, in un’altra lettera, raccomanda ai familiari: «Rassegnatevi sempre al volere di Dio».
Nel biennio ’43-’44 la famiglia Badinelli è segnata prima dall’angoscia di non avere più notizie di uno dei fratelli di Albino, Marino, impegnato a combattere sul fronte russo, e poi dal dolore per la certezza della sua morte. Sarà san Pio da Pietrelcina - una delle persone a cui mamma Caterina aveva scritto - a far sapere alla famiglia di non cercare più Marino perché giaceva sepolto in una fossa comune in Russia. Circostanza che verrà confermata dal Ministero della Difesa negli anni Ottanta.
Nel ’43, Albino viene richiamato in Italia per prestare servizio a Santa Maria del Taro, piccola località in provincia di Parma. Il giovane carabiniere stringe amicizie profonde e non manca, nel suo piccolo, di evangelizzare. Testimonierà il collega Fabio Morelli, conosciuto durante l’esperienza lavorativa nel parmense: «Albino era una persona speciale, dotata di grande umanità e profonda religiosità. Andava ogni giorno a Messa nella chiesa parrocchiale e spesso ci invitava tutti a pregare il Rosario con lui. Era un grande esempio per noi che gli eravamo legatissimi […]».
LA GUERRA CIVILE
Ulteriori testimonianze
Dopo il Proclama Badoglio dell’8 settembre ‘43, che annuncia l’armistizio con gli Alleati, l’Italia si trova spaccata in due, tra nazifascisti e forze della Resistenza. Anche Albino sperimenta presto la durezza di quella guerra nella guerra, dove pure vecchi amici e familiari possono trovarsi su fronti opposti. Alcuni partigiani, siamo già nel ’44, attaccano la caserma di Santa Maria del Taro, devastandola con una bomba. Seguendo gli ordini di un superiore, Albino fa ritorno a casa, ma prima si libera del moschetto perché sconvolto dall’idea di potersene servire per uccidere dei fratelli.
Come abbiamo già visto, anche la Val d’Aveto non rimane estranea agli scontri tra “repubblichini” di Salò e "partigiani". È l’agosto del ’44 quando la Divisione nazifascista Monterosa entra in quei territori, incendiando le case in diversi borghi. Al suo comando c’è il maggiore Girolamo Cadelo, il quale ha diversi obiettivi: stanare i ribelli che infestavano quelle campagne, neutralizzare l’attività partigiana e rastrellare disertori e renitenti alla leva (in osservanza del decreto legislativo del Duce 18 febbraio 1944, n. 30:
“Pena capitale a carico di disertori o renitenti alla leva”)» [cfr. Notiziario Storico dell’Arma dei Carabinieri, Anno II, n. 4, p. 93].
Nel giorno dell’ingresso a Santo Stefano d’Aveto, il 27 agosto, la Monterosa subisce un agguato partigiano, patendo alcune vittime. La frazione di Allegrezze, due giorni più tardi, viene incendiata dalle bande fasciste. Arriva quindi il 2 settembre. Il maggiore Cadelo e i suoi uomini hanno con sé una ventina di ostaggi. Dei manifesti, sparsi in tutto il territorio cittadino, invitano i giovani “sbandati” a presentarsi alla locale Casa del Fascio. In caso contrario, i prigionieri saranno uccisi e le case di Santo Stefano date alle fiamme. Pochi si consegnano e tra questi - pur non partecipando attivamente alla Resistenza - c’è Albino, che ai familiari aveva detto: «Devo presentarmi prima che venga ucciso qualcuno, perché non avrei più pace. Io devo essere il primo!».
Alla Casa del Fascio, Badinelli spiega a Cadelo di appartenere all’Arma e di volere la pace, ma il maggiore gli urla di aver mancato al dovere di catturare i disertori ed emette la sua ‘sentenza’: «Plotone di esecuzione!». Albino chiede a quel punto di potersi confessare, ma gli viene negato. Un giovane ha però la pietà di andare a chiamare monsignor Giuseppe Monteverde, un anziano sacerdote del posto, che accompagna Albino verso il luogo dell’esecuzione, il cimitero di S.Stefano D’Aveto, e ne raccoglie le ultime confidenze. Tra queste, c’è anche il perdono per coloro che di lì a breve saranno i suoi uccisori. Il buon sacerdote lo benedice, gli consegna un crocifisso e lo raccomanda alla Madonna di Guadalupe, molto venerata a Santo Stefano.
Chiesa parrocchiale di Santo Stefano - Santuario della Madonna di Guadalupe
Nell'edificio viene conservata un'immagine della Santa portata nel santuario nel 1804 dalla chiesa di San Pietro in Piacenza. Il santuario conserva dal 1811 anche una tela che raffigura la Vergine donata all'edificio dal cardinale Giuseppe Maria Doria Pamphilj, segretario di Stato di papa Pio VII. Si narra che questa tela fosse sulle navi del suo antenato Andrea Doria nel 1571, durante la Battaglia di Lepanto. Il quadro, copia dell'immagine impressa sulla tilma, gli era stato donato all'ammiraglio dal re di Spagna Filippo II. La chiesa di stile gotico toscano fu ricostruita nel 1928 in sostituzione della vecchia settecentesca di cui rimane il campanile. L'altare maggiore espone ai lati del vecchio quadro due pale dedicate a Santo Stefano ed a Santa Maria Maddalena. Le parti in legno sono state eseguite da maestri della val Gardena.
Albino BADINELLI fu fucilato con la schiena al muro dove oggi è posta la targa commemorativa qui fotografata mentre viene benedetta da un sacerdote.
LA MEDAGLIA D’ORO conferita al carabiniere Albino Badinelli
Onorificenze e riconoscimenti
Domenica 25 settembre 2016, durante la visita a Stella (Savona), paese natio di Sandro Pertini, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha incontrato Agnese Badinelli, sorella di Albino.
Dal 6 marzo 2017 Albino Badinelli viene commemorato come “Giusto dell’umanità”, titolo riservato a coloro che si sono opposti con responsabilità individuale ai crimini contro l’umanità e ai totalitarismi. A lui e ad altre venti figure è stata dedicata la cerimonia di apertura delle celebrazioni per la Giornata europea dei Giusti, a Palazzo Marino, Milano, con la consegna delle pergamene per l’inserimento nel Giardino dei Giusti di tutto il mondo. E’ seguita poi la commemorazione in Consiglio Comunale, con la lettura dei nomi dei nuovi Giusti, ospiti d’onore nella seduta del Consiglio.
Anche la Chiesa cattolica sta lavorando per riconoscere ufficialmente la fama di santità di questo giovane. Papa Francesco è stato informato della vicenda legato alla figura di Albino Badinelli nel settembre 2015, quando il Comitato, in visita a Roma, ha donato un piccolo volume a Papa Francesco, nel contesto dell’Udienza generale. Nella stessa occasione, il volume è stato dato anche al Papa emerito Benedetto XVI, attraverso il suo segretario personale.
Il 2 gennaio 2016, Tommaso Mazza, sacerdote della diocesi di Chiavari, ha avuto l’opportunità di intrattenere una conversazione personale con Papa Francesco a Casa Santa Marta. In questa occasione, tra le molte cose proposte, ha presentato al Santo Padre, in modo più dettagliato, la storia di Albino Badinelli, facendo particolare riferimento alla storia della sua morte. Nel maggio 2018 i Cardinali e i Vescovi lo hanno scelto come “Testimone” del Sinodo dei Giovani.
Decreto del Presidente della Repubblica
3 agosto 2017
Medaglia d'oro al merito civile alla memoria |
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«Carabiniere effettivo alla Stazione di Santa Maria del Taro (PR), dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, non volendo venir meno al giuramento prestato e deciso a non far parte delle milizie della Repubblica di Salò, si dava dapprima alla macchia e successivamente decideva di consegnarsi al reparto nazifascista che, come rappresaglia ad un attacco subito, minacciava di trucidare venti civili inermi. Condotto davanti al plotone di esecuzione sacrificava la propria vita per salvare quella dei prigionieri. Chiaro esempio di eccezionale senso di abnegazione e di elette virtù civiche spinte fino all’estremo sacrificio. 2 settembre 1944 Santo Stefano d'Aveto(GE).» |
Giunti al cimitero del Comune di Santo Stefano d’Aveto, Albino viene posto con le spalle al muro. È in quegli istanti che, dopo aver baciato con grande devozione il crocifisso, dice come Gesù in croce:
«Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno».
Qualcuno nel plotone si rifiuta di sparare. Ma la sua sorte è segnata. Viene raggiunto da tre colpi di arma da fuoco, due al cuore e uno alla testa. Così, il 2 settembre 1944, il ventiquattrenne Albino torna al Creatore (sul luogo della sua morte, oggi si trova una lapide, la cui scritta finisce così:
«O tu che passi / chinati al suo ricordo / e prega a lui ed al mondo / pace»).
A piangerlo, tra i tanti familiari e amici, la fidanzata Albina, che tempo dopo chiederà di essere sepolta insieme alle lettere che lui le scriveva.
Il suo cadavere, ancora sanguinante, viene lasciato per un po’ davanti al cimitero e poi portato nel coro della vecchia chiesa parrocchiale, con l’ordine del maggiore Cadelo di non spostarlo da lì, perché serva da monito. Ma nella notte il corpo esanime di Albino viene trafugato da alcuni compaesani, guidati da monsignor Casimiro Todeschini, per dargli degna sepoltura.
Il suo sacrificio contribuisce comunque a placare l’ira di Cadelo, che rinuncia al proposito di uccidere gli ostaggi e incendiare Santo Stefano. Lo stesso maggiore finirà vittima di un’imboscata alcuni giorni più tardi, il 27 settembre, nei pressi del Passo della Forcella.
Ma chi comunica il fatto a mamma Caterina, pensando di portarle una buona notizia, si sente rispondere da lei:
«Non voglio ritirare il perdono che mio figlio ha dato prima di morire!».
E qualche tempo dopo, mentre sta recitando il Rosario in un angolo della sua cucina, interpellata da un cappellano militare giunto con altri a raccogliere informazioni sulla morte di Albino, la donna confida:
«Prego per coloro che hanno ucciso mio figlio».
Da quel giorno il ricordo del sacrificio di Albino non si è ancora spento: a suo nome è stata intitolata una via del Comune, dove si trovano la stazione dei Carabinieri e la scuola.
Nel 2015 è stato poi fondato il Comitato Albino Badinelli, per favorire lo sviluppo e la conoscenza della sua testimonianza.
«In questo modo - come afferma una dichiarazione di un testimone - il Carabiniere Albino Badinelli entrò nel novero di quegli eletti che, con il loro sacrificio supremo, resero possibile il nostro riscatto».
ESEMPIO PER LA CHIESA E IL MONDO
Naturalmente, la Chiesa guarda con grande attenzione alla figura di Badinelli. Almeno quattro Papi - Pio XII, Paolo VI, Benedetto XVI, Francesco - hanno conosciuto ed espresso in vario modo la loro gratitudine per l’esempio di Badinelli. Ratzinger ha parlato del suo sacrificio come «testimonianza di amore e di pace che dona forza e stimolo ai giovani del nostro tempo». E nel Sinodo dei Giovani del 2018, voluto da Bergoglio, Albino è stato incluso tra i testimoni dell’amore di Cristo da far conoscere alle nuove generazioni.
Di recente lo stesso giornalista Italo Vallebella ha scritto per il SECOLO XIX un articolo così intitolato:
Santo Stefano D’Aveto, beatificazione e canonizzazione del carabiniere Badinelli: la Congregazione dà il nulla osta
Per saperne di più:
Libro: L’amore più grande
Autore Tommaso Mazza
LA BATTAGLIA DI ALLEGREZZE NELL’ANNO 1944
http://www.valdaveto.net/documento_655.html
Con il nome di Bando Graziani furono chiamati una serie di bandi di reclutamento militare obbligatorio, destinati ai giovani italiani nati negli anni tra il 1916 e il 1926, emanati dal Ministro della Difesa della Repubblica Sociale Italiana, Rodolfo Graziani, per la costituzione del nuovo Esercito della RSI.
Il primo di questi bandi risale al 9 novembre 1943 e riguardava i giovani delle classi 1923, 1924 e 1925. Dei 180 000 richiamati alla leva da questo primo bando, solo 87.000 si presentarono, tutti gli altri disertarono e molti di loro fuggirono raggiungendo le formazioni partigiane. Il 18 febbraio 1944 un decreto di Mussolini sanciva la pena di morte mediante fucilazione per i renitenti e i disertori. Questi bandi, tuttavia, ebbero scarso successo e anzi rafforzarono la resistenza partigiana clandestina, verso la quale furono attratti inevitabilmente i tanti renitenti in fuga dalla leva.
Come un ruvido panno passa sull'umanità, privandola di quelle differenziazioni sociali di cui la collettività stessa si nutre.
Rimane infine l'uomo, nella sua essenza. Nel bene e nel male.
Ecco allora che questa pagina rievocando i drammatici accadimenti della cosiddetta Battaglia di Allegrezze, rappresenta un vero monito per tutti: non lasciamo mai che la bestia che vive in ognuno di noi prenda il sopravvento.
Pensiamo al prof. Podestà, al canonico Moglia e al falegname Zaraboldi. Diversi per formazione e ruolo sociale, ma accomunati da quello che più conta: essere uomini.
Nell'accezione più sublime del termine.
Di Massimo Brizzolara
Chiavari 30 giugno 1946
Il sottoscritto dichiara che la sera del 27 agosto 1944 alle ore 17 circa, venne prelevato (arma alla mano) da due soldati accompagnati da due borghesi che erano stati prelevati in rastrellamento da una colonna di nazifascisti (gruppo Cadelo di esplorazione della Monte Rosa) ed invitato a recarsi ad Allegrezze d'Aveto per prestare soccorso medico a feriti nel combattimento in corso con un gruppo di partigiani che aveva aggredito la colonna stessa.
Il sottoscritto era a La Villa d'Aveto dove aveva la propria famiglia sfollata e da pochi giorni era venuto a visitarla. Il sottoscritto si fece accompagnare dal figlio del suo padrone di casa sig. Zaraboldi Costantino ed insieme ai militari e borghesi suddetti si recò ad Allegrezze che dista circa 1 Km.
Ferveva sempre il combattimento, ivi giunto trovò il parroco Don Primo Moglia dal quale apprese che lui stesso era stato preso in ostaggio dal comandante della colonna dei nazifascisti e che mentre veniva condotto a S. Stefano d'Aveto con la stessa, aveva inizio un fiero combattimento con i partigiani, per cui la colonna stessa era stata decimata ed aveva dovuto retrocedere.
Il parroco Don Primo allora aveva disposto il raccoglimento dei feriti e dei morti, improvvisando in casa sua (canonica) l'infermeria. Infatti io trovai nei vari letti e stanze, una quantità di feriti più gravi. Pregai il parroco di disporre in modo che mi si aprisse la scuola di fronte alla sua canonica per poter medicare e ricoverare anche altri feriti che via via affluivano portati dai borghesi. Posso attestare che la popolazione di Allegrezze guidata dal suo parroco fece miracoli in quella sera e in tutta la notte successiva, mettendo a disposizione i pagliericci e la biancheria occorrente a medicare e ricoverare ben 37 feriti gravi e a portare al cimitero sette morti.
Furono tutti medicati dal sottoscritto con l'aiuto della popolazione e in modo speciale dal parroco e da una donna che era stata presa in ostaggio certa Caprini Maria.
Nella notte stessa, con l'aiuto dell'interprete tedesco P. Tomas Ruckert, il sottoscritto potè tenere dal tenente tedesco delle SS che apparteneva al Comando della colonna stessa, la promessa su parola d'onore dello stesso, di liberare all'alba gli ostaggi presi e tra questi il parroco Don Primo Moglia ed il giovane sacerdote Giovanni Barattini di Alpicella.
Tutto ciò in premio dell'opera veramente encomiabile prestata da Don Primo e dalla popolazione della sua parrocchia da lui guidata. Infatti, all'alba del giorno dopo, prima di partire io stesso recandomi alla sua abitazione mi accertai personalmente che tale liberazione fosse mantenuta.
ALLEGREZZE BRUCIA
29 AGOSTO 1944
Purtroppo, il giorno appresso venne bruciato il paese, su ordine di un militare italiano Maggiore Cadelo che comandava la colonna.
Infrangendo la parola d'onore con il sottoscritto impegnata in proposito dal Tenente tedesco delle SS a lui in sott'ordine, mentre al mattino del 29 agosto 1944 il parroco Don Primo Moglia celebrava la messa per la festa della Madonna della Guardia presente tutti i suoi parrocchiani, faceva circondare il paese e appiccare il fuoco a tutte le abitazioni della frazione impedendo ai parrocchiani di altre frazioni di accorrere in aiuto per spegnere gli incendi. La chiesa fu salva soltanto perchè il parroco si era adoperato come già detto per i feriti. Così anche la scuola, la canonica e la stessa sua vita.
Giorni dopo assieme al parroco Don Primo Moglia, al becchino e al figlio del mio padrone di casa sig. Costantino Zaraboldi, per mia iniziativa ci recammo in località "La Cava" per raccogliere il cadavere del partigiano Berto, che su ordine del su menzionato Maggiore Cadelo, era stato lasciato sulla strada con minaccia per chi lo avesse toccato e gli demmo onorata sepoltura.
La bara fu fabbricata dallo stesso Costante Zaraboldi gratuitamente.
Un mese dopo circa, tanto il sottoscritto (che aveva rimesso di proprio tutta la medicazione dei feriti stessi) che il Zaraboldi e il padre suo, vennero arrestati assieme al parroco di S. Stefano d'Aveto ed al parroco di Pievetta sotto l'accusa di collaborazione con i partigiani e non vennero fucilati insieme ad altri otto disgraziati del luogo, solo perché nel frattempo il Maggiore Cadelo (che aveva dato ordine di fucilazione) venne ucciso in imboscata dai partigiani.
In fede di quanto sopra firmato Dott. Prof. Vittorio Podestà *
* Medico Chirurgo Radiologo - Docente nella Regia Università di Genova - Perito Medico Giudiziario
I due partigiani: BRIZZOLARA ANDREA di Villanoce e SILVIO SOLIMANO “BERTO” di Santa Margherita Ligure caddero combattendo contro i nazifascisti ad Allegrezze il 27 Agosto 1944.
Albino Badinelli – L’Arcivescovo di Chiavari, incontra la sorella del carabiniere martire.
http://www.ordinariatomilitare.it/2021/04/28/albino-badinelli-larcivescovo-a-chiavari-incontra-la-sorella-del-carabiniere-martire/
TESTIMONIANZE RACCOLTE PRESSO I PARENTI DI
ALBINO BADINELLI
IL CIMITERO DI ALLEGREZZE
Due giganteschi alberi di SEQUOIA fanno da guardiani e custodiscono la memoria per sempre
Anni Ottanta dell’Ottocento, epoca della messa a dimora da parte di Agostino Zanaboldi, figlio di immigrati liguri negli Stati Uniti, che ritornò da New York con due piantine di sequoia….
Concludo con alcune riflessioni personali:
I carabinieri avevano due compiti principali:
di polizia, tutela della sicurezza della popolazione italiana - di militari nelle Forze Armate, avevano giurato fedeltà al re e non al fascismo.
Domenica 25 luglio 1943 ore 17.00
Tra coloro che si occupano dell'arresto di Mussolini: i carabinieri Giovanni Frignani e Raffaele Aversa saranno tra gli uccisi alle cave Ardeatine.
Per questo motivo i nazifascisti non si fideranno mai dei carabinieri.
La situazione diventa estremamente difficile per l’Arma Regia dopo l’8 settembre 1943, quando il Re abbandona la capitale e l’Arma dei Carabinieri riceve l’ordine di rimanere sul posto per mantenere l’ordine pubblico e collaborare con l’occupante.
Viene chiesta loro la “fedeltà a Salò” e da quel momento iniziano le diserzioni, le deportazioni e gli arruolamenti presso le unità partigiane.
In questo drammatico quadro storico avviene la fucilazione di Salvo D’Acquisto seppure innocente e riconosciuto tale dal comando tedesco.
Il suo gesto eroico salva la vita a 22 ostaggi presi nei dintorni quando tutti sapevano che la causa della morte di due militari tedeschi era dovuta ad una esplosione da loro stessi provocata. Gli ostaggi furono liberati ma i tedeschi ottennero il loro scopo: creare panico e terrore tra la popolazione.
A guerra finita i numeri ci spiegheranno meglio di tante parole il SACRIFICIO dei Carabinieri:
2.735 ……….. caduti
6.521 …………feriti
0ltre 5.000… deportati in Germania
Nel 2001 Papa Giovanni Paolo II, in un discorso rivolto ai Carabinieri disse:
La storia dell’Arma dimostra che si può raggiungere la vetta della SANTITA’ nell’adempimento fedele e generoso verso il proprio STATO.
SALVO D’ACQUISTO:
Nascita:
Napoli, 15 ottobre 1920
Morte:
23-settembre-1943
Località Torre Perla di Palidoro, nella frazione di Palidoro, nel comune di Roma (oggi-Fiumicino).
ALBINO BADINELLI:
Nascita:
Allegrezze, 6 marzo 1920
Morte:
2 settembre 1944
Santo Stefano D’Aveto
Tra questi due GIGANTI dello SPIRITO DI SERVIZIO è difficile trovare persino le più sottili differenze caratteriali e comportamentali.
Entrambi si presentarono spontaneamente davanti ai loro carnefici esibendo ciascuno il PROPRIO ONORE MILITARE, QUEL VALORE che non trovarono sia nel Comando Tedesco di Roma sia in quello Nazifascista della Liguria montana.
Rimane soltanto da aggiungere qualcosa sull’enfasi, la pubblicità dei media, del cinema e della politica data al tragico evento riferito al povero Salvo D’ACQUISTO ed il lunghissimo SILENZIO dedicato al NOSTRO carabiniere Albino BADINELLI.
Gli storici “sopra le parti” affermano che la politica non nobilita mai certi fatti… ma che è soltanto capace di MITIZZARE la parte che più gli conviene.
Credo si riferiscano all’azione compiuta dai Gruppi di Azione Patriottica il 23 marzo 1944 quando attaccarono una colonna del battaglione di polizia tedesca Bozen in via Rasella a Roma provocando la morte di 26 soldati austriaci, fatto che fece scattare immediatamente la “rappresaglia nazista”.
Nessuno degli autori di quella strage si presentò per autodenunciarsi al Comando tedesco e, com’è noto, la conseguenza fu la seguente: il giorno dopo, il 24 marzo 1944 un plotone tedesco, comandato da Herbert Kappler giustiziò 335 italiani “incolpevoli” alle Fosse Ardeatine.
Un massacro tra i più efferati della storia della Seconda guerra mondiale.
Una giustificazione per i responsabili dell’eccidio di Via Rasella esiste in ogni caso: Kappler, per ordine perentorio dello stesso Hitler, fu obbligato a eseguire la strage in tempi brevissimi, motivo per cui non ci sarebbe stato il tempo materiale per mettere a punto una qualsiasi strategia tesa ad evitare la morte di quei poveri Martiri delle Fosse Ardeatine.
Tutto comprensibile! Ma per i nostri due VALOROSI Carabinieri:
SALVO D’ACQUISTO E ALBINO BADINELLI
A IMITAZIONE DI CRISTO
bastarono pochi minuti per autodenunciarsi, salire sul patibolo e morire per salvare degli innocenti.
Carlo GATTI
Rapallo, 3 Agosto 2022
IL MARINAIO DI UN TEMPO CHE FU...
IL MARINAIO DI UN TEMPO CHE FU …
Vita di bordo
Porto di Savona – MONUMENTO AL MARINAIO
I FERRI DEL MESTIERE
Il marinaio di un tempo teneva una varietà di piccoli attrezzi e oggetti personali. La maggior parte di questi strumenti erano primitivi ma altamente funzionali - anche piuttosto belli - e spesso realizzati dallo stesso individuo che li usava.
MUSEO MARINARO TOMMASSINO ANDREATTA DI CHIAVARI
Guardamano per cucire le vele
Italia, primi del ’900
Dimensioni: cm 12×7
Materiali: tela olona e ferro
Donazione Elio Costanzo
M.M.T.A. – Invent. n. 218
Apparteneva al nostromo Andrea Schiaffino.
Veniva indossato per proteggere la mano durante la cucitura delle vele. Con la parte metallica veniva spinto l’ago per bucare la tela.
Punteruoli, caviglie, cavigliere, aghi da velaio, pece, bobine di filo per vele
Caviglia è anche il cavicchio conico con cui si divaricano i legnoli, ossia gli elementi ritorti dei quali è costituita una cima, per farvi giunte o gasse impiombate.
TENDI COMANDO dell’autore
Sacchetti porta utensili in tela olona
REPERTI DI CALAFATO - dell’autore
Il calafato, o maestro calafato, è un operaio specializzato, o altra figura specializzata, che fa parte delle maestranze impiegate nelle costruzioni navali e nelle manutenzioni nautiche. Il calafato si occupa di calafatare le navi o, più in genere, le imbarcazioni in legno, con cadenza periodica, o qualora si rendesse necessario.
Sulle imbarcazioni di dimensioni maggiori, il calafato poteva essere imbarcato a bordo insieme ad un maestro d’ascia, mentre le imbarcazioni di dimensioni minori facevano riferimento a maestri d'ascia o maestri calafati che operavano a terra.
L'opera del calafato è un lavoro difficile e di precisione, tanto che anticamente ci volevano 8 anni di apprendistato per diventare maestro calafato mentre ne bastavano 5 per diventare maestro d’ascia.
Purtroppo di queste maestranze storiche, altamente qualificate, se ne trovano pochi nei cantieri navali più longevi d’Italia, essendo un mestiere di tramando generazionale che va via via scomparendo.
Gli attrezzi del Maestro d’ascia e del Calafato non hanno età
Soltanto visitando i Musei Marinari possiamo “gustarne” tutte le varianti tenendo presente che ogni Mastro d’ascia, così come il Calafato, costruiva i suoi attrezzi a misura dei propri arti: spalla, braccio, gomito, avambraccio, polso e mano.
GLI ATTREZZI DEL CALAFATO
MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA - CHIAVARI
Asce, pialle, seghe, verine, raspe, magli, scalpelli … per ricordare quelli dai nomi risaputi che, basta citarli, richiamano le loro forme. “Sono di tutte le dimensioni, a misura di ogni intervento (anche per quelli in spazi angusti) e di ogni… braccia. Sì, perché a seconda della loro diversa stazza, a cominciare dalla lunghezza delle braccia, maestri d’ascia e calafati si costruivano l’attrezzo specifico, di cui erano gelosi”, racconta Giorgio, ultimo dei maestri d’ascia rapallini, che ne puntualizza il valore: “Ogni attrezzo corrisponde ad un antenato, che qui continua idealmente a vivere … questi attrezzi sono intrisi del suo sudore, del suo sangue, del suo pensiero …” Ecco spiegata la sacralità del luogo!
CALDARO DA PECE
MARMOTTA
Gli attrezzi del calafato sono il maglio, martello di legno a due teste rinforzato da cerchi di metallo; la mazzola più corta e tozza; vari ferri tipo scalpelli di diverse dimensioni, privi di affilatura ma con il bordo piatto, alcuni con scanalatura, per non recidere la treccia, chiamati palelle o calcastoppa.
GLI ATTREZZI DEL MAESTRO D’ASCIA
MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA – CHIAVARI
Il maestro d’ascia é un professionista le cui origini affondano nell’antichità più remota. Purtroppo di questi mitici personaggi, a metà tra l’artigiano e l’artista, ne rimangono pochi e sono introvabili. Costruire uno scafo preciso al millimetro presuppone anni di fatica e tanto amore per la costruzione navale. Esperienza, perizia e competenza sono tutti elementi che maturano nel corso del tempo, sotto la guida di maestri d’ascia più anziani, spesso nonni e padri che tramandano l’abilità nell’adoperare l’ascia da una generazione all’altra.
Un po' di letteratura...
IL VECCHIO E IL MARE
ERNEST HEMINGWAY
Tutto in lui era vecchio, tranne gli occhi che avevano lo stesso colore del mare ed erano allegri e indomiti.
CHARLES BAUDELAIRE
Umo libero, tu amerai sempre il mare! E’ il tuo specchio il mare! Contempli la tua anima nell’infinito svolgersi della sua onda e non è meno amaro l’abisso del tuo spirito.
JOSEPH CONRAD
Il mare non è mai stato amico dell'uomo. Tutt'al più è stato complice della sua irrequietezza.
ANONIMO
POESIA ANTICA
Vuga t'è da vugâ prexuné
E spuncia spuncia u remu fin au pë.
Vuga t'è da vugâ turtaiéu
E tia tia u remmu fin a u cheu...
CONCLUDO
A scuola ero incazzato nero perché dovevo studiare lavagnate di formule trigonometriche ...
Era il mio primo viaggio e, superato l’Atlantico quel giorno, con incredibile precisione, mi trovai davanti a New York!
Mi emozionai alla vista della grande MELA con i suoi grattacieli, ma ancor di più quando mi resi conto che quelle “bagasce" di formule analitiche antiche non le avevo studiate invano…
Carlo GATTI
Rapallo, 4.8.2022
LUPO DI MARE
LUPO DI MARE
Navigando qua e là sul web….
LUPO DI MARE: il termine lupo di mare a bordo degli antichi velieri di un tempo era affibbiato al NOSTROMO, il marinaio più anziano, rozzo ma molto autorevole. Abile e coraggioso, era temuto per la sua austerità e capacità di comando della ciurma. Era certamente il più esperto tra i marinai di bordo e colui che sentiva e vedeva tutto, non era sensibile alle lodi e alle critiche. Prendeva molto dal carattere e dall’aspetto dell’animale lupo e, come questo, accomunava in sé la forza e la determinazione.
LUPI DI MARE
Qualcuno sostiene che il “detto” nacque negli ambenti marinari degli angiporti. In questo caso “la bocca del lupo” era una specie di lavagna dove i capitani che arrivavano alla Giudecca (VE) registravano il loro arrivo e la quantità di uomini e merci portati a casa. L’espressione significava quindi augurare di fare una buona navigazione e di tornare salvi in porto. “In Bocca al Lupo - che il Dio del mare ti ascolti”.
Il STV Enzino GAGGERO ci ha donato la
C’è anche un’altra versione più realistica:
Nei mari della Groenlandia il “lupo di mare” è un pesce comune
Questa espressione si usa con significato solo leggermente differente. Infatti serve per indicare un marinaio che ha molti anni di esperienza in fatto di navigazione, e proprio per questo gode di rispetto tra i suoi colleghi.......
Viene usato come AUGURIO:
“Buon vento a tutti coloro che oggi possono spiegare le vele"!
Ecco tre foto del pesce nordico LUPO DI MARE
In francese: Loup de mer
In inglese: sea dog
In tedesco: sea wolf= Der Seewolf
In spagnolo: Lobo marino
In svedese: Havsvarg
Ancora un esempio del termine marinaro
BOCCA DI LUPO (nodo)
La bocca di lupo era conosciuto fin dal Primo Secolo dal medico greco Heraklas, che lo descrisse in una monografia dedicata ai nodi ad uso chirurgico.
Perché si dice in bocca al lupo?
Numerose sono le interpretazioni di questo modo di dire dalla valenza scaramantica, dal folklore, all’etologia, passando per la storia di Roma.
Il lupo, l’abbiamo già detto, è un archetipo più che un animale. Nel corso della storia numerose sono state le “visioni” di questo animale, nella tradizione medioevale era visto come l’incarnazione del pericolo e del male, nelle antiche tradizioni nordiche evocava invece conoscenza e rivelazioni epifaniche. In letteratura l'epifania è, secondo Joyce, un'improvvisa rivelazione spirituale, causata da un gesto, un oggetto, una situazione della quotidianità, forse banali, ma che rivelano inaspettatamente qualcosa di più profondo e significativo.
Numerose sono le interpretazioni del proverbio “in bocca al lupo”. Espressioni simili si ritrovano anche in altre lingue europee.
Oggi, dopo aver rischiato l’estinzione negli anni Settanta, il lupo è tornato, scende in collina e spesso si fa anche fotografare. Purtroppo stiamo assistendo ad un nuovo tentativo di demonizzare questo elusivo e prezioso predatore. Il lupo è così radicato nella nostra cultura che è presente anche in numerosi proverbi e modi di dire. Su tutti l’augurio “in bocca al lupo”, ma cosa significa veramente? Ecco alcune interpretazioni di questa locuzione.
Funzione apotropaica
L’interpretazione più accreditata dell’origine del detto è quella della funzione apotropaica (ovvero una formula che allontana o annulla un’influenza maligna) della locuzione, “capace di allontanare lo scongiuro per la sua carica di magia”, sostiene l’Accademia della Crusca. Questa versione prevede la risposta: “crepi”, sottintendendo il lupo, e sarebbe nata come frase di augurio rivolta a chi si appresta ad affrontare una prova difficile. L’origine dell’augurio viene attribuita sia a pastori e allevatori, che consideravano il lupo un nemico, sia ai cacciatori, che vagavano di villaggio in villaggio mostrando carcasse di lupi e pretendendo una ricompensa per il servizio reso.
La lupa di Romolo e Remo
Questa spiegazione si basa sul simbolo della città eterna, la lupa che ha salvato Romolo e Remo nella storia dell’origine di Roma. I gemelli, figli del dio Marte e della vestale Rea Silvia, vengono allattati dalla lupa che salva loro la vita, il senso dell’augurio cambia dunque radicalmente e il lupo diviene sinonimo di protezione. La risposta “crepi” non avrebbe pertanto senso.
Al sicuro nella bocca di mamma lupa
Questa, anche se può essere storicamente inesatta, è probabilmente l’interpretazione più romantica. Il significato è simile alla spiegazione precedente e propone una lettura etologica del proverbio. Mamma lupa è solita trasportare i propri cuccioli in bocca in caso di pericolo, in una situazione così non c’è posto più sicuro della bocca del lupo, augurare quindi a qualcuno di trovarsi tra le fauci di questo animale è un modo per auspicare che sia protetto. In questo caso la risposta non è “crepi”, ma un più pacifico “lunga vita al lupo”, o “evviva il lupo” o “grazie”.
“Lupo di mare” nei testi
The Dubliners - la Irish Rover
ma presto il tormento dovra’ finire;
dell’amore di una donna non ha mai paura
il vecchio lupo di mare della Irish Rover
Giuseppe Ungaretti - Allegria di naufragi
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare.
Đorđe Balašević - Il marinaio della Pannonia
o meglio come capitan Cook
In questa piana tra i campi perdo la speranza
un lupo di mare arenato in un campo di grano
Joan Manuel Serrat - Incubi per telenovele
che gli sorrideva ad un palmo dal naso
e gli offriva una tazza di caffè
con la voce di un lupo di mare gli diceva:
“Loro hanno dormito bene, signora, signore?
Marco Sbarbati - La mia casa alla fine del mondo
Fra le tue dita si posa l'estate
Chiedimi ancora se so dove andare
Fammi sentire un lupo di mare
Meglio seguire la stella polare
Le Piccole Ore - Piccola strega
Ti sei aggrappata al mio cuore
Credevo di esser forte ed insensibile
Un vecchio lupo di mare
El Presi - Pescatori Asturiani
Lastres, Guijón, Avilés y Tapia de Casariego.
Soltanto un lupo di mare
sopporta la solitudine
Massaroni Pianoforti - Lupo di mare
Hai il dono raro di una bellezza elegante
Perfino se indossi un berretto discutibile da marinaio
Quando mi hai detto "Lupo di mare"
La tua promessa è come una stella da guardare e mai seguire
Non avete udito mai parlare di mastro Catrame? No?…
Allora vi dirò quanto so di questo marinaio d’antico stampo, che godette molta popolarità nella nostra marina: ma non troppe cose, poiché, quantunque lo abbia veduto coi miei occhi, abbia navigato molto tempo in sua compagnia e vuotato insieme con lui non poche bottiglie di quel vecchio e autentico Cipro che egli amava tanto, non ho mai saputo il suo vero nome, né in quale città o borgata della nostra penisola o delle nostre isole egli fosse nato.
Era, come dissi, un marinaio d’antico stampo, degno di figurare a fianco di quei famosi navigatori normanni che scorrazzarono per sì lunghi anni l’Atlantico, avidi di emozioni e di tempeste, che si spinsero dalle gelide coste dei mari del nord fino a quelle miti del mezzogiorno, che colonizzarono la nebbiosa Islanda e conquistarono il lontano Labrador, quattro o forse cinquecento anni prima che il nostro grande Colombo mettesse piede sulle ridenti isole del golfo messicano.
Quanti anni aveva mastro Catrame? Nessuno lo sapeva, perché tutti l’avevano conosciuto sempre vecchio. È certo però che molti giovedì dovevano pesare sul suo groppone, giacché egli aveva la barba bianca, i capelli radi, il viso rugoso, incartapecorito, cotto e ricotto dal sole, dall’aria marina e dalla salsedine. Ma non era curvo, no, quel vecchio lupo di mare!
Procedeva, è vero, di traverso come i gamberi, si dondolava tutto, anche quando il vascello era fermo e il mare perfettamente tranquillo, come se avesse indosso la tarantola, tanta era in lui l’abitudine del rollio e del beccheggio; ma camminava ritto, e quando passava dinanzi al capitano o agli ufficiali teneva alto il capo come un giovinotto, e da quegli occhietti d’un grigio ferro, che pareva fossero lì lì per chiudersi per sempre, sprizzava un bagliore come di lampo. Ma che orsaccio era quel mastro Catrame! Ruvido come un guanto di ferro, brutale talvolta, quantunque in fondo non fosse cattivo: poi superstizioso come tutti i vecchi marinai, e credeva ai vascelli fantasmi, alle sirene, agli spiriti marini, ai folletti, ed era avarissimo di parole. Pareva che faticasse a far udire la sua voce, si spiegava quasi sempre a monosillabi e a cenni, non amava perciò la compagnia e preferiva vivere in fondo alla tenebrosa cala, dalla quale non usciva che a malincuore. Si sarebbe detto che la luce del sole gli faceva male e che non poteva vivere lontano dall’odore acuto del catrame, e forse per questo gli avevano imposto quel nomignolo, che poi doveva, col tempo, diventare il suo vero nome.
Chi aveva mai veduto quell’uomo scendere in un porto? Nessuno senza dubbio. Aveva un terrore istintivo per la terra, e quando la nave si avvicinava alla spiaggia, lo si vedeva accigliato, lo si udiva brontolare, e poi spariva e andava a rintanarsi in fondo del legno. Di là nessuno poteva trarlo; guai anzi a provarsi! Mastro Catrame montava allora in bestia, alzava le braccia e quelle manacce callose, incatramate, dure come il ferro e irte di nodi, piombavano con sordo scricchiolio sulle spalle dell’imprudente, e i mozzi di bordo sapevano se pesavano!
Per tutto il tempo che la nave rimaneva in porto, mastro Catrame non compariva più in coperta. Accovacciato in fondo alla cala, passava il tempo a sgretolare biscotti con quei suoi denti lunghi e gialli, ma solidi quanto quelli del cignale, a tracannare con visibile soddisfazione un buon numero di bottiglie di vecchio Cipro, alle quali spezzava il collo per far più presto, e a consumare non so quanti pacchetti di tabacco.
Quando però udiva le catene contorcersi nelle cubìe e attorno all’argano, e lo sbattere delle vele e il cigolare delle manovre correnti entro i rugosi bozzelli, si vedeva la sua testaccia apparire a poco a poco a fior del boccaporto e, dopo essersi assicurato che la nave stava per ritornare in alto mare, compariva in coperta a comandare la manovra.
Sembrava allora un altro uomo, tanto che si sarebbe detto che invecchiava di mano in mano che si avvicinava alla terra e che ringiovaniva di mano in mano che se ne allontanava per tornare sul mare. Forse per questo si sussurrava fra i giovani marinai che egli fosse uno spirito del mare e che doveva esser nato durante una notte tempestosa da un tritone e da una sirena, poiché quello strano vecchio pareva si divertisse quando imperversavano gli uragani, e dimostrava una gioia maligna che sempre più cresceva, allora che più impallidivano dallo spavento i volti dei suoi compagni di viaggio.
Da che cosa provenisse quell’odio profondo che mastro Catrame nutriva per la terra? Nessuno lo sapeva, e io non più degli altri, quantunque mi fossi più volte provato ad interrogarlo. Egli si era contentato di guardarmi fisso fisso e di voltarmi bruscamente le spalle, dopo però avermi fatto il saluto d’obbligo, poiché mastro Catrame era un rigido osservatore della disciplina di bordo.
Del resto tutti lo lasciavano in pace, mai lo interrogavano, poiché lo temevano e sapevano per esperienza che aveva la mano sempre pronta ad appioppare un sonoro scapaccione, malgrado l’età, e qualche volta anche faceva provare la punta del suo stivale. Gli uni lo rispettavano per l’età, gli altri per paura.
Lo stesso capitano lo lasciava fare quello che voleva, sapendo che in fatto di abilità marinaresca non aveva l’eguale, che poteva contare su di lui come su d’un cane affezionato, sebbene ringhioso, e che valeva a far stare a dovere l’equipaggio anche con una sola occhiata, né mancava mai al suo servizio.
Una sera però, mentre dai porti del Mar Rosso navigavamo verso i mari dell’India, mastro Catrame, contrariamente al solito, commise una mancanza che fece epoca a bordo del nostro veliero: fu trovato nientemeno che ubriaco fradicio in fondo alla cala!… Come mai quell’orso, che da tanti anni aveva dato un addio ai forti liquori che tanto piacciono ai marinai e che mai una volta si era veduto barcollare pel soverchio bere, si era ubriacato? Il caso era grave; ci doveva entrare qualche gran motivo, e il nostro capitano, che voleva veder chiaro in tutto, ordinò un’inchiesta, su per giù come fanno le nostre autorità quando accade qualche grosso avvenimento.
E la nostra inchiesta approdò a buon porto, poiché si constatò con tutta precisione che mastro Catrame si era ubriacato per errore! Qualche burlone aveva mescolato fra le bottiglie di Cipro una di rhum più o meno autentico, e il vecchio lupo l’aveva tracannata tutta senza nemmeno accorgersi della sostituzione.
Un mastro che si ubriaca durante la navigazione non la può passar liscia, e tanto meno doveva passarla mastro Catrame, che era così rigido osservatore delle discipline marinaresche. Quale brutto esempio, se lo si fosse graziato!
Il capitano con tutta serietà ordinò che si portasse il colpevole sul ponte appena l’ebrezza fosse passata, e avvertì l’equipaggio di tenersi pronto per un consiglio straordinario. Dopo due ore mastro Catrame, ancora stordito da quella abbondante libazione, che avrebbe potuto riuscire fatale a uno stomaco meno corazzato, compariva in coperta torvo, accigliato, coi peli del volto irti. I suoi occhietti correvano dall’uno all’altro marinaio, come se volessero scoprire il colpevole di quella brutta gherminella.
Il capitano, appena lo vide, gli andò incontro, lo prese ruvidamente per un braccio e lo fece sedere su di un barile che era stato collocato ai piedi dell’albero maestro. Con un cenno fece radunare attorno al colpevole l’equipaggio, poi, affettando una gran collera che non provava e facendo la voce grossa per darsi maggior importanza, disse:
– Papà Catrame, – lo chiamava così, – sapete che i regolamenti di bordo condannano il marinaio che si ubriaca durante il servizio?
Il lupo di mare fece un cenno affermativo e barbugliò un “fate”.
– Quest’uomo è colpevole? – chiese il capitano, volgendosi verso l’equipaggio, che rideva sotto i baffi, sapendo già come doveva finire quella commedia.
– Sì, sì, – confermarono tutti.
– Se tu fossi più giovane, ti farei chiudere nella cabina coi ferri alle mani e ai piedi; ma sei troppo vecchio. Ebbene, io cambio la pena condannandoti a sciogliere quella lingua, che è sempre muta, per dodici sere.
– Orsù, papà Catrame, taglia i gherlini che la tengono legata, accendi la tua pipa e narraci dodici storie, le più belle che sai – e ne devi sapere, veh! – e tu, dispensiere, reca una bottiglia del più vecchio vino di Cipro che troverai nella mia cabina, onde la lingua del vecchio orso non si secchi. Avete capito?
Una salva d’applausi accolse le parole del capitano, a cui fece eco un sordo grugnito di mastro Catrame, non so poi se di contentezza per essere sfuggito ai ferri o di malcontento per dover sciogliere la lingua.
EMILIO SALGARI
[da Le novelle marinaresche di Mastro Catrame]
Concludo:
Non sono un Agente di Viaggi, tuttavia, essendo stato a Cipro due volte… in qualche modo mi sento di consigliare quella meta in particolar modo a chi ama la natura, la storia, l’archeologia, la religione e la buona cucina! Sarete sorpresi!
Il vino di Cipro, tra storia e leggenda
https://patatofriendly.com/vino-cipro-storia-leggenda/
AGGIUNGIAMO A QUESTA RICERCA I CONTRIBUTI DEI NOSTRI AMICI E SOCI:
- STV Enzo GAGGERO:
Mio padre (classe 1916) aveva fatto il servizio di leva nella Regia Marina, proprio a Venezia ed ero a conoscenza della lavagna Bocca di lupo e del suo significato nella marineria veneziana.
Mi è gradito inviarti il simpatico "In bocca al lupo" che distribuiamo ai visitatori delle serate astronomiche.
Com.te Mario T. Palombo
… il tuo inserimento "LUPI DI MARE " mi ha fatto venire in mente mio padre che, pur essendo un Padrone Marittimo e avendo comandato bastimenti a vela, a motore e fatto tanta gavetta, quando arrivava a Camogli e con il suo Nettuno entrava in porto con le mareggiate, la gente rimaneva sbalordita per la sua abilità, sicurezza e coraggio. Un vero lupo di mare.
Com.te Ernani Andreatta
NOSTROMO: "Uomo rozzo e buzzurro che con urla e fischi conduceva la ciurma all'arrembaggio, l'unica persona a cui era ammessa la bestemmia".
Questa è la descrizione storica del Nostromo, figura importantissima della Marineria sia militare che mercantile.
https://www.marinaiditalia.com/public/uploads/2012_7_30.pdf
Sub Giancarlo Boaretto
"… che bello leggere qualcosa sui lupi di mare, mi hai fatto ricordare di quando mi imbarcai per la prima volta, ma non come marinaio, bensì come sommozzatore, e dal 1968 al 1995 imbarchi ne ho fatto qualcuno... Non mi sono mai sentito un "lupo di Mare" come di fatto non lo ero, ma soltanto ospite in una piccola città galleggiante, dove non sempre eravamo ben visti dai marinai, perché moltissime volte stavamo a guardarli mentre loro sfacchinavano e quando la nave non era operativa in attesa di nuovi materiali inerenti la costruzione delle piattaforme petrolifere, noi andavamo a pescare in apnea attorno alla stessa; tornando al primo imbarco, io ero già un Lupo, ma di montagna."
La modestia di Gianca è nota! Ma noi conosciamo come pochi il suo lavoro di un tempo sui fondali freddi del Nord Europa per cui ritengo che in lui si sommino: due LUPI, quello di mare e quello di montagna.
Anch'io ho ancora qualcosa da aggiungere:
ATTACCO A BRANCO DI LUPI
L'U-190, che partecipò agli attacchi ai convogli HX 229 e SC-122
Branco di lupi (Wolfsrudeltaktik in lingua tedesca) è il nome dato alla tattica di guerra sottomarina adottata dai sommergibili tedeschi nella Seconda guerra mondiale.
La tattica del "branco di lupi" (Rudeltaktik) venne utilizzata per la prima volta nel settembre e nell'ottobre del 1940, con effetti devastanti. Il 21 settembre, il convoglio HX-72 di 42 navi mercantili venne attaccato da un gruppo di sottomarini, che affondarono 11 navi e ne danneggiarono due.
Scopo primario della tattica del "branco di lupi" era quello di rendere possibile un obiettivo nemico comune a più sommergibili. Lo sforzo tattico consisteva nel trovarsi a sopraffare il nemico in battaglia. Per questo il momento ideale per l'attacco comune era la notte, poiché in quel frangente l'U-Boot, che si trovava a sufficiente distanza dal convoglio al di sotto dell'orizzonte, a causa della sua stretta silhouette, era difficile da individuare da parte del nemico. L'attacco veniva incominciato da un U-Boot, che il nemico, idealmente costituito da più bersagli potenziali, non attaccava per non richiamare altri sommergibili. Un gruppo di U-Boo toperante con la tattica del "branco di lupi" poteva comportarsi in due modi diversi. Grazie alla segnalazione di un sommergibile di pattuglia o di un aereo, potevano venir comandati più sommergibili nella stessa zona di mare. Di gran lunga più frequentemente un tale gruppo di U-Boot però si raccoglieva "al tavolo verde" a seguito di avviso ufficiale: per esempio a seguito dell'informazione su un convoglio e del corrispondente ordine di recarvisi.
In caso di una tale ricerca di prede ogni U-Boot, a distanza di circa 8 miglia nautiche uno dall'altro, "batteva" una determinata zona del mare. Quando uno di loro aveva individuato un convoglio nemico, avvertiva agli altri con un breve segnale di 20 caratteri, indicando tempo atmosferico, punto, rotta, velocità, numero di navi e scorta del convoglio, informandoli anche sulla disponibilità di carburante da parte sua. Queste informazioni venivano ripetute dall'U-Boot in questione ogni due ore e teneva così il contatto, mentre gli altri U-Boot accorrevano in direzione del convoglio.
Carlo GATTI
Rapallo, 2 Agosto 2022
IL FARO ROMANO DI DUBRIS / DOVER IL CASTELLO DI DOVER
IL FARO ROMANO DI DUBRIS / DOVER
IL CASTELLO DI DOVER
DUBRIS-DOVER
Panoramica sul CASTELLO e sul FARO DI DOVER oggi
Dubris Pharos è un antico faro costruito dal governo della Britannia Romana nel II secolo d.C. sul Porto di Dubris, l’attuale città di Dover nel Kent, all’estuario del fiume Dour, il punto più adatto per l’attraversamento dello lo stretto della Manica (English Channel). Il faro di DUBRIS è il più alto edificio di epoca romana sopravvissuto nel Regno Unito ed è l’unico faro romano sopravvissuto al mondo.
Il Porto militare e mercantile di DUBRIS fu fortificato e presidiato dalla “Classis Britannica” (la flotta navale romana della provincia di Britannia) ed aveva il compito di pattugliare la Manica e il mare attorno alla Britannia, di trasportare uomini e mezzi e di mantenere le comunicazioni tra la provincia e il resto dell’Impero.
Un po’ di Storia - FONTE:
(PDF) Cesare in Britannia – ResearchGate
I ROMANI chiamarono lo stretto Fretum Gallicum e lo attraversarono nell'agosto del 54 a.C. sotto la guida di Giulio Cesare per intraprendere la conquista della Britannia.
«Cesare riteneva molto utile partire per la Britannia, poiché capiva che di là giungevano ai nostri nemici aiuti in quasi tutte le guerre in Gallia; inoltre, anche se la stagione non bastava per le operazioni belliche, riteneva molto utile raggiungere almeno l’isola, vedere quale genere di uomini l’abitassero, rendersi conto dei luoghi, degli approdi, degli accessi, notizie quasi tutte sconosciute anche ai Galli.
L’isola offriva stagno argentifero, ferro, argento e tanto grano; tutte materie indispensabili per la
permanenza delle truppe da una parte all’altra della Manica.
I collegamenti col continente dovettero essere già normalmente assicurati da quei popoli (Belgi) che poco prima di Cesare invasero l’isola passando dallo stretto che collegava l’odierna Boulogne (foto sotto) alle coste della Canzia (Kent). Cesare ben sapeva dei rapporti stretti che univano alcune popolazioni della Gallia del nord e la Britannia e giustificò le proprie mire con la urgente esigenza di spezzare i legami tra le tribù britanniche e quelle galliche”.
Nel 55 a.C. Giulio Cesare, consigliato da Voluseno*, tentò di sbarcare a Dubris il cui porto naturale sembrava il più adatto allo sbarco, ma quando arrivò a poca distanza dalla spiaggia, trovò una brutta sorpresa: le numerose avanguardie britanniche erano appostate sulle le falesie ed erano “così vicine alla riva che i giavellotti potevano essere lanciati da loro verso chiunque avesse tentato lo sbarco”. Cesare cambiò subito strategia: attese “fino alla nona ora” (circa le 15:00) aspettando che le sue navi-rifornimento arrivassero dal secondo porto e poi ordinò ai suoi Comandanti di agire di propria iniziativa; quindi salpò con la flotta a circa sette miglia lungo la costa per una spiaggia aperta.
*Gaio Voluseno Quadrato (I secolo a.C. – …) è stato un ufficiale romano che servì nell’esercito di Cesare, prima durante la conquista della Gallia e poi durante la guerra civile contro Pompeo.
In questa immagine pittorica medievale è rappresentata la parte continentale (forse Boulogne) - Dover è sull’altra sponda.
In epoca romana DUBRIS divenne un importante porto militare, mercantile e cross-channel che, con Rutupiae – è uno dei due punti di partenza della strada più tardi nota come Watling Street. Dubris fu fortificato e presidiato inizialmente dalla Classis Britannica, e successivamente da truppe con sede in un Saxon Shore Fort.
Una piccola parte dei resti del FORTE è ora visibile, su richiesta, presso la Dover Library and Discovery Center, e una casa pubblica al largo di Market Square e prende il nome da Roman Quay.
I resti più estesi e pubblicamente accessibili si trovano presso la Roman Painted House, dove sono visibili parti della mansio, Saxon Shore Fort e Classis Britannica.
IL FARO ROMANO DI DUBRIS (DOVER) E’ L’EDIFICIO PIU’ ANTICO D’INGHILTERRA
I disegni riportati sotto sono basati sulle descrizioni ritrovate nei testi antichi; le foto dei ruderi testimoniano ancora oggi l’abilità degli architetti militari romani nel realizzare strutture adeguate al controllo di operazioni militari di sbarco, ma non c’è alcun dubbio sulla loro utilità per la navigazione ad uso mercantile in tempo di pace.
Nelle due foto sotto, ciò che rimane del FARO DI DOVER
IL CASTELLO DI DOVER
Il Castello di Dover, nel Kent, è famoso come “Key to England” a causa della sua importanza difensiva durante gli ultimi 2 millenni di storia. La rocca medievale risale all’XI secolo, ed è il più grande e importante castello d’Inghilterra. Il sito potrebbe esser stato fortificato già durante l’età del ferro, molto prima che i Romani attaccassero la Britannia (nel 43 dopo Cristo con l’Imperatore Claudio). Una datazione così antica è suggerita dalla forma dei terrapieni, insoliti per un castello di epoca medievale. Gli scavi archeologici suggeriscono attività antropiche nell’area del castello, ma non hanno ancora dato la certezza che queste siano poi state concluse con la costruzione di un qualche tipo di fortificazione.
Per gli amanti di questa materia propongo un riassunto della storia legata al celebre castello che abbraccia un lungo ed intenso periodo …
Fonte: STAMPA Press –
21 miglia di distanza separano l’Europa dalla grande isola, ma in particolare da Dover, la chiave d’accesso all’Inghilterra, dove sono passate invasioni e attacchi e non a caso è stato eretto una dei più grandi castelli della Gran Bretagna.
Con oltre 1 km di mura, il castello di Dover ha difeso gli attacchi dai Francesi, contro Napoleone e infine dai tedeschi di Adolf Hitler, ma tutto ha inizio ai tempi dell’antica Roma, quando Giulio Cesare sbarca sulle coste della Britannia nel primo secolo a.C. nel punto in cui oggi c’è il castello erigono una grande struttura chiamata Faros, il suo scopo era guidare le navi romane sulla costa, dopo 2000 anni il faro è ancora in piedi.
La fortezza che ancora oggi è presente all’interno del castello di Dover fu costruita dal pronipote di Guglielmo il conquistatore, Enrico II, 30 anni di regno che hanno dato all’Inghilterra le basi. Enrico II costruì le mura con 14 torri e al centro la grande torre, maestoso e imponente il castello è anche un palazzo stupendo, al suo interno ci sono 2 sontuosi appartamenti dedicati agli ospiti ma soprattutto al re.
La cappella del castello di Dover
La cappella è situata al secondo piano, per accedervi bisogna percorrere un corridoio molto stretto, fu costruita da Enrico II, qui il re passava molto tempo venerando un grande Santo, Thomas Becket, la storia racconta che fu proprio Enrico II ad ordinare la sua uccisione.
Becket ed Enrico erano amici fino a quando Becket divento arcivescovo ed Enrico, gli ordino di imporre la legge reale sulla chiesa inglese, Becket si rifiutò e tra i due scatta l’inimicizia. Nel Dicembre del 1170 Becket viene assassinato mentre sta pregando nella cattedrale di Canterbury.
Becket viene fatto santo
L’intera Europa è sconvolta, dopo 2 anni Becket viene fatto santo, il re si pente e a piedi scalzi, vestito solo di sacco cammina fino a Canterbury, ordina agli 80 monaci di colpirlo 3 volte a testa con un bastone di legno, dopo si reca sulla tomba del santo pregando tutta la notte, da quel giorno la tomba del santo è meta di pellegrini.
Nel 1179 Luigi VII re di Francia ha il figlio molto malato e vuole venire a pregare sulle tomba di Becket, Enrico per la grande occasione vuole allestire un grande spettacolo, anche se Dover non è la sede più adatta per ricevere un nobile, decide di fare forti investimenti sul castello. In 10 anni il Re investe ingenti somme di denaro, l’obiettivo è impressionare ogni pellegrino che viene in visita al castello.
Dover la fortezza più sicura del medioevo
Enrico rende il castello di Dover la fortezza più grande e sicura di tutto il medioevo, fino all’arrivo nel 1199 del monarca più odiato di tutta la Bretagna, Giovanni re d’Inghilterra ricordato per le storie di Robin Hood, portò tutta la Gran Bretagna quasi alla distruzione. Per capire cosa è veramente successo ci spostiamo nella cattedrale di Salisbury a circa 200 km da Dover, dove troviamo un documento importantissimo la Magna Carta, un trattato del 1215 tra i baroni ribelli e il re.
Giovanni era vendicativo e spietato, imponeva tasse altissime per finanziare guerre fallimentari, derubava la chiesa e dichiarò guerra ai baroni che si opponevano al suo modo di governare fino alla pace con la stesura del trattato, 63 leggi per mettere in riga il re, la più importante è la 61 che dichiara, in caso di non osservanza del trattato, 25 baroni avrebbero dichiarato guerra al re, esattamente quello che poi successe.
Giovanni si appella alla chiesa che gli da ragione, i baroni vengono scomunicati e scoppia la guerra civile, il principe Luigi di Francia viene in aiuto del popolo inglese, che in pochissimo tempo conquista Londra, Canterbury e altre città, a questo punto il re d’Inghilterra si barrica nel castello di Dover, Luigi di Francia lo assedia attaccandolo con le catapulte, il castello non cede e il re di Francia cambia tattica, scavando dei tunnel nelle scogliere di gesso, sotto la fortezza, l’obiettivo è far cedere le fondamenta, ma quest’ultimi sono arrivati fino alla corte esterna del castello, aprendo un varco, gli inglesi hanno resistono cacciando all’esterno i francesi. Dopo tre mesi d’assedio Luigi negozia la pace, alcuni giorni dopo Giovanni muore di dissenteria.
Il castello di Dover viene ampliato
Il castello viene riparato e vengono ampliate le difese che vanno oltre le mura di cinta, negli anni a seguire viene fortificato e reso impenetrabile da diversi sovrani fino alla guerra di Francia contro Napoleone, Nel 1803 con un esercito di 130 mila uomini decide di attaccare l’Inghilterra. il generale William Twiss dell’esercito inglese, rinforza il castello di Dover, aggiungendo una grande piattaforma rialzata sulla porta di nord, 5 piazzole per i cannoni nelle mura esterne e infine rinforza il tetto della grande torre contro l’artiglieria pesante.
Contro un esercito così imponente Twiss si rende conto che occorre molto spazio per i soldati inglesi, gli viene in mente un’idea costruire dei tunnel per accoglierli, ma c’è ancora un punto debole, le scogliere. Twiss progetta un passaggio diretto che arriva ai piedi della scogliera, un imponente scala larga 8 metri per 55 di profondità, geniale nella sua progettazione possiede 3 scalinate, un passaggio veloce per i soldati che dovevano arrivare alla spiaggia, per spostare 1000 uomini bastavo 12 minuti e mezzo.
Dopo tutti questi accorgimenti, Napoleone fu bloccato dalla marina reale annullando l’invasione, nel 1820 i francesi iniziano a scavare un tunnel sotto la Manica, anche se poi venne interrotto per problemi di sicurezza nazionale.
Il castello di Dover nella Seconda guerra mondiale
Per 130 anni il castello rimane tranquillo fino al 1940 con l’arrivo della Seconda guerra mondiale, 400.000 soldati inglesi vengono circondati dalle truppe tedesche sulle coste della Francia, oltre 800.000 uomini comandati da Hitler sferreranno il colpo di grazia.
Winston Churchill vuole salvare i soldati inglesi e incarica il vice ammiraglio Ramsay di portare avanti questa operazione che sarà chiamata Dynamo, il luogo di comando ricade sul castello di Dover, l’obiettivo è evacuare nel più breve tempo possibile la costa francese di Dunkerque con una flotta di cacciatorpediniere e navi per trasporto truppe, in soli 6 giorni dai sotterranei del castello viene pianificato il piano di recupero del maggior numero di soldati, la speranza è salvarne 30/45 mila.
Ramsay ordina l’inizio dell’operazione Dynamo, le navi inglesi ancorano allargo della costa francese e trasportano i soldati in salvo, dopo 3 giorni oltre 70.000 uomini tornano a casa, non contento Ramsay lancia un SOS a tutte le imbarcazioni private, riesce a radunare oltre 700 barche tra Yatch, motoscafi e traghetti, il 28 maggio fanno tutti rotta su Dunkerque, un’idea vincente, perché questi natanti potevano raggiungere la spiaggia e portare sulla navi i superstiti, il 4 Giugno l’operazione si conclude con il salvataggio di 338.226 uomini.
Il castello di Dover diventa la prima linea delle difese inglesi, Ramsay decide di ampliare i tunnel con la costruzione di alloggi, sale operative e ospedali, una grande centrale operativa per il lancio del D-Day.
Ramsay muore in un incidente aereo nel Gennaio del 1945, oggi è ricordato per il grande contributo dato all’Inghilterra.
Il castello di Dover rifugio antiatomico
Dopo la guerra i tunnel del castello vengono trasformati in rifugi antiatomici, causa la guerra fredda, la Gran Bretagna viene divisa in 12 regioni con sedi governative, Dover è una di queste e in caso di attacco nucleare doveva accogliere 300 funzionari miliari.
Visitare il castello di Dover
Il castello di Dover oggi è un monumento nazionale ed è possibile visitarlo.
Orari del Castello di Dover
Si consiglia di informarsi sugli orari perché sono soggetti a variazione.
Il prezzo dei biglietto del castello
Adulti : £17.50
Bambini 5-15 anni: £10.50
Studenti e over 60: £15.80
Famiglie composte da 2 adulti più 3 bambini: £45.50
Come arrivare al Castello di Dover
E possibile arrivare in treno con fermata a Dover Pryory
In BUS con i numeri 15, 15X, 80, 80A, 93
Il fantasma del castello di Dover
Bufala o realtà? In rete gira un video che riprende un fantasma che attraversa la strada, il cineamatore che ha ripreso l’evento pubblicandolo su youtube, ha dichiarato ”non è assolutamente un falso, non ho le capacità per creare questo tipo d’effetti”. Nel video si vede un’ombra nera che passeggia di fronte all’ingresso del castello, anche la guardia presente al momento del fatto si è insospettita, fornendo al video ancora più credibilità, purtroppo rimane comunque il dubbio se il video sia vero o sia stato costruito a tavolino.
Se fosse vero non mi stupirei, come tutti i castelli che si rispettano la presenza di un fantasma è doverosa in particolare al castello di Dover.
Facciamo un salto nel presente …
OGGI
Stretto di Dover o Passo di Calais
Faro di South Foreland sulle scogliere di Dover, East Kent, Regno Unito
Dimensioni
Larghezza: 33,3 Km - Profondità max: 55 mt – Media 30 mt
Lo stretto di Dover, o passo di Calais (in inglese Strait of Dover o Dover Strait; in francese Pas de Calais), è il punto del Canale della Manica che costituisce la distanza più breve tra l’Europa continentale e la Gran Bretagna e, amministrativamente, tra la Francia ed il Regno Unito.
Descrizione
Lo stretto è posto all'estremità orientale del canale della Manica. Ha una ampiezza minima di circa 32 km misurata dal promontorio di South Foreland, posto a circa 6 km a nord-est di Dover in Inghilterra, al promontorio di Cap Gris-Nez, posto a circa 20 km a sud-ovest di Calais in Francia. I fondali sono profondi poche decine di metri.
Vie di comunicazione
Lo stretto è una via di comunicazione molto importante tra l'Atlantico e i mari del Nord e Baltico. È attraversato da più di 400 navi al giorno. Inoltre è solcato dal servizio di navi traghetto che mettono in comunicazione le due sponde opposte.
Dal 1994 è entrato in servizio il Tunnel della Manica che passa sotto lo stretto ad una profondità media di 45 metri collegando Folkestone con Coquelles.
Carlo GATTI
Rapallo, 1 Agosto 2022
IL FRONTE MARE DI RAPALLO VISTO DA UN "MARINAIO" - Parte Seconda -
LA SPIAGGIA DELLE SALINE
RAPALLO
Durante la Repubblica Marinara di Genova i marittimi potevano scegliere tra due tipi d’ingaggio: “con diritto di mugugno” o “senza mugugno”: chi firmava il contratto “con mugugno”, percepiva una paga inferiore, ma poteva lavorare mugugnando e brontolando.
La necessità “de mogognâ” dei marinai è un forte desiderio a non subire “chi gestisce il potere”; tanto da poter difendere i loro diritti, addirittura non rendendoli commerciabili. Questi “prestatori d’opera” hanno dato dignità al loro lavoro! Una forma embrionale di Democrazia. (Marcello Carpeneto)
Oggi il mugugno è un segno d’identità ligustica, riconosciuta per la sua gente chiusa e stondäia (brontolona), solo apparentemente restia all’accoglienza e al turismo.
Con questo spirito di libertà tutta ligure, mi accingo a “disegnare” due mugugni alla marinara … Chi mi conosce sa che non amo granché la politica, qualunque sia il suo colore, e c’è un motivo di fondo: il destino mi ha portato sempre in giro per il mondo ed ho finito per affezionarmi solo al MARE e alle sue molteplici attività!
Tuttavia, nel mio precedente articolo:
IL FRONTE MARE DI RAPALLO - PARTE PRIMA
ho precisato:
“La creazione di una spiaggia pubblica a Rapallo, ritengo sia stata un’ottima idea dell’Amministrazione cittadina per i tanti positivi risvolti economici, turistici, ambientali che potranno fornire alla rinata perla del Tigullio”.
E qui ribadisco il concetto prendendo le distanze da chi ha voluto sui socials, come spesso succede in certi ambiti … “fotografare” l’articolo quale situazione favorevole ai loro interessi personali o politici. Non a caso ho scritto più volte che tra marinai e terrestri le comunicazioni sono rare, confuse e spesso avvengono su “convergenze parallele” come disse quel bravo politico tragicamente scomparso nel 1978!
PRIMO MUGUGNO
Fa parte del mio abito mentale e quindi comportamentale, cercare sempre di prefigurarmi le situazioni in divenire per evitare possibili errori, le cosiddette “facciate”...
Per quanto riguarda la novità dell’estate 2022 a Rapallo: la Spiaggia delle Saline, appunto, mi vien fatto di pensare che, essendo la stessa situata alle spalle del Complesso Portuale Rapallese che ha un potenziale di circa 900/1000 ormeggi fruibili, non possa fornire “accettabili” forme di balneazione agli utenti, riferendomi in particolare all’anno che verrà (?)… in cui ci sarà la ripartenza a pieno regime del Porto Carlo Riva.
L’elemento che occorreva prendere seriamente in considerazione, a suo tempo, è ancora il VENTO: LA BREZZA DI MARE, chiamata così perché soffia dal mare verso terra nelle ore diurne. Parliamo proprio di questo vento che ha reso celebri le nostre località costiere avendo la capacità di mitigare le alte temperature tipiche del periodo estivo.
Se non lo avete ancora fatto, provate ad immaginare questo vento marino, fresco e pulito che, dopo aver accarezzato l’area portuale, cambia abito, s’impregna di fumi e gas di scarico di numerosi motori di varia potenza facendosi vettore anche di altri “inquinamenti” già visti galleggiare su tutti gli arenili italiani, rilasciati da barche in movimento “da mane a sera”… che poi saranno depositate nell’habitat che incontra sul suo cammino cioè:
Sulla Spiaggia delle Saline
Location che è destinata pertanto a diventare il ricettacolo di una variegata complessità di rumenta! Mi auguro di sbagliare ma credo che altri abbiano scelto un’area ben poco adatta ad una balneazione intesa nel senso tradizionale, cioè conforme ai bollini blu che Rapallo si è meritata nel tempo!
CONCLUSIONE
La logica marinara avrebbe indicato per la balneazione, la zona della passeggiata a mare - la più distante possibile dalla zona portuale - vale a dire lo spazio compreso tra il molo dei Primeri (Bruno De Lorenzi) ed il Castello cinquecentesco (vedi freccia blu foto sopra ), area che gode di un ampio spazio aperto verso il mare da cui soffia la brezza diurna, fresca e priva di ostacoli inquinanti.
Brezza di mare e brezza di terra, come si formano?
Le brezze sono uno degli elementi meteorologici più conosciuti dalla popolazione, anche se il loro processo di formazione è un po 'più complesso di quanto possa sembrare a prima vista. Qui te lo spieghiamo.
Schema di formazione delle brezze marine
Le brezze termiche sono venti locali che si originano per la differenza di temperatura tra la superficie marina o lacustre e quella terrestre. A causa di questi gradienti, si verificano movimenti verticali degli strati d'aria, che causano vuoti e squilibri di pressione.
Brezze marine
Senza dubbio le brezze marine sono le più conosciute dalla popolazione. Durante il giorno la superficie terrestre si riscalda più velocemente della superficie del mare, perché l'acqua ha una maggior inerzia termica e la sua temperatura sale e scende più lentamente. L'aria più calda situata sopra la costa diventa meno densa e sale.
È qui che entra in gioco l'aria più fredda sopra la superficie del mare, la cui pressione è più alta (è più pesante). Quest'aria tende ad occupare il vuoto lasciato dall'aria che si è sollevata sopra la costa, ed il risultato di questo processo è la formazione di un vento locale che soffia dal mare alla terra. In questo modo si origina durante il giorno la brezza marina.
La tarda primavera e l'inizio dell'estate sono i momenti in cui le brezze tendono a raggiungere la loro massima intensità, a causa della maggiore differenza di temperatura tra il mare ed il continente, una differenza a volte superiore ai 5ºC. In questo periodo la brezza può penetrare fino a 50 chilometri nell'entroterra. Se le condizioni in altezza e in superficie sono adatte, può aiutare nella generazione di rovesci o temporali.
D'altra parte, nella restante parte dell'anno le brezze tendono ad essere più deboli in quanto c'è un gradiente termico inferiore tra il mare e la terra. Inoltre nel resto dell'anno le brezze marine tendono a soffiare parallelamente alla costa a causa dell'effetto Coriolis. Non bisogna dimenticare poi che l'incidenza di questi venti locali è fortemente condizionata anche dall'orografia e dalla conformazione del litorale e dall'influenza del sistema di alta e bassa pressione.
Brezza di terra
La mattina e al tramonto c'è un periodo di calma in cui le temperature del mare e della terra sono praticamente uguali. Di notte il meccanismo si inverte. A causa della minor capacità termica della superficie terrestre, la temperatura scende rapidamente, cosa che non accade sulla superficie del mare a causa della sua maggior inerzia termica.
L'aria sopra il mare sarà quindi più calda e, di conseguenza, meno densa e si solleverà, il che può favorire la comparsa di nuvolosità se le condizioni lo consentono. Il vuoto che lascia viene riempito dall'aria proveniente dalla terraferma, più fredda e più pesante, provocando un vento locale che soffia dalla terra al mare, riscaldandosi durante la discesa. In generale è più debole della brezza marina.
SECONDO MUGUGNO
Confesso la mia difficoltà a comprendere la scelta del Molo De Lorenzi (ubicato nel centro della passeggiata a mare) che viene adibito al traffico dei battelli turistici, quando questo Terminal confina con una spiaggia destinata alla balneazione estiva.
Tutti sanno che negli ambiti portuali di tutto il mondo è vietata la balneazione. La presenza di battelli/traghetti in quella zona della passeggiata comporta, secondo il calendario degli imbarchi/sbarchi, una ventina di manovre d’ormeggio e disormeggio in un solo giorno!
Gli “incolpevoli” Traghetti sono imbarcazioni moderne e veloci che sono dotate di potenti motori dai quali non escono rose e fiori … ma fumi e gas e, già che ci siamo, aggiungerei anche il fango che sale in superficie ad ogni avviamento del motore, visti i bassi fondali che tormentano quella zona.
Perché allora permettere la coabitazione del traffico marittimo con un’attività destinata alla balneazione? Per non parlare delle eventuali e possibili avarie di questi mezzi le cui conseguenze non voglio neppure prendere in considerazione.
La cosa più strana che salta agli occhi è la presenza del lungo ed attrezzato Molo Langano (foto sopra) che sul lato mare è suolo privato e sull’altro é pubblico. A questo punto, la domanda più ovvia che sorge spontanea è la seguente:
Perché questo ampio molo non viene destinato all’imbarco/sbarco passeggeri considerando la non trascurabile differenza di pescaggio tra i due moli in questione?
CONCLUSIONE
Evidentemente nella nostra città hanno diritto di precedenza quei criteri legati “esclusivamente” alle esigenze logistiche del turismo, alla sua immagine e ad una sbrigativa “funzionalità” delle attività collegate che poco hanno a che fare col “buon senso marinaro”!
Il molo Bruno De Lorenzi, l’attuale Terminal Traghetti di Rapallo, avrebbe un senso come luogo di ristoro (Bar, Chalet, Fast-food) per i numerosi bagnanti accaldati e assetati … ma su questo terreno non oso avventurarmi!
FINE DEI MUGUGNI
Una interessante lettura per l’estate.
Langano: un molo storico, una nave rapallina da ricordare di C.Gatti
https://www.marenostrumrapallo.it/langano/
L’articolo è stato pubblicato su Rapallo Notizie – IL MARE - da qualche giorno in edicola.
Carlo GATTI
Rapallo, giovedì 21 Luglio 2022
IL FRONTE MARE DI RAPALLO VISTO DA UN “MARINAIO” - PARTE PRIMA -
IL FRONTE MARE DI RAPALLO
VISTO DA UN “MARINAIO”
PARTE PRIMA
di Carlo GATTI
La gente della nostra costa sa da sempre che:
Il vento di traversia è il libeccio che soffia da sud-ovest (225°)
E che il vento dominante è lo scirocco che soffia da sud-est (135°)
Il libeccio proviene dal largo, dagli alti fondali e colpisce con violenza “atlantica” la costa ligure esposta a questo vento.
C’è un terzo fattore che influisce sulle nostre coste:
La corrente marina che moltiplica la sua velocità sotto l’effetto dello scirocco.
La corrente marina
Tutto ha inizio con la corrente del golfo (Gulf Stream) che nasce nel Golfo del Messico, affronta l’Oceano e, giunta a Gibilterra, un suo ramo entra nel Mediterraneo, compie una rotazione completa; ritorna quindi in Atlantico e con una lunga nuotata rientra nel golfo del Messico …
A noi interessa il ramo di questa corrente che dalle coste della Tunisia risale il Tirreno, accarezza il Golfo ligure, costeggia la Spagna e discende per rimettersi in circolo.
La corrente è costante nel suo eterno moto circolare, ha la velocità di 1 nodo lungo le coste del Nord Africa e nello Stretto di Sicilia, mentre sul resto del bacino ha valori inferiori.
Perché questa spiegazione?
Soltanto sul versante tirrenico la forza della corrente marina si somma allo scirocco, entrambe provenienti da SUD-EST, la risultante è un “fiume” la cui velocità è proporzionale alla spinta del vento. Quando il fenomeno accade, gli elementi si esaltano, entrano in competizione tra loro e la gara diventa dura specialmente per chi ne viene “investito” ….!
Entrando nello specifico: nel golfo ligure la corrente marina da scirocco, come abbiamo visto, ha una velocità costante di 0,5 nodi * in bonaccia di vento, ma la sua forza può raggiungere la velocità di 6/7 nodi ed oltre in presenza di burrasche forti da quel quadrante. Questo flusso d’acqua ha la caratteristica d’entrare con violenza dappertutto in ogni buco naturale o artificiale della costa investendo porti, porticcioli, golfi e insenature modificando i fondali e mettendo in difficoltà qualsiasi nave in navigazione o in manovra.
* - In ambito nautico: Il nodo è l’unità di misura per la velocità equivalente ad un miglio nautico l'ora (1,852 km/h).
A causa dei preoccupanti cambiamenti climatici causati dal surriscaldamento della terra, occorre affrontare il “fenomeno naturale” con un cambio di mentalità predisponendosi a ragionare come sanno fare i “marinai da cattivo tempo”: immaginare il peggio cercando di valutare in anticipo le proporzioni che questi fenomeni potranno assumere in futuro. Questo atteggiamento mentale è l’unico che ci può portare verso scelte preventive di buon senso.
Prima di quel famigerato 29 ottobre 2018, Portofino, Santa Margherita e Rapallo erano le uniche località del Tigullio ritenute “fortunate” per la loro posizione ridossata dal “devastante” vento di Libeccio che veniva deviato dallo scudo naturale del Promontorio di Portofino. Ma del doman non c’è certezza recita il poeta. Ora più che mai!
A questo punto le domande che ognuno di noi si pone sono tante e tutte esigono risposte precise che la meteorologia, essendo la scienza più giovane del pianeta, non è ancora in grado di fornire, e non solo per mancanza di statistiche…
Potrà ripetersi ancora quell’allucinante congiuntura di fenomeni distruttivi che abbiamo conosciuto il 29 ottobre 2018?
Questo pare essere il “punto focale” di tutte le domande! Ma sospendiamo per un attimo lo sviluppo del tema e, andando un po’ a ritroso nel tempo, ci sia concessa una Celia …
Da questa particolare situazione di privilegio effettivo goduto per secoli dalla nostra gente, nacque la colorita nomea:
GOLFO DEI NESCI
che oggi il tempo ha decantato e quasi dimenticato… ma per qualche giovane curioso di oggi è bene aver pronta una spiegazione. L’ultima che ho trovato è questa: “deriva dal tentativo dei vecchi marinai (oggi solo di qualche turista) di andare a vela in un golfo dove non c'è mai vento: nescio in genovese ha un significato al limite tra matto e stupido, anche se letteralmente vuol dire: che sa di poco - che è insipido!
.
Un’altra spiegazione, del tutto personale, è questa: “golfo dei nesci” - nacque, probabilmente, come presa per i fondelli verso chi non conosceva le vere tempeste da Libeccio che, al contrario, aveva forgiato veri marinai da tempo cattivo nelle località limitrofe.
Tuttavia, a giudicare dalla costruzione di certe strutture portuali costruite nel recente passato nelle località “ridossate”, il dubbio che siano state concepite da “marinai da tempo buono” è pertinente anche per il sottoscritto …
Ma c’è un altro fattore ancora più sorprendente che NON mi fa dubitare sul significato della parola NESCIO che ha marchiato il nostro golfo: chiunque può scoprire, facendo un brevissimo viaggio “vero o virtuale” su internet, che tutti i porti e porticcioli esistenti da Spezia a Genova ed oltre… hanno una diga che li ripara dallo SCIROCCO. Pochissimi altri, come Lavagna, non hanno avuto alternative nella scelta per ragioni orografiche. Pertanto si può dire che soltanto Rapallo detenga questo primato.
L’INSEGNAMENTO CHE LA LOCARNO CI HA LASCIATO IN EREDITA’
Le foto (sopra e sotto) mostrano a sinistra, il molo dei Primeri (oggi si chiama: Bruno De Lorenzi in onore all’eroe Rapallese della Seconda guerra mondiale). Quel pontile rappresenta, ancora oggi, il punto d’atterraggio della LOCARNO contro il quale “appoggiò” la murata sinistra, proprio sotto lo scalandrone della nave. Quel punto costituì il terminale della rotta “da scirocco” lungo la quale il piroscafo, ormai senza “governo”, scarrocciò verso il centro della passeggiata a mare.
(Nelle foto sopra e sotto si vede il molo dei Primeri (De Lorenzi)
In questa foto scattata da terra si evidenzia la vulnerabilità del Fronte a Mare di Rapallo aperto totalmente allo SCIROCCO
Nell’immagine rubata al web si nota inoltre che l’entrata dello SCIROCCO nel golfo di Rapallo non incontra OSTACOLI nel suo breve viaggio verso la città: un vero cul de sac che oggi appare ancora più stretto nello spazio tra le dighe del porto Riva e del Porticciolo. La strettoia, per l’effetto VENTURI, contribuisce ad aumentare la forza del vento in entrata aumentandone sia l’ampiezza dell’onda che la corrente.
Come funziona l'effetto Venturi? Il grafico qui sotto riportato è più esplicativo di tante parole.
Così spiega la scienza:
Venturi è un sistema per velocizzare il flusso del fluido, costringendolo in un tubo a forma di cono. Nella restrizione il fluido deve aumentare la sua velocità riducendo la sua pressione e producendo un vuoto parziale.
IL CAMBIAMENTO CLIMATICO DI CUI RAPALLO HA GIA’ CONOSCIUTO GLI EFFETTI DEVASTANTI IL 29 OTTOBRE 2018, CI OBBLIGA A FARE ALCUNE RIFLESSIONI SULLA DIFESA DEL NOSTRO TERRITORIO – FRONTE MARE
Ci serviamo di questa immagine (sotto) per inquadrare la direzione dello SCIROCCO proveniente da SE (135°) che corre parallelo alla costa della Riviera di Levante ed entra senza ostacoli investendo in pieno la passeggiata a mare.
Su questa foto ho immaginato la presenza di una diga “interrotta da ambo i lati” a difesa della passeggiata a mare e delle sue costruzioni storiche affollate di esercizi pubblici in larga parte dedite al turismo. La linea rossa è stata tracciata in modo approssimativo per esprimere il concetto e non per fornire dettagli tecnici che definiscano le sue caratteristiche: lunghezza e orientamento rispetto al vento dominante di SCIROCCO.
La Zona Lido (nella foto sopra) é attigua alla nuova spiaggia.
LA NUOVA SPIAGGIA DELLE SALINE
sarà inaugurata il 16 luglio 2022
La creazione di una spiaggia (foto sopra), ritengo sia stata un’ottima idea dell’Amministrazione cittadina per i tanti positivi risvolti economici, turistici, ambientali che potranno fornire alla rinata “perla del Tigullio”.
Ho qualche dubbio, tuttavia, sulla scelta della posizione della spiaggia delle Saline. Ma ne riparleremo nella prossima puntata.
Qui voglio aggiungere un altro elemento positivo di carattere sportivo a ricordo del glorioso passato di Rapallo: i giovani talenti delle discipline natatorie, velistiche e di canottaggio nascono in mare in tenera età e, solo successivamente, una volta superato il vaglio degli esperti, iniziano un percorso didattico in piscina o presso i Club velici e Canottieri.
Ben vengano quindi le spiagge che sicuramente riempiranno un gap nella popolazione locale che non ha avuto modo d’imparare a nuotare per almeno due generazioni, per i motivi che tutti conosciamo…!
Difendiamo allora questo patrimonio in costruzione con una DIGA che potrebbe valorizzare ampi e sicuri spazi al mare interno e cambiare il volto della Rapallo marinara.
A questo punto del “sogno” … il lettore si chiederà:
“Perché costruire una diga di sbarramento contro il vento di scirocco che non annovera gravissimi danni nella storia della nostra città?”
La diga a protezione della città, aprirebbe nuove prospettive per la sicurezza:
In caso di tempeste, burrasche e mareggiate forti, concomitanti a piogge travolgenti, la diga consentirebbe ai nostri torrenti di defluire con più facilità verso il mare riducendo la possibilità di esondazioni, allagamenti e black-out agli impianti idrici che Rapallo ha ben conosciuto nella sua lunga storia.
Inoltre, una diga di quel tipo costituirebbe un’utilissima barriera per le migliaia di tonnellate di materiale ligneo proveniente dagli estuari dei fiumi e torrenti di mezza Italia che i venti sciroccali e la corrente depositano ogni anno sui nostri arenili. E piuttosto pensabile che la corrente - “nastro trasportatore di legname” - una volta incontrata la diga, andrebbe a scaricare il suo indesiderato contenuto verso il largo.
Potendo usufruire del ridosso della diga, si otterrebbe un “EFFETTO ATOLLO” al suo interno che potrebbe anticipare ed allungare la stagione estiva di qualche mese e permettere allenamenti sportivi e perché no, anche manifestazioni e spettacoli di carattere acquatico e nautico.
RIASSUMENDO
COME ABBIAMO APPENA VISTO, I VANTAGGI D’AVERE UNA DIGA SONO MOLTEPLICI
(il nemico lo si affronta prima che giunga davanti alle porte della città)
“L’invincibilità sta nella difesa” (SUN TZU)
UNA LETTURA UTILE
La costa italiana ha una lunghezza di circa 8.300 km. Più del 9% di costa è ormai artificiale, delimitata da opere radenti la riva (3,7%), porti (3%) e strutture parzialmente sovraimposte al litorale (2,4%).
L’ambiente costiero è un ecosistema dinamico in cui processi naturali e di origine antropica si sommano e interagiscono modificandone le caratteristiche geomorfologiche, fisiche e biologiche
La continua movimentazione dei sedimenti a opera del mare (correnti, maree, moto ondoso, tempeste) sottopone i territori costieri a continui cambiamenti, che si evidenziano con nuovi assestamenti della linea di riva e con superfici territoriali emerse e sommerse dal mare, riscontrabili anche nell’arco di una stagione.
CONCLUSIONE
I VIVI - I MORTI E I NAVIGANTI ...
La differenza di mentalità tra il “marinaio” e l’uomo di terra è sempre la stessa da migliaia di anni.
Chi deve affrontare gli oceani si organizza mentalmente su come programmare il viaggio sapendo di dover affrontare le tempeste. Sa di non poter trascurare i punti deboli della sua nave. C’è di mezzo la vita e quella dei suoi compagni di viaggio.
In terra si sente sempre avanzare una giustificazione e l’assenza di responsabilità individuali per ogni catastrofe:
- Quel fiume non esondava da …
- Questa siccità non accadeva dal …
- Quel ponte ha resistito per secoli …
- Onde così alte non si erano mai viste …
In terra tutti parlano di SICUREZZA, MA NESSUNO VUOLE PAGARLA!
LA STORIA RACCONTA
L’Associazione culturale Mare Nostrum Rapallo nacque, nella sua veste attuale, nel 1987 (1° Mostra al Castello), ma solo nel 2011 si dotò di un proprio sito che in 11 anni ha raggiunto l’impressionante cifra di 200.000 visite circa. Da pochi mesi lo abbiamo aggiornato con una versione ultramoderna che ci ha subito ripagato con innumerevoli segnalazioni di followers internazionali alle Accademie culturali di S. Francisco, New York e Oxford dalle quali veniamo informati ogni giorno. I nostri “contenitori per argomenti”, contengono ben 800 ricerche, articoli e saggi che evidentemente sono molto apprezzati e ci rendono pertanto fieri del nostro lavoro. VISITATECI - siamo sicuri che scoprirete un TESORO cultural-marinaro che vorrete condividere con noi.
IL DIRETTIVO
Dal sito di Mare Nostrum Rapallo:
https://www.marenostrumrapallo.it
Riportiamo alcuni contributi per l’approfondimento degli argomenti trattati
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RAPALLO: L'AGONIA DELLA CARRETTA LOCARNO
https://www.marenostrumrapallo.it/lagonia-della-locarno/
di Emilio CARTA
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Pubblicazione di Emilio CARTA e Carlo GATTI
DVD di Ernani ANDREATTA
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A L’EA GENTE NAVEGÂ …
https://www.marenostrumrapallo.it/navega/
di Carlo GATTI
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Genova, 19.2.1955 – UN INFERNALE CICLONE DA LIBECCIO DEVASTO’ IL PORTO DI GENOVA
https://www.marenostrumrapallo.it/ciclone/
di Carlo GATTI
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RAPALLO, QUANDO SI NUOTAVA NEL GOLFO DEI NESCI
di Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/quando-si-nuotava-nel-golfo/
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Lunedì 29 ottobre 2018
TEMPESTA SHOCK SUL MARE NOSTRUM – RAPALLO
di Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/tsunami/
Rapallo, 4 Luglio 2022
NAVE GARIBALDI - 551 La prima unità navale Lanciamissili balistici
NAVE GARIBALDI
La prima unità navale lanciamissili balistici
551
SI VIS PACEM PARA BELLUM
Nave Giuseppe Garibaldi anno 1937
Il Giuseppe Garibaldi è stato un incrociatore della Regia Marina italiana e successivamente della Marina Militare. Dopo aver subito radicali lavori di trasformazione, divenne la prima unità navale missilistica italiana. Alla sua entrata in servizio il Garibaldi era classificato incrociatore leggero, in quanto secondo il Trattato navale di Londra del 1930, erano classificati tali gli incrociatori con cannoni da 6.1 pollici 155 mm o più piccoli, mentre quelli con cannoni fino a 8 pollici 203 mm erano definiti incrociatori pesanti.
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Caratteristiche :
La costruzione dell’unità avvenne nel Cantiere navale San Marco di Trieste ed ebbe iniziò il 28 dicembre 1933. La nave, varata il 22 aprile 1936, fu consegnata alla Regia Marina il 1º dicembre 1937. Madrina del varo la Signora Gina Federzoni, moglie del allora Presidente del Senato Luigi Federzoni. La bandiera di combattimento venne consegnata il 13 giugno 1938 dalla città di Palermo e dalla Federazione Nazionale Volontari Garibaldini, dopo che il 5 maggio la nave aveva preso parte nel golfo di Napoli alla parata navale in onore del Cancelliere tedesco Hitler in occasione della visita in Italia.
Il varo della nave
L’unità faceva parte della classe Duca degli Abruzzi, ultima evoluzione degli incrociatori leggeri del tipo Condottieri. Le navi di questa quinta e ultima classe presentavano un perfetto equilibrio fra protezione, velocità, tenuta di mare e armamento, grazie alla esperienza acquisita dalla realizzazione delle precedenti classi e i miglioramenti introdotti richiesero un aumento del dislocamento, che per queste unità superò le 9.000 tonnellate, con un incremento di dimensioni, che portarono la lunghezza dello scafo fuori tutto a 187 metri, risultando quindi tra le più lunghe unità della Regia Marina, precedute soltanto dalle Littorio, dai Trento e dal Bolzano. Particolare cura era stata posta nello studio della corazzatura. La protezione verticale era costituita da tre paratie, di cui la prima di 30 mm di acciaio al nichelcromo, la seconda di 100 mm di acciaio cementato che poggiava su un cuscino di legno con funzione ammortizzante ed una terza paratia di 12 mm con funzione di paraschegge. La protezione orizzontale era costituita da 40 mm per il ponte di batteria, mentre lo schema di protezione vede indicati anche 10-15 mm di acciaio del ponte di coperta 90 mm al basamento dei fumaioli; corazze curve dello spessore di 100 mm proteggevano i pozzi delle torri principali. La sovrastruttura presentava i due fumaioli ravvicinati e due catapulte, una per lato, che permettevano di imbarcare fino a quattro idrovolanti da ricognizione marittima IMAM Ro.43 biplani biposto a galleggiante centrale capaci di raggiungere circa i 300 km/h e con circa 1 000 km di autonomia, che avevano le ali ripiegabili all’indietro in modo da permetterne il ricovero sulle navi.
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Idrovolante da ricognizione marittima IMAM Ro.43 biplani biposto
L’aumento delle dimensioni e del dislocamento richiese un aumento della potenza dell’apparato motore che era a vapore con due turbine tipo Belluzzo/Parsons alimentate dal vapore di otto caldaie a tubi d’acqua del tipo Yarrow/Regia Marina, con due caldaie in più rispetto alle precedenti realizzazioni della Classe Condottieri. In queste caldaie, alimentate a nafta, l’acqua fluiva attraverso tubi riscaldati esternamente dai gas di combustione. Questa configurazione sfruttava il calore sprigionato dai bruciatori, quello delle pareti della caldaia e quello dei gas di scarico. Nel XX secolo questo tipo di caldaia diventò il modello standard per tutte le caldaie di grosse dimensioni, grazie anche all’impiego di acciai speciali in grado di sopportare temperature elevate e allo sviluppo di moderne tecniche di saldatura. L’apparato motore forniva una potenza massima di 100 000 CV e consentiva alla nave di raggiungere la velocità massima di 33-34 nodi. A tale proposito, il Garibaldi arrivò a 34.78 nodi ma soltanto a poco più di 8.600 t di dislocamento circa 500 in meno rispetto a quello standard e 2.500 rispetto al massimo consentito. Nello stesso anno del 1937 l’Abruzzi ottenne, una stazza più realistica di circa 10.300 t circa il 90% del massimo indicato di 11.550, 33.62 nodi a 104.000 hp. Le navi imbarcavano fino ad oltre 1.600 tonnellate di nafta, un’autonomia che ad una velocità media di 13 nodi era di 4.125 miglia, mentre alla velocità di 31 nodi era di 1.900 miglia. L’armamento principale era costituito da cannoni da 152/55 Ansaldo Mod. 1934 a culla singola e a caricamento semi-automatico installati in quattro torri, di cui una trinata ed una binata nella sovrastruttura di prua ed una torretta trinata ed una binata a poppavia del secondo fumaiolo, per un totale di dieci cannoni. L’armamento antiaereo principale era costituito da 8 cannoni da 100/47 mm OTO in quattro complessi scudati, utili anche in compiti antinave, ma che con l’aumento della velocità dei velivoli e con le nuove forme di attacco in picchiata si mostrarono insufficienti alla difesa aerea e rivelarono una certa utilità solo nel tiro di sbarramento, tanto che per ovviare a tali inconvenienti venne approntato il complesso singolo modello 90/50 mm A-1938 con affusto stabilizzato che trovò impiego sulle Duilio e sulle Littorio ma non sulle Cavour.
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L’armamento antiaereo secondario era costituito da 12 mitragliere Breda Mod. 31 da 13.2/76 mm che durante la guerra furono sostituite con altrettante mitragliere da 20/70 e 8 mitragliere pesanti Breda 37/54 mm montate in 4 impianti binati che si rivelarono particolarmente utili contro gli aerosiluranti e in generale contro i bersagli a bassa quota. L’armamento silurante
era di 6 tubi lanciasiluri in due complessi tripli, che nel 1945 vennero rimossi e che trovavano posto in coperta circa a metà distanza fra i due fumaioli. Completavano l’armamento antisommergibile 2 lanciatori per bombe di profondità.
Caratteristiche generali
Dislocamento standard: 9050 t a pieno carico: 11117 t
Lunghezza fuori tutto: 187 m perpendicolari: 171,8 m
Larghezza 18,9 m perpendicolari: 171,8 m
Pescaggio 6,8 m
Equipaggio 640 (29 ufficiali e 611( tra sottufficiali e marinai)ArmamentoArtiglieria 10 cannoni Ansaldo da 152 mm8 cannoni da 100/47 mm8 cannoni Breda da 37/54 mm12 mitragliatrici Breda mod.31 da 12.7 mmSiluri 6 tubi lancia siluri da 533 mm2 lanciabombe di profonditàCorrazzaturaVerticale 100 mm+30 mm – Orizzontale 40 mm – Artigliere 135 mm – Torrione 140 mmMezzi Aerei 4 Idrovolanti Inam Ro 43
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Attività bellica: La prima operazione bellica cui partecipò l’unità fu nell’aprile 1939 l’occupazione dell’Albania. Nell’occasione la Regia Marina schierò davanti alle coste albanesi una squadra navale al comando dell’ammiraglio Arturo Riccardi, composta, oltre che dal Garibaldi, dagli incrociatori leggeri Duca degli Abruzzi e Bande Nere, dalle due Cavour, dai quattro incrociatori pesanti Zara, 13 cacciatorpediniere, 14 torpediniere e varie motonavi su cui erano imbarcati in totale circa 11.300 uomini, 130 carri armati e materiali di vario genere. Nonostante l’imponente spiegamento di forze, l’azione delle navi italiane, nei confronti dei timidi tentativi di reazione da parte albanese, si limitò soltanto ad alcune salve sparate a Durazzo e a Santi Quaranta. Le forze italiane incontrarono scarsissima resistenza e in breve tempo tutto il territorio albanese fu sotto il controllo italiano, con re Zog costretto all’esilio. Il Garibaldi trovò poi ampio impiego durante la seconda guerra mondiale, inquadrato nella VIII Divisione incrociatori nell’ambito della I Squadra di base a Taranto.
Attività bellica 1940. Il 9 luglio 1940, al comando del capitano di vascello Stanislao Caraciotti, prese parte alla battaglia di Punta Stilo, nel corso della quale colpì con schegge della propria artiglieria, l’incrociatore HMS Neptune della Royal Navy, danneggiandone sia la catapulta che il ricognitore Swordfish imbarcato sull’unità britannica, quest’ultimo in modo irreparabile. Al comando della VIII Divisione Incrociatori c’era l’ammiraglio Antonio Legnani con insegna sul gemello Duca degli Abruzzi, mentre l’unità inglese faceva parte della classe Leander ed era inquadrata nella VII Divisione Incrociatori nell’ambito della Forza A comandata dall’ammiraglio di squadra John Towey. Alle 15:20 la VIII Divisione incrociatori leggeri aprì il fuoco contro il nemico dalla notevole distanza di 20.000 metri con le artiglierie da 152 mm, seguita alle 15:26 dalle navi della IV Divisione comandata dall’ammiraglio Marenco di Moriondo e formata dagli incrociatori Alberico da Barbiano e Alberto di Giussano. Alle 15:31 il contatto cessò per l’intervento delle navi da battaglia. Il Garibaldi tra il 29 agosto e il 5 settembre 1940 prese parte ad un’azione di contrasto all’Operazione inglese Hats, con gran parte delle unità della I Squadra insieme ad altre unità partite da Messina e da Brindisi. L’azione vedeva per la prima volta l’impiego delle due nuovissime navi da battaglia della classe Littorio, Vittorio Veneto e Littorio. La Squadra Navale italiana poteva contare nell’occasione 4 navi da battaglia, 10 incrociatori e 31 cacciatorpediniere, ma il nemico non venne rintracciato anche a causa di una violenta burrasca che costrinse al rientro le navi italiane non potendo i cacciatorpediniere reggere il mare. Il successivo 29 settembre il Garibaldi partecipò all’attacco al convoglio inglese MB 5 diretto a Malta. Le forze inglesi vennero attaccate dagli aerosiluranti italiani, ma anche questa volta l’attacco delle forze navali di superficie non si materializzò e gli inglesi portarono a termine la missione poiché le unità della Regia Marina non riuscirono a stabilire il contatto. Il Garibaldi era poi presente, ormeggiato nel Mar Piccolo, nella notte a Taranto dell’11-12 novembre 1940, dalla quale uscì indenne e nel corso della quale furono gravemente danneggiate le navi da battaglia Cavour, Duilio e Littorio. Nella stessa sera dell11 novembre, intorno alle 18, alcuni incrociatori e cacciatorpediniere inglesi si distaccarono dalla flotta principale che stava dirigendosi verso il golfo di Taranto per l’operazione Judgement e si diressero verso il Canale d’Otranto per intercettare il traffico verso l’Albania.
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Lo squadrone inglese era costituito dagli incrociatori leggeri Orion, Ajax, Sydney con la scorta dei cacciatorpediniere della classe Tribal Nubian e Mohawk. Le navi britanniche, dopo aver attraversato il canale ed essere entrate in Adriatico, intercettarono un convoglio diretto a Valona, costituito dai piroscafi Antonio Locatelli, Premuda, Capo Vado e Catalani, scortati dalla vecchia torpediniera Fabrizi, al comando del tenente di vascello Giovanni Barbini, e dall’incrociatore ausiliario Ramb III al comando del capitano di fregata Francesco De Angelis. Gli inglesi dopo aver localizzato il convoglio italiano affondarono tutti i piroscafi nonostante l’eroica difesa offerta della torpediniera Fabrizi, gravemente danneggiata, mentre l’incrociatore RAMB III, dopo un iniziale scambio d’artiglieria, si dileguò lasciando i piroscafi alla loro sorte, riuscendo a rompere il contatto salvandosi nel porto di Brindisi. Nello scontro 36 marinai italiani persero la vita, e 42 vennero feriti. Il Tenente di Vascello Barbini, pur ferito riuscì a riportare nel porto la sua unità guadagnandosi per il suo eroismo la Medaglia doro al valor militare. I velivoli inviati dalla Regia Aeronautica non riuscirono a localizzare la flotta nemica ed i pochi CANT inviati in missione di ricognizione vennero falcidiati dalle forze nemiche. La Regia Marina inviò delle motosiluranti da Valona, gli incrociatori Attendolo ed Eugenio di Savoia della VII Divisione con i cacciatorpediniere della XV Squadriglia da Brindisi, e gli incrociatori Duca degli Abruzzi e Garibaldi con i cacciatorpediniere della VII e VIII Squadriglia da Taranto, ma le navi italiane non riuscirono a stabilire il contatto. Nella giornata del 12 novembre 140 marinai vennero salvati dalle torpediniere Curtatone e Solferino.
Attività bellica 1941. Nel 1941, dopo il trasferimento nella base di Brindisi, avvenuto il 1º marzo, prese parte alla battaglia di Capo Matapan. nel corso della quale le forze italiane comandate dall’ammiraglio Angelo Iachino persero 3 incrociatori pesanti della classe Zara e 2 cacciatorpediniere della classe Poeti. Le unità andate perdute facevano parte della I Divisione Incrociatori comandata dall’ammiraglio Cattaneo e furono gli incrociatori Zara, Fiume e Pola e i cacciatorpediniere Alfieri e Carducci della IX Squadriglia, che ne costituivano la scorta. Il Garibaldi partecipò alla battaglia insieme al gemello Duca degli Abruzzi scortato da due cacciatorpediniere della classe Navigatori della XVI Squadriglia, il da Recco e il Pessagno. La partecipazione fu tuttavia solo nominale, poiché nelle prime fasi dell’operazione il Pessagno lamentò un’avaria ad una caldaia che ne limitava di molto la velocità. Questa avaria costrinse tutta lVIII Divisione Incrociatori ad allontanarsi dal teatro operativo facendo rotta di rientro. Il successivo 8 maggio partecipò ad un’azione di contrasto all’operazione inglese Tiger, con cui gli inglesi, con un convoglio diretto ad Alessandria d’Egitto da Gibilterra, si proponevano di rifornire di carri armati, aerei e carburante la loro armata del Nilo con base Alessandria d’Egitto. I britannici evitarono lo scontro navale con la flotta italiana che era uscita per intercettare il convoglio senza però riuscire a stabilire il contatto e riuscirono così a portare al termine con successo la missione di rifornimento alle proprie truppe in Egitto. Il successivo 28 luglio il Garibaldi sopravvisse ad un siluro lanciato dal sommergibile britannico Upholder dal quale venne colpito al largo delle coste siciliane nei pressi dell’isola di Marettimo. I siluri lanciati furono 2 ma il tempestivo avvistamento da parte di una vedetta dell’R.C.T. Bersagliere, che riuscì ad evitarli entrambi, consentì all’incrociatore italiano di evitarne almeno uno. I danni subiti non furono gravi venne colpito a proravia delle torri prodiere, nonostante le 700 tonnellate d’acqua imbarcate. Il Garibaldi riuscì a raggiungere Palermo ed essere poi trasferito a Napoli per le riparazioni che richiesero 4 mesi di lavoro ed il successivo 20 novembre si trovò a partecipare ad una missione di scorta.
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Da Napoli erano salpati, diretti a Bengasi, due convogli composti in totale da 5 piroscafi e una petroliera, con la scorta della III e VIII Divisione e 12 cacciatorpediniere, mentre altri 2 cacciatorpediniere e 2 torpediniere formavano la scorta diretta. Il 21 novembre un ricognitore inglese avvistata la formazione italiana andò a dirigere su di essa alcuni sommergibili ed il sommergibile Utmost colpì con un siluro il Trieste, che gravemente danneggiato riuscì a raggiungere il giorno dopo Messina così come anche il Duca degli Abruzzi che era stato silurato ed aveva subito danni non gravi da un attacco notturno aerosilurante inglese. Il convoglio viene fatto rientrare a Taranto. Successivamente il 1º dicembre il Garibaldi durante una missione di scorta a causa di una gravissima avaria alle macchine dovette essere trainato fino a Taranto, mentre la Forza K affondò la motonave Adriatico, la petroliera Mantovani e il cacciatorpediniere da Mosto che faceva parte della scorta.
Attività bellica 1942. Nel 1942, dal 3 al 5 gennaio partecipò all’operazione M43 che aveva la finalità di far giungere contemporaneamente in Libia tre convogli, sotto la protezione diretta ed indiretta della maggior parte delle forze navali, in quella che fu l’ultima missione operativa del Giulio Cesare. Nel mese di marzo partecipò insieme all’Eugenio di Savoia all’Operazione V5 di protezione a convogli per Tripoli. Tra il 2 e il 3 maggio il trasferimento alla base di Messina, cui seguì il rientro alla base di Taranto, avvenuto tra il 27 e il 28 maggio a causa del bombardamento del porto di Messina e dalla base di Taranto mosse per prendere parte alla battaglia a metà giugno. Le unità della VIII Divisione Incrociatori, composta per l’occasione dal Garibaldi e dal Duca dAosta, nave insegna dell’Ammiraglio de Courten, erano partite da Taranto con la Iª Squadra comandata dall’Ammiraglio Angelo Iachino. A bordo del Garibaldi e della corazzata Littorio erano presenti gruppi di intercettazione delle comunicazioni avversarie ed a bordo dell’incrociatore pesante Gorizia era presente personale tedesco per mantenere i contatti radio con la Luftwaffe. A precedere la formazione italiana c’era il cacciatorpediniere Legionario, che era stato dotato di un radar Modello Fu.Mo 21/39 De.Te. di costruzione tedesca. Il successivo 2 agosto Il Garibaldi, con il Duca degli Abruzzi, il Duca dAosta ed i cacciatorpediniere Alpino, Bersagliere, Corazziere e Mitragliere venne dislocato a Navarino in Grecia per la protezione del traffico nel Mediterraneo Orientale da eventuali attacchi da parte di unità di superficie britanniche che potevano usufruire del porto di Haifa. Tra il 9 e l11 novembre il trasferimento prima alla base di Augusta e poi a Messina.
Attività bellica 1943. Il 31 gennaio 1943 mentre si trovava a Messina la nave venne colpita da schegge di bomba che causarono delle vittime a bordo, e tra il 3 e il 5 maggio la nave venne trasferita a Genova. All’inizio di agosto, l’Ammiraglio Fioravanzo, che il precedente 14 marzo aveva assunto il comando della VIII Divisione navale, ebbe il compito di bombardare Palermo, da qualche giorno in mano alle truppe alleate. La missione iniziò la sera del 6 agosto 1943 quando l’Ammiraglio, con la divisione formata dal Garibaldi e dal Duca dAosta, lasciò Genova per La Maddalena. La sera del giorno successivo la Divisione lasciò La Maddalena con obiettivo le navi alleate alla fonda dinanzia Palermo. Il Garibaldi aveva però difficoltà con l’apparato motore per cui non poteva sviluppare più di 28 nodi di velocità ed inoltre nessuno dei due incrociatori aveva a disposizione il radar.
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Dopo l’avvistamento, da parte della ricognizione aerea, di navi sconosciute in rotta verso la divisione, Fioravanzo, ritenendo che avrebbe dovuto scontrarsi con una forza navale avversaria in condizioni di netta inferiorità per non correre il rischio di perdere i due incrociatori, ma soprattutto la vita dei 1.500 uomini degli equipaggi, senza poter arrecare danni significativi all’avversario, rinunciò al compimento della missione rientrando La Spezia alle 18.52 dell8 agosto. Alle 17.00 del 9 agosto i due incrociatori lasciarono La Spezia diretti a Genova, scortati dai cacciatorpediniere Mitragliere, Carabiniere e Gioberti, al cui comando era, alla sua prima uscita in mare in tempo di guerra, il Capitano di Fregata Carlo Zampari e che nel corso di quella navigazione sarebbe stato l’ultimo cacciatorpediniere della Regia Marina ad essere affondato nel conflitto. La formazione, mentre procedeva nella navigazione con il Mitragliere in testa, i due incrociatori in linea di fila e Carabiniere e Gioberti, rispettivamente, a sinistra e a dritta degli incrociatori, a sud di Punta Mesco, tra Monterosso e Levanto, subì un agguato dal sommergibile inglese Simoon che lanciò sei siluri contro le unità italiane, due dei quali colpirono a poppa il Gioberti che, spezzato in due, affondò in breve tempo. Il Carabiniere rispose lanciando bombe di profondità che danneggiarono i tubi di lancio poppieri del battello inglese, dopodiché la formazione proseguì verso Genova, dove giunse in serata. Molti dei naufraghi del Gioberti furono recuperati da una squadriglia di MAS e da altri mezzi di soccorso usciti da La Spezia appena ricevuta la notizia della perdita dell’unità.
Attività bellica Armistizio e cobelligeranza. - Alla proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre la nave si trovava a Genova, da dove partì insieme a Duca d’Aosta e Duca degli Abruzzi e alla torpediniera Libra per ricongiungersi al gruppo navale proveniente da La Spezia guidato dall’Ammiraglio Bergamini, per poi consegnarsi agli alleati a Malta assieme alle altre unità navali italiane provenienti da Taranto. Il gruppo, dopo essersi riunito con le unità provenienti da La Spezia, per ottenere una omogeneità nelle caratteristiche degli incrociatori, il Duca d’Aosta passò dalla VIII alla VII Divisione, formata da Attilio Regolo, Montecuccoli ed Eugenio di Savoia, nave insegna dell’ammiraglio Oliva, sostituendo l’Attilio Regolo che entrò a far parte della VIII Divisione. Durante il trasferimento, il Roma, nave ammiraglia dell’Ammiraglio Bergamini, affondò tragicamente nel pomeriggio del 9 settembre al largo dell’Asinara centrata da una bomba Fritz X sganciata da un Dornier Do 217 della tedesca Luftwaffe. A prendere il comando della flotta diretta a Malta, dopo l’affondamento del Roma, fu l’Ammiraglio Oliva, che adempì ad una delle clausole armistiziali, quello di innalzare il pennello nero del lutto sui pennoni ed i dischi neri disegnati sulle tolde, mentre l’ammiraglio Bergamini, che avvertito telefonicamente da De Courten dell’armistizio ormai imminente, e delle relative clausole che riguardavano la flotta, era andato su tutte le furie per poi formalmente accettare con riluttanza gli ordini, aveva lasciato gli ormeggi innalzando però il gran pavese e non adempiendo così a tale clausola. Il gruppo giunse a Malta l’11 Settembre ricongiungendosi alle unità provenienti da Taranto al comando dell’Ammiraglio Da Zara. Tra il 4 e il 5 ottobre il trasferimento a Taranto insieme a gran parte delle navi italiane che si erano consegnate agli alleati. Durante la cobelligeranza venne schierato nel Mediterraneo e in Atlantico centrale, dove prese parte, insieme al Duca degli Abruzzi e al Duca d’Aosta, ad azioni di pattugliamento contro le navi corsare tedesche ed al suo rientro, avvenuto nel 1944, venne utilizzato per trasportare truppe nazionali in Sardegna, ed Anglo-Americane in Egitto, Marocco e Malta. Tra il 7 e l’8 maggio 1944 il Garibaldi raggiunse Freetown da dove riparti il 23 marzo dell’anno successivo per fare rientro a Taranto il 3 aprile 1945 con una sosta a Gibilterra dove venne imbarcato un radar inglese da installare in arsenale.
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Durante il periodo della cobelligeranza la nave venne ritinteggiata secondo le norme in uso tra gli alleati con lo scafo grigio scuro le sovrastrutture grigio celestino. Dal giugno 1940 al settembre 1943 il Garibaldi prese parte a 51 missioni, per un totale di 24.047 miglia. Alla fine del conflitto le miglia percorse erano salite a quasi 50.000.
Dopoguerra. Insieme al gemello Duca degli Abruzzi, al Cadorna e al Montecuccoli, costituì la dotazione degli incrociatori concessi alla Marina Militare Italiana dalle clausole del trattato di pace, con il Cadorna messo però quasi subito in disarmo e il Montecuccoli trasformato in nave scuola per gli allievi dell’Accademia Navale di Livorno. Nel 1946 vennero rimossi lanciasiluri e catapulte ed era presente un radiotelemetro di tipo inglese lNSA 1; tra il 1947 e il 1948 il Garibaldi venne sottoposto a dei lavori di ammodernamento nel corso dei quali vennero effettuate lievi modifiche alla sovrastruttura ed installato sull’albero di trinchetto il radar americano SO 8 e su quello di maestra un radar parabolico SK 42, adottato anche da San Marco, Duca degli Abruzzi e San Giorgio, per posizionare il quale venne anche abbassato l’albero. Vennero anche aggiunti, nel 1947, altri due cannoni da 100/47 mm al posto dei lanciasiluri, per il tiro illuminante; l’armamento secondario dopo i lavori venne così configurato: 10 cannoni da 100/47 mm 12 mitragliere da 37/54mm, 4 mitragliere da 20/70mm Oerlikon e 4 mitragliere da 20/65 mm che si rivelarono ottime armi, di facile uso e manutenzione, che disponevano di una notevole varietà di munizioni e che durante il conflitto erano state praticamente usate su quasi tutte le navi della Regia Marina. A bordo dell’unità venne anche eretta una piattaforma per elicotteri su cui un Bell 47 nell’estate del 1953 effettuò al largo di Gaeta una serie di prove di appontaggio e decollo. L’esito positivo delle prove indusse la Marina Militare a dotarsi di unità navali polivalenti equipaggiate di elicotteri antisommergibile e dotate delle relative attrezzature quali ponte di volo e hangar del tipo fisso o telescopico. La necessità di questo tipo di unità con elicotteri antisommergibile che consentivano di estenderne il raggio di azione, derivava anche dalla percezione della minaccia sempre più concreta rappresentata dalla flotta subacquea sovietica, i cui battelli avevano iniziato proprio in quegli anni a fare la loro comparsa nel Mediterraneo operando dalla base albanese di Valona. Venne così avviato lo sviluppo di una nuova categoria di unità navale, di cui l’Italia precorse i tempi. Da lì a poco infatti nacquero le fregate classe Bergamini, le prime unità portaelicotteri al mondo, e gli incrociatori classe Doria, le cui sistemazioni elicotteristiche divennero di fatto uno standard per tutte le costruzioni successive. In seguito vennero eseguiti ulteriori lavori al torrione ed all’apparecchiatura elettronica di coperta con l’adozione di un radar di navigazione di modello americano tipo S.O. 13 poi sostituito con un modello nazionale prodotto dalla S.M.A., e di un radar di ricerca aerea, pure americano, la cui grossa antenna parabolica venne montata sull’albero poppiero. Dopo un breve periodo di vita operativa, durante la quale ebbe modo di partecipare all’importante manovra interalleata GRAND SLAM, il Garibaldi venne posto in riserva nel 1953 e nel dicembre 1954 venne inviato nell’Arsenale di La Spezia per essere trasformato in incrociatore lanciamissili e fino al 1957 fu sottoposto a lavori di smantellamento tali da ridurre l’unità allo scafo nudo. I lavori di ricostruzione/trasformazione veri e propri iniziarono nel 1957 e in questo periodo, con il Cadorna già andato in disarmo e con il Montecuccoli che svolgeva attività prevalentemente addestrativa, il Duca degli Abruzzi rimase il solo incrociatore a svolgere attività di squadra, ricoprendo il ruolo di ammiraglia in seguito al disarmo, nel 1956, delle Duilio.
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Incrociatore lanciamissili. L’origine dei lavori di trasformazione si deve al delinearsi nel corso degli anni cinquanta dell’importanza del missile, come strumento unico e necessario, per la difesa a lungo e medio raggio per affrontare la costante e seria minaccia aerea, rappresentata da velivoli di nuova generazione sempre più sofisticati, per i quali l’artiglieria di bordo non era più in grado di costituire un mezzo di contrasto efficace. La Marina Militare, seguendo l’esempio della U.S. Navy, che aveva modificato l’armamento di due incrociatori della classe Baltimore, che vennero denominati classe Boston e nel 1956 erano rientrati in servizio armati di due impianti per il lancio di missili" Terrier”, colse l’occasione dei lavori di ammodernamento dell’incrociatore Garibaldi, per la realizzazione e la sperimentazione della prima unità lanciamissili italiana.
l’incrociatore Garibaldi
Motto: Obbedisco
Caratteristiche generali
Dislocamento standard: 9195 t – a pieno carico 11.350 ton
Lunghezza fuori tutto 187 m. – perpendicolari 171,8 m.
Larghezza 18,9 m.
Pescaggio 6,7 m.
Propulsione 6 caldaie Yarrow – 2 Turboriduttori Parsons – 4 Turboalternatori Tosi-Brown Boveri –
2 diesel-alternatori FIAT-Brown Bover 85 000 shp (63 000 kW)
Velocità 30 nodi (55,56 km/h)
Autonomia 4 500 miglia a 18 nodi
Equipaggio 665 (47 ufficiali e 618 tra sottufficiali e marinai)
Equipaggiamento Sensori di radar : bordo 1 AN/SPS-6 (aeronavale) - 1 SET-6B (superficie) –
1 SMA CFL3-C25 (navigazione) - 5 direzioni del tiro 1 AN/SPS-39 - (sorveglianza
Aerea 3 D) - 1 Selenia Argos 5000 (scoperta aerea 2D) - 2 AN/SPG-55
(illuminazione e guida, asserviti al sistema RIM-2 Terrier)
Armamento
Artiglieria 4 cannoni OTO/Ansaldo da 135 mm – 8 cannoni Oto Melara da 76 mm –
Missili 4 lanciamissili UGM-27 Polaris – 1 lanciamissile binato RIM-2 Terrier
Corrazzatura verticale 100 mm - orizzontale 40 mm - artiglierie 135 mm - torrione 140 mm
Mezzi Aerei 1 elicottero Bell 47
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Incrociatore lanciamissili la ricostruzione. I lavori di ricostruzione vennero effettuati presso l’Arsenale di La Spezia e completati nel 1961 ed al termine dei lavori l’unità raggiunse un dislocamento standard di 9.802 tonnellate e di 11.350 a pieno carico, con una immersione media di 6.7 metri. La ricostruzione riguardò parzialmente lo scafo che conservò le dimensioni originarie e totalmente la sovrastruttura con la radicale trasformazione della struttura della plancia e del complesso plancia/torrione e l’eliminazione di uno dei due fumaioli. Le modifiche allo scafo riguardarono la ricostruzione della poppa che divenne del tipo a specchio leggermente inclinata e la chiusura delle aperture a murata per consentire l’installazione di un impianto di ventilazione/condizionamento e di un sistema di difesa NBC; venne lasciata solamente la fila di oblò superiore del castello di prora. La trasformazione comportò la costruzione di un castello lungo circa 90 metri raccordato verso poppa con un’ampia tuga. Le modifiche alla struttura dello scafo resero possibile un aumento del volume e il miglioramento dell’assetto idrodinamico della nave. All’estremità della zona poppiera venne ricavata una piccola piattaforma di appontaggio per un elicottero AB 47G, già testata prima del disarmo e dei successivi lavori di ricostruzione. L’apparato propulsivo vide l’abolizione delle due caldaie della zona poppiera lasciando inalterata la disposizione degli altri locali macchine, mentre essendo stato abolito uno dei due fumaioli fu necessario modificare sia il percorso delle condotte di scarico delle sei caldaie rimaste, sia altre sistemazioni ausiliarie e fu necessario allargare la base dell’unico fumaiolo rimasto. In conseguenza della diminuzione del numero delle caldaie la Potenza scese a 85.000 CV e la velocità massima a 30 nodi. Con la rimozione di due caldaie e la conseguente diminuzione della potenza si è avuta anche una riduzione del consumo di combustibile, portando l’autonomia della nave a 4500 miglia ad una velocità di 18 nodi, mentre in conseguenza delle modifiche allo scafo e alle diverse sistemazioni di bordo la dotazione massima di combustibile scese leggermente a 1.700 tonnellate di nafta. Per far fronte alle maggiori esigenze di energia derivate dall’adozione dei nuovi impianti meccanici ed elettronici, fu necessario installare ex novo quattro turboalternatori Tosi-Brown Boveri e due diesel-alternatori Fiat-Brown Boveri che generavano corrente alternata a 440 V per una potenza complessiva superiore a 4.000 Kw sufficienti ad illuminare una città di 200.000 abitanti. Le elettroniche principali trovarono posto principalmente in due grandi tralicci quadripodi. Sul primo dei due tralicci, posto alla sommità del complesso plancia-torrione, ispirato a quello degli incrociatori tipo Boston, trovavano posto il radar di sorveglianza aerea tridimensionale a scansione di frequenza FRESCAN AN/SPS-39, adottato su tutte le prime unità lanciamissili della NATO, il radar bidimensionale di sorveglianza aeronavale Westinghouse AN/SPS-6, il radar di sorveglianza di superficie SET-6B e il radar di navigazione SMA CFL3-C25, mentre sul secondo traliccio, posto a poppavia del fumaiolo, trovava posto il radar di scoperta aerea Selenia Argos 5000 di fabbricazione nazionale che in condizioni favorevoli consentiva di individuare bersagli fino ad una distanza di 500 miglia. Il radar AN/SPS-39 FRESCAN all’epoca era l’unica apparecchiatura navale a tre dimensioni, escludendo l’inglese Type 984, peraltro molto più pesante, imbarcato sulle portaerei Victorius ed Hermes, ad adoperare una sola antenna per ottenere i dati relativi a quota, distanza e rilevamento dei velivoli e per comandare la piattaforma dell’antenna radar il FRESCAN disponeva di leggeri stabilizzatori elettronici che garantivano un funzionamento continuo ed accurato indipendentemente dal rollio e dal beccheggio della nave.
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Il radar Westinghouse AN/SPS-6, realizzato in varie versioni per la scoperta aeronavale con portata di 250 Km, versioni contraddistinte da una lettera minuscola posta dopo il numero 6, è stato il sistema che ha determinato una svolta decisiva verso una standardizzazione e modernizzazione della componente radar delle unità negli anni cinquanta, e a partire dal 1954 venne imbarcato da tutte le unità di squadra in servizio ad eccezione del Garibaldi, su cui venne imbarcato solo al termine dei lavori di trasformazione e venne anche imbarcato su alcune corvette della classe Gabbiano, di quelle destinate prevalentemente alla difesa antiaerea. La sommità della tuga ospitava i radar di illuminazione e guida Sperry-RCA AN/SPG-55 asserviti alla rampa di lancio binata Mk 9 Mod.1 del sistema Terrier. Completavano la dotazione elettronica dell’unità cinque direzioni di tiro stabilizzate, di produzione nazionale, cui erano asservite tutte le artiglierie, con i rispettivi radar, di cui quello cui erano asserviti i cannoni da 135 mm posto sul cielo della plancia, e quelli cui erano asserviti i cannoni da 76/62 in due coppie poste sul torrione ai lati della stessa plancia e ai lati del fumaiolo. In particolare le direzioni di tiro situate sul torrione, lateralmente al traliccio, si differenziavano dalle restanti tre per avere due antenne paraboliche anziché una, in quanto sfruttavano l’effetto Doppler. Le torri singole da 76/62 erano raggruppate in unità di fuoco costituite ognuna da una S.D.T. e da due cannoni. Ogni "unità di fuoco" aveva un suo settore di sorveglianza e di azione e poteva intervenire anche senza ordini dalla centrale operativa qualora il proprio radar avesse avvertito per primo la presenza del nemico. Le torri binate da 135/45 mm e relativa S.D.T. se non impegnate per il tiro antiaereo a media distanza, venivano utilizzate per incrementare il fuoco nel settore più pericoloso. La Centrale Operativa di Combattimento, cuore del sistema di difesa e attacco dell’unità, elaborava inviati i segnali ricevuti dai radar, determinando il moto dei bersagli. la nave disponeva di un sistema automatico di tracciamento e di rappresentazione della situazione aerea generale, di un locale per le contromisure elettroniche con Centrale Antidisturbo Radio e una Centrale Assegnazione Designazione Tiro C.A.D.T. che elaborava automaticamente i dati forniti dagli apparati di scoperta distribuendo ed assegnando le armi nel modo migliore, assicurando un corretto impegno dei bersagli. Per la difesa dalle mine a bordo vi era un impianto di smagnetizzazione. La parte più consistente di lavori allo scafo riguardò l’estremità della tuga, dove erano stati allestiti i pozzi di lancio per quattro missili balistici statunitensi Polaris dotati di testata nucleare, che avevano lo scopo di fornire alla Marina Militare Italiana una capacità di deterrenza strategica tramite il successivo programma di realizzazione interamente nazionale del missile balistico Alfa, molto simile al missile americano Polaris. La presenza dei pozzi per il lancio di missili tipo" Polaris” a bordo del nuovo Garibaldi aveva una grande valenza tecnica. La fase di sperimentazione dei missili negli anni cinquanta, come proseguimento dello sviluppo di quelli realizzati in Germania verso la fine del secondo conflitto mondiale, aveva avuto termine alla fine dello stesso decennio, facendo profilare la possibilità di utilizzare missili balistici imbarcati su unità di superficie per contrapporre una valida minaccia contro obiettivi nemici a grande distanza e in tale contesto vennero sviluppati i missili" Polaris” dei quali si prevedeva e si studiava la possibilità dell’imbarco su navi mercantili. Gli Stati Uniti all’uopo avevano progettato la NATO MLF multy lateral force, una forza navale costituita da 25 mercantili da 18.000 tonnellate con una velocità di 20 e più nodi e un’autonomia di oltre 100 giorni modificati per trasportare 200 missili Polaris. La soluzione si mostrò troppo ostica tecnicamente per essere adottata, per cui con l’avvento della propulsione nucleare a bordo di sottomarini si scelse questo mezzo come vettore, meno intercettabile ma economicamente molto più oneroso. Gli SSBN, i sottomarini balistici nucleari, stavano entrando in servizio proprio in quegli anni, e il primo lancio in immersione di un Polaris venne effettuato dal sottomarino USS George Washington il 20 luglio 1960. La Marina Militare, nonostante tutto, era fermamente convinta che il lancio di missili "Polaris" potesse essere effettuato anche da navi di superficie, con soluzioni molto più convenienti sotto il profilo dei costi di realizzazione e si colse l’occasione dei lavori di trasformazione del Garibaldi per rendere esecutivo questo progetto che fu realizzato con un costo equivalente alle spese da sostenere per l’acquisto di uno dei nuovi cannoni da 76/62 mm antiaerei.
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All’epoca sull’uso dei sottomarini per il lancio di tali missili si addensavano molti dubbi, mentre il Garibaldi con le sue strutture rappresentava la soluzione tecnica del problema le inedite soluzioni adottate per i pozzi di lancio dei missili Polaris, molto più convenienti sotto il profilo dei costi di realizzazione, suscitarono molta curiosità da parte della US Navy, interessata a riprendere l’idea. Tuttavia la sola nave americana in cui venne prevista la presenza di missili balistici fu l’incrociatore USS Long Beach in cui erano previsti quattro tubi di lancio per i POLARIS, che avrebbero dovuto occupare lo spazio a centronave, a poppa via del torrione, dove successivamente venne installato il lanciatore ASROC e, lateralmente, un poco spostati, due pezzi singoli da 127/38 risalenti alla seconda guerra mondiale. Le strutture necessitarono dei dovuti adeguamenti per resistere sia allo shock meccanico che a quello termico. Infatti, mentre per i Polaris installati nei sottomarini il lancio avveniva "a freddo" cioè espellendo il missile dal silo mediante un getto di aria compressa prima dell’accensione del motore del primo stadio, sul Garibaldi i missili avrebbero dovuto essere lanciati "a caldo", utilizzando cioè una carica esplosiva, per cui occorreva uno spazio in cui fare sfogare gli effetti dell’esplosione. I pozzi di lancio lunghi circa 8 metri, avevano un diametro di 2 metri ed i portelloni che si aprivano ruotando verso lasse di simmetria della nave. Il progetto delle sistemazioni dei quattro pozzi di lancio dei Polaris in una zona precedentemente occupata da depositi e cale di varia destinazione venne curato dall’allora capitano di vascello Glicerio Azzoni e riguardava sia le sistemazioni strutturali per il lancio, sia la collocazione di tutti gli impianti e delle apparecchiature necessarie all’utilizzazione dei missili, quali le strumentazioni per la navigazione e il complesso delle unità di calcolo. Tali sistemazioni trovarono posto in locali adiacenti a quelli dei pozzi, che avevano un’altezza di circa 8 metri e per buona parte erano compresi sotto la linea di galleggiamento, in una zona delimitata da paratie stagne, lunga complessivamente circa 14 metri e dotata di un certo grado di protezione laterale. La realizzazione di tali sistemazioni richiese circa 6 mesi. I lavori di allestimento dei tubi di lancio dei missili Polaris vennero effettuati a partire dall’inizio del 1960. Dopo le prove di collaudo dei pozzi seguirono i lanci di simulacri inerti e lanci di collaudo di simulacri autopropulsi, sia a nave ferma che in navigazione. Il primo lancio di un simulacro di missile balistico è avvenuto il 31 agosto 1963 nel golfo di La Spezia, Sebbene le prove avessero dato tutte esito positivo, i missili non vennero però mai forniti dagli Stati Uniti, poiché motivazioni di natura politica proliferazione nucleare eccessiva anche tra gli alleati della NATO ne impedirono la prevista acquisizione, ed i pozzi alla fine vennero utilizzati diversamente. Successe infatti che in seguito alla crisi di Cuba dell’ottobre 1962 il Presidente degli Stati Uniti Kennedy concesse al Premier sovietico Krusciov il ritiro dei missili Polaris e Jupiter dall’Italia e dalla Turchia in cambio del ritiro dei missili sovietici da Cuba. L’Italia decise, allora, in alternativa di sviluppare un suo programma nucleare e il progetto di missile balistico italiano denominato Alfa venne sviluppato dalla Marina Militare a partire dal 1971 con alcuni lanci effettuati con successo nella prima metà degli anni settanta tra il 1975 e il 1976 dal poligono di Salto di Quirra. Il programma ebbe termine il 2 maggio 1975 quando su pressione degli Stati Uniti l’Italia aderì al Trattato di non proliferazione nucleare.
Incrociatore lanciamissili Armamento dopo i lavori di trasformazione. Radicalmente cambiato l’armamento, che con l’installazione, nella tuga, del sistema missilistico Terrier fece del Garibaldi il primo incrociatore lanciamissili ad essere entrato in servizio in una marina europea. Venne sbarcato tutto l’armamento precedente, sostituito con armamento di diverso calibro. Le origini dei lavori di trasformazione erano state la necessità di affidare la difesa della nave, contro l’aggressione aerea a media e lunga distanza, ad un sistema missilistico in grado di lanciare una coppia di missili a doppio stadio, che potevano essere simultaneamente guidati verso due distinti bersagli, e i missili Terrier erano all’epoca quanto di meglio esistesse nella categoria dei missili antiaerei per piattaforme navali.
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Concepito come missile da difesa aerea di navi di medio-grande dislocamento, il Terrier derivava dal missile superficie-aria Talos, ma ebbe poi un’evoluzione autonoma. Il Terrier aveva una struttura aerodinamica ideale per un missile relativamente piccolo ed aveva alette di apertura ridotta per massimizzare la gittata e la velocità, riducendo la resistenza. La rampa utilizzata per il lancio in genere era una del tipo Mk 10, stabilizzata contro i movimenti del mare, ma anche tipi diversi come la rampa Mk 20 Aster adottata sul Vittorio Veneto e sui Belknap americani. L’Italia fu l’unica nazione verso la quale questi missili vennero esportati. Per la propulsione avevano un booster di accelerazione, quattro grandi alette stabilizzatrici e un razzo, anch’esso a propellente solido, nella parte posteriore del missile. La testata, dal peso di circa 100 kg, era a frammentazione e sistemata più o meno a metà del missile. Le prime prove di lancio dei missili " Terrier” avvennero nel corso della prima crociera post-ricostruzione della nave svolta negli Stati Uniti e il lancio di un "Terrier" da parte del Garibaldi avvenuto l11 novembre 1962 a San Juan di Porto Rico fu il primo lancio di un missile da parte di un’unità italiana. Il sistema di lancio era supportato da un complesso di apparecchiature elettroniche all’epoca moderne: il radar " Argos” 5000 aveva il compito di agganciare il bersaglio a lunga distanza per poi passarlo al radar tridimensionale AN/SPS-39, che aveva il compito di stabilire direzione, distanza e quota con maggiore precisione; i due sistemi guida missili avevano il compito di guidare, lungo il raggio di emissione elettromagnetico, i missili per colpire il bersaglio. Il sistema era gestito dalla Centrale Operativa di Combattimento, mediante un processo di acquisizione e coordinamento dei dati. L’armamento artiglieria nella nuova configurazione era costituito da quattro cannoni da 135/45 mm in due torrette binate e 8 cannoni OTO Melara da 76/62 mm tipo MMI, in impianti singoli. I calibri principali erano gli stessi che nel corso della parte finale del secondo conflitto mondiale avevano trovato posto sulle unità della classe Capitani Romani e sui Duilio ricostruiti, mentre il cannone da 76/62 di nuova progettazione, largamente testato sulla Nave Esperienze Carabiniere, avrebbe trovato posto nel corso degli anni sessanta sulle principali unità della squadra, come le fregate classe Bergamini e classe Alpino, i Doria e il Vittorio Veneto e sarebbe stato rimpiazzato il decennio successivo dal 76/62 Compatto con l’entrata in servizio dei Audace. Le torrette dei calibri principali trovarono posto nella zona di prora, in configurazione superfiring, andando a sostituire le due torrette da 152/55 precedenti, mentre i cannoni da 76/62 trovarono posto, quattro per ogni lato, ai due lati del complesso torrione-fumaiolo. I cannoni da 135/45 mm, che nel Garibaldi vennero installati in torrette completamente automatizzate possono essere considerati i migliori cannoni navali italiani nella seconda guerra mondiale, con una gittata di 19.6 km e una cadenza di fuoco di 6 tiri al minuto, ed erano capaci di eseguire tiri assai precisi, ma, con un’elevazione di 45° erano tuttavia privi di una soddisfacente capacità antiaerea, se non di sbarramento. Nel 1968 le canne vennero allungate e i cannoni da 135/53 dovevano essere installati sugli Audace, allora in progettazione. Il cannone da 76/62 tipo MMI "Allargato", era un’arma duale, con la canna raffreddata ad acqua e manovra elettrica e idraulica con sistema di emergenza manuale. La gittata, che con proiettili HE dal peso di 6.296 kg raggiungeva 18.4 km ad un’elevazione di 45°, all’elevazione massima di 85° scendeva a 4 km, mentre la velocità di brandeggio era di 70°/s e quella di elevazione di 40°/s e la torretta accoglieva un membro dell’equipaggio. Il cannone era l’evoluzione del modello SMP 3 che era stato imbarcato sulle corvette Alcione. Una versione binata del modello SMP 3 con canne sovrapposte, era stata imbarcata negli anni cinquanta sulle fregate della classe Centauro, ma tale versione non avendo dato i risultati sperati non è stata imbarcata su nessun altra unità della Marina Militare.
Il Garibaldi all'arrivo a Taranto dopo la ricostruzione
Incrociatore lanciamissili Rientro in servizio Al termine dei lavori di trasformazione il Garibaldi venne riconsegnato alla Marina Militare il 3 novembre 1961 raggiungendo la sua base operativa di Taranto il 5 febbraio 1962. Ai primi di settembre del 1962, dopo una prima serie di collaudi e prove eseguite in Italia, il "Garibaldi" venne inviato negli Stati Uniti per una crociera di rappresentanza e per la messa a punto definitiva delle sistemazioni missilistiche ed il completamento della fase addestrativa. Nei primi giorni di novembre la nave si trasferì a San Juan di Portorico per eseguire lanci effettivi di armi avvenuti nelle acque del Mar dei Caraibi e dove l11 Novembre 1962 vennero effettuate le prove di lancio, al largo di San Juan di Portorico, dei primi missili Terrier. Dal suo ritorno in Italia, avvenuto il 23 dicembre 1962, l’unità, finalmente operativa, entrava a far parte integrante della Squadra Navale. Subito dopo il rientro in servizio, nel 1963 fu necessario sottoporre la nave a nuovi lavori per allungare l’unico fumaiolo rimasto, per evitare che i gas di scarico interferissero con le nuove apparecchiature elettroniche di cui venne dotata l’unità, con la sommità del fumaiolo che oltre che allungata venne anche inclinata con l’adozione di una cappa per convogliare gli scarichi verso poppa. La bandiera di combattimento venne consegnata a Napoli il 10 giugno 1964, donata dal gruppo ANMI di Roma, che, con un’autocolonna di quasi mille aderenti, si recò nella città partenopea per consegnare il vessillo al comandante della nave, il Capitano di Vascello Aldo Baldini; alla cerimonia erano presenti il Comandante in Capo della Squadra Navale Ammiraglio Alessandro Michelagnoli e il Sottosegretario alla Difesa, onorevole Natale Santero. Il Garibaldi prestò servizio per dieci anni nella sua nuova configurazione, come unità sede comando della Squadra Navale, partecipando ad attività addestrative di vario tipo e di rappresentanza in Mediterraneo e oltreoceano.
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Il Garibaldi, cui venne assegnata la matricola 551, andò a ricoprire il ruolo di nave ammiraglia della Marina Militare rilevando in tale ruolo il gemello Duca degli Abruzzi. Il ruolo di portabandiera della flotta sarebbe stato ricoperto, ventiquattro anni dopo, con lo stesso nome e la stessa matricola, dalla portaerei leggera/incrociatore portaeromobili Giuseppe Garibaldi. Il Garibaldi venne assegnato al 2º Gruppo navale d’altura della IIª Divisione Navale dislocato alla base di Taranto. Tra la fine del 1964 e il 1965 la nave venne sottoposta a lavori di manutenzione nel corso dei quali venne sostituita l’antenna del radar Argos 5000 con una nuova di disegno diverso e più leggera, allo scopo di diminuire la resistenza al vento tipica di antenne di dimensioni così grandi e venne realizzata una tughetta direttamente alla base della torre di comando. Nel corso di un altro ciclo di lavori di manutenzione, svolto tra il 25 agosto 1966 e il 20 aprile 1967 presso l’Arsenale di La Spezia, venne sostituito il radar Microlambda SET-6B con il radar di navigazione e scoperta di superficie MM/SPQ-2 con portata di 50 Km di produzione nazionale, venne modificato l’albero di trinchetto, costituito da un quadripode, rendendolo più compatto nella struttura superiore e l’alberetto di sostegno dei miragli per l’allineamento dei radar guida missili per i Terrier spostato dall’estrema poppa dell’unità sulla zona terminale della tuga contenente i pozzi per i Polaris. Il 4 giugno 1968 l’unità prese parte alla parata navale svolta nel golfo di Napoli nel quadro delle celebrazioni del 50º anniversario della vittoria nella I guerra mondiale, in quella che è stata la più grande parata navale dopo la seconda guerra mondiale L’unità nell’occasione ha ospitato a bordo il Presidente della Repubblica Saragat che, giunto a Napoli accompagnato dal Ministro della Difesa Tremelloni, dal Consigliere diplomatico della Presidenza della Repubblica Francesco Malfatti e il consigliere militare ammiraglio di squadra Virgilio Spigai è stato ricevuto dal comandante in capo del Dipartimento marittimo "Basso Tirreno" di Napoli ammiraglio di squadra Raffaele Barbera. Salito a bordo il Presidente della Repubblica è rimasto in plancia per tutto il tempo della parata, mentre il comandante dellunità, Capitano di Vascello Antonio Scialdone e il Comandante in capo della squadra navale ammiraglio Roselli Lorenzini gli illustravano le varie fasi delle manovre. A bordo dell’unità oltre al Presidente della Repubblica erano ospiti il Presidente del Consiglio Aldo Moro, il Capo di stato maggiore della Difesa Generale Vedovato, il capo di stato maggiore della Marina ammiraglio Michelagnoli, l’Ammiraglio Angelo Iachino, gli ex capi di stato maggiore della Marina ammiragli Ferreri e Giurati il comandante delle Forze Alleate del Sud Europa ammiraglio Horacio Rivero, il comandante delle Forze Navali Alleate del Sud Europa ammiraglio Luciano Sotgiu, il comandante della Sesta Flotta della US Navy, viceammiraglio William Martin, il comandante della Squadra navale del Mediterraneo della Marina francese Viceammiraglio di squadra Jean Philippon presente in quanto in precedenza aveva preso parte ad una esercitazione nelle acque del golfo di Salerno. Il Garibaldi, innalzato sul pennone di maestra lo stendardo presidenziale, mollati gli ormeggi, è uscito dal porto seguito dal San Giorgio su cui avevano preso imbarco alte Autorità civili e militari e tutti gli Addetti Navali e Militari esteri accreditati presso il Governo italiano.
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Nel corso della sfilata il Garibaldi ha navigato al largo del golfo in vista di Procida, di Ischia e di Capo Miseno, defilando, lungo la rotta d’uscita a breve distanza dall’incrociatore Vittorio Veneto in avanzato stato di allestimento e destinato a rilevarne il ruolo di nave ammiraglia. Alla parata hanno assistito le più alte autorità civili e militari, tra i quali il Presidente del Senato Zelioli-Lanzini il Presidente della Corte Costituzionale Sandulli, i Sottosegretari di Stato alla Difesa Guadalupi, Santero e Cossiga, l’onorevole Paolo Barbi in rappresentanza del Presidente della Camera, i capi di stato maggiore delI’Esercito Generale di corpo d’armata Marchesi e dell’Aeronautica Generale di Squadra Aerea Fanali. Il Garibaldi venne messo in disarmo il 20 febbraio 1971, ma non fu l’età a decretare la sua dismissione, ma motivi di ordine economico che all’inizio degli anni sessanta si evidenziarono in maniera preoccupante per il futuro della Marina Militare Italiana. Nel febbraio 1970, in una conferenza stampa proprio a bordo del Garibaldi, l’allora Comandante in Capo della Squadra Navale, ammiraglio Gino Birindelli denunciò la crisi in cui versava la Marina Militare e lo stato di profondo malessere morale e materiale in cui si trovava il personale che vi operava. Le dichiarazioni di Birindelli scatenarono reazioni e prese di posizione a tutti i livelli e portarono la classe politica a risolvere in maniera salomonica il problema dei salari, mantenendolo nei limiti del bilancio ordinario annuale; per effetto di queste restrizioni il nuovo Capo di Stato Maggiore della Marina ammiraglio Virgilio Spigai fu costretto, persistendo la carenza finanziaria, a ritirare dal servizio il naviglio più anziano e più oneroso da mantenere, tra cui l’incrociatore Garibaldi, ad appena dieci anni dal suo rientro in servizio dopo la conversione in unità lanciamissili. Una ripercussione negativa si ebbe anche nel programma delle nuove costruzioni, finché con la situazione politico-militare che si presentava in quel periodo nell’area mediterranea, in seguito alla guerra del Kippur e con la presenza sovietica sempre più massiccia nell’area, nel novembre 1973 il nuovo Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, ammiraglio Gino De Giorgi, pubblicò un documento noto come "Libro Bianco della Marina" in cui venivano analizzati gli impegni che la flotta militare italiana era chiamata a svolgere nei nuovi scenari che si prospettavano e l’impossibilità da parte della Marina Militare a poter proseguire nella strada del rinnovamento della propria flotta, a causa della carenza dei bilanci ordinari. Tale documento avrebbe portato di lì a qualche anno alla Legge Navale del 1975 che sarebbe stato il presupposto di un sostanziale ammodernamento della flotta della Marina Militare. La sua ricostruzione, considerando che dopo gli ammodernamenti rimase in servizio solo per un decennio e alla luce del mancato utilizzo dei Polaris, si rivelò secondo molti critici inutile e costosa. Proprio per il suo breve servizio seguito alla ricostruzione, l’unità era nelle condizioni adatte alla sua utilizzazione come nave museo, vista anche la sua grande storia; oltre ad aver partecipato alla seconda guerra mondiale era stato il primo incrociatore lanciamissili europeo, la prima unità di superficie al mondo ad essere predisposta per il lancio di missili balistici e la prima grande unità italiana del dopoguerra, rappresentando, a tutti gli effetti, il primo decisivo passo della Marina Militare Italiana verso un lento ma costante processo di modernizzazione delle sue unità e delle sue strutture operative e logistiche. Analogo discorso riguardo alla musealizzazione potrebbe essere fatto anche per il quasi gemello Montecuccoli che nel dopoguerra fu la prima unità navale italiana ad effettuare il periplo del globo. L’esperienza dell’equipaggio del Garibaldi, ben addestrato, è stata tuttavia preziosa per il nuovo incrociatore lanciamissili portaelicotteri Vittorio Veneto a cui il Garibaldi ha ceduto il ruolo di ammiraglia della flotta.
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Il Garibaldi venne ufficialmente radiato il 16 novembre 1976 e il 3 novembre 1978 alle ore 0:15, con l’apertura del Ponte Girevole ha attraversato a rimorchio per l’ultima volta il canale navigabile di Taranto per raggiungere La Spezia dove sarebbero avvenuti i lavori di demolizioni a cura dei Cantieri del Tirreno di Genova, dopo essere stato parzialmente smantellato dopo la sua messa in disarmo a partire dal 1972. Le due bandiere di combattimento che l’unità ha ricevuto sono conservate in due cofanetti al Sacrario delle Bandiere del Vittoriano. Il motto "OBBEDISCO" è invece alla base della Maddalena.
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NAVI GEMELLE AL GARIBALDI
DUCA DELI ABRUZZI
NAVE LUIGI CADORNA
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NAVE MONTECUCCOLI
PIERGIORGIO RICOTTI
Rapallo, 2 luglio 2022
HOMERIC - Storia di una nave
HOMERIC
Storia di una Nave
Comandante S.L.c Mario Terenzio PALOMBO
Recentemente, mi sono un po’ amareggiato per la notizia che la nave da crociera MARELLA DREAM (conosciuta in passato come HOMERIC – Westerdam - Costa Europa - Thomson Dream – ed infine con il nome MARELLA DREAM è stata venduta per essere demolita in Turchia, dopo essere stata alla fonda per più di un anno e mezzo nella baia di Eleusi (10 miglia a Nord Ovest di Atene).
La nave sta compiendo il suo ultimo viaggio, a rimorchio, diretta ad ALIAGA (Turchia), dove sarà spiaggiata e smantellata.
Fu costruita nel 1986 presso i celebri Cantieri Navali: Meyer Werft di Papenburg (Germania) e consegnata alla Compagnia Home Lines con il nome:
HOMERIC
Aveva le seguenti caratteristiche:
Stazza L. = 54.763 tonnellate
Lunghezza (dopo l'allungamento)= 243,2 metri
Larghezza = 32 metri
Passeggeri =1773
Velocità max =23 nodi - Velocità di crociera = 20 nodi
Potenza motore = 23.800 KW (32.359 Hp) - Dotata di eliche a passo variabile.
Il motivo per cui mi ero così affezionato a questa nave è perché mi aveva dato grandi soddisfazioni nel poter esprimere, durante
la costruzione, le mie idee in materia di innovazioni.
Il 20 dicembre 1985 partii per Papenburg. Venni assegnato, con mio grande piacere, all'allestimento della M/n HOMERIC.
Come prima nave da crociera costruita dal MEYER WERFT, L'HOMERIC segnò il grande arrivo nel mondo delle costruzioni navali
all'avanguardia.
La nave fu costruita all'aperto, i bacini coperti di Papenburg furono costruiti solo più tardi. L'HOMERIC fu anche la prima e ultima nave delle sue dimensioni ad essere varata lateralmente. Ricordo che c'era un'atmosfera allegra intorno al cantiere quando lo scafo della nave scivolò nell'acqua del fiume EMS, scatenando un’onda gigantesca. Fu impressionante vederla sbandare e poi scivolare in acqua davanti a migliaia di spettatori.
I Tedeschi, essendo la loro prima costruzione di nave passeggeri, volevano che L'HOMERIC fosse una nave perfetta. Ingegneri e Tecnici del cantiere, spesso si rivolgevano a me per alcuni dettagli. Ne approfittai per far dotare la nave di un binario che potesse scorrere da prora a poppa lungo il punto più alto delle sovrastrutture, in modo da potere raggiungere, con il carrello, tutti i punti per la pitturazione da prora a poppa, compreso frontale di prora.
Mi concessero anche un impianto Splinker lungo le passeggiate esterne in modo da poter raffreddare le lamiere dei saloni, in caso di incendio, e rendere i punti di riunione e di imbarco passeggeri, in caso di emergenza, più raggiungibili.
Inoltre feci dotare i Tenders per il servizio sbarco/imbarco passeggeri in rada, di doppio gancio, per poterli virare a bordo anche in caso di risacca. Si doveva dotare anche il paranco di un gancio con un penzolo lungo almeno due metri per poter effettuare l'aggancio in sicurezza. Una volta che i Tenders venivano sospesi dall'acqua con un secondo penzolo fissato alla Gru, si faceva la manovra di cambio gancio.
Il tutto fu approvato dal registro di classificazione ABS. Anche le piattaforme per l'attracco dei Tenders, le avevo fatte costruire con parabordi longitudinali in modo che i Tenders, in caso di risacca, potessero rimanere ormeggiati senza danni.
Altro impianto "spettacolare" era un sistema di lavavetri con gli ugelli da prora a poppa e frontale di prora. Fu una nave, che quando iniziammo le crociere nei Caraibi, veniva osservata con ammirazione dalle altre navi della concorrenza.
WESTERDAM
Purtroppo, dopo soli due anni di servizio, con la Home Lines, la nave fu venduta alla Holland A.L. e ribattezzata con il nome di WESTERDAM. A novembre del 1988, con mio grande dispiacere, ricevetti l'ordine di dirigermi presso il cantiere di Newport News (Norfolk.VA.) dove consegnai la nave al Comandante e Armatori Tedeschi.
In quanto a me, avevo, in precedenza, accettato l'offerta della COSTA CROCIERE. Il 25 novembre 1988 partivo da Genova, per il Sud America, imbarcando sull'EUGENIO COSTA.
In seguito, tra l'ottobre 1989 e il marzo 1990, la WESTERDAM ritornò presso il cantiere di Papenburg dove venne sottoposta a lavori di allungamento che videro l'aggiunta di un troncone di circa 40 metri, passando da una lunghezza di 204 metri a 243,2 metri e la capacità passeggeri a 1.773.
Nel 2002 subì un totale rinnovamento e venne ceduta a Costa Crociere e ribattezzata
COSTA EUROPA.
THOMPSON DREAM
Il 29 Giugno 2009, COSTA EUROPA è stata rivenduta e nell'aprile del 2010 passò alla Grand Cruise Investments che la noleggerà poi alla Thomson Holidays per 10 anni cambiando il nome in THOMPSON DREAM. Durante la pandemia di Covid-19, per i cui effetti il settore crocieristico ne ha duramente risentito, nel 2017 la nave divenne MARELLA DREAM.
Dopo una lunga sosta nel di Porto Nuovo (Gazenica) di Zara, dove era ormeggiata dall'11 luglio, Marella Cruises ne decise il ritiro con un comunicato del 1° Ottobre 2020, salpando il 19 ottobre per ancorarsi nella rada della Baia degli Eleusi, circa a 10 miglia a NW di Atene. Il 27 dello stesso mese decisero di demolirla ad ALIAGA, in Turchia, assieme a Marella Celebration e ad altre navi, destinate alla stessa fine.
Rapallo, 1 Luglio 2022
NAVE AMERIGO VESPUCCI NEL TIGULLIO
NAVE AMERIGO VESPUCCI NEL TIGULLIO
Varata il 22 febbraio 1931, ha sulle spalle quasi un secolo di storia, ogni giorno incanta grandi e piccini
Dal 1978 il motto della nave è
“Non chi comincia ma quel che persevera”
Questa frase celebre di Leonardo è il motto che spinge i giovani cadetti a credere in sè stessi, avere tenacia e costanza nell’andar per mare e nella vita quotidiana. I cadetti, appena concluso il primo anno, intraprendono uno stage da giugno a settembre, circumnavigando il globo.
La polena raffigura il condottiero Amerigo Vespucci che ha dato nome al continente Americano ed è realizzata in bronzo dorato. L’uso di porre a prua una polena affonda le sue radici nell’antichità, quando la navigazione era esercitata per necessità e queste figure a volte misteriose o terrificanti, all’origine servivano per spaventare i nemici o per essere protetti dalle divinità.
24 ore
NEL TIGULLIO
Cronistoria in immagini
Inchino davanti al faro di Portofino
Passo di danza per fermare l’abbrivo
Omaggio al Monastero della Cervara
Il Comandante Massimiliano Siragusa ha mantenuto la promessa alla sua città natale
“Non ho vissuto qui tutti gli anni che avrei voluto. Non penso di meritare tutto questo, ma se lo ritenete voi lo accetto molto volentieri”.
Cerimonia con scambio di CREST e Attestati nella Sala Consiliare del Comune di Rapallo
LA VESPUCCI IN NOTTURNA
La bella di notte … avvolta nelle luci del TRICOLORE
La nave VESPUCCI salpa dal Tigullio
VESPUCCI Avanti Tutta per Livorno
Saluto ai futuri Ufficiali della M.M.
ORA VI MOSTRIAMO CIO’ CHE I RAPALLINI NON HANNO POTUTO VEDERE DELLA
NAVE PIU’ BELLA DEL MONDO
A CAUSA DELLA NORMATIVA ANTI-COVID
GLI INTERNI DELLA VESPUCCI
Si sale a bordo…
LA TUGA DEL MOTTO
LA TIMONERIA
IL CUORE DELLA NAVE
Sulla nave VESPUCCI vi sono sei manovre per il sistema di governo: tre elettriche (due con comando idraulico, di cui una d'emergenza e due normali) e tre a mano (una normale nel casotto della timoneria e due d'emergenza nel locale agghiaccio). In caso di avaria del sistema di governo idraulico e quindi per il passaggio dal timone elettrico a quello manuale, non sono necessarie manovre particolari, bastano pochi secondi di tempo, in qualsiasi posizione si trovi la barra del timone; mentre, invece, per il passaggio dal timone a mano a quello elettrico è sufficiente mettere la barra al centro.
Linea d'asse - elica. La linea d'asse è composta di un albero capace di trasmettere 2000 cv con 150 giri al minuto. L'albero porta elica è di acciaio ed è predisposto per ricevere ad un'estremità l'elica e all'altra, verso prora, un accoppiatoio per il collegamento al motore di propulsione. L'elica è unica a quattro pale smontabili con generatrice retta. E' di bronzo al manganese con diametro di 3.400 mm e passo medio di 2,700 m.
A POPPAVIA con i cavi d’ormeggio
La Cala Nostromo della nave Vespucci
Foto del Passaggio Comandante della nave Vespucci
Queste “isole" che raccolgono ordinatamente le cime di ogni albero hanno un nome curioso:
PAZIENZA
A bordo ci sono 30 km di cime
LA RASTRELLIERA
L’ALBERATURA DELLA VESPUCCI
E’ armata a nave con tre alberi in acciaio: l’albero di trinchetto a prua, quello di maestra al centro e quello di mezzana.
L’albero di maestra, realizzato in due tronconi, è alto 54,50 metri dal piano di coperta.
Gli alberi di trinchetto e di maestra portano, ciascuno, cinque vele quadre.
L’albero di mezzana porta quattro vele quadre e una vela aurica sostenuta da due aste, il boma e il picco.
A prora, murati al bompresso, ci sono quattro fiocchi. Due vele di straglio si trovano fra l’albero di trinchetto e quello di maestra e altre due fra questo e l’albero di mezzana.
L’attrezzatura velica è completata da due scopamare. La superficie velica, che complessivamente è di 2.800 mq, consente alla nave di raggiungere la velocità di 12 nodi. Le manovre per il governo delle vele sono costituite da 30 chilometri di cavi di vari diametri.
Gli alberi, precedentemente descritti, sono mantenuti in posizione grazie a cavi di acciaio (manovre fisse o dormienti) che li sostengono verso prora (stralli) verso i lati (sartie) e verso poppa (paterazzi). Sugli stralli sono inferiti inoltre i fiocchi e le vele di strallo. L'altezza degli alberi sul livello del mare è di 50 metri per il trinchetto, 54 metri per la maestra e 43 metri per la mezzana; il bompresso sporge per 18 metri.
Apertura delle vele
NOCCHIERI ED ALLIEVI A RIVA
“Il posto di manovra generale alla vela” costituisce un valido ed importantissimo momento addestrativo per gli allievi dell’Accademia Navale, (…) non solo per i futuri ufficiali, ma per tutto l’equipaggio di bordo che costantemente è chiamato ad assolvere compiti e mansioni di abilità marinaresca.
APPARATO MOTORE DELLA VESPUCCI
La propulsione è di tipo diesel-elettrico: la nave è dotata di due motori diesel collegati a due dinamo generatrici di corrente elettrica che alimentano il motore elettrico di propulsione. I due motori diesel sono FIAT a 8 cilindri in linea, a iniezione diretta, sovralimentati con turbosoffiante, che sviluppano una potenza massima totale di 3000 cavalli. Il motore elettrico di propulsione (MEP) è un Marelli a corrente continua, a doppio indotto, in grado di sviluppare un regime rotatorio massimo di 150 giri/min., che corrisponde ad una velocità di circa 12 nodi. L'elica è unica ed ha quattro pale.
L'energia elettrica per il funzionamento degli apparati di bordo è fornita da 4 diesel alternatori a 8 cilindri Isotta Fraschini/Ansaldo da 500 KVA ciascuno. L'unità è dotata di due argani a prora per la manovra delle catene delle ancore, di cui uno dotato di campana sul castello, utilizzabile quindi anche per la manovra di cavi. A centro nave esiste inoltre un albero di carico azionato da due verricelli elettrici, utilizzato per la messa a mare ed il recupero delle imbarcazioni maggiori. A poppa, per la manovra dei cavi e per la messa a mare e il recupero dei palischermi, vi sono due argani manovrati a mano a mezzo di apposite aste in legno dette "aspe".
Foto della Sala Consiglio della nave Vespucci
Molte parti della bellissima nave scuola italiana sono in legno: teak per il ponte di coperta, la battagliola e la timoneria, mogano, teak e legno santo per le attrezzature marinaresche (pazienze, caviglie e bozzelli), frassino per i carabottini, rovere per gli arredi del Quadrato Ufficiali e per gli alloggi Ufficiali, mogano e noce per la Sala Consiglio.
L’EQUIPAGGIO DELLA VESPUCCI
Vero "motore" dell'Amerigo Vespucci è il suo equipaggio, composto da 278 membri, di cui 16 Ufficiali, 72 Sottufficiali e 190 Sottocapi e Comuni, suddiviso nei Servizi Operazioni, Marinaresco, Dettaglio, Armi, Genio Navale/Elettrico, Amministrativo/Logistico e Sanitario. Durante la Campagna di Istruzione l'equipaggio viene a tutti gli effetti integrato dagli Allievi e dal personale di supporto dell'Accademia Navale, raggiungendo quindi circa 480 unità..
Ogni Servizio ha il suo compito peculiare a bordo: il Servizio Operazioni si occupa della navigazione, utilizzando la strumentazione di cui la nave è fornita (radar, ecoscandaglio, GPS), della meteorologia e delle telecomunicazioni; il Servizio Marinaresco è preposto all'impiego delle vele, alla gestione delle imbarcazioni e all'esecuzione delle manovre di ormeggio e disormeggio; il Servizio Dettaglio comprende il personale che gestisce le mense di bordo; il Servizio Armi ha in consegna le armi portatili e provvede all'addestramento dell'equipaggio al loro impiego; il Servizio Genio Navale/Elettrico assicura la conduzione dell'apparato motore e degli apparati ausiliari, la produzione di energia elettrica ed il mantenimento dell'integrità dello scafo; il Servizio Amministrativo/Logistico si occupa della acquisizione, contabilizzazione e distribuzione dei materiali, della stesura degli atti amministrativi e della gestione delle cucine; il Servizio Sanitario, infine, si occupa delle attività di prevenzione e cura del personale.
Vale la pena sottolineare che la messa in vela completa dell'unità, agendo contemporaneamente sui tre alberi ("posto di manovra generale alla vela"), è possibile solo con gli Allievi imbarcati, che tradizionalmente vengono destinati sulla maestra e sulla mezzana, mentre il personale del Servizio Marinaresco, i nocchieri, si occupa del trinchetto oltre che del coordinamento e controllo delle attività sugli altri due alberi.
STATO MAGGIORE E CADETTI PER LE FOTO DI RITO
LA BELLA NAVE con il suo seguito internazionale …
Dettagli e misure del Vespucci
La lunghezza del Vespucci al galleggiamento è di 82 metri, ma tra la poppa estrema e l’estremità del bompresso si raggiungono i 101 metri. La larghezza massima dello scafo è di 15,5 metri, che arrivano a 21 metri considerando l’ingombro delle imbarcazioni, che sporgono dalla murata, e a 28 metri considerando le estremità del pennone più lungo, il trevo di maestra. L’immersione massima è pari a 7,3 metri.
Descrizione
È un veliero che mantiene vive le vecchie tradizioni. Le 26 vele sono ancora in Tela Olona, le cime sono tutte ancora di materiale vegetale, e tutte le manovre vengono rigorosamente eseguite a mano; ogni ordine a bordo viene impartito dal comandante, tramite il nostromo, con il fischietto; l'imbarco e lo sbarco di un ufficiale avviene con gli onori al barcarizzo (l'apertura del parapetto di una nave, attraverso la quale si accede al ponte dall'esterno, mediante una scala o una passerella) a seconda del grado dell'ospite.
Altri dati tecnici
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Stazza netta: 1.202,57 GT (tsl)
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Scafo: in acciaio (lamiere chiodate) a tre ponti definiti di coperta, batteria e corridoio con castello e cassero rispettivamente a prua e poppa.
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Imbarcazioni di supporto: n. 11 per l'addestramento e per i servizi portuali.
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Superficie velica: 2.635 m² su 24 vele quadre e di straglio in tela olona (fibra naturale)
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Alberatura: su 3 alberi e bompresso, albero di maestra (54 metri), trinchetto (50 metri) e mezzana (43 metri) - parte inferiore degli alberi pennoni bassi in acciaio
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Manovre fisse e correnti in fibra naturale per circa 36 km di lunghezza
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Copertura del ponte, castello, cassero e rifiniture in legno teak.
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Apparato motore: 2 motori Dieselgeneratori MTU, con potenza di 1 320 kW ciascuno e 2 motori Diesel generatori MTU da 760 kW ciascuno, accoppiati da due motori elettrici di propulsione NIDEC ASI di 750 KW ciascuno disposti in serie, 1 elica a 4 pale fisse, quattro alternatori Diesel per l'energia elettrica.
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In sala macchine sono installati anche quattro generatori di corrente e un impianto per il condizionamento dell’aria.
Equipaggio
L'equipaggio è composto da 14 ufficiali, 72 sottufficiali e 190 sottocapi e comuni. Nei mesi estivi imbarca anche gli allievi del primo anno di corso dell’ Accademia navale di Livorno, circa 140, per un totale di circa 470 persone.
L'equipaggio ha compiti diversi ed è suddiviso in servizio operazioni (addetto a tutte le operazioni riguardanti la navigazione), servizio marinaresco (addetto alle operazioni varie alle imbarcazioni e di ormeggio e disormeggio), servizio dettaglio (gestisce le mense di bordo), servizio armi (custodisce le armi e si occupa dell'addestramento all'uso), servizio genio navale/elettrico (si occupa dell'apparato motore, dell'energia elettrica), servizio amministrativo/logistico (predispone gli atti amministrativi e gestisce le cucine) e servizio sanitario (cura tutto il personale).
CONOSCIAMO IL COMANDANTE
MASSIMILIANO SIRAGUSA
“Il vero motore dell’Amerigo Vespucci è l’equipaggio – ha detto il Comandante Massimiliano Siragusa – Sono donne e uomini innamorati del mare e appassionati del loro lavoro, sempre pronti ad aiutarsi e a supportarsi: non si deve dimenticare che qualsiasi nave è come una piccola città ma con spazi molto più compressi.
La condivisione è inevitabile e, perché tutto funzioni, è necessario che ogni marinaio svolga con attenzione e in modo efficiente il compito che gli è stato assegnato. Dal 1978, il nostro motto è:
“Non chi comincia ma quel persevera”
dare inizio a un percorso, a un’esperienza, è fondamentale, ma è essenziale perseverare con costanza e tenacia perché solo in questo modo si possono raggiungere gli obiettivi prefissati. La Marina Militare offre tantissime possibilità – ha concluso il Comandante – A bordo di una nave servono medici, ingegneri, amministrativi, meccanici, elettricisti, motoristi, nocchieri, segretari, infermieri, cuochi e molte altre figure specializzate. Si possono trovare grandi soddisfazioni arruolandosi, prova lo sono i sorrisi che vedo dipingersi sul volto dei miei marinai e che porterò con me al termine della mia esperienza di Comandante di questa Nave assolutamente unica”
“Profuma di mare e racconta storie di avventure di altri tempi, eppure è estremamente attuale. È elegante nelle forme e affasciante in ogni singolo dettaglio, orgoglio ed emblema nazionale, il Vespucci oggi è rappresentato da un eccezionale RAPALLESE, il Capitano di Vascello Massimiliano Siragusa.
Sicuramente l’Amerigo Vespucci ha ancora tanta storia da scrivere e tanto mare da solcare, sarà ancora per molto tempo ambasciatore d’Italia e orgoglio del nostro Paese. Saprà ancora entusiasmare ed emozionare generazioni di marinai, coscienti che a fare la differenza sono sempre e solo donne e uomini valorosi, coraggiosi e determinati.
Conosciamo il Comandante Massimiliano SIRAGUSA:
I am experienced Senior Officer with more thanks 30 years of active duty, of which 20 spent on board Navy Ships, including three Commanding Officer assignments and a significant Staff experience, often in an international environment.
I dedicated 5 years to the advanced training of future Italian Navy leaders & managers, working at the Naval Staff College, starting as Communication and Soft Skills lecturer and tutor, becoming dean and finally Director of the Study & Research Centre. As experiential trainer for soft skills, I also collaborated with the Centre for Higher Defence Studies, located in Rome, and with the Centre of Excellence for Stability Police Units, located in Vicenza.
I developed strong communication and management skills and I am accustomed to leading a team by training, motivating and persuading.
Esperienza
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Commanding Officer - Italian Navy Ship Amerigo Vespucci (Tall Ship)
set 2021 - Presente10 mesi
La Spezia - Underway
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Italian Navy Staff College – Director of the Study & Research Centre
ott 2020 - ago 202111 mesi
Venezia, Veneto, Italia
In charge of planning and conducting research for the Italian Navy in several areas including geopolitics, maritime subjects, advanced training and soft skills; dedicated as well to run public affairs and organize seminars for the Naval Staff College (leading a team of 5 employees, including 3 civilians)
Chief of Staff Force HQs Eunavfor Atalanta
European Union Naval Force Somalia Operation ATALANTA
feb 2020 - mag 20204 mesi
On board Spanish Frigate ESPS Numancia - Indian Ocean & Gulf of Aden
Responsible to support the Force Commander, leading a multinational Staff of 25 military.
Acting as Force Commander from 17th March to 3rd May
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Italian Navy Staff College – Courses Department Head
lug 2019 - dic 20196 mesi
Venezia, Veneto, Italia
In charge of planning and delivery all Staff College Courses – responsible for a team of 25 including 8 civilians
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Italian Navy Staff College – Communication Tutor & Instructor
lug 2016 - giu 20193 anni
Venezia, Veneto, Italia
Provided Education to Junior/Senior Navy Officers appointed for Command/Staff posts; Qualified as experiential learning trainer to support Senior Officers education at Italian Defence Joint Staff College in Rome and at the Centre of Excellence for Stability Police Units in Vicenza
Assistant Chief of Staff for Future Operations – ACOS CJ35
EU NAVFOR MED Sophia
ott 2015 - giu 2016 9 mesi
Roma, Lazio, Italia
Responsible for planning and coordinating assigned Aircrafts and Naval Units activities - in charge of a multinational team composed by 10 people
-
Comando Forze d'Altura e Italian Maritime Forces Command – Operations Division Chief (ACOS N3)
set 2014 - set 20151 anno 1 mese
Taranto, Puglia, Italia
Assistant Chief of Staff for coordination and conduct of national and multinational Operations, Navy and Joint. Responsible for a team of 20 people
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Italian Navy Frigate ALISEO (F 574) - Commanding Officer
lug 2013 - ago 20141 anno 2 mesi
Homeported in Taranto - Patrolling Mediterranean Sea
Responsible for a Crew of 200 people; performing several NATO and National Operations, including 5 participations to MARE NOSTRUM Operation against human smuggling, saving more than 4500 lives and capturing 31 criminals related to immigrants trade
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Italian Navy Frigate ALISEO (F 574) - Executive Officer
set 2011 - giu 20131 anno 10 mesi
Homeported in Taranto - Patrolling Mediterranean Sea
Manager of overall Ship activities, with the exception of the Command Group related ones. Responsible for 90% of crew personnel, about 180 people.
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Comando Forze d'Altura e Italian Maritime Forces Command – Plans Division Deputy Chief (DACOS N5)
nov 2007 - ago 20113 anni 10 mesi
Taranto, Puglia, Italia
Division Officer responsible for overall Command Planning activities: national, NATO, EU, Single Service and Joint
Staff Officer – C4I and Transformation Department
Stato Maggiore della Difesa - Forze Armate
ott 2005 - ott 20072 anni 1 mese
Roma, Lazio, Italia
Project Officer for several national and international programmes under development referring to Communications, Command and Control Systems
Italian Navy Mine Hunter TERMOLI (M 5555) - Commanding Officer
Marina Militare
set 2004 - set 2005 1 anno 1 mese
Homeported in La Spezia - Operating in Mediterranean Sea
Involved in national and multinational Fleet Combat enhancement training; performed live operations deactivating submerged mines and bombs. Responsible for a Crew of 55 people
Formazione
NATO SPCoE & SFACoE
SeminarInstitutional Advisors on Security Force Assistance and Stability Policing
2022 - 2022
The seminar allows personnel tasked as Institutional Advisors to develop the capability to advise counterparts in a local security force Institution within building partners capacity activities
Università Ca' Foscari Venezia
Master di 2° livello in Studi Strategici e Sicurezza Internazionale
Ditta Galgano
Advanced teaching and Public Speaking Course
2019 - 2019
Ditta Ambrosetti
Conflicts Management and Negotiation Course
2017 – 2017
Università Ca' Foscari Venezia
Public Speaking Course
2017 - 2017
Italian Air Force Logistic Site, La Spezia
Experiential Learning tutor Joint Military Course
2016 - 2016
Escuela Superior de las Fuerzas Armadas - Spanish Defense Joint Staff College
Senior Staff OfficerCurso de Estado Mayor de las Fuerzas Armadas
2010 - 2011
Graduated first among 31 foreign students proceeding from 25 different countries
Istituto di Studi Militari Marittimi - Italian Navy Staff College
Junior Staff Officer - postgraduate degreeCorso Normale di Stato Maggiore
2004 - 2004
Accademia Navale -Italian Naval Academy
Laurea magistrale Scienze Marittime e Navali
1991 – 1995
Lingue
-
Inglese
Conoscenza professionale
-
Spagnolo
Conoscenza professionale
-
Italiano
Conoscenza madrelingua o bilingue
Termino questa carrellata d’immagini con DUE miei scritti di cui vi propongo i LINK tratti dal sito di MARE NOSTRUM RAPALLO
https://www.marenostrumrapallo.it
LA NAVE SCUOLA
AMERIGO VESPUCCI
ha compiuto 80 anni ed é ancora la nave più bella del mondo
https://www.marenostrumrapallo.it/amerigo-vespucci/
IL VELIERO CRISTOFORO COLOMBO
era il gemello dell’AMERIGO VESPUCCI
Per non dimenticare…
https://www.marenostrumrapallo.it/il-veliero-cristoforo-colombo/
Correva l’anno 1962, e da pochissimo tempo era entrata in servizio la Portaerei Statunitense USS Indipendence, una nave della Classe Forrestal che, insieme a 3 sue “sorelle”, rivoluzionò completamente il mondo delle portaerei mondiali, definendo un nuovo orizzonte per l’utilizzo di questo tipo di navi. L’Amerigo Vespucci, veliero scuola della Marina Militare Italiana, fu varata molti anni prima della USS Indipendence, nel 1931, e da allora costituisce motivo di orgoglio per tutta la Marina Militare Italiana, e per tantissimi italiani.
Nel 1962 queste due navi si incontrarono nel Mar Mediterraneo, e la portaerei statunitense lampeggiò con il segnale luminoso, chiedendo:
Chi siete?
Al che dall’Amerigo Vespucci risposero:
Nave scuola Amerigo Vespucci, Marina Militare Italiana
E la risposta degli statunitensi rimase scritta negli annali:
Siete la nave più bella del Mondo
Il cordiale omaggio degli statunitensi alla nostra nave è solo uno dei tanti che il mondo del mare tributa all’Amerigo Vespucci, che venne ritenuta, sin dal momento del suo varo, un esempio dell’eccellenza artigianale e ingegneristica italiana. Ad esempio, le regole di navigazione prevedono che i transatlantici abbiano sempre la precedenza rispetto alle altre imbarcazioni. Ma quando i giganti del mare incontrano la Amerigo Vespucci nei mari di tutto il mondo, questa legge non vale più, e i giganti spengono i motori, rinunciano alla precedenza e suonando tre colpi di sirena in segno di saluto.
Carlo GATTI
Rapallo, 6 Giugno 2022
IL COVID-19 FA STRAGE DI NAVI DA CROCIERA
IL COVID-19 FA STRAGE DI NAVI DA CROCIERA
RIPARTE UNA DEMOLIZIONE SELVAGGIA
PARTE PRIMA
Il Comandante Mario Terenzio Palombo, con questa mail che vi allego, mi ha dato lo spunto per entrare, con i nostri mezzi limitati, in un tema spinoso: - DEMOLIZIONI NAVALI - che oggi è salito alla ribalta mondiale come conseguenza del COVID-19.
Carissimi….
Vi allego la foto del cantiere demolizione di Aliaga dove si vede la Costa Victoria – è appena iniziata la demolizione della prora.
E' in compagnia di altre navi che anche loro hanno subito il COVID.
Che tristezza!
Mario
Il Comandante M.T. Palombo fu il primo Comandante della COSTA VICTORIA dopo averne curato l’allestimento!
Quest’anno alcune navi sono già arrivate ad ALIAGA in Turchia, dove le norme per la demolizione sembrano essere meno “vincolanti” dal punto di vista ambientale, rispetto ai cantieri navali italiani o francesi, e di questi tempi, purtroppo, le Compagnie di Navigazione tagliano i costi ovunque sia possibile.
Ecco alcuni nomi, ma altre ne seguiranno:
Costa Victoria, Carnival Fantasy, Inspiration, Fascination, Imagination, tutta la flotta di Pullmantur (fallita), Marella Celebration.
Di solito la vita media di una nave da crociera può raggiungere la quarantina, ma in questo periodo di incertezze, fallimenti e cancellazioni, molte compagnie hanno deciso di demolirle anzitempo.
La dismissione della Victoria, varata nel 1996, dalla flotta Costa è solo una delle tante, da cui, tuttavia, si desume che quella Unità avrebbe potuto navigare ancora per oltre 20 anni.
Sollecitato dalla foto che Mario mi ha inviato, mi sono addentrato nei commenti dello SHIPPING che sono tutti concordi nell’accusare il Covid d’aver colpito a morte il settore delle navi da crociera che è, come noto, la forza trainante dell’Industria Marittima Italiana avendo il settore in questione un indotto che coinvolge e dà lavoro a migliaia di fabbriche che sono il perno della nostra economia.
Tuttavia c’è da dire che l’Italia, con i suoi modernissimi Cantieri Navali, si colloca al vertice delle eccellenze nella costruzione di navi passeggeri al mondo, per cui oggi gli occhi degli investitori del pianeta sono puntati sui nostri Cantieri e vi sono ottimi segnali che questa RIPRESA sia già in atto.
Pensando alla ROMA, di cui ho inserito di recente la storia sul Sito di Mare Nostrum Rapallo, mi vien da pensare al patrimonio “artistico” che oggi si trova su queste navi demolite o da demolire.
E mi chiedo:
- dove sarà trasbordato tutto quel ben di Dio?
- finirà alle aste di chi sa quale paese?
- Chissà quali e quanti mercati si saranno aperti per tutta la merce preziosa che sbarcherà da quei bordi? Quadri, tappezzerie, tappeti, stoviglieria preziosa e vasellame?
- O forse gli Armatori recuperano tutto il possibile prima di vendere lo scafo nudo ai demolitori?
Insomma è un bel business che si porta via un gran pezzo di cuore di tanti marittimi e passeggeri che le hanno navigate. Anche se quel sentimento NON SI PUO' VENDERE!
THE MEDI TELEGRAPH ci dà una parziale ma significativa risposta:
Arredi e materiali della Costa Victoria donati in beneficenza
https://www.themeditelegraph.com/it/shipping/shipyard-and-offshore/2020/11/28/news/arredi-e-materiali-della-costa-victoria-donati-in-beneficenza-1.39594023
A diverse domande sul tema ha risposto anche il nostro socio Comandante Bruno MALATESTA, con un suo articolo del 2014 in cui aveva già affrontato con largo anticipo questo tema che oggi occorre rileggere per identificare quei punti che oggi, nel campo delle Demolizioni navali, riemergono per non essere stati ancora risolti. Eccovi il LINK:
RICICLARE LE NAVI. BUSINESS DI DOMANI?
https://www.marenostrumrapallo.it/riciclare/ di Bruno Malatesta
I principali Cantieri Navali di demolizione al mondo:
Alang-India - Sosiya è una spiaggia-Cantiere per demolizione, la più grande del mondo, in Gujarat. Le navi fanno l’ultimo viaggio spiaggiandosi su quei litorali, cambiando nome e proprietari.
Nell’ultimo anno sono quattordici le navi passeggeri che si sono arenate “appositamente” nel litorale indiano dei cantieri appena citati, facendo registrare il record rispetto al periodo pre-Covid in cui si demolivano appena due navi/anno.
Dai dati ufficiali le navi passeggeri hanno rappresentato quasi il 10% delle circa 150 navi inviate ai cantieri di demolizione in India negli ultimi dodici mesi. In totale, tutte le navi passeggeri hanno rappresentato oltre due milioni di tonnellate di dislocamento leggero.
Una curiosità che leggiamo e vi riportiamo: “E’ vero che le navi da crociera contengono meno acciaio rispetto alle navi mercantili e alle petroliere che arrivano ad Alang; ma in compenso costa meno la loro demolizione, soprattutto se si tratta di navi in situazioni di fallimento, fornite di pezzi di ricambio di valore, di arredi ed altro commerciabili sul mercato del riuso. Fra le navi spiaggiate troviamo la Karnika: nave da crociera costruita nel 1990 da Fincantieri, da 69.845 tonnellate di stazza lorda, progettata dall’architetto Renzo Piano con un design che si dice sia stato ispirato da un delfino e armata dalla P&O Cruises, con il nome di Crown Princess. Passata poi a vari brand e ceduta nel 2019 all’operatore indiano Jalesh Cruises ribattezzata Karnika.
Altre unità realizzate in Italia potrebbero inoltre, secondo Maritime Executive, concludere la loro esistenza nei prossimi mesi, probabilmente proprio ad Alang. Tra queste viene citata innanzitutto la ex Costa neo-Romantica (costruita da Fincantieri a Marghera e in passato in forza a Costa Crociere). Rilevata da Louis Group per Celestyal Cruises, la nave è stata rivenduta questa estate (senza rientrare in servizio) e secondo la testata ha lasciato la Grecia diretta in Cina per essere poi avviata a demolizione. Lo stesso potrebbe accadere a diverse unità dell’operatore di traghetti greco Seajet pure costruite da Fincantieri in Italia, tra cui “tre navi datate” in passato parte della flotta di Holland America Line, che dovrebbero essere le ex Veendam, Maasdam e Ryndam.
DETTAGLIO MOLTO IMPORTANTE:
L’Europa vieta agli armatori che hanno iscritte le proprie navi nei registri della UE la demolizione sulle spiagge dell’Asia meridionale, il fenomeno è ancora vasto ed è pagato a caro prezzo sia sul versante umano che quello ambientale. In Europa le navi devono essere demolite in strutture sostenibili e i cantieri preposti, devono infine essere registrati in un Registro Speciale. In questo registro, molto probabilmente, oltre ai cantieri dell’UE, saranno iscritti anche i cantieri della Cina, Turchia, Nord America, con l’esclusione dell’Asia meridionale.
FONTE: NAUTICA - Abele-Carruezzo
COSA SUCCEDE A GENOVA?
Garrè (Sgdp): “Aumentata la richiesta di demolizioni navali ma è difficile competere con la Turchia”
Genova – “La pandemia di Covid-19 ha creato un’accelerazione e ha fatto aumentare la richiesta di demolizioni navali. Soprattutto nel settore crociere”. A spiegarlo è stato Ferdinando Garrè, vertice di Genova Industrie Navali e di San Giorgio del Porto*, il cantiere che si appresta ad avviare nei bacini di carenaggio di Genova lo smaltimento.
*San Giorgio del Porto s.p.a. (ufficialmente Officine Meccaniche Navali e Fonderie San Giorgio del Porto, in sigla: SGdP) è un'azienda di Genova fondata nel 1928 attiva nel settore delle costruzioni, riparazioni e demolizioni navali, parte del gruppo di imprese Genova Industrie Navali s.r.l. (GIN).
L’azienda occupa circa 140 persone tra architetti navali, ingegneri meccanici e manovalanza specializzata e, assieme a Chantier Naval de Marseill (CNdM), opera 3 degli 8 bacini di carenaggio della GIN tra cui il Bacino n. 10 (465 m x 85 m), il più grande del Mediterraneo, così come oltre 2 km di metri lineari di banchine per accosti operativi. Nell'aprile 2016, assieme alla Fratelli Neri, ha costituito Piombino Industrie Marittime.
“Le navi saranno smaltite in tre mesi di tempo” ha fatto sapere Garrè, dopo essere rimaste (due di queste) abbandonate in banchina per oltre dieci anni. Oggi festeggiamo un nuovo lavoro di ship recycling dopo il primo intervento portato a termine sul relitto della Costa Concordia. È stato un importante lavoro di gruppo portato a termine da tutto il sistema Genova. Spero che questa operazione di ship recycling secondo le ultime norme europee sia la prima di molte”.
San Giorgio del Porto è uno dei pochissimi stabilimenti nel Mediterraneo che figurano nell’elenco dei siti classificati dall’Europa fra quelli rispondenti agli standard imposti proprio dal regolamento sul ship recycling.
Nel Mediterraneo gli altri sono in Turchia e la concorrenza per il competitor italiano è impari: “In Italia, per essere competitivi, dobbiamo chiedere dei contributi economici mentre i cantieri turchi pagano gli armatori per avere navi da demolire. Perché? Uno dei motivi è sicuramente il costo della manodopera, ma non è l’unico” - risponde prudentemente Garrè, che non vuole fare polemica ma aggiunge: “C’è una legge europea sul ship recycling che poi ogni Paese recepisce a modo suo. Posso dire che nel nostro Paese certamente la gestione e lo smaltimento dei rifiuti è più complicata e costosa che altrove”.
Il porto di Genova, ma anche quello di Piombino, hanno chiesto infatti di essere iscritti nell’elenco dei cantieri di demolizione riconosciuti dall’Europa.
FONTE:
Il quotidiano online del trasporto marittimo - Nicola Capuzzo
Per chi volesse approfondire l’ARGOMENTO segnalo i seguenti LINK:
https://www.cruiselifestyle.it/2020-anno-nero-per-le-crociere-anno-doro-per-le-demolizioni-navali/
https://www.triesteallnews.it/2020/10/navi-bianche-boom-di-demolizioni-in-turchia-non-mancano-i-colossi-italiani/
https://www.shipmag.it/aliaga-il-cantiere-dove-le-navi-vengono-demolite-senza-cambiare-nome-la-curiosita/
https://www.themeditelegraph.com/it/shipping/cruise-and-ferries/2020/07/15/news/demolizioni-cinque-navi-da-crociera-verso-la-turchia-1.39085814
Lo smantellamento navale: un problema globale
https://www.legambiente.it/sites/default/files/docs/shipbreaking_worldwide.pdf
SRM-Osservatorio COVID-19 sui trasporti Marittimi e la Logistica
https://www.arti.puglia.it/wp-content/uploads/Osservatorio-Maritime-Covid19.pdf
ALBUM FOTOGRAFICO
LO SREGOLATO MERCATO DELLE DEMOLIZIONI
In Asia i grandi mercantili vengono smontati con standard ambientali e di sicurezza bassissimi: l'Unione Europea vorrebbe intervenire, ma è difficile …
Chittagong, Bangladesh, 2008 (ANSA-UIG/Shahidul-Alam). Notare l’impiego di manodopera giovanile priva di abbigliamento di sicurezza.
Un cantiere a Chittagong, Bangladesh (ANSA-DPA/Christian Hager)
Un cantiere a Chittagong, Bangladesh, luglio 2008 (Spencer Platt/Getty Images)
Il giro d’affari è considerevole, per il cantiere che riceve le navi ma anche per gli armatori che ce le spediscono: riescono infatti a ottenere più profitto rispetto a una demolizione in un cantiere navalmeccanico occidentale, grazie al mercato nero dei pezzi di ricambio e delle materie prime come acciaio e rame.
Operai in un cantiere di demolizione navale a Cilincing, Giacarta, Indonesia, 2010 (Ulet Ifansasti/Getty Images)
L’attività di demolizione per spiaggiamento inquina relativamente poco il mare, considerando che i mercantili arrivano come carcasse di acciaio senza più gli allestimenti interni. Quello che viene inquinato è invece il suolo e il territorio circostante. Essendo a cielo aperto, senza impianti di depurazione, il bioma costiero si trasfigura. La demolizione rilascia sostanze tossiche come cadmio, piombo, amianto e mercurio. L’attività di fusione e smantellamento dei pezzi più piccoli rilascia nell’aria sostanze che danneggiano l’ozono.
Chittagong, Bangladesh, luglio 2008 (Spencer Platt/Getty Images)
Due operai in un cantiere di demolizione navale a Dacca, Bangladesh, 2020 (Nayem Shaan/ZUMA/ansa)
PARTE SECONDA
I CANTIERI NAVALI DI DEMOLIZIONE DEL SECOLO SCORSO
VADO LIGURE E SPEZIA
Alcuni ricordi personali
VADO LIGURE
Più conosciuto degli stessi cantieri genovesi, e fonte di lavoro per quattro generazioni di famiglie vadesi, il cantiere di Portovado è raccontato in un libro con dovizia di particolari nautici dai protagonisti di quella storia: Edoardo e Giuseppe Riccardi nel libro «La demolizione navale a Vado Ligure», tra tanti rimpianti e tanta nostalgia per quel piccolo mondo scomparso.
Qui, nel secolo scorso, sino al 1989, VADO ha visto demolire corazzate, incrociatori e cacciatorpediniere della Marina Militare Italiana, della Marina francese e dell'Armada argentina, oltre ad una infinità di navi da carico, alcune famose come la Sestriere, Pisani, Napoli e Premuda, e poi Democratie, Jiustice, Veritè, per non dimenticare la gloriosa Olterra che, insieme ad altre centinaia di navi, una volta “spiaggiate” venivano ridotte a pezzi.
Chi scrive portò in demolizione a Vado Ligure la più importante “carretta” del dopoguerra: LA SESTRIERE. Vi propongo alcuni LINK per ricordare:
L'ULTIMO VIAGGIO DELLA CELEBRE M/N SESTRIERE
https://www.marenostrumrapallo.it/sestriere/ Carlo GATTI
LA SECONDA SPEDIZIONE DEI MILLE Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/spedizione/
La protagonista di quell’importantissima spedizione fu proprio lei, la M/n SESTRIERE.
OLTERRA - UN CAMOGLINO NELLA TANA DEL LUPO Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/de-negri/
VADO LIGURE - La foto mostra la fine di due gloriosi rimorchiatori d’altomare: in primo piano il mio M/R TORREGRANDE che copre parzialmente il M/R GENUA. Come ricordo di questo “mastino” dei mari, il mio equipaggio volle regalarmi due OBLO’ che conservo come reliquie…
Tutto finì nel 1990
LA SPEZIA – Cantiere delle Grazie
Il relitto, ripreso quando era ormai semi-affondato nella baia di Pertusola, ha una storia particolare che ho raccontato anni fa, ed oggi la ripropongo nel LINK:
USS WILLIAMSBURG UNA NAVE, UNA STORIA
https://www.marenostrumrapallo.it/uss-williamsburg-una-nave-una-storia/
Carlo GATTI
Il 19 gennaio 2016 le autorità di Spezia autorizzarono (finalmente) le operazioni di smantellamento e rimozione dello yacht Williamsburg, la nave di 74 metri costruita negli USA nel 1930, ex residenza galleggiante dei presidenti Truman e Eisenhower.
La Williamsburg era arrivata a Genova nel 1993, ma il progetto di trasformarla in un’imbarcazione di lusso non andò mai a buon fine.
ALFREDO CARLETTI - UN ESEMPIO DI INDOTTO INTELLIGENTE DI RECUPERO, COMMERCIO E VENDITA DELLA OGGETTISTICA NAVALE
L’azienda fondata da Alfredo CARLETTI, di cui fui un affezionato cliente, nasce negli anni 60 alla Spezia, periodo nel quale la città aveva un ruolo di primo piano, a livello europeo, nel campo delle demolizioni navali.
Usualmente, quando una nave veniva avviata alla demolizione, tutte le componenti in legno del rivestimento interno dei locali ed anche mobilio ed altri oggetti particolari quali timoni, chiesuole delle bussole, tavoli da carteggio ecc., essendo un intralcio alle operazioni di taglio con fiamma delle lamiere, venivano smantellati senza troppi riguardi ed infine distrutti e/o bruciati per recuperare le parti in bronzo ed ottone della ferramenta, che venivano poi venduti quali rottami alle fonderie.
Fu proprio Alfredo che ebbe la brillante intuizione di acquistare dai demolitori sia il legname destinato a tale ingloriosa fine, sia i mobili e gli altri arredi di bordo, tutti peraltro appartenenti a pregiate essenze quali mogano, teak, iroko ecc., dando avvio ad un commercio che presto si impose come nuovo stile d’arredo.
Sulla scia di Alfredo, presto affiancato dal fratello Emilio, molti altri commercianti locali iniziarono tale attività ed il Viale San Bartolomeo della Spezia, situato alle spalle dei Cantieri, divenne rapidamente famoso per le numerose vetrine che ospitavano fianco a fianco gli austeri mobili in stile marina ed i lucenti ottoni dei fanali e delle chiesuole, in una colorata cornice di bandiere del Codice Internazionale dei Segnali.
I fratelli Carletti ben presto presero ad occuparsi direttamente dello smontaggio e dello sbarco dalle navi di quei preziosi arredi, prendendo direttamente l’appalto nei cantieri, evitandone l’indiscriminato smantellamento e salvando così parecchi pezzi unici nel loro genere.
A queste avventurose "spedizioni" tra i saloni e corridoi di famosi transatlantici e altrettanto affascinanti navi da carico partecipò anche Fausto, il figlio di Alfredo, allora ragazzino e attuale titolare dell’azienda dal 1973 insieme alla moglie Daniela.
Fausto Carletti è ormai considerato un esperto di antiquariato navale e partecipa a convegni e incontri in tutta Europa, organizzando anche mostre a tema. Parte attive dell’Azienda fin dai primi anni di attività è stata la progettazione e la costruzione di arredamenti su misura in stile marina, nati dalla voglia di ricreare e portare nelle case atmosfere dal fascino intramontabile, ispirate dagli arredi degli antichi velieri e dei gloriosi transatlantici.
L’arredamento di molte ville sul mare in Liguria, ma anche in Sardegna e Corsica, portano la firma di questi lungimiranti imprenditori.
Ancora oggi, nei magazzini del “CORSARO” è possibile trovare mobili originali provenienti da vecchie “glorie del mare”, nonché una moltitudine di oggetti e strumenti quali fanali, lampade, appliques, plafoniere, timonerie, ruote di timone e chiesuole, bussole e sestanti, ottanti e cronometri, ancore e vecchi bozzelli. La provenienza di questi piccoli tesori disegna un lungo elenco di nomi storici di navi che a Spezia hanno trovato l’ultimo approdo.
Tra le numerose navi a cui la famiglia ha partecipato all’operazione-demolizione si possono ricordare: l'Oceania, varata nel 1950 e demolito nel 1977, la Giulio Cesare, varata nel 1949 e demolito nel 1973, la Conte Biancamano, varata nel 1925 e demolito nel 1960, la Conte Grande, varato nel 1927 e demolito il 7 settembre del 1962. Ma anche la Liberté, la corazzata Richelieu, la Giuseppe Verdi, l'Andrea Costa, la Saturnia, la Caribia (ex Vulcania), lo Jaza (il panfilo dell'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe), il transatlantico Kenia e molte altre glorie delle compagnie di navigazione di tutto il mondo.
LA STORIA DELLA NAVE PASSEGGERI FAIRSEA di Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/fairsea/
La FAIRSEA fu demolita nei Cantieri navali LOTTI di Spezia
CONCLUSIONE
A questo punto qualche lettore si porrà la domanda:
Perché finì quell’epico periodo delle demolizioni navali in Italia per poi riapparire oggi in altri siti anche molto lontani dal mondo dello shipping più avanzato?
Avendo vissuto la parte centrale di quell’epopea, posso esprimere soltanto qualche opinione personale, premettendo che ben altri qualificati storici potrebbero averne una visione ben più ampia.
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Tra il 1960 e la fine del secolo, tutte le navi che avevano partecipato alla Seconda guerra mondiale, sapendo che tante di loro furono “tirate sul fondo” per la necessità di rimettere in moto il settore mondiale dei Trasporti marittimi: merci e passeggeri, erano ormai molto ANZIANE e per loro non esisteva altra prospettiva che la demolizione. Tra queste vi erano centinaia di LIBERTY, T/2, CARRETTE di ogni tipo e navi passeggeri sopravvissute alle battaglie dei convogli. Nel frattempo decollarono le nuove costruzioni navali, moderne e sempre più sofisticate che diedero inizio ad un lento ma inesorabile gigantismo navale.
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La storia dei Container per il trasporto intermodale nacque il 26 aprile 1956. Da quel momento storico s’impose la necessità di ampliare i porti, le banchine, i piazzali fino al limite possibile dovendo installare gru gigantesche tipo-Paceco e quindi ridisegnare le infrastrutture che si potevano realizzare eliminando cantieri, officine, magazzini obsoleti e rubando spazi anche al mare. Tutti i porti cambiarono la loro tradizionale fisionomia per l’impellente necessità di rimanere competitivi sui mercati.
Questa fu, probabilmente, la causa principale che contribuì alla "sparizione" dei Cantieri navali della demolizione.
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Un’altra causa o concausa esplose come una bomba quando nel 1977, l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro di Lione (IARC) classificò l'amianto come cancerogeno certo per l'uomo. Le navi da demolire avevano tutte o quasi tutte l’amianto nella Sala Macchina. A questo punto l’operazione di demolizione di una nave era diventata problematica per un crescente numero di problemi che rendevano la sua gestione altamente “pericolosa” e poco remunerativa.
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Di questa problematica situazione venutasi a creare nei Paesi industrializzati dell’Occidente, se ne avvalsero le nazioni del Terzo Mondo.
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Oggigiorno i problemi sono ancora più grandi. Smantellare una nave ha un impatto ambientale non indifferente, ecco perché i costi sono alti e la gente preferisce darla in nero nei mercati orientali. Pensate all'amianto, al carburante, all'olio dei circuiti, ai materiali non assimilabili ai rifiuti solidi urbani. Se si pensa poi, al costo del lavoro nel nostro paese, allora i calcoli sono presto fatti.
1973 - Il giovane Comandante Carlo GATTI al comando del M/r ARIEL con a rimorchio il famoso transatlantico GIULIO CESARE nel suo ultimo viaggio verso la demolizione presso il Cantiere LOTTI di SPEZIA.
LA STORIA DELLA NAVE PASSEGGERI FAIRSEA di Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/fairsea/
La FAIRSEA fu demolita nei Cantieri navali LOTTI di Spezia