Giacomo BOVE - Fu tra gli scopritori del mitico Passaggio a Nord-Est
NAVIGATORE ED ESPLORATORE GIACOMO BOVE DI MARANZANA
GIACOMO BOVE
Fu tra gli scopritori del mitico Passaggio a Nord-Est
Nasce a Maranzana (Asti 23 aprile 1852) – Muore a Verona il 9 Agosto 1887
La salma riposa nella cappella di famiglia nel cimitero di Maranzana.
Figlio di proprietari di vigneti e produttori di vino, terminate le scuole primarie chiede di poter continuare a studiare: sogna di frequentare l’accademia navale a Genova. I genitori vorrebbero accontentarlo, ma non sanno se la richiesta di iscrizione verrà accettata, viste le origini contadine. L’accademia, inaspettatamente, lo accetta, a patto che la famiglia rifornisca le mense degli ufficiali con il suo buon vino per tutta la durata degli studi. Si diploma con onore e nei tempi previsti (probabilmente con il disappunto degli ufficiali che smettono di bere bene…) e inizia il suo servizio su diverse navi. Intrepido e senza paura fa domanda fin da subito per poter partecipare a spedizioni rischiose.
Appena ventenne si imbarca come cartografo sulla nave Governolo che si spinge fino in Giappone e nel Borneo, passando anche per la Malesia, Filippine e Cina.
Nei periodi di vacanza torna nel suo natio Monferrato. A 24 anni è già sottotenente di vascello. L’anno successivo inizia i suoi studi sulle correnti marine e si specializza a tal punto da inventare una “scala di marea”, uno strumento utile alle misurazioni idrografiche.
Grazie alle sue competenze viene scelto per partecipare alla spedizione dell’esploratore scandinavo Nordenskjold per la ricerca del passaggio di nord est, attraverso il Mar Glaciale Artico, dall’Atlantico al Pacifico. Giacomo si prepara ulteriormente, perfezionando l’inglese e il francese e imparando lo svedese.
La spedizione è un successo, addirittura Bove scopre un nuovo arcipelago che chiama Vega e la cui punta è stata poi ribattezzata Capo Bove in suo onore. Al termine dell’impresa si gusta un meritato riposo a Maranzana e inizia a progettare una spedizione italiana delle regioni antartiche. Il progetto è ambizioso, ma viene giudicato troppo costoso in Italia. Invece l’Argentina appoggia entusiasticamente l’idea di Giacomo. Tornato da Buenos Aires dove ha esposto a voce il progetto, riceve dal re di Danimarca l’onorificenza di “Cavaliere dell’ordine di Danebrag”, mentre Maranzana gli dona una medaglia d’oro e una pergamena per festeggiare la sua promozione a Tenente di vascello.
Riparte per l’Argentina e intraprende la sua esplorazione, al termine della quale riceve onorificenze anche da questo governo e dalla società geografica sudamericana. Mai stanco, Giacomo parte subito per una nuova esplorazione, con la speranza di avvicinarsi il più possibile all’Antartide, finalmente patrocinata, oltre che dall’Argentina, anche dall’Italia. Partecipano con lui anche la moglie Luisa, Edmondo De Amicis e il futuro presidente argentino Sarmiento. Torna l’anno seguente con 25 casse di raccolte antropologiche, zoologiche e botaniche. Giacomo è molto soddisfatto e sente che la possibilità di raggiungere l’Antartide è sempre più vicina. Nel frattempo in Italia, come nel resto d’Europa, va aumentando l’interesse per l’Africa, così ricca di territori inesplorati. Il governo italiano gli propone di scandagliare il bacino del Congo e l’intrepido monferrino accetta l’incarico. Purtroppo, dopo dieci mesi torna in patria con gravi problemi di salute che, in meno di un anno, lo porteranno alla prematura scomparsa.
VIAGGIO DELLA PIROCORVETTA “GOVERNOLO” (1872 -1873)
Pirocorvetta Governolo
Dopo secoli di totale isolamento del Giappone poco si sapeva delle sue vicende interne ma dalle guerre intestine che stava affrontando in quel periodo, si capiva il desiderio di rinnovamento e di aperture commerciali. Le potenze occidentali, sempre desiderose di nuove conquiste, guardavano con particolare interesse questa terra. Anche l’Italia, da poco diventata entità nazionale, aveva aperto un trattato commerciale con il paese del sol levante impostato soprattutto sul trasporto di bachicoltori. Era infatti scoppiata in Europa la “pedrina”, malattia che causava la morte dei bachi con conseguente crisi dell’industria serica dell’Italia del Nord. Era il 1872. Giacomo Bove aveva superato brillantemente gli esami all’Accademia Navale e trascorso un periodo di vacanza a Maranzana quando gli fu proposto di imbarcarsi sulla Pirocorvetta Governolo per una missione scientifica in oriente. Gli esperti dovevano studiare le coste dell’isola di BORNEO rilevandone gli aspetti morfologici, idrografici ed etnografici. Giacomo Bove aveva l’incarico di cartografo della spedizione. Ritornarono nel novembre del 1873. Vennero fatte ricerche ed esplorazioni in Malesia, Borneo, Filippine, Cina e Giappone.
LA SPEDIZIONE AL POLO NORD
Dai vari tentativi di esplorazione dell'Artico fatti da molti popoli, si sapeva che il bacino artico era per tre quarti circondato da terre americane ed asiatiche. La parte di costa asiatica fu esplorata, in modo non esaustivo, dagli inglesi, dagli svedesi e dai russi; la parte centrale era ancora inesplorata.
La spedizione di Nordenskiold sarebbe stata feconda per la scienza e per il commercio poiché come disse G.Bove nel discorso tenuto a Roma il 10 febbraio 1878 "..in quest'anno s'apre all'esercizio la ferrovia degli Urali che stabilisce una comunicazione più breve possibile fra l'est e l'ovest. L'impresa nostra tende a donare al commercio tutte quelle arterie fluviali che cadono ad angolo più o meno retto su quella gran linea di ferrovia e di fiumi. .........ne saranno migliorate in un lontano avvenire le sorti di paesi immensi ..........." e conclude "...Pel bene di tutti.".
Il 24 settembre 1877 mentre Giacomo Bove tornava sulla Washington da Capo Scaletta (stretto di Messina) dove si trovava per lo studio delle correnti marine, ricevette la notizia di essere stato scelto per partecipare alla spedizione scandinava di Adolf Erik Nordenskiold. Da quel momento iniziò per lui un periodo di grande impegno. Si recò a Genova e Torino per approfondire la conoscenza dei territori ove si sarebbe recato; perfezionare il francese e l'inglese ed imparare una nuova lingua: lo svedese.
A gennaio partenza per Verona, Monaco (Germania) ed infine Stoccolma. Il 24 giugno 1878 la spedizione partì da Carlskrona e costeggiando tutta la Norvegia, il 16 luglio entrò nel Mar Glaciale Artico. La nave "Vega" (ex baleniera) era accompagnata dai piccoli vapori "Lena", "Express" e "Fraser". Nel Mar di Kara primo incontro con il popolo dei Samoiedi.
Nave VEGA
Ad agosto incominciarono a trovare il mare ghiacciato. Mentre esploravano la zona intorno l'arcipelago di Dixon, Giacomo Bove scoprì un arcipelago nuovo che battezzò "VEGA" e ad alcune delle isole, con il permesso di Nordenskiold, diede nomi italiani: isola "Re Umberto" (in onore di S.M. il Re); isolotto "Brin" (ministro della Marina); isola "Negri" (commendatore della Società Geografica Italiana); isola "Bucchia" (ammiraglio); isola "Correnti" (presidente della Società Geografica Italiana); isola "Accinni" (comandante) ecc. La punta "Correnti" fu poi ribattezzata Capo BOVE in omaggio a colui che l'aveva rilevata.
Salutate le navi "Express" e "Fraser" partite per il Jenissei ove avrebbero trovato grano continuarono il loro percorso. Il 17 agosto fecero esplorazioni nello stretto di TAIMIR e, sotto una colonna di pietre, lasciarono una carta scritta in tre lingue (svedese - inglese - russo) che diceva:
"La Spedizione Artica Svedese composta delle due navi "Vega" e "Lena", partita da Porto Dickson il 10 agosto 1878, ha ancorato in questa baia, dalla quale partirà alla volta di Capo Celiuskin non appena le nebbie si siano dissipate.
Si prega di mandare la presente lettera a S. M. il Re di Svezia e Norvegia.
Sempre ad agosto doppiarono per la prima volta nella storia "Capo Celiuskin". L'ufficiale russo di bordo, in quell'occasione, si vestì in alta uniforme e fece gli onori di casa a nome dell'Imperatore di tutte le Russie. Diede loro il benvenuto anche un colossale orso bianco. La gioia a bordo era immensa!
Alle bocche della Lena la nave "Lena" si separò dalla "Vega" e si diresse a sud. La spedizione proseguì verso est trovando ghiaccio sempre più compatto e pack sino a quando il mare gelò totalmente e li obbligò a fermarsi nella terra dei Ciukci il 28 settembre 1878.
Ancorarono ad un ghiaccione e svernarono presso Pitlekai fino al luglio 1879. In quel periodo studiarono a fondo il popolo dei Ciukci e la loro civiltà e fecero osservazioni idrografiche (Giacomo Bove era l'idrografo di bordo), meteorologiche, zoologiche e botaniche. Ripartirono il 18 luglio 1879 e finalmente il 20 luglio attraversarono lo Stretto di Bering; con le bandiere di gala issate salutarono il passaggio con cinque colpi di cannone. Fecero escursioni in Alaska e all'isola di San Lorenzo poi, il 2 settembre, arrivarono a Yokohama dove ricevettero grandissimi festeggiamenti. Da lì attraverso l'oceano Indiano e il canale di Suez arrivarono a Napoli il 14 febbraio 1880.
L'IDEATA SPEDIZIONE ANTARTICA "NEGRI-BOVE"
Giacomo Bove ideò un grande progetto di esplorazione dell'Antartide. Ne parlò con il presidente della Società Geografica Italiana Cristoforo Negri che lo condivise.
La spedizione sarebbe durata tre anni e sarebbe costata 600.000 Lire (2,3 milioni € odierni) che si sarebbero raccolte con sottoscrizioni private.
Lungo l'Atlantico avrebbe toccato l'Argentina, la Patagonia, la Terra del Fuoco, le Falkland e poi si sarebbe spinto verso sud per penetrare nella lunga frangia di terra che arriva fino al mare di Ross e verificare se si tratta di isole o terraferma.
Tutto il percorso sarebbe stato di verifica e completamento delle ricerche di Ross e Wilkes. Si sarebbero poi fatte osservazioni di geografia fisica, meteorologiche, magnetiche ed astronomiche. Il progetto incontrò grande entusiasmo generale ma la spesa risultò troppo elevata e fu accantonato.
LA 1° SPEDIZIONE IN SUDAMERICA
La spedizione partì il 3 settembre da Genova diretta a Rio de Janeiro. Fece visita al Ministro, Sig. Conte la Tour e conobbe il Presidente dell’Istituto Geografico Argentino, sig. Zebollos.
Le navi preparate erano: la corvetta “Cabo de Hornos” da usare come tender, una lancia a vapore ed il cutter “Santa Cruz” che avrebbero trovato in Patagonia.
Il Governo Argentino affidò a Bove il comando della spedizione intesa a studiare il sud della Patagonia, la Terra del Fuoco e l’Isola degli Stati sotto il punto di vista soprattutto economico. A bordo della nave però si trovava una commissione scientifica composta dal dott. D. Vinciguerra (zoologo), dott. C. Spegazzini (botanico), prof. D. Lovisato (geologo), luog. G. Roncagli (idrografo). Dopo aver fatto rifornimento a Montevideo partirono il 17 dicembre 1881 da Buenos Aires sulla corvetta “Cabo de Hornos”. Il comandante della nave, L. Pietrabuena, era argentino al pari degli altri ufficiali.
Esplorarono tutta la costa argentina, l’isola degli Stati, tutti i passaggi e le isole che si trovano nello stretto di Magellano e nel canale di Beagle (Clarence - Desolazione - Navarino - Burnt - Divide - Picton) sino all’oceano Pacifico.
Furono fatte ricerche sulle popolazioni fuegine sulla flora e fauna, sulle profondità marine, sui fossili, etc. Dopo molti giorni di navigazione giunsero alla Missione inglese di Ushuaia, situata a metà del Canale di Beagle. I missionari inglesi li pregarono di trasportarli a Slogett Baia, nei pressi delle isole Picton, Navarino e Gable perché dovevano incontrare una tribù di fungini ancora sconosciuta. Appena gettata l’ancora si alzò un vento burrascoso accompagnato da un mare tremendo e la “S. Josè” fece naufragio ad Hammacoja.
L’equipaggio si salvò ma poiché non esistevano più i mezzi per proseguire il viaggio (G. Bove voleva scendere verso l’Antartide) furono costretti a tornare prima a Buenos Aires dove ricevette una medaglia d’oro dal Presidente della Repubblica Argentina, poi in Italia.
LA 2° SPEDIZIONE IN SUDAMERICA
La seconda spedizione in Sud America partì da Genova il 3 luglio 1883. Il 20 settembre a bordo del "Messaggero", un vapore messo a disposizione dalla Compagnia "Lloyd Argentino" partirono per l'esplorazione delle "Missiones", un territorio compreso tra i fiumi Iguazù a nord, il Paranà ad ovest, il Paraguay a sud ed il rio Pepiri-guazù ad est. Percorsero il fiume Paranà sino a Posadas; poi risalirono fino al fiume Iguazù. Esplorarono per fiumi e per terre il territorio circostante a nord, est, ovest e sud.
Arrivarono fino alle cascate Guairà, poi tornarono a sud ovest. Percorsero il fiume Iguazù fino alle cascate Vittoria.Avevano esplorato non solo le "Missiones" ma l'Alto Paraguay, il corso dei fiumi Paranà, Iguazù, Itambe-Guazù e le province brasiliane del Guayrà e del Mato Grosso. Da Buenos Aires a bordo del "Valparaiso" ripartì il 29 gennaio 1884 per la Terra del Fuoco.
Esplorò ancora l'isola degli Stati, proponendo al governo argentino di fondare una stazione di salvataggio ed erigere un faro.
Incontrò il popolo dei Patagoni e fece studi su di loro e sulla loro civiltà.
Tornò in Italia con 25 grandi casse di materiale antropologico, etnografico, zoologico e botanico. A questa spedizione che fece con la moglie Luisa, parteciparono anche Sarmiento che fu poi più volte presidente della Repubblica Argentina ed Edmondo De Amicis che già si trovava in sud America.
LA SPEDIZIONE IN AFRICA
Il 2 dicembre 1885 Giacomo Bove partì assieme al capitano Fabrello e al dott. Stessano, da Liverpool sul vapore “Landana” dell’African Steam Ship Company diretto in Congo.
Costeggiarono l’isola di Madeira poi puntarono sulle Canarie dove fecero rifornimento di viveri. Il 19 dicembre costeggiarono la Sierra Leone.
A tal proposito BOVE descrisse la bellezza dei luoghi ma disse che la Sierra Leone era il luogo più malsano di tutta la costa occidentale d’Africa. Superata la costa della Liberia, giunsero all’isola di S. Tome’ ed in Gabon. Il 17 dicembre 1886 arrivarono alla foce del Congo. Durante tutta la stagione delle piogge, fino ad Aprile, esplorarono il “Basso Congo”.
Bove cercò di conoscere il territorio, il commercio e le nazioni che già lì lo praticavano, per promuovere un futuro commercio per l’Italia.
Chiese anche al Governatore una carovana per proseguire il viaggio. Ostacolati dai funzionari di Stato (Bove esprime una sua considerazione su ciò), dovette attendere la carovana sino al 2 Giugno poi partì per l’esplorazione dell’Alto Congo… Leopoldville, Brazzaville e dintorni… fino sulla foce del fiume Kasa, il più grande affluente del Congo. Navigarono con grandissime difficoltà sino all’Equatore, nella zona dove viveva ancora l’esploratore Stanley con la popolazione dei Bangala.
Si spinsero anche più a Nord, fino alle cascate di Stanley dove trovarono tribù in guerra contro gli Arabi arrivati fin là dall’Oceano Indiano. Ripresero poi la via del ritorno poiché il cap. Fabrello fu assalito da febbri violente e furono costretti a trasportarlo per gran parte del viaggio. Il 17 ottobre si imbarcarono per l’Europa. Anche Giacomo accusava i sintomi di quel malessere che lo avrebbe purtroppo portato alla morte.
Piergiorgio RICOTTI
Rapallo, 17 Maggio 2022
QUANDO LA MARINA MILITARE EBBE IL SUO PITTORE DI CORTE
QUANDO LA MARINA MILITARE ITALIANA EBBE IL SUO PITTORE DI CORTE
RUDOLF CLAUDUS
Il sito di Mare Nostrum Rapallo, come sapete, ha dedicato molti articoli ai più famosi Pittori di Marina e, verso di loro, in oltre 30 anni di attività, abbiamo riscontrato una progressiva crescita d’interesse da parte dei nostri followers a giudicare dalle loro “visite” e dai molti lusinghieri commenti per le nostre modestissime ricerche. Tuttavia ci corre l’obbligo, ancora una volta, di precisare che non siamo né critici d’Arte né tantomeno guide artistiche, ma semplici divulgatori che lasciano ad ognuno la libertà d’interpretare le opere presentate. Per noi vale soltanto un semplice principio:
IL MARE ED IL MONDO CHE LO ANIMA FIN DALL’ANTICHITA’ PIU’ REMOTA, SONO FONTE D’ISPIRAZIONE PER QUEGLI ARTISTI CHE NASCONO CON IL MARE DENTRO. UN MONDO FANTASTICO DI CUI DESIDERIAMO ARDENTEMENTE FARNE PARTE CON TUTTI I NOSTRI LIMITI DI CONOSCENZA E SENSIBILITA’ ARTISTICA.
A breve creeremo una speciale sezione che chiameremo ARTE-MARE, nella quale sarà più facile “navigare” alla ricerca di quei PITTORI MARINISTI che hanno lasciato il “segno” durante la loro avventura terrena.
RUDOLF CLAUDUS
Così lo ha descritto con grande efficacia Francesco Salvatore Cagnazzo:
Onde, colori, navi e intense sfumature di malinconia: il tratto, l’intensità, il freddo calore del mare delle opere di Rudolf Claudus si riconoscerebbero tra centinaia di artisti. E’ sempre lui il protagonista, tra onde ed imbarcazioni, nuvole e guerre. Un mare che abbraccia tutto, che protegge e che osserva, rapito e a volte divertito, le vicende dell’uomo.
Il compianto amico pittore di marina Marco LOCCI dinanzi ad una esposizione di quadri dell’artista in un salone della M.M. di Spezia mi fece notare che:
“… Claudus è stato un pittore unico, originale e geniale che ha saputo celebrare l’eroismo italiano della guerra sui mari nella sua atmosfera “verista” fatta di luci bianche, lampi di speranza, e ombre scure minacciose di morte… La sua vocazione fu da sempre la pittura, Claudus lavorò infatti prevalentemente su incarichi ufficiali, dipingendo opere celebrative e riproducendo battaglie storiche
o navi da guerra a lui contemporanee”.
Dipinse per il palazzo della Marina di Roma, per l’Accademia navale di Livorno, per il circolo dell’Ammiragliato di Venezia e di Napoli. Richieste di opere, oltre trenta, gli pervennero dal presidente degli Stati Uniti Roosevelt e dalla regina Elena.
Rudolf Claudus - Nave Amerigo Vespucci
Riportiamo la biografia dell’artista che, tra le tante prodotte, ci è parsa la più idonea al nostro scopo:
RUDOLF CLAUDUS, 1893-1964 – Il suo vero cognome è Rudolf von Klaudus.
Il 23 aprile 1893, Odenburg ora Sopron vicino Vienna, diede i natali a Rudolf Claudus. Non sono molte le notizie sulla sua infanzia: il padre era un ufficiale dell'esercito; importante per la sua vita fu la figura dello zio, l'ammiraglio Sternek della marina imperiale austro-ungarica.
Da ragazzo era evidente in lui l’attitudine al disegno che lo portò a frequentare gli studi di alcuni pittori dai quali apprese i rudimenti del mestiere. La sua vocazione era l’arte marinista che corrispondeva al suo amore per il mare. Alla fine della prima guerra mondiale fu a Pola – Istria ed entrò in amicizia con gli ufficiali della Marina italiana: iniziò così un lungo periodo di collaborazione con la Marina italiana di cui divenne in pratica il pittore ufficiale. In circa mezzo secolo di sodalizio ha realizzato centinaia di opere destinate ad ornare le sale di navi e Circoli, stanze di rappresentanza dei palazzi della Marina e per essere donate alle Autorità in occasioni di manifestazioni ufficiali.
Rudolf Claudus - Il Regio esploratore Venezia
ALLA CORTE DEL PRESIDENTE ROOSEVELT
Nel 1935 il presidente Roosevelt lo chiamò negli USA riconoscendo il suo talento. Di questo periodo sono i dipinti sugli aspetti navali della guerra d'indipendenza americana per la Galleria Elisabettiana di Washington e gli splendidi acquarelli per l'Accademia Navale di Annapolis.
Dal 1936 al 1940 Claudus fu a Spezia e ospite presso il Circolo di Marina dove si dedicò a decorarne le sale; ugualmente adornò gli interni delle più importanti navi della squadra. La Regina Elena sul finire del 1941 gli commissionò sessanta dipinti per la raccolta dei Savoia che riprendevano episodi di storia navale della Real Casa.
Per la seconda volta visse un conflitto mondiale. Lavorò anche a Taranto e per la Marina studiò la mimetizzazione della livrea delle navi. Al riguardo Claudus suggerì una serie di schemi "alterativi" complessi e di sicuro interesse per le mimetiche navali italiane ad una commissione organizzata dalla Regia Marina nell'ambito della Direzione delle Costruzioni Navali e Meccaniche (MARICOST). Mimetiche navali che vennero applicate su diverse unità navali, le navi da battaglia Cesare e Doria, gli incrociatori Attendolo, Trento e Garibaldi e i cacciatorpediniere Ascari e Zeno.
Rudolf Claudus – La Regia nave da battaglia DUILIO in navigazione
DALLA PRIGIONE ALLA ROYAL NAVY
Dopo l’8 settembre 1943 finisce in prigione a Genova, per non aver aderito all'Anschluss. Liberato nel dopoguerra è ospite della Royal Navy e subito ricomincia a lavorare, alcuni suoi quadri sono oggi in Inghilterra.
Dal 1947 al 1953 Claudus venne ospitato dall'Accademia Navale a Livorno e la sua attività riprese frenetica. Molte delle sue opere furono oggetto di dono a personalità come re Faruk, il presidente del Venezuela, il presidente Kennedy, il re di Danimarca, lo Scià di Persia e molti altri. Nel 1956 si trasferisce a Gallese in provincia di Viterbo e precisamente nella proprietà di S. Famiano invitato dal colonnello dei Carabinieri Giuseppe Calzavara, ufficiale del Comando Supremo di allora. Frequentando il mulino della famiglia Severini, completò la sua produzione con opere di soggetto diverso, scene di trebbiatura, pranzi in campagna, nature morte, fiori di campo o quadri ispirati agli scorci di Roma.
Vive così il grande maestro marinista fino alla sua morte avvenuta a Roma, l'11 aprile del 1964. Ha lasciato opere che nel tempo hanno acquistato sempre più apprezzamento e valore. Di recente nel comune di Gallese gli è stata intestata una strada.
Entriamo brevemente e in punta di piedi nel suo spirito artistico citando alcuni passaggi rubati qua e là…:
“Può sembrare che nei quadri di Claudus appaia talvolta qualche eccesso di retorica. Si intuisce l’intento celebrativo. È vero e ciò fa parte del momento storico e della necessità di soddisfare l’esigenza del committente, ma nonostante questo, e potrebbe sembrare un paradosso, Claudus riesce a essere semplicemente verista. Come diceva Giovanni Fattori: “Quando all’arte si leva il verismo, che resta?” Ma quello che soprattutto si percepisce nei dipinti di Claudus è l’aria di mare, l’aria di bordo, la sensazione olfattiva che si prova nelle basi quando le navi possono raccogliere una messe di odori caratteristici e compositi, indescrivibili a chi non abbia vissuto, anche per poco, in quell’ambiente. I soggetti navali e umani dell’artista hanno un’ambientazione naturalistica tutt’altro che secondaria.
L’ammiraglio americano Robert Carney, dopo avere ricevuto un suo quadro, scrive al pittore: “Nessuno potrebbe dipingere il mare come Voi, senza un’appassionata conoscenza di ciò che esso significa e ciò che rappresenta per gli uomini che vi hanno vissuto…”. Un amico di Claudus, invece, ci riferisce due frasi del pittore emblematiche del suo modo di intendere la pittura: “Il mare è buono e bello, ma non perdona, neppure sulla tela!” e, ancora, “Vedi, se uno è aviatore devo disegnarlo uccello, se è sommozzatore, pesce, se navigante, lupo, se operaio d’officina, Vulcano… l’importante è che siano belli, belli e nello stesso tempo spaventosi”. E così li ha fatti, sino all’ultimo giorno, quando la morte lo coglie ancora all’opera, con vari dipinti simultaneamente in lavorazione, l’11 aprile del 1964”.
Rudolf CLaudus – Alto mare
Rudolf Claudus - Il Mare di Nervi
Rudolf Claudus - Il Regio incrociatore Giuseppe Garibaldi nei primi anni di servizio
Rudolf Claudus - La Regia corazzata Giulio Cesare a Punta Stilo
Rudolf Claudus - La Regia corazzata Giulio Cesare a Punta Stilo
Rudolf Claudus - “Marina con nave da guerra” – 1943
Rudolf Claudus - L'azione della torpediniera LUPO in Egeo contro 2 incrociatori e 4 caccia britannici il 21 maggio 1941
I quadri di Rudolf von CLAUDUS sotto riportati si riferiscono all’Impresa di Alessandria (18 – 19 dicembre 1941)
GLI EROI DI ALESSANDRIA
di Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/alessandria/
1942: lo SCIRE’ con i contenitori per tre mezzi d'assalto SLC (siluri a lenta corsa) sul ponte di coperta
Le immagini dei dipinti che seguono sono, a mio modestissimo parere, di una bellezza infinita. Chiedo scusa per volermi “sfacciatamente” addentrare in ambiti altrui… ma l’atmosfera intensa che CLAUDUS riesce a creare nelle azioni belliche più ardite, hanno uno stile indescrivibile che definirei cinematografico. Le figure umane senza volto si confondono con le loro “armi” mimetiche e si esaltano negli sbalzi di luce anche sott’acqua dove l’azione distruttiva prende vigore ed emana una straordinaria freddezza, precisione e coraggio.
Rudolf Claudus - Operatori di SLC mentre estraggono i mezzi dai contenitori sul sommergibile SCIRE’
Rudolf Claudus - Saliti a cavalcioni dei siluri a lenta corsa, gli operatori, salutati dal sommergibile, iniziano la navigazione verso gli obiettivi.
Rudolf Claudus - Operatori di SLC nell'intento di tagliare una rete di ostruzione
Rudolf Claudus - Operatori di SLC nel momento di fissaggio dei "sergenti" alle alette antirollio
Rudolf Claudus - Operatori di SLC si apprestano a sospendere la carica esplosiva sotto la chiglia dell'obiettivo
Rudolf Claudus - Porto di Alessandria d'Egitto: l'esplosione dei SLC sotto la HMS Queen Elizabeth e la HMS Valiant osservata da un assaltatore.
Rudolf Claudus - Porto di Alessandria d'Egitto: i marinai inglesi abbandonano la HMS Queen Elizabeth e HMS Valiant in affondamento dopo essere state attaccate dagli operatori della Xa MAS.
LUIGI FAGGIONI, UN EROE CHIAVARESE A SUDA (GRECIA)
di Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/un-eroe-chiavarese-a-suda-grecia/
Rudolf Claudus - Attacco alla baia di Suda: gli operatori degli MTM stanno superando l'ultima ostruzione retale.
Rudolf Claudus - Attacco alla baia di Suda: l'operatore del MTM ha lanciato verso l'incrociatore HMS York il proprio battello e lo abbandona.
Rudolf Claudus - Attacco alla baia di Suda: esplosione di un barchino conto la HMS York osservato da un operatore sul battello di salvataggio.
26 Luglio 1941 – Attacco alla fortezza di Malta
MARINA MILITARE
https://www.marina.difesa.it/media-cultura/Notiziario-online/Pagine/20210726_26_luglio_1941_Attacco_alla_fortezza_di_Malta.aspx
nel dipinto di Rudolf CLAUDUS
Rudolf Claudus - Attacco a Malta: crollo della campata del ponte di Sant'Elmo
OLTERRA-UN CAMOGLINO NELLA TANA DEL LUPO
di Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/de-negri/
Operatori della Xa MAS fuoriescono dal piroscafo Olterra ad Algeciras per attaccare navi nella rada di Gibilterra
Nel dipinto di Rudolf CLAUDUS
Rudolf Claudus - Torpediniera Lince in navigazione
Rudolf Claudus - Corazzata Giulio Cesare a Punta Stilo
http://www.regiamarina.net/detail_text_with_list.asp?nid=35&lid=2
REGIA MARINA ITALIANA - di Cristiano D’Adamo
Carlo GATTI
Rapallo, 11.5.2021
LA TRAGEDIA DELLA PETROLIERA "LUISA" - FU UNA SCONFITTA DELLA SOLIDARIETA'?
LA TRAGEDIA DELLA PETROLIERA ITALIANA "LUISA"
Fu una sconfitta della solidarietà umana?
Tra i tanti articoli trovati sul web ho scelto quello della brava giornalista Agata Sandrone che, a distanza di 50 anni, ha saputo raccontare con maestria le varie fasi dal tragico naufragio della petroliera italiana LUISA, non tralasciando l’aspetto emozionale che ancora oggi ci riempie di commozione.
Per alcuni di noi il nome Luisa può sembrare un nome proprio di una bella ragazza. Non è così se lo associamo alla tragedia del 5 Giugno 1965. “Luisa” era una bellissima petroliera iscritta al compartimento di Palermo, ma era di proprietà di una società veneziana, la Cosarma. La petroliera da 31mila tonnellate fu distrutta da un gigantesco rogo a Bandar Mashous, nel golfo Persico. Nella Luisa c’erano 41 marinai, tra cui 17 Siciliani e 9 Palermitani; tra questi marinai 4 facevano parte della borgata di Sferracavallo: Vincenzo Giammanco, Ignazio Vassallo, Salvatore Cricchio e Nicola Favaloro e Lo Bello Francesco di Isola delle Femmine. La petroliera Luisa era giunta a Bandar Mashur, il più importante porto per l’esportazione del petrolio iraniano. Era stata noleggiata dal consorzio petrolifero iraniano e stava effettuando al molo 1 un carico di 25.000 tonnellate di greggio destinato all’Italia. E’ stato proprio al completamento delle operazioni che nella caldaia della nave si è verificato un esplosione. Tempestive sono state le manovre del comandante per allontanare la nave dal molo, evitando così che le fiamme giungessero ai magazzini del porto. Con questo disperato tentativo scongiurò una catastrofe peggiore. La nave in fiamme si allontanò sempre più dal porto, cominciandosi a inclinare fino a capovolgersi. Le fiamme invasero il mare e anche se i marinai si fossero buttati in acqua sarebbero stati accerchiati dalle fiamme.
Alla fine la Luisa affondò e ventotto dei quarantuno membri dell’equipaggio persero la vita, tra questi tre marinai di Sferracavallo e il povero ragazzo isolano. L’unico scampato, ma bruciato in gran parte del corpo, fu Nicola Favaloro un mozzo di appena 19 anni. I familiari e l’intera borgata appresero la notizia della terribile tragedia alla radio e quando la madre sentì il nome del figlio svenne. Pochi metri accanto, in un’altra modesta abitazione, la famiglia di Vincenzo Giammanco di 40 anni, fuochista, scoppiava in un pianto dirotto: il loro Vincenzo era stato ucciso nella terribile esplosione, lasciando la moglie Dora e due figli molto piccoli. Così pure la famiglia di Ignazio Vassallo di 49 anni cadde nel profondo dolore. Anche lui lasciò moglie e figli. Ignazio era un uomo molto scrupoloso nel compimento dei suoi doveri ed era costretto a vivere spesso lontano dalla famiglia per motivi di lavoro. Come il povero Salvatore Cricchio di 27 anni, motorista, il più piccolo di nove figli (da tutti veniva chiamato Turiddu) che apparteneva ad una famiglia di pescatori che abitavano alla zotta; lasciò i suoi genitori e la fidanzata, che era prossima a diventare sua moglie. Dopo qualche mese per il padre Vincenzo fu talmente grande il dolore che il giorno di Natale lo trovarono morto inginocchiato davanti alla foto del figlio.
Nella borgata di Sferracavallo e negli altri paesi della Sicilia da dove partirono i poveri marinai, furono svolti i funerali senza le salme dei propri cari. I resti umani che furono ritrovati non hanno dato la possibilità risalire ad un’identificazione e quindi furono posti con unica sepoltura al cimitero di Venezia, luogo deciso dalla società Cosarma.
Il 4 Giugno 2015, prima di sera, nel porto di Sferracavallo il parroco della borgata, Massimo Pernice, ha celebrato una messa per ricordare le vittime della petroliera Luisa incendiatasi il 5 Giugno 1965 nel golfo Persico. Nel ricordo dei nostri tre compaesani e di un ragazzo di Isola delle Femmine, periti in quell’occasione, è stata lanciata in mare una corona di fiori.
Agata Sandrone
Il primo marittimo della lista delle vittime: Lazzaro PARODI di Varazze, era il Comandante della LUISA. Unico ligure nel Ruolino Equipaggio della nave.
La T/n LUISA era stata costruita nei primi anni ’60, al momento del disastro era praticamente nuova, moderna, veloce e molto sicura. Le sue sister ships navigarono fino alla pensione.
In questa mappa del Golfo Persico, il cerchio rosso più alto indica il porto del Golfo Persico dove è avvenuta l’esplosione ed il successivo affondamento della LUISA nella rada antistante.
Purtroppo, della tragedia della T/c LUISA non ci è pervenuta alcuna testimonianza e/o relazione scritta dell’accaduto. A distanza di tanti anni non si sa praticamente nulla delle cause che produssero tanti morti, dolore e costernazione tra i familiari delle vittime, ma anche tra i tanti marittimi che si sono sentiti vicini a questi EROI del mare che incontrarono la morte in circostanze che forse si potevano evitare. Morire in mare in acque portuali o comunque davanti alla costa è inspiegabile per non dire inaccettabile! Purtroppo la letteratura marinara è ferita anche da questi casi non del tutto rari!
Dobbiamo fare una precisazione. All’epoca dell’incidente della T/n LUISA, il porto iraniano che fu teatro del naufragio della nave italiana si chiamava Bandar Shahpur. (Bandar significa Porto).
Tutti i reportage giornalistici dell’epoca usano infatti quel nome, così come noi ex naviganti anche di petroliere, continuiamo a ricordarlo con quel toponimo. Tuttavia va registrato che, in seguito alla rivoluzione del 1979, quel complesso portuale prese il nome dell'ayatollah Khomeini, diventando: Bandar-e Emam Khomeyni.
Una dozzina di chilometri a est del porto di Bandar-e Emam Khomeyni si trova il porto petrolifero di Bandar-e Mahshar; in quel distretto portuale petrolifero era attraccata la LUISA al momento dell’esplosione in Sala Macchine.
La foto (sopra) si riferisce all’impianto petrolifero di Bandar-e Mahshahr. In una di queste banchine a T era ormeggiata la T/n LUISA.
In questa mappa della parte più a Nord del Golfo Persico, è rappresentato l’intero complesso portuale iraniano che fu teatro della tragedia della T/n LUISA.
Nelle foto sotto abbiamo recuperato le foto del locale Porto Petroli iraniano.
A sinistra della foto si erge la Torre antincendio del tipo simile a quelle installate nel Porto Petroli di Multedo-Genova
COMMENTO
Sono passati 57 anni da quel tragico avvenimento del quale, per mancanza di testimonianze orali e scritte dell’equipaggio italiano, non si è mai neppure sfiorata la VERITA’ su quanto successe veramente quel giorno.
Ci furono sicuramente inchieste da parte delle Autorità Portuali e Marittime che ebbero lo scopo di salvaguardare gli interessi iraniani per recuperare il denaro necessario a riparare i danni compiuti dalla nave italiana alle strutture portuali.
Purtroppo, come sanno coloro che hanno “navigato” in questi ambienti, certi fatti si mettono a tacere nel più breve tempo possibile. Questo è il compito principale delle Società di Assicurazioni delle navi e del carico che trasportano; le eventuali controversie che sorgono tra le parti vengono regolate “silenziosamente” nell’interesse generale del trasporto petrolifero quale LINFA indispensabile e necessaria che alimenta l’intero circuito economico-industriale del mondo intero.
THE SHOW MUST GO ON – L’esempio di questo “sistema” tuttora in atto, lo abbiamo sotto gli occhi in questi giorni di guerra tra la Federazione russa e l'Ucraina che ci mostra quanto sia preziosa una certa fonte energetica e quanto essa possa incidere sull’economia locale e globale degli Stati industrializzati.
Nel 1965 il Porto iraniano di Bandar Mashur era, ma lo è tuttora, uno fra i principali “distributori” di Petrolio del Golfo Persico. Chi ha navigato sulle petroliere in quel periodo, come il sottoscritto e molti soci di M.N., ricorda i lunghi convogli di petroliere di tutte le bandiere transitare nel Canale di Suez e accodarsi in fila indiana nel Golfo Persico e poi dividersi per andare a caricare il crude Oil nei vari porti di produzione nel Kuwait, Arabia Saudita, Iran e Irak per poi trasportarlo verso l’affamata Europa, Sud Africa ed Estremo Oriente ed altre nazioni in espansione economica.
Naturalmente in Italia e nel mondo “assetato” di petrolio, esistevano ed esistono tuttora altrettanti porti petroliferi attrezzati con gli stessi impianti molto tecnologici del Golfo Persico che, una volta acquisito il “prodotto”, lo pompano verso le raffinerie che lo trasformano nelle varie benzine e molti altri prodotti chimici che vengono poi smistati via mare e su gomma verso le città e le zone industriali del nostro paese.
Le Sette Sorelle Americane governavano allora l’intero mondo petrolifero, e da loro provenivano anche i modelli architettonici di banchine portuali e impianti di pompaggio nonché l’insieme delle normative legate alla loro sicurezza e a quella delle navi operative in banchina.
Ho descritto con brevi annotazioni il circuito petrolifero internazionale per entrare nell’argomento SICUREZZA, con lo scopo di mettere a confronto il comportamento tenuto dall’Autorità portuale di Bandar Mashur con le PROCEDURE messe in atto dalle Autorità del Porto Petroli di Multedo-Genova il quale si trovò ad affrontare un caso analogo a quello accaduto alla T/n LUISA.
L’incidente cui mi riferisco, successe il 12.7.1981 alla petroliera giapponese “HAKUYOH MARU” che fu colpita improvvisamente da un fulmine mentre si trovava sotto discarica nella banchina denominata “Pontile GAMMA”, lato di Ponente del Porto Petroli di Multedo-GE.
“Purtroppo si dovette registrare la morte di quattro membri dell’equipaggio della petroliera giapponese Hakuyoh Maru, ma anche di un tecnico della SNAM e di un guardiano di bordo”.
FATTO GRAVISSIMO! Ma come potrete leggere tra breve, l’Autorità portuale genovese fu in grado di limitare i danni prendendo decisioni immediate, sensate e soprattutto MARINARESCHE.
-
Fu subito evacuato il personale di bordo, sbarcato, allontanato dalla nave e messo in sicurezza.
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La nave fu sottoposta ad un immediato BOMBARDAMENTO di prodotti antincendio dalle TORRI situate lungo la banchina e dotate di potentissimi cannoni “telecomandati” da apposite cabine esterne al perimetro delle banchine operative. La nave fu immediatamente circondata dai mezzi antincendio dei Pompieri e dai Rimorchiatori dotati di spingarde. Questi mezzi rimasero a lungo sotto lo scafo per raffreddarlo evitando ulteriori esplosioni.
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Nei 45 minuti successivi la prima esplosione, ben CINQUE NAVI ormeggiate alle banchine limitrofe furono portate in rada, in totale emergenza, dai servizi portuali: Piloti, Rimorchiatori e Ormeggiatori. La “fuga” dal porto fu programmata e realizzata tempestivamente scegliendo le petroliere che si trovavano più vicine alla Hakuyoh Maru perchè erano già pericolosamente surriscaldate: “da far bruciare i piedi”! - Come ebbe a testimoniare il Pilota Giancarlo Cerutti.
In queste due foto (sotto) del Porto Petroli genovese si notano chiaramente, ai lati dei pantografi di scaricazione, le Torri antincendio (pitturate di rosso) poste lungo la banchina a ridosso della petroliera, da cui si può dedurre anche visivamente, che il posto più sicuro per DOMARE l’incendio su una nave altamente pericolosa, sia il PORTO che la ospita, purché sia dovutamente attrezzato ed organizzato.
Ecco il LINK che v’invito a leggere:
HAKUYOH MARU – ESPLODE A GENOVA, 12.7.1981
https://www.marenostrumrapallo.it/hakuyoh-maru-esplode-a-genova-12-7-1981/
Nell’Articolo troverete una documentazione fotografica di eccezionale valore documentale.
Desidero concludere questo “commento” con una amara considerazione da uomo “navigato”, prima come ufficiale a bordo di cinque petroliere poi, per otto anni al comando di rimorchiatori portuali ed alto-mare inanellando salvataggi, disincagli ed anche interventi anti-incendi a Genova e nel Porto Petroli di Multedo. Terminai la mia carriera dopo 25 anni da Pilota del Porto di Genova, nello stesso ambito portuale in cui ho continuato a maturare le più svariate esperienze attraverso “celebri naufragi” - dalla “LONDON VALOUR” alla “HAVEN” e molti altri che ebbero, al contrario, un epilogo a lieto fine.
“Ognuno ha il suo destino” – Uso rispondere ai miei Amici quando mi fanno osservare che in tutta la loro carriera da Comandanti, non gli è mai successo nulla di notevole da tramandare ai posteri …!
Dopo questa premessa che allude alla mia esperienza di “Comandante sfigato” (per scelta), ritengo immodestamente di poter esprimere un mio pensiero al riguardo:
L’equipaggio della LUISA è stato vittima di molte circostanze negative, tra cui la disorganizzazione e l’impreparazione tecnica delle Autorità iraniane che non pensarono minimamente, e prima di tutto, alla salvaguardia della vita di quel povero equipaggio, COSTRETTO – suppongo - ad allontanarsi con la propria nave dalla banchina mentre era sotto incendio, in progressivo sbandamento e nel contempo in navigazione di manovra.
Ripeto, nonostante le molte ricerche effettuate, non sono riuscito a leggere una relazione del Naufragio della petroliera LUISA.
Non spetta quindi a me dare giudizi di alcun tipo, ma il pensiero che L’equipaggio della LUISA sia stato abbandonato al proprio destino lo penso ormai da 57 anni!
Anche il Porto di Multedo, come si vede dalle foto sopra, è circondato da "pericolosi" serbatoi e da un corposo centro abitato, sicuramente più popolato di Bandar Mashur.
Purtroppo, in quella tristissima giornata di 57 anni fa “qualcuno”, in quel lontano porto iraniano, pensò che era meglio non rischiare l'incendio di alcune strutture portuali e decise di condannare a morte un EQUIPAGGIO con la sua nave. Ancora oggi si preferisce definire EROICO il comportamento di quelle vittime che in realtà morirono a causa di decisioni sbagliate dal punto di vista tecnico, marinaresco ma soprattutto umanitario.
Qualcuno scrisse: “Il primo grado dell'eroismo è vincere la paura" . Sia a Bandar Mashur che a Genova-Multedo abbiamo visto in azione dei veri EROI, ma con una differenza: che i primi sapevano d'incontrare la morte; i secondi, pur conoscendo i rischi, hanno POTUTO lottare per evitarla.
Carlo GATTI
Rapallo, 5 Maggio 2022
HAKUYOH MARU - ESPLODE A GENOVA, 12.7.1981
HAKUYOH MARU - ESPLODE A GENOVA, 12.7.1981
GENOVA
(Porto Petroli Multedo)
12.7.1981
INCENDIO – ESPLOSIONE
della super-petroliera giapponese
“HAKUYOH MARU”
Nave |
Bandiera |
StazzaL. |
Portata |
LunxLar |
Anno Costr. |
Hakuyoh M. |
Giap. |
59.060 |
93.425 |
281 x 46 |
– |
Ante Banina |
Iugosl. |
55.875 |
81.188 |
244 x 42 |
1980 |
I.Prosperity |
Liberia |
42.605 |
89.479 |
254 x 39 |
1975 |
S.Ferruzzi |
Italiana |
29.081 |
50.482 |
195 x 32 |
1981 |
Luogo dell’incidente
All’interno del Porto Petroli di Multedo-Genova.
Causa dell’incidente
Un fulmine cade sulla petroliera che, ultimata la discarica di crude–oil sta pompando zavorra in previsione della partenza, già fissata per il tardo pomeriggio.
Testimonianza
Da “I Piloti della Lanterna” di Stefano Galleano, riportiamo:
– Il pilota di guardia Giancarlo Cerutti, così ci ha raccontato l’avvenimento: “Alle 14.50 ho visto un fulmine cadere sulla Hakuyoh Maru e dopo tre secondi la petroliera veniva squarciata da una tremenda esplosione con getto di rottami a grande distanza. Nel contempo si sprigionavano dalla cisterna alte colonne di fiamme e fumo densissimo.”
Comandante Giancarlo CERUTTI – Pilota del Porto di Genova
Nato ad Alassio il 3 Dicembre 1937, la passione per il mare arriva in modo naturale, la barca a vela e la pesca subacquea lo attraggono subito. Frequenta l’Istituto tecnico nautico Statale “Leon Pancaldo” di Savona, dove nell’anno 1955/56 si diploma Capitano di Lungo Corso. Dopo il diploma frequenta il 51° corso Allievi Ufficiali presso l’Accademia Navale di Livorno e ne esce come Guardiamarina. Inizia la sua carriera da terzo ufficiale, per ricevere 6 anni dopo il suo primo Comando. È l’inizio di una vita da Comandante. Nel 1971 vince il concorso per Piloti nel porto di Genova dove rimarrà fino al 1998. Un grande comandante, ricordato dai “lupi di mare” per essere stato l’eroe della Haven, che affondò tristemente al largo della costa tra Arenzano e Varazze.
Appena fu possibile, Cerutti contattò la Stazione Piloti richiedendo l’invio di altri colleghi per provvedere allo sgombero del porto.
Infatti si trovavano, sotto discarica ai pontili, altre quattro navi mentre una quinta era in allestimento all’Italcantieri.
“Ordinavo al timoniere Ottonello di dirigere a tutta forza verso il pontile Delta ponente dove stava bruciando la Hakuyoh Maru e dove al lato opposto, cioè al pontile Delta levante, era ormeggiata la Ante Banina ritenendo che detta petroliera, avendo scaricato il prodotto ed essendo lambita dalle fiamme sospinte da una leggera brezza da ponente, fosse quella con maggior pericolo di esplosione. Durante il tragitto, contattavo via VHF il comandante della Ante Banina e gli suggerivo di cominciare urgentemente a filare per per occhio in mare i cavi d’ormeggio, soprattutto a prora dove nessuna persona sarebbe stata in grado di mollare o tagliare i cavi dalle bitte del pontile, dato il fumo e le fiamme che sempre spinte dalla brezza di ponente, lambivano il pontile e la petroliera stessa”.
Operazioni di Salvataggio
Porto Petroli di Multedo
Da sinistra: Molo di Ponente, Pontile Alfa, Pontile Beta, Pontile Gamma, Pontile Delta. Ogni Pontile ha il lato d’ormeggio di Ponente ed il lato di Levante.
“Alle 15.00 sono salito a bordo della Ante Banina tramite una biscaglina di emergenza filata da una lancia di salvataggio. Mi sono reso conto del pericolo gravissimo che correva la nave e, d’accordo con il comandante, decidevo di lasciare l’ormeggio ed eseguire la manovra senza rimorchiatori, in quanto la manovra d’aggancio degli stessi avrebbe fatto perdere parecchio tempo e la nave sarebbe rimasta affiancata al pontile, come minimo, altri quindici o venti minuti esposta al tremendo calore sviluppato dalla petroliera in fiamme.”
12 Luglio 1981. Porto Petroli di Multedo (Ge): la petroliera HAKUYOH MARU, a sinistra nella foto, é appena esplosa. Allo stesso pontile GAMMA é ormeggiata la M/c ANTE BANINA che é investita dal fuoco della HAKUYOH MARU. Il Pilota Portuale Giancarlo Cerutti, vista la catastrofica situazione di una possibile esplosione della nave, del Porto Petroli e forse di una parte della città alle spalle, decide di salire a bordo per allontanare la ANTE BANINA in estrema emergenza. Sale a bordo tramite la biscaglina sistemata sul lato sinistro della nave. Il ponte di coperta della nave é già incandescente, ma il pilota ha il coraggio di salire sul ponte di comando e, dopo aver fatto tagliare tutti i cavi d’ormeggio, riesce ad allontanare la nave senza rimorchiatori attaccati al cavo, e portarla in sicurezza in rada.
In questo momento Il fuoco é pericolosamente vicino alla poppa della M/c “INDUSTRIAL PROSPERITY” ormeggiata al pontile BETA Ponente; notare a destra della foto la M/c “ANTE BANINA” dirigere in emergenza fuori del porto con il Pilota G.Cerutti a bordo.
Mentre Cerutti porta felicemente la Ante Banina in sicurezza fuori dal porto e dall’abitato di Multedo, i colleghi Giuseppe Verney e FrancescoMaggiolo, provenienti da Genova, si dirigono verso le navi Industrial Prosperity e Molara.
Nel frattempo giunge sul posto, il Capo Pilota Giuseppe Longo che unitamente al personale del Porto Petroli e della Capitaneria, contribuisce efficacemente all’organizzazione dei soccorsi.
Sbarcato dalla Ante Banina, Cerutti si porta a bordo della Devali ormeggiata al pontile Beta ponente. Una parte dell’equipaggio é in fuga… sulla banchina.
“Visto l’esiguo numero di gente al posto di manovra, lo stesso Comandante, dopo avermi avvisato, si reca di corsa a poppa per aiutare a mollare i cavi. Sul ponte rimango io ed il timoniere. A prora due marinai riescono, dando i cavi di terra mollati dagli Ormeggiatori, ad agganciare due rimorchiatori.”
Poco dopo le 16.00 la nave é libera anch’essa e può procedere verso l’ancoraggio sicuro nella rada.
Infine, verso le 17.00, esce dal Porto Petroli anche la Serafino Ferruzzi disormeggiata dall’Italcantieri con il pilota G. Verney.
Dal momento della caduta del fulmine sulla Hakuyoh Maru: 14.50, allo sbarco del pilota dalla Ferruzzi, sono trascorse due ore circa. In quell’arco di tempo cinque navi in condizioni di grave rischio: sono uscite dal Porto Petroli e messe in sicurezza.
–Ante Banina
– Industrial Prosperity
–Molara
-Devali 1° le quali pur non correndo pericolo immediato avrebbero potuto essere coinvolte nell’incendio, tuttora in corso della sfortunata Hakuyoh Maru.
–Serafino Ferruzzi, ormeggiata all’Italcantieri, avrebbe potuto correre seri rischi perché si trovava sottovento alla nave incendiata.
Questa operazione fu resa possibile grazie all’azione di tre piloti prontamente intervenuti e all’ausilio, spesso determinante e partecipe del personale dei rimorchiatori, di quello delle pilotine e degli ormeggiatori. Certo, non va taciuto l’intervento del personale di terra (Porto Petroli, Capitaneria, VV.FF.) nell’opera di spegnimento o di contenimento dell’incendio, ma senza la professionalità dei PILOTI nell’evacuazione delle altre navi cariche o in zavorra non inertizzata, i rischi corsi dalle installazioni portuali e, soprattutto dalle abitazioni del vicino centro di Multedo, sarebbero stati ben maggiori.
LE VITTIME
Purtroppo si dovette registrare la morte di quattro membri dell’equipaggio della petroliera giapponese Hakuyoh Maru ma anche di un tecnico della SNAM e di un guardiano di bordo.
I Protagonisti
Ai piloti, protagonisti di quella “calda” giornata vennero concesse le:
Medaglie al Valore di Marina
Giancarlo Cerutti (Argento)
Giuseppe Longo (Argento)
Giuseppe Verney (Argento)
Francesco Maggiolo (Bronzo)
A GIANCARLO CERUTTI venne assegnato il premio dall’Istituzione dei Cavalieri di Santo Stefano intitolato:
UNA VITA DEDICATA AL MARE
Questo è solo uno fra i tanti riconoscimenti ottenuti nella sua lunga carriera, a questo se ne aggiungono altri che elenchiamo:
Nel 1981 viene decorato con la Medaglia d’Argento al valore di Marina per il comportamento tenuto in occasione dell’incendio ed esplosione della petroliera Giapponese “Hakuyoh Maru” colpita da un fulmine nel porto di Genova/Multedo.
Nel 1983 gli viene assegnata la Targa d’argento da parte del Club Capitani di Mare di Milano, dal Collegio Naz. Patentati Cap.L.C. E D.M. Di Genova.
Nel 1985 gli viene assegnato il premio “Una vita dedicata al mare” da parte del “Sacro Militare Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano” di Pisa.
Nel 1991 gli viene assegnato il “Premio S. Giorgio” da parte dell’Associazione Nazionale Capitani di Genova.
Nel 1998 gli viene assegnato “Il Cuore della Vecchia Alassio” da parte della stessa Associazione.
Nel 2006 gli viene assegnato “L’Alassino d’oro” da parte del Comune della città di Alassio.
Attualmente, ritiratosi nella sua Alassio, non ha perso il suo interesse per il mare ed è docente presso la “Unitre” di Alassio, Università della Terza Età, per i corsi di “Astronomia e Navigazione”.
Ricordiamo che su questo stesso sito di Mare Notrum Rapallo ho dedicato al collega Giancarlo Cerutti la rievocazione dell’esplosione e successivo affondamento della superpetroliera HAVEN nella rada di Arenzano, avvenuta nel 1991, a dieci anni di distanza dalla esplosione della HAKUYOH MARU.
“Ho salvato diciotto marinai ma per favore non chiamatemi eroe”.
«QUEL pezzo di carta per me vale più di ogni medaglia». Ore undici, secondo piano della Torre Piloti di molo Giano. Giancarlo Cerutti, oggi pilota del porto in pensione, quell’11 aprile 1991 era in servizio a Multedo. Fu lui a raccogliere per primo il “may day” della Haven e a partire insieme al timoniere con la pilotina verso il largo. Per aver salvato diciotto marinai lanciatisi fra le fiamme della petroliera Cerutti venne decorato con la medaglia d’oro al Valor di Marina, la più alta onorificenza in tempo di pace. Ma la cosa che più inorgoglisce quest’uomo che ha lavorato per oltre quarant’anni prima di andare in pensione e ritirarsi ad Alassio, è un pezzo di carta: una lettera scritta a mano dal primo ufficiale della Haven che lo ringrazia, anche a nome di tutte le persone che Cerutti ha salvato. Quel pezzo di carta termina con queste parole: «…consentendoci di tornare alle nostre famiglie». A Giancarlo Cerutti é stato chiesto:
– “Comandante, si sente un eroe?” «Per carità, lasciamo perdere. Ho fatto l’unica cosa che dovevo fare, intervenire il più presto possibile. E se sono qui a raccontare quegli episodi è perché sono anche stato fortunato».
– “In che senso?” «La petroliera a fianco della Hakuyoh Maru poteva esplodere, ma siamo riusciti a toglierla in tempo dalla banchina a cui era ormeggiata. E la seconda esplosione, quando già eravamo sottocoperta, fece partire in orizzontale pezzi di ferro che avrebbero potuto distruggerci. Passarono a qualche metro di distanza».
– “Che cosa prova, a vent’ anni da quell’11 aprile 1991?”
«La stessa intensa emozione e un grosso rammarico, quello di aver visto morire davanti ai miei occhi tre ragazzi, gettatisi in acqua e subito travolti dalle fiamme. Non dimenticherò mai le loro parole, “Help pilot, help pilot”. Chiedevano aiuto, non ce l’abbiamo fatta».
– “Diciotto però li avete salvati”.
«Sì, a ripensarci ora, a distanza di vent’anni, mi vengono addirittura in mente episodi un po’ buffi. Li racconto adesso, anche per stemperare un po’ la tensione. Un marittimo indiano si era gettato in acqua con la valigetta e non se ne voleva assolutamente liberare. Era intriso di petrolio, lo sollevai per i capelli. Un altro invece ebbe un infarto una volta salito sulla pilotina. Ricordo che istintivamente gli diedi la mia giacca, per coprirlo. Quando tornai a terra mi venne in mente che dentro alla giaccia c’erano le chiavi di casa e anche quelle della torretta dei piloti. Non potei far altro che aspettare e dopo un paio d’ore venne la polizia a restituirmi la giacca».
ALBUM FOTOGRAFICO
La foto del primo allarme in porto il 12 luglio 1981 sulla petroliera giapponese Hakuyoh Maru.
Ecco come si é presentata la “coperta” della petroliera Hakuyoh Maru pochi giorni dopo l’esplosione avvenuta il 12 luglio 1981 a Multedo, agli ormeggiatori del porto che si sono recati a bordo in servizio sostitutivo di equipaggio: prima per il ripristino degli ormeggi, giacché la nave era pericolosamente inclinata, poi per il trasferimento dal pontile Delta, al campo boe dell’Italcantieri.
Questa immagine rende l’idea della Terrificante esplosione che ha letteralmente squarciato la coperta della HAKUYOH MARU.
Notare lo sbandamento della nave nelle foto sopra
A sinistra della nave il rimorchiatore PANAMA alla spinta durante il trasferimento del relitto al campo boe dell’Italcantieri.
TERMINAL PETROLI MULTEDO
Il terminale petrolifero di Genova Multedo é uno dei maggiori d’Italia e d’Europa. Insieme a Trieste e Marsiglia occupa una posizione di predominio nella movimentazione e nel traffico di prodotti petroliferi. In Italia é considerato prima dei porti di Augusta, Melilli e Sarroch che pur vantano un considerevole traffico. Il movimento di prodotti di Multedo é valutato nell’ordine di 30 milioni di tonnellate annue. Attraverso Multedo vengono alimentate le raffinerie più importanti del Nord Italia e per mezzo di oleodotti lunghi 2.000 km circa anche quelle della vicina Svizzera e della Germania. Multedo, che si estende per circa 345.000 mq di cui ben 134.000 di aree di terra, é stato realizzato a tappe a partire dagli anni 60. Esso si articola in un porto interno, ove trovano ormeggio fino a 10 navi in simultanea, e due strutture al largo per navi di grande tonnellaggio. Infondo al Porto Petroli vi sono le strutture del Cantiere Navale di Sestri Ponente e i pontili della Lega Navale, riservati alla nautica da diporto I pontili sono difesi dalle mareggiate dall’ampia spianata delle piste dello aeroporto C. Colombo e dalla diga foranea. Essi costituiscono autentici baluardi contro il mare. Il porto interno, oltre ai 4 pontili, ALFA-BETA-DELTA-GAMMA, dispone di ulteriori 4 accosti per navi con prodotti speciali, immediatamente a ridosso del molo Occidentale, sulla sinistra, appena entrati nel bacino petrolifero. Menzione a parte meritano i lavori di ristrutturazione da poco conclusisi, per garantire ulteriore e maggior sicurezza sia per l’ambiente primariamente, sia per le stesse navi, fattore determinante per un terminale cosi’ nevralgico.
INFRASTRUTTURE
Il porto Petroli di Genova é gestito dall’omonima Società per Azioni.
Il porto petroli si compone di una banchina e 4 pontili: la prima viene utilizzata per il carico/scarico di prodotti chimici. I 4 pontili, denominati alfa, beta, gamma e delta ed il primo dei quali risulta fuori servizio, servono per lo scarico del greggio e per il carico/scarico di prodotti lavorati.
Il pontile delta, presentando un pescaggio maggiore, può ospitare anche le più moderne petroliere. Tale pontile, però, presenta un problema connesso con il previsto spostamento verso mare dell’area occupata da Fincantieri esso dovrebbe passare fuori servizio, poiché le saldatrici non potrebbero stare così vicine ai prodotti trattati. Per colmare questa lacuna si è ipotizzata costruire una paratia tra Fincantieri e porto; il problema appare tuttavia rimandato a causa della crisi subita dal settore della cantieristica.
Un’ulteriore infrastruttura (Piattaforma) è costituita dall’ormeggio offshore, danneggiata nel 2008 da una mareggiata e da allora fuori uso, cui si aggiunge una boa monormeggio, anch’essa fuori servizio.
Una rete di oleodotti collega il porto petroli a diverse raffinerie del nord Italia e quella di Aigle, in Svizzera; tale rete consente di evitare qualsiasi attività di stoccaggio o trattamento dei prodotti petroliferi.
SISTEMI DI SICUREZZA
A causa dell’elevata infiammabilità dei prodotti trattati, il porto attua una severa politica per la sicurezza, che prevede un sistema antincendio con cannoni che gettano acqua di mare mista a schiumogeno, testati una volta al mese.
Alla base di ogni pontile è presente un bunker antincendio, dal quale gli operai, una volta rifugiati, possono eventualmente controllare tutti i cannoni ad acqua e schiumogeno.
In porto le navi hanno la consegna di tenere sempre i motori accesi, per essere pronte a mollare gli ormeggi e allontanarsi in caso di emergenza. Inoltre è prevista una prova mensile antincendio, con la partecipazione di tutto il personale del porto e dei vigili del fuoco interni e statali.
Tutti i pontili sono dotati di un cosiddetto “sentiero freddo”, un corridoio con muri d’acqua che in caso di incendio si attiva e consente la fuga delle persone presenti nell’area. Una norma antiterrorismo impone inoltre che tutto l’equipaggio delle navi venga trasportato in autobus dal pontile fino all’esterno del porto petroli.
Alcuni dati tecnici del Porto Petroli di Multedo (Genova).
A sinistra il Molo OVEST, operativo per piccole petroliere: Lunghezza =890 mt
W.1 – Lunghezza utile = 70 mt – Pescaggio 4,9 mt
W.2 – Lunghezza utile = 100 mt – Pescaggio 10,7 mt
W.3 – Lunghezza utile = 160 mt – Pescaggio 10,9 mt
W.4 – Lunghezza utile = 107 mt – Pescaggio 4,88 mt
Gli ormeggi W-1.2.3.4 sono destinati a navi con prodotti speciali, in particolare gli ormeggi W-2 e 3 sono dotati di cosiddetti PANTOGRAFI appositamente progettati per prodottiestremamentepericolosi.
Un ulteriore ormeggio e’ previsto fra le zone ALFA e BETA; esso e’ lungo 60 mt con una profondita’ di 5,3 mt.Tale ormeggio e’ riservato per carichi bituminosi e olii combustibili.
Seguono, sempre da sinistra verso destra, i pontili che possono ospitare petroliere sempre più grandi:
Il pontile ALFA (ponente e levante) Pescaggio = 11,5 mt – Lunghezza Utile= 214 mt (Lev)-242 mt (Pon)
Il pontile BETA (ponente e levante) Pescaggio =13,5 mt – Lunghezza Utile= 222 mt (Lev)-242 mt (Pon)
Il pontile GAMMA (ponente e levante) Pescaggio = 15,2 mt – Lunghezza Utile= 276 mt.(Lev)-256 mt (Pon)
Il pontile DELTA (ponente e levante) Pescaggio = 15,2 mt – Lunghezza Utile=325 mt (Lev)-330 mt (Pon)
Il Porto Petroli visto da terra. In alto, si può notare la vicinanza della pista di atterraggio dell’Aeroporto, il Canale di calma, la diga foranea e poi la rada.
Notare in questa immagine il “pantografo” che collega le linee di discarica della petroliera al pontile
L’autore di questo saggio ha avuto il grande PRIVILEGIO di essere collega del Pilota Giancarlo Cerutti (nella foto) per 25 anni. Come tutti i veri “uomini di mare”, Giancarlo non ama parlare di sé, ma soltanto del mondo del mare, di nuoto, di pesca subacquea, di navi, di amici di bordo, di Storia Navale mercantile/militare e di materie professionali. Il PILOTAGGIO per lui é sempre stato sinonimo di “missione” da compiere e, come si é visto, un “dovere” ancora più importante della sua stessa vita.
Da nessuna parte é scritto che il Pilota debba “rischiare la vita” – ma lui l’ha fatto! Non si é tirato indietro dinanzi al fuoco e alle esplosioni perché su quelle navi ed in mare tra le fiamme c’erano dei padri di famiglia. Giancarlo Cerutti é un fulgido testimone del grande passato marinaro del nostro Paese. Mi AUGURO che questo articolo sia letto e assimilato specialmente dai giovani che si accingono ad andare per mare affinché lo affrontino con lo spirito giusto, quello che ci ha testimoniato Giancarlo Cerutti: la vita di chiunque é sacra! Ma quella del “marittimo” lo é ancora di più!
La spiegazione sta nel concetto stesso di solidarietà di cui in terra si parla, ma in mare si applica. Oggi l’uomo di mare é il salvatore, il giorno dopo, lo stesso, potrebbe essere il salvato!
Eccovi in breve ciò che accadde alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, al pilota genovese Giorgio MORESCHI.
Per un errore di manovra della Pilotina, lo sfortunato Pilota cadde in mare mentre saliva sulla biscaglina di un cargo cinese. In pochi attimi il vento ed il mare lo schiacciarono contro la murata della nave abbrivata in avanti e, quando ormai Giorgio era a pochi metri dall’elica in moto, il Comandante cinese fermò all’ultimo istante il motore e quindi il propulsore.
Giorgio Moreschi rimase incastrato nella gabbia dell’elica e dovette seguire le infinite immersioni ed emersioni della poppa del cargo sottoposta a forte beccheggio. Il salvataggio fu lungo e doloroso, ma alla fine, il Pilota riuscì miracolosamente a salvarsi. In ospedale furono necessari parecchi giorni per liberargli i polmoni dall’acqua di mare ingerita… Ma alla fine poté ritornare alla sua famiglia, proprio come i naufraghi della HAVEN...
Che dire?
– In terra quasi più nessuno crede ai miracoli…!
– In mare quasi tutti ci credono! Ma non é superstizione!
Carlo GATTI
Rapallo, venerdì 13 Ottobre 2017
LA DEA ROMA - UNA STATUA FAMOSA SULLA NAVE PASSEGGERI ROMA
LA DEA ROMA
UNA STATUA FAMOSA SULLA NAVE PASSEGGERI
ROMA
Quando le navi viaggiavano anche sui mari della Storia ...
La nave Entrò in servizio il 21 settembre 1926. Nel corso della Seconda guerra mondiale la nave venne requisita dalla Regia Marina per essere trasformata in portaerei. Ribattezzata AQUILA,* non entrò mai in servizio e dopo la guerra venne smantellata nel 1952.
LOCANDINE E CARTELLONISTICA PUBBLICITARIA
All’atto della sua fondazione, il 4 settembre 1881, la Navigazione Generale Italiana (NGI) era una tra le più importanti e blasonate Compagnie di Navigazione al mondo. Nacque con la denominazione:
“Navigazione Generale Italiana, Società Riunite Florio e Rubattino”
Come dice la sua stessa “ragione sociale”, fu il frutto della fusione tra due flotte importanti.
Di questi due grandi Imperi Navali ci siamo già occupati. Ne riporto i LINK:
-
La saga dei Florio
https://www.marenostrumrapallo.it/flo/
Il genovese Raffaele Rubattino non fu solo un armatore illuminato
https://www.marenostrumrapallo.it/ruba/
Le navi più celebri della N.G.I furono le seguenti:
Manifesto pubblicitario commissionato dalla N.G.I. nell'estate
del 1926 per celebrare l'entrata in servizio della ROMA.
Con le turbine sotto pressione davanti a Genova.
La ROMA in navigazione alla fine degli anni '20.
La ROMA a fianco dell'AUGUSTUS e della DUILIO
ormeggiati in porto a Genova.
Una bellissima immagine della ROMA ripresa in navigazione nel Mar Ligure
intorno ai primissimi anni'30.
In crociera nel Mediterraneo nell'estate del 1932.
Seguono alcune immagini della ROMA con la nuova ed elegante livrea bianca che fu adottata per renderla più adeguata alla nuova attività di "nave da crociera" per cui era impegnata per buona parte dell'anno. Da questa livrea nacque il mito della "Lido Fleet" italiana: così descritta dalla pubblicità:
“l'amatissima flotta delle navi bianche ed immacolate con l'immancabile piscina a farla da padrona, circondata da un ampio "ponte lido" corredato di ogni piacevolezza.”
Ormeggiata alla Stazione Marittima di Napoli nel 1936, con la nuova livrea bianca adottata per l'attività crocieristica.
In porto a Boston durante una crociera in Labrador, Nuova Scozia e Quebec nell'estate del 1938.
Una immagine della ROMA con la livrea bianca da crociere ripreso in navigazione nell'estate del 1938.
Si nota, verso l'estremità di poppa, la piscina ed il Lido allestito ad uso della classe Turistica nel 1936.
Il 21 settembre 1926 la più grande e veloce nave di linea italiana fino allora costruita lasciava il capoluogo ligure per il suo viaggio inaugurale a New York nel tripudio generale.
Interni della ROMA
Cabina di 1a Classe
ROMA - Sullo sfondo la statua della Dea ROMA
Ecco il commento riportato dall'Associazione Culturale ITALIAN LINERS:
Una bella immagine d'insieme della Grand Hall Centrale, chiamata "Aula Magna". L'ambiente era molto solenne, forse troppo freddo e formale per una nave, dominato dalla statua della Dea Roma e scandito dal ritmarsi dei cassettoni del soffitto in legno intagliato e dipinto. A rendere più luminoso e "leggero" il salone contribuivano i sottili pilastri in legno sbiancato e scolpito ad arte. Da notare le plafoniere poliedriche "stellate", tornate di moda in anni recenti come una grande ed esotica "novità".
La Navigazione Generale Italiana celebrò l’evento con numerosi manifesti pubblicitari dedicate alla nave. La più bella e originale di tutte resta molto probabilmente quella realizzata dalla “Stamperia d’arte Richter” di Napoli, che sfoggia in copertina la testa della DEA ROMA in peltro e che era riservata ai passeggeri della classe di lusso. L’entrata in servizio della nuova ammiraglia, e lo era non solo della compagnia armatrice ma soprattutto della marina mercantile italiana, in un periodo di feroce competizione per dimensioni e prestazioni e di corsa sfrenata al lusso, venne accompagnata da una generosissima campagna pubblicitaria che celebrava in termini altisonanti quella che veniva chiamata “il Monumento del Mare”.
ALBUM FOTOGRAFICO DEL VARO DELLA T/N ROMA
L'attività dei Cantieri Navali Odero di Sestri Ponente-Genova si legò soprattutto a Compagnie come Navigazione Generale Italiana (N.G.I) con la costruzione di navi passeggeri, mentre quella dell'Ansaldo restò legata a commesse militari statali, tanto che nel 1871, proprio alla vigilia dell'estensione della rete ferroviaria, aveva cessato la produzione di locomotive per dedicarsi alle forniture militari.
Alla fine del 1924, la Società Odero e C. di Genova che gestiva il Cantiere della Foce, fu incorporata dalla Società in Accomandita ODERO fu Alessandro e C. di Genova Sestri e, nel 1926, la nuova Società si trasformò nella Cantieri Navali Odero S.p.A con un capitale di 40 milioni di lire.
Nel 1933, insieme alla maggior parte della cantieristica navale italiana, il suddetto cantiere entra a far parte nel nascente IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) che lo rilancerà, tanto che alla vigilia della Seconda guerra mondiale arriverà a contare circa 36.000 dipendenti.
IL VITTORIANO - LA DEA ROMA
Il nome deriva da Vittorio Emanuele II, il primo re d'Italia. Alla sua morte, nel 1878, fu deciso di innalzare un monumento che celebrasse il Padre della Patria e con lui l'intera stagione risorgimentale. Il Vittoriano doveva essere uno spazio aperto ai cittadini. Il complesso monumentale venne inaugurato da Vittorio Emanuele III il 4 giugno 1911. Fu il momento culminante dell'Esposizione Internazionale che celebrava i cinquanta anni dell'Italia unita.
Nel complesso monumentale, sotto la statua della Dea Roma, è stata tumulata, il 4 novembre del 1921, la salma del Milite Ignoto in memoria dei tanti militari caduti in guerra e di cui non si conosce il nome o il luogo di sepoltura.
L'altare della Patria è solo una parte del complesso, nata da un'idea del 1906. Il concorso venne vinto dallo scultore bresciano Angelo Zanelli. L’edicola al centro dell’Altare della Patria con la statua della dea Roma e la Tomba del Milite Ignoto.
Il nome della città eterna che portava, e la “romanità” propugnata dal governo fascista erano ben rappresentate dal Salone Centrale della nave ROMA, un ambiente sontuoso che era dominato da una grande statua raffigurante la Dea Roma. opera di Angelo Zanelli ed esatta replica di quella dell’Altare della Patria.
Certamente la ROMA era una nave imponente, la prima nave italiana a piazzarsi nella classifica dei grandi “Liners”: solo la Majestic, la Olympic, la Leviathan, l’Aquitania, la Berengaria e la Paris la superavano in dimensioni (ma fra queste navi solo la Paris fu varata nel dopoguerra). Imponente ma “vecchia” del design, infatti la ROMA non si libererà dall’essere il prodotto di una progettazione già antiquata e questo si può dire anche relativamente alle sue macchine: quattro gruppi turbo-riduttori a singola demoltiplicazione, ognuno formato da due turbine Parsons, ad alta e bassa pressione.
Apparentemente in continuità con lo SHAPE della DUILIO, in realtà ne rappresenta un po' un ritorno al passato: si abbandona la poppa a incrociatore per quella più tradizionale a clipper, mentre le sovrastrutture ritornano basse, sicuramente meno pronunciate rispetto a quelle adottate per la DUILIO; tuttavia la linea della ROMA appare comunque molto bella, gradevole all’occhio, slanciata ed elegante al pari di quella di uno yacht di lusso; così venne descritta dagli esperti dell'architettura navale dell'epoca!
Riprendiamo da alcuni manifesti pubblicitari:
“Gli allestimenti interni della nuova ammiraglia furono affidati allo Studio Ducrot (per gli ambienti e gli alloggi di Prima classe) in cui si snodavano una carrellata di stili che correvano dal Rinascimento al Neoclassico, traendo ispirazione dalle correnti decorative veneziane, napoletane, siciliane e piemontesi.
Unitamente allo Studio Ducrot collaborarono alle decorazioni degli interni diversi artisti: Galileo Chini, Giambattista Comencini, Corrado Padovani, Ernesto Basile, Leonardo Bistolfi, Adolfo De Carolis e Angelo Zanelli. Gli ambienti sociali di Prima classe erano organizzati su quattro ponti: “Sport Deck”, Boat Deck”, “Promenade Deck” e “A Deck”.
Sul “Sport Deck” si trovava, esteso per quasi un centinaio di metri, un vasto spazio adibito ai giochi di ponte: tennis, volano, tiro al piattello, gioco degli anelli e delle piastrelle, pedana per la boxe e la scherma, ect; a centro ponte era collocata la Palestra. Nell’estate del 1928 venne installata a poppa un’ampia piscina all’aperto (7,2 mt x 5 mt), circondata da un “colonnato” corinzio con ghirlande floreali in ferro battuto, lampioncini ed una fontana a bocca di leone: lo spazio attorno venne attrezzato con sdraio, ombrelloni e tavolini in legno di teak.
La Grand Hall centrale, detta “Aula Magna”, si ispirava all’architettura del primo Rinascimento veneziano: soffitto a cassettoni policromi arricchiti da bellissime plafoniere pensili “stellate”, una volta centrale a botte affrescate ed illuminata da dodici vetrate a lunetta, pareti con pilastri e pannelli floreali e corinzi in legno scolpiti e rivestimenti in damasco giallo oro, divani e poltrone in cuoio scuro e damasco cremisi (forse un po’ troppo austeri nella forma), un ampia profusione di tappeti persiani di seta, ed alla parete di prua, dentro una nicchia, una statua in avorio raffigurante la DEA ROMA.
Negli Anni ‘80 la statua della DEA ROMA fu ritrovata intatta in un magazzino portuale (Calata Gadda) del Porto di Genova, dopo cinquant’anni di oblio totale fu restaurata e riportata all’antico splendore dalla Stazione Marittima Porto di Genova con la collaborazione della Rochem Marine s.r.l. - La statua di ROMA ETERNA, nata per essere esposta sulla nave Passeggeri ROMA nel 1926, oggi tutti possono ammirarla, sul lato sud della Stazione Marittima di Genova. L’Artista che la scolpì in marmo si chiamava Angelo Zanelli 1848-1942, (autore della statuaria dell’Altare della Patria a Roma).
Per un’opera salvata tante sono andate perdute… aveva ragione Indro Montanelli quando affermava: ”un popolo che ignora il proprio passato, non saprà mai nulla del proprio presente.”
UN PO’ DI STORIA
Dal sito ROMANO IMPERO: riprendiamo brevemente alcuni temi di Storia Patria ed altrettante significative immagini.
IL CULTO DELLA
DEA ROMA
Nella città di Roma, il più antico culto di Stato alla Dea Roma fu legato al culto di Venere nel Tempio adrianeo di Venere e Roma. Questo fu il più grande tempio della città, probabilmente dedicato alle feste Parilia, in seguito chiamate Romae in onore di Roma.
La Dea Roma, fin dal II sec. a.c., fu la divinità che personificava lo stato romano e fu posta proprio in Campidoglio, aveva la corona turrita sul bel capo e la palla in mano, che non è la terra perché a quel tempo la sua sfericità non era ignorata, però come simbolo della sapienza era la luna piena, pomo della sapienza, vedi le Esperidi, la palla di Venere ecc..
Le tradizioni la videro in vari modi. La più antica la individua nella prigioniera troiana che accompagnava Ulisse ed Enea quando approdarono insieme sulle rive del Tevere venendo dal paese dei Molossi, cioè dall'Illiria.
La leggenda narra che l'equipaggio di Ulisse, in cui si trovava Roma insieme alle altre prigioniere di guerra, fu travolto da una tempesta che lo scaraventò sulla coste del Lazio. Le schiave imprigionate, capeggiate da Roma, e stanche delle peregrinazioni, diedero fuoco alle navi.
Ne conseguì che i compagni di Ulisse si stabilirono sul colle Palatino, dove la città che fondarono prese il nome dell'eroina che aveva deciso le sorti di un popolo e dato origine ad una nuova civiltà.
ROMA FIGLIA DI TELEMACO
In un'altra leggenda fu figlia di Telemaco e della stessa maga Circe, quindi sorella del Re Latino e nipote di Ulisse.
LA DEA ROMA
Statua raffigurante la dea Roma, rappresentata nella fontana di
Piazza del Popolo a Roma
La scultura raffigurante la Dea Roma si trova al centro dell’Altare della Patria, una grande ara votiva dedicata alla nazione italiana progettata dall’architetto Giuseppe Sacconi e decorata dallo scultore bresciano Angelo Zanelli tra 1911 e il 1925.
All’interno di un’edicola con il fondo di mosaico dorato, la Dea si erge con il peplo romano e la pelle di capra, un elmo e una corona con teste di lupo, una lancia nella mano destra e la statuetta di una Vittoria alata nella sinistra. L’iconografia deriva dalle raffigurazioni di Atena, la dea greca della sapienza, Minerva nel mondo romano.
Statua raffigurante la DEA ROMA al
VITTORIANO
Statua raffigurante la DEA ROMA alla
ARA PACIS
In fondo al Salone della Stazione Marittima di Genova è stata collocata la statua di “Roma Eterna” che fu scolpita da A. Zanelli (1848 – 1942) per essere posizionata nel salone di prima classe del transatlantico ROMA orgoglio della marineria italiana. La statua fu ritrovata da Francesco Scotto dopo 50 anni di abbandono e di oblio, restaurata e riportata all’ antico splendore dalla Stazione Marittima Porto di Genova con la collaborazione della Rochem Marine s.r.l. Per un’opera salvata tante sono andate perdute… aveva ragione Indro Montanelli quando affermava: ”un popolo che ignora il proprio passato, non saprà mai nulla del proprio presente.”
* A proposito della portaerei AQUILA (ex transatlantico ROMA)…..
Spesso si ricorre all’affermazione del Duce che sosteneva:
“L’Italia non ha bisogno di portaerei perchè l’Italia è già una portaerei nel Mediterraneo”.
Ormai è comprovato che mai fu detta tale espressione! Al contrario, furono certi alti vertici della Marina che sabotarono tutto ed in un interessantissimo libro – “La portaerei del Duce” di Daniele Lembo, della Ma.Ro editrice, Copiano di Pavia – si sostiene chiaramente che furono, appunto, proprio gli ammiragli della Regia Marina, con la loro specifica competenza, a dissuadere il Duce dall’impegnare i cantieri italiani nella costruzione di navi portaerei e non certo, quindi, Mussolini che, anzi, chiese sempre lumi, informazioni e pareri sulla possibilità che l’Italia fosse in grado e, per la guerra, urgente la costruzione di portaerei! Addirittura, Mussolini in un convegno di ammiragli, dichiarò apertamente: “Sono qui per imparare. Conto sulla vostra collaborazione allo scopo di rendere sempre più efficiente la nostra Marina»! Ebbene, in quella occasione, la quasi la totalità degli ammiragli presenti votarono contro la realizzazione di portaerei, perché ritenuto da loro non necessarie, né utili, insistendo affinché Mussolini si convincesse, definitivamente, che simili grandi navi non servissero, assolutamente, proprio a niente! Dopo, però, le perdite nel Mediterraneo, Mussolini respinse, finalmente, tutte le opinioni dei “grandi ammiragli” italiani, ed ordinò l’immediata costruzione di portaerei! Le due grandi navi passeggeri “Roma” ed “Augustus” furono così trasformate in portaerei, diventando, rispettivamente, “Aquila” e “Sparviero” e, in particolare, la prima fu completata ed era tra le più belle del mondo, così non avvenne per la seconda, che finì affondata dai tedeschi all’imboccatura del porto di Genova.
Bibliografia:
STORIA DEI TRASPORTI ITALIANI - TRASPORTI MARITTIMI DI LINEA - Ogliari /Radogna - Volume terzo
I GIGANTI DI LINEA - Vincenzo Zaccagnini - Mursia
ENCYCLOPEDIA OF OCEAN LINERS 1860-1994 - William H. Miller jr
Carlo GATTI
Rapallo, 27 Aprile 2022
DUE VESPUCCI FAMOSI
- ARTE-MARE -
DUE VESPUCCI FAMOSI
PARTE PRIMA
Statua di Amerigo Vespucci – Uffizi - Firenze
AMERIGO VESPUCCI
Firenze 9 marzo 1454 – Siviglia 22 febbraio 1512
Un personaggio che fa ancora discutere …
Perché l’America si chiama così? Si dice che deve il suo nome ad Amerigo Vespucci... ma non la scoprì Colombo?
Risponde Alessandro Barbero – docente universitario di Storia Medievale
“…non voglio fare l'accademico pedante, ma debbo intervenire per amore di verità sulla risposta data dal collega Barbero al lettore che chiedeva perché l'America si chiama così ("Specchio" N. 230, 24.6.2000, pp. 45-46). In effetti, l'opinione secondo la quale: "Colombo rimase sempre convinto che le isole da lui scoperte fossero parte del continente asiatico ... non riuscì a persuadersi che quella [Venezuela] fosse davvero la terraferma d'un nuovo continente", è solo uno dei tanti gravi errori d'interpretazione della vicenda colombiana (che presenta molti più lati "oscuri", ancora oggi, di quanto non si pensi), ampiamente diffusi purtroppo anche presso gli "specialisti".
A prescindere dal fatto se Martin Waldseemüller - il geografo di Saint-Dié-des-Vosges che ai primi del '500 battezzò il Nuovo Mondo in onore del Vespucci - ritenesse sinceramente valida o no detta motivazione (sembrerebbe che fosse caduto in un involontario equivoco, dal momento che in una successiva carta del 1516 rinnegò la sua stessa proposta, eliminando ogni riferimento al nome America), e se parimenti di essa fossero in buona fede persuasi i successivi fautori di quella controversa denominazione (che ha sicuramente a che fare anche con contrapposizioni politico-religiose: i cattolici spagnoli ad esempio non la accettarono per qualche secolo, mentre la sua diffusione fu immediata nei paesi protestanti), è abbastanza facile dimostrare che siamo di fronte a una spiegazione errata, ancorchè "comoda", appunto perché dà una facile risposta a un quesito al quale non sarebbe altrimenti così agevole rispondere (le risparmio le mie personali congetture, una cui traccia si potrebbe trovare nel sito web segnalato in calce).
Cito allo scopo alcune affermazioni che la dicono lunga sulla questione, tratte da lettere di Pietro Martire d'Anghiera, un "amico personale dello scopritore", che al tempo viveva presso la corte dei re di Spagna, o meglio di Aragona e di Castiglia ("La scoperta del Nuovo Mondo negli scritti di P. M. D'A.", Nuova Raccolta Colombiana, Comitato Nazionale per le Celebrazioni del V Centenario della Scoperta dell'America, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Vol. VI, Libreria dello Stato, Roma, 1988, p. 6):
1 - lettera del novembre 1493 ad Ascanio Sforza: "Quel Colombo, scopritore di un NUOVO MONDO, nominato dai miei Re capo del mare Indiano" (loc. cit., p. 47);
2 - lettera del 20 ottobre 1494 a Giovanni Borromeo: "Di giorno in giorno, notizie sempre più straordinarie sono riportate dal NUOVO MONDO, grazie a quel ligure Colombo, nominato Ammiraglio dai miei Re per le sue imprese portate a buon fine" (loc. cit., p. 49).
3 - lettera scritta il 9 agosto del 1495 al Cardinale spagnolo Bernardino de Carvajal: "[Colombo] venne a sapere attraverso i suoi interpreti indigeni ... che in nessun luogo si interrompeva la terra: sa dunque per certo che si tratta di un continente" (loc. cit., p. 73).
Parole che non lasciano adito a dubbi. Come vede, si parla sin da subito di un NUOVO Mondo (novembre 1493; Colombo aveva fatto ritorno dal suo primo viaggio nel mese di marzo), e sin da subito fu altresì chiaro che questo Nuovo Mondo era un intero continente. È vero infatti che l'ultimo brano citato è del 1495, ma bisogna tenere conto del fatto che Colombo fece rientro a Cadice, al termine del suo secondo viaggio (iniziato nel settembre 1493), soltanto nel giugno del 1496!
Il continente asiatico, si potrebbe in effetti replicare, ma allora perchè chiamarlo "Nuovo Mondo"? E comunque, accettata pure questa ipotesi, risulterebbe di conseguenza alquanto improbabile che Colombo potesse escludere in modo assoluto che quella da lui toccata nel corso delle esplorazioni successive "fosse davvero la terraferma" di un tale, più "vecchio" che non "nuovo", continente.
A complicare le cose, c'è da aggiungere un'informazione assai poco nota, che dà spazio a nuove congetture sul quadro concettuale in cui le terre scoperte venivano collocate, almeno da parte di persone appartenenti a certi particolari "ambienti". L'esistenza di un "continente sconosciuto" dislocato di fronte alle coste occidentali europee ed africane era stata infatti prevista circa due secoli prima dal famoso Raimondo Lullo ("Quodlibeta", Questione 154, Tomo IV), un autore che Colombo conosceva bene:
"La principale causa del flusso e del riflusso del Mar Grande o del Mar d'Inghilterra è l'arco dell'acqua del mare che a ponente appoggia o confina in una terra opposta alle coste dell'Inghilterra, Francia, Spagna e di tutta la confinante Africa, nella quale gli occhi nostri vedono il flusso e riflusso delle acque perché l'arco che forma l'acqua come corpo sferico è naturale che abbia appoggi (confini) opposti su cui posare, poiché altrimenti non potrebbe sostenersi. Per conseguenza, così come in questa parte appoggia sul nostro continente, che vediamo e conosciamo, nella parte opposta di ponente appoggia sull'altro continente che non vediamo e non conosciamo fino ad oggi; però per mezzo della vera filosofia, che riconosce ed osserva mediante i sensi la sfericità dell'acqua ed il conseguente flusso e riflusso, il quale necessariamente esige due sponde opposte che contengano l'acqua tanto movimentata e siano i piedistalli del suo arco, si inferisce logicamente che nella parte occidentale esiste un continente nel quale l'acqua mossa va ad urtare così come rispettivamente urta nella nostra parte orientale".
Questa speculazione, che fu a lungo oggetto di meditazione, anche se "riservata", da parte di tutti gli "addetti ai lavori" (e certo non minore fonte di ispirazione per la stessa impresa di Colombo, il quale andava a cercare tutt'altro che una nuova rotta per la Cina, portandosi dietro specchietti e perline non certo per i civilissimi cinesi descritti nel "Milione" di Marco Polo!), mostra che gli autentici retroscena di una così importante vicenda, giustamente prescelta a segnare il confine tra Medioevo ed Età Moderna, sono completamente ignorati dalla superficiale "vulgata" corrente, e che invece di accontentarsi di sbrigative spiegazioni come quella precedentemente discussa, molto più bisognerebbe ancora riflettere ed approfondire...
UN PO’ DI STORIA:
AMERICA, STORIA DI UNA PAROLA.
Come abbiamo appena letto, fu il cartografo tedesco Martin Walseemüller a battezzare (con qualche dubbio sollevato dal prof.Barbero) AMERICA l’intero continente in onore di Amerigo Vespucci. In un volume del 1507, Cosmographiae introductio, che riportava in 12 fogli una mappa del mondo allora conosciuto (o immaginato), Waldseemüller scrisse “America” sulle terre che s’erano appena cominciate a scoprire. Merito del Vespucci era d’aver capito la “nuova geografia” novità alla quale aveva dato nome MONDUS NOVUS. Nel 1650 i coloni usavano America per indicare soltanto le colonie britanniche del Nord. E risale al 1781 l’uso d’indicare con America soltanto gli Stati Uniti.
Ma poiché America designava un continente, il termine Americani fu (anche) riferito ai suoi abitanti originari, quelli che Colombo aveva chiamato INDIANI. A metà del Settecento, Americani erano gli Indiani per il saggista inglese Joseph Addison, che chiamava invece “Inglesi trapiantati” i coloni. Ma già nel 1697 Cotton Mather, grande esponente degli ambienti puritani della Nuova Inghilterra, si era servito della forma “americano” per indicare se stesso e i suoi concittadini.
La definizione “Stati Uniti d’America” appartiene infine a Tom Paine, uno dei padri dell’Indipendenza. “Siamo sovrani in quanto Stati – aveva scritto - il nostro grande titolo è di essere AMERICANI”.
Nel 1791 George Washington inserì l’abbreviazione U.S. E compare nel 1795 la sigla (odiata o amata che sia) ormai a tutti: U.S.A.
LA CARACCA DEL NAVIGATORE AMERIGO VESPUCCI
La caracca: Si tratta di un bastimento di alto bordo e di gran portata a quattro o cinque coperte, con due castelli uno a poppa e l'altro a prua, tre alberi, vele quadre, gabbie, parrocchetti, la mezzana latina. La sua portata è di 2.000 tonnellate. Veniva usata da tutte le nazioni, ma particolarmente da Genovesi e Portoghesi, per il traffico e qualche volta anche in guerra.
Il castello, sia a prua che a poppa, è una sovrastruttura leggera, praticamente una piattaforma, circondata da una balaustra o da un grigliato per non pesare sulle estremità della nave.
Inizialmente era fornita di due soli alberi, quello di maestra e quello di mezzana. La spinta maggiore viene naturalmente dalla vela più grande, una sola vela quadra sull'albero di maestra.
Con il tempo le viene apportata una modifica e viene aggiunto un terzo albero. E' da tener presente che ogni albero ha una sola vela ed è quadra. Le manovre dipendono dalle due vele più piccole, quella dell'albero di mezzana e quella dell'albero di trinchetto.
Successivamente anche le vele vengono modificate. Viene aggiunto un pennone al bompresso sul quale viene issata una vela quadra e sopra la maestra viene innalzato un alberetto sul quale è infierita una vela di gabbia, sempre quadra.
I viaggi in America
(Riassunto breve da Wikipedia)
Primo viaggio (1497-1498)
Vespucci partecipò al viaggio di esplorazione con Juan de la Cosa. Il probabile comandante di questa spedizione fu Juan Diaz de Solis. Probabilmente fu il re Ferdinando II d’Aragona a volere questa spedizione, per rendersi conto se la terraferma fosse realmente distante dall'isola di Hispaniola e avere così una visione più ampia e precisa delle nuove terre.
Secondo viaggio (1499-1500)
Vespucci partecipò a una spedizione guidata da Alonso de Ojeda. Nella spedizione vi era anche il cantabrico Juan de la Cosa, famoso pilota e cartografo. Dopo aver toccato terra in corrispondenza dell'odierna Guyana, i due si separarono. Amerigo continuò verso sud fino a toccare la foce del Rio delle Amazzoni, all'incirca a 6° S. Successivamente Vespucci proseguì verso sud fino al Cabo de São Roque, circa 30 km a nord dell'odierna città di Natal. Quindi la spedizione rientrò verso nord riconoscendo l’isola di Trinidad e il fiume Orinoco prima di fare ritorno in Spagna.
Terzo viaggio (1501-1502)
In questo periodo, Amerigo viaggiò al servizio del Portogallo. Nel 1501 prese parte a una spedizione comandata da Goncalo Coelho. Prima di giungere nelle Americhe, la spedizione si era fermata alcuni giorni nelle isole di Capo Verde ed aveva incrociato le navi di Pedro Alvares Cabral, esploratore portoghese di ritorno dal suo viaggio in India. A Capo Verde Vespucci conobbe l'ebreo Gaspar da Gama che gli descrisse i popoli, la fauna e la vegetazione dell’India. Comparando questo racconto con quello che poi osservò, giunse nel 1501 alla conclusione che le terre che stava visitando non potevano fare parte dell’Asia ma costituivano quello che lui definì il NUOVO MONDO.
Quarto viaggio (1503-1504)
Nel suo quarto viaggio, sempre comandato dai portoghesi, Vespucci individuò un'isola situata nel bel mezzo dell'oceano che fu successivamente battezzata Fernando de Noronha, in onore di uno dei componenti dell'equipaggio. Quindi la spedizione continuò verso le coste dell'attuale Brasile, ma non ci furono importanti scoperte.
da Wikipedia:
Amerigo Vespucci osservava attentamente il cielo, e la notte del 23 agosto del 1499, durante il suo secondo viaggio scrisse:
«In quanto alla longitudine dico che per conoscerla incontrai moltissima difficoltà che ebbi grandissimo studio in incontrare con sicurezza il cammino che intraprendemmo. Tanto vi studiai che alla fine non incontrai miglior cosa che vedere e osservare di notte la opposizione di un pianeta con un altro, e il movimento della luna con gli altri pianeti, perché la Luna è il più rapido tra i pianeti come anche fu comprovato dall'almanacco di Giovanni da Monteregio, che fu composto secondo il meridiano della città di Ferrara concordandolo con i calcoli del Re Alfonso: e dopo molte notti passate ad osservare, una notte tra le altre, quella del 23 agosto 1499, nella quale vi fu una congiunzione tra la Luna e Marte, la quale congiunzione secondo l'almanacco doveva prodursi a mezzanotte o mezz'ora prima, trovai che all'uscire la Luna dal nostro orizzonte, che fu un'ora e mezza dopo il tramonto del Sole, il pianeta era passato per la parte di oriente, dico, ovvero che la luna si trovava più a oriente di Marte, circa un grado e qualche minuto, e alla mezzanotte si trovava più all'oriente quindici gradi e mezzo, dimodoché fatta la proporzione, se le ventiquattrore mi valgono 360 gradi, che mi valgono 5 ore e mezza? Trovai che mi valevano 82 gradi e mezzo, e tanto distante mi trovavo dal meridiano della cidade de Cadice, dimodoché assignando cada grado 16 e 2/3 leghe, mi trovavo 1374 leghe e 2/3 più ad occidente della cidade de Cadice.» |
«La ragione per la quale assegno ad ogni grado 16 leghe e 2/3 è perché secondo Tolomeo e Alfagrano, la Terra ha una circonferenza di 6.000 leghe, che ripetendosi in 360 gradi, corrisponde ad ogni grado a 16 leghe e 2/3 e questa proporzione la provai varie volte con il Punto Nave di altri piloti cosicché la incontrai vera e buona.» |
In seguito a questi ragionamenti vari astronomi e cosmografi dell'epoca e delle epoche successive riconobbero che Vespucci aveva inventato come verificare una longitudine con il metodo della distanza lunare. Ad esempio nel 1950, l'astronomo del Vaticano, il professor Stein, disse: «Mi meraviglia che fino ad oggi nessuno abbia verificato le osservazioni fatte da Vespucci nella notte del 23 agosto 1499, dove calcolava la posizione relativa di Marte e della Luna in quell'epoca». Da tutto ciò si evince che Vespucci sapeva benissimo dove si trovasse, ed era in grado più di ogni altro di fare il punto nave con precisione.
FONTI DELL’AUTORE:
IL TRATTATO DI TORDESILLAS di Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=397;tordesillas&catid=36;storia&Itemid=163
STRETTO DI MAGELLANO di Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=403;mag&catid=36;storia&Itemid=163
COCCA, CARAVELLA E CARACCA di Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=669;crisco&catid=36;storia&Itemid=163
Tutto in – La risposta a ciò che cerchi.
Wikipedia – Amerigo Vespucci
Treccani – Vespucci Amerigo
Tuscanypeople-Amerigo Vespucci, il grande controverso Navigatore Fiorentino
I Percorsi della Storia-Atlante - I Percorsi della Storia-Manuale (2 volumi)
Istituto Geografico De Agostini – Corriere della Sera
PARTE SECONDA
SIMONETTA VESPUCCI
della dinastia Cattaneo – Genova, fu una gentildonna tra le più note del Rinascimento
Genova 28.1.1453 - Piombino 26 aprile 14756
Fu la modella di Botticelli per la Nascita di Venere
Nascita di Venere di Botticelli, Galleria degli Uffizi (1482–1485 ca.).
Primavera di Botticelli, Galleria degli Uffizi, (1482 ca.).
Flora, l'allegoria della primavera stessa. Essa, vestita di fiori e cinta con girlande fiorite, annuncia l'arrivo della nuova stagione. Qualcuno ha supposto, senza base documentaria, che possa essere il volto di Simonetta
UN PO’ DI STORIA:
Della bella Simonetta Vespucci s’innamorò perdutamente Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo il Magnifico. Ricordiamo, per la cronaca che Giuliano fu pugnalato a morte nella famosa Congiura dei Pazzi, il 26 aprile 1478 alle 13.30, nella chiesa di Santa Maria del Fiore – Firenze.
La bella Simonetta convolò a nozze nell’aprile del 1469, appena sedicenne, con il giovane sposo Marco VESPUCCI, cugino del famoso navigatore Amerigo Vespucci, nella chiesa gentilizia genovese di San Torpete (foto sopra), alla presenza del Doge di Genova e di tutta l’aristocrazia cittadina.
“Il giovane sposo era da poco stato inviato dal padre Piero a Genova per studiare i sapienti ordinamenti del Banco di San Giorgio, con cui aveva stretti rapporti lo stesso Jacopo III e di cui era procuratore appunto Gaspare Cattaneo, che nel 1464 era stato testimonio della dedizione di Genova a Francesco Sforza, duca di Milano. Marco Vespucci, accolto dai Cattaneo, si era innamorato perdutamente della bella Simonetta e il matrimonio era stato una logica conseguenza, visto l'interesse dei Cattaneo a legarsi con una potente famiglia di banchieri fiorentini, intimi dei Medici. La recente caduta di Costantinopoli e la perdita delle colonie orientali aveva infatti particolarmente colpito economicamente e moralmente la famiglia Cattaneo”.
L’arrivo della coppia a FIRENZE (città di VESPUCCI), coincise con la nomina di Lorenzo il Magnifico a capo della Repubblica. Gli sposi furono accolti nel Palazzo Medici di via Larga e seguirono festeggiamenti sontuosi nella Villa di Careggi.
“L'apice si raggiunse con il "Torneo di Giuliano", un torneo cavalleresco svoltosi in Piazza Santa Croce nel 1475. Qui Giuliano de' Medici, secondo quanto immortalato dal poemetto Stanze per la giostra di Giuliano de’ Medici di Angelo Poliziano, promise e dedicò la vittoria a Simonetta, presente tra il pubblico. Portò uno stendardo, che si ipotizza dipinto dal Botticelli e che raffigurava Simonetta nei panni allegorici di Venere-Minerva con ai piedi Cupido incatenato ed il motto “La sans” par scelto personalmente da Lorenzo. Simonetta fu la trionfatrice e venne proclamata "regina del torneo", offrendo personalmente a Giuliano il premio della giostra, un elmo di squisita fattura realizzato nella bottega del Verrocchio. La sua grazia aveva ormai conquistato tutti a Firenze, in primis Giuliano diventato suo amante. Dopo la morte di Simonetta, Giuliano ebbe una sola relazione con una dama fiorentina: Fioretta Gorini della famiglia dei Pazzi, che gli darà anche un figlio, Giulio il futuro pontefice Clemente VII. Il Pulci le dedicò alcuni sonetti e anche il Magnifico la celebrò nelle sue “SELVE D’AMORE”.
LA MORTE colse Simonetta Vespucci il 26 aprile 1476, a l’età di soli ventitré anni, a causa di tisi o polmonite. Indagini successive conclusero che Simonetta fosse in realtà affetta da adenoma ipofisario con secrezione di prolattina ed ormone della crescita, era sicuramente sterile e che l'aumento di volume del tumore la condusse alla morte.
Nella letteratura
Simonetta fu ricordata e celebrata da Giosuè Carducci nella prefazione: Stanze per la giostra del Poliziano.
Anche Gabriele D’Annunzio l’ha immortalata nel suo Alcyone.
«O Toscana, o Toscana,
|
Aprile infatti è il mese in cui Simonetta morì.
FONTI:
Il Primo Quattrocento n.5 - Il Rinascimento n.6 - Enciclopedia dell’Arte Universale-36 Volumi-Corriere della Sera
Conoscere i Grandi Musei-Ist.Geografico De Agostini-Novara/Uffizi-Firenze - 6 Volumi
Carlo GATTI
Rapallo, 13 Aprile 2022
RAPALLO NELLA STORIA NAVALE
RAPALLO NELLA STORIA NAVALE
Fonte: Il Mare
Rapallo - Sullo sfondo la nave ORONTES che il 22 maggio 1933 diede fondo l’ancora nel nostro golfo. La nave ospitava 400 passeggeri inglesi che alle ore 8 sbarcarono a Rapallo, ripartendo lo stesso giorno alle ore 16. Molti di questi facoltosi passeggeri fecero visita e giocarono al campo Golf di Rapallo.
La ORONTES nel Tigullio
Le foto della ORONTES ancorata nel golfo di Rapallo appartengono alla collezione Sergio Schiaffino che ringrazio
STORIA DI UNA NAVE
“ORONTES”
Questa nave fu l’ultima di una serie di cinque navi da 20.000 tonnellate che furono costruite negli Anni ’20 per la celebre Compagnia Marittima inglese ORIENT LINE in servizio sulla linea dell’Australia. Le altre erano: ORAMA (1924), ORONSAY e OTRANTO (1925), la ORFORD (1928).
La Peninsular and Oriental Steam Navigation Company , meglio conosciuta con le lettere P&O, fu fondata a Londrannel 1837 da due uomini d'affari e politici britannici Brodie McGhie Willcox e Arthur Anderson e dal capitano Richard Bourne. Era la più antica società di crociere e le principali compagnie di navigazione sin dalla sua fondazione nel xix ° secolo, che opera in particolare nel Mediterraneo, sulla rotta per l’India, l’Estremo Oriente e l’Australia. A dominare la spedizione sulla strada est, ha giocato un ruolo importante nella emigrazione europea in Australia nel xix ° secolo e xx ° secolo. È stata anche pioniera nel mercato crocieristico in cui ha continuato ad operare sin dal suo assorbimento nel GRUPPO CARNIVAL, leader mondiale nel settore.
La ORONTES fu costruita Barrow nel Cantiere Vickers-Armostrong. Fu varata il 26 febbraio 1929 e fu completata a luglio. Partì da Londra per il suo viaggio inaugurale diretta a Brisbane il 26 ottobre di quell’anno.
Barrow-in-Furness o, più semplicemente Barrow (ca. 60 000 ab.) è un borgo nella contea inglese della Cumbria, sulla penisola di Furness, della quale è il centro abitato più popoloso. Affacciata sul Mar d’Irlanda, è situata circa 50 km a nord di Blackpool. La città appartenne, fino al 1974, alla contea storica del Lancashire.
La ORONTES era un’elegante e molto attraente nave passeggeri come le sue gemelle (near-sisters). Lo scafo aveva la poppa ad “incrociatore” e la prua elegante e affilata per la sua epoca al contrario delle altre sue gemelle che avevano una prua più verticale. Ben disegnate e proporzionate erano le sovrastrutture con due ciminiere molto slanciate. Indovinate per capacità di trasporto delle sei stive destinate su distanze notevoli.
La ORONTES realizzò con successo le prove per il rodaggio di tutti i suoi macchinari, dopo il suo arrivo a Southampton partì per un particolare charter. Insieme alla Orford diventarono ufficialmente le due navi OSPITI del Trofeo Schneider “air race” tenutosi a Calshot nel 1929 dove le fu concesso un eccellente punto di osservazione.
Trascorse un periodo crocieristico di rodaggio “Shakedown”, nel 1934 venne in Mediterraneo con un nutrito programma di visite promozionali per il turismo inglese e fu in questa occasione che visitò il GOLFO TIGULLIO del quale sono rimaste alcune fotografie che pubblichiamo a breve. Possiamo anche aggiungere che sul finire della crociera la nave incaglio, senza gravi danni a Gallipoli.
Nei primi mesi della guerra continuò i viaggi per l’Australia sfruttando la sua buona capacità di trasporto passeggeri, ma soprattutto di carico nelle sue stive per cui divenne molto popolare e richiesta da quelle parti.
Nell’aprile del 1940 fu requisita dalla U.K. per il “trasporto Truppe”. Il suo primo viaggio in questo suo nuovo ruolo bellico, strano a dirsi, fu il trasporto truppe dall’Australia a Singapore.
Quando la nave ritornò in U.K. ebbe una frenetica attività di “trasporto militari” verso il Medio Oriente, spesso accoppiata con altre navi passeggeri.
Verso la fine del 1942 la ORONTES fu fortemente impegnata nella Campagna del Nord Africa nello sbarco a Orano delle truppe alleate.
In qualche occasione trasportò anche mezzi da sbarco anfibi per cui gli sbarchi dei militari venivano effettuati con molta rapidità.
Nel luglio del 1943 la nave ebbe una parte molto attiva nello sbarco degli Alleati in Sicilia, presso la spiaggia di Avola. Durante queste operazioni militari si trovò spesso sotto attacco di aerei nemici. Ma riuscì sempre a cavarsela.
Si distinse anche negli sbarchi degli Alleati a Salerno.
Più tardi fu impiegata nuovamente per il trasporto truppe su lunghe distanze: Bombay in particolare.
Nel 1945 ritornò in Estremo Oriente, sia in Australia sia per trasporto truppe francesi a Saigon.
Infine fu impiegata per il rimpatrio dei prigionieri di guerra in U.K.
Nell’aprile del 1947 la ORONTES concluse il suo periodo come “nave militarizzata”. Durante i suoi sette anni sotto il controllo governativo, ha percorso 370.000 miglia e trasportato circa 125.000 soldati.
Nel periodo 1947-48 la nave fu sottoposta ad importanti lavori di “reconditioning” e ammodernamento degli interni presso il Cantiere Thornycroft di Southampton.
Nel giugno 1948 riprese stabilmente i suoi viaggi per l’Australia e nel 1953 fu convertita esclusivamente in nave passeggeri – classe unica – destinata al trasporto di allevatori per l’Australia e Nuova Zelanda.
La ORONTES partì per il suo ultimo viaggio da Tillbury per l’Australia il 25 novembre 1961 ed al ritorno fu tolta dal servizio.
Fu infine venduta ad una ditta spagnola di demolizione. Il 5 marzo 1962 arrivo a Valencia e lì terminò la sua FORTUNATA vita di mare.
Tre delle quattro navi gemelle: ORAMA, ORONSAY e ORFORD furono dichiarate:
“perdite di guerra”.
Fonte:
BEKEN OF COWES (fotograph) – OCEAN LINERS - By Philip J. Fricker
Libera traduzione di Carlo Gatti
Rapallo, 6 Aprile 2022
LA TRAGEDIA DEL "MONTELLO" DISSOLTO IN UNA PALLA DI FUOCO
LA TRAGEDIA DEL "MONTELLO" DISSOLTO IN UNA PALLA DI FUOCO
Introduzione di Carlo GATTI
Ogni tanto mi capita di ritagliare articoli di Storia marinara che conservo in un cassetto per poi approfondire, arricchire, ricostruire e pubblicarne la rivisitazione sul nostro sito. Della tragedia del MONTELLO presi coscienza ai tempi del Nautico di Camogli quando me ne parlò un mio compagno di scuola che in quella tragedia perse un parente a lui molto caro.
Di quel tragico capitolo di storia nostrana: nave costruita a Riva Trigoso, Armatore Genovese, Equipaggio rivierasco, non ne sentii più parlare per molti decenni. A risvegliare in me quel ricordo fu una pagina ormai ingiallita del Secolo XIX, che in data 3 giugno 2011, in occasione del 70° anno della tragedia del MONTELLO, pubblicò con la firma del giornalista Roberto Pettinaroli e che conservai come una reliquia nell’attesa di recuperare i nomi dello sfortunato equipaggio.
Purtroppo, quasi subito, mi resi conto che esistevano solo notizie frammentarie sul tragico evento bellico nel quale fu colpita la nave genovese. L'articolo di Pettinaroli è quindi l'unica fonte a me nota, ed oggi ve la propongo in versione integrale perchè merita di essere letta e meditata non solo per la precisa e puntuale narrazione storica, ma anche e soprattutto per il linguaggio “marinaro” usato che solo un rivierasco di razza può permettersi. Aggiungo infine che l’atmosfera, purtroppo tragica che lo impregna, è figlia del coinvolgimento emotivo e nostalgico dell’autore di cui soltanto sul finire del racconto si può oggettivamente comprenderne tutte le motivazioni che vi lascio intuire.
Confido nei nostri Amici “conservatori” dei Musei Marinari della Riviera che forse potranno recuperare i nomi e cognomi dello SFORTUNATO EQUIPAGGIO del MONTELLO affinché possa rimanere viva la memoria dei loro nomi e cognomi non solo presso i loro discendenti, ma anche nelle pagine della storia locale della nostra Riviera.
7 dicembre 1926 - VARO DEL PIROSCAFO MONTELLO al Cantiere navale di Riva Trigoso
di Alberto PETTINAROLI
E’ UNA MATTINA già calda davanti alle coste dell’Africa settentrionale. Il sole è quasi all’orizzonte e l’aria è tiepida, come dev’essere all’inizio di giugno. Il convoglio AQUITANIA, con il suo incedere lento e sicuro, è arrivato quasi a destinazione e procede compatto, in parallelo rispetto al litorale tunisino.
E’ partito nel pomeriggio di due giorni fa da Napoli e oggi – 3 giugno – sta solcando, via canale di Sicilia, le acque del Mediterraneo meridionale, diretto a Tripoli. Come sempre in queste missioni, la formazione è stata a lungo studiata dallo stato maggiore della Marina. Il convoglio è composto dai piroscafi Aquitania, Caffaro, Nirvo, Beatrice Costa, Montello e dalla cisterna Poza Rica. A scortarli, quattro cacciatorpediniere (Aviere, Camicia Nera, Geniere, Dardo) e la torpediniera Missori. La protezione a distanza è fornita dalla VIII Divisione Navale, rappresentata dagli incrociatori ABRUZZI E GARIBALDI. Un apparato di sicurezza imponente, con un compito preciso: scortare la spedizione e tenere alla larga possibili pericoli. Il carico più vulnerabile e prezioso procede in mezzo: tra questi c’è il “MONTELLO”, stipato all’inverosimile, nelle sue stive, di benzina, munizioni ed esplosivi. Carburante e proiettili ed esplosivi. Carburante e proiettili – in tutto, 4.500 tonnellate – sono destinati alle nostre truppe impegnate nel teatro d’operazioni libico. E’ la primavera del 1941 e l’Italia intera è mobilitata nel tentativo di assecondare le ambizioni imperialiste del suo duce. In questo periodo, le sempre più pressanti richieste di rifornimento di combustibili e munizioni per il fronte libico si intensificano, se possibile, ancor più. E a giugno il valore dei materiali trasportati raggiunge una delle cifre più alte di tutta la guerra, 100 mila tonnellate, con perdite nell’ordine del 6 per cento dei quantitativi partiti.
Accade, così, che non solo i soldati abili e arruolati, ma anche i civili in grado di servire alla bisogna vengano militarizzati e spediti a far la loro parte per assicurare alla patria un posto al sole e – soprattutto – un invito al banchetto dei grandi d’Europa che si preparano a spartirsi il mondo. Anche le navi, come gli uomini, subiscono la stessa sorte. E’ un regio decreto del 13 luglio 1939 a permetterlo e in base a questa legge cambia lo status giuridico delle unità navali, che da navigli mercantili si trasformano in unità belliche. Il “Montello” non costituisce un’eccezione. Viene requisito dal ministero della Marina e militarizzato con tutto il suo equipaggio. Il piroscafo è stato costruito a Riva Trigoso e varato il 17 dicembre 1926 su ordine della compagnia di navigazione “Alta Italia” di Genova (poi diventerà Nai) la società armatrice. Il Montello non è una nave attrezzata per operazioni belliche: è solo un mercantile. Lungo 116 metri, largo 16,6 nel punto massimo, alto al ponte di coperta 8,26, ha una stazza di 6.117. Prima dell’entrata in guerra dell’Italia è sempre stato utilizzato per movimentare merci da e per il porto di Genova, sulle rotte del Mediterraneo.
E anche in seguito, dopo la sua militarizzazione, ha fatto la spola tra le sponde del grande mare per trasferire derrate alimentari e apparecchiature a chi combatteva sul “bel suol” africano. Ma questa volta è diverso. Stavolta non si tratta di un viaggio come gli altri: la plancia della nave è satura di liquido altamente infiammabile ed esplosivi e tutti e 33 gli uomini che il piroscafo ha imbarcato per questa missione sono perfettamente consapevoli che la spedizione è ad altissimo rischio. Per questo il piroscafo ha una scorta così robusta, anche se le misure di sicurezza rischiano di attirare il nemico. Non si è faticato, comunque, a mettere insieme l’equipaggio da imbarcare: c’è la guerra e ci sono madri, mogli e figli, a casa, che aspettano lo stipendio per tirare avanti. Quando si ha chiara la percezione del pericolo che si corre, ogni minuto “pesa” come un’ora e ogni ora come un giorno. Ma adesso, a bordo, la tensione inizia a stemperarsi. La costa tunisina è in vista già da tempo e il secondo di coperta ha appena dato l’ordine all’equipaggio di sfilare i giubbotti di salvataggio.
“Nostromo, dove ci troviamo esattamente?”. “Secche di Kerkennah”. Tripoli, il porto, la salvezza ormai sono lì, a portata di mano. Un gabbiano in volo radente va a posarsi sul castello di prua. Un marinaio lo osserva e scruta l’orizzonte. Sta pensando a casa. Grazie Signore, forse è davvero finita, forse l’abbiamo fatta. Intanto il suo sguardo abbraccia Kerkennah (Cercara, in italiano), un gruppo di isole pianeggianti – l’altitudine massima è 12 metri – fra le Pelagie e la costa orientale tunisina, davanti a Sfax, abitate in origine da popolazioni libico-berbere. Proprio un bel posto per vivere. Quel marinaio non sa, non può sapere che un ricognitore inglese ha avvistato il convoglio nelle ore antimeridiane a sud di Pantelleria e ha allertato una squadriglia di cinque bombardieri che, nel frattempo, si è già alzata in volo da Malta. La squadriglia avvista il convoglio intorno alle 14 grazie anche alla bassa velocità (8 nodi) dei piroscafi. In un primo momento gli aerei alleati si tengono a distanza, perché sopra il convoglio incrociano due Cr-42. Alle 14.30 gli apparecchi da caccia si allontanano lasciando nel cielo solo un Cant Z501 che segue a prora le navi in ricognizione antisommergibile. Alle 14.54 gli aerei inglesi entrano in azione. Vengono avvistati a una distanza di circa 4 mila metri, a dritta, poco lontani dalla direzione del sole. Sono cinque, in formazione a triangolo e volano bassissimi, a una quota di circa 50 metri sul mare. Il comandante della flottiglia di scorta al convoglio - che si trova in latitudine 35° 25’ 30” Nord, longitudine 11° 57’ 30” Est – dà l’allarme e chiede l’intervento degli aerei da caccia, mentre tutte le unità e i piroscafi aprono il fuoco con le mitragliere. Ma il loro tiro è difficoltoso perché gli apparecchi arrivano controsole e volando a una quota così bassa, sono seminascosti dagli scafi delle unità navali. Un rombo di motori e gli aerei piombano sulla verticale dei piroscafi. Sganciano il loro carico di morte e un attimo si scatena l’inferno. Il “MONTELLO” è centrato in pieno da una bomba. Terrificante la testimonianza di un guardiamarina imbarcato sulla Missori, una delle cinque torpediniere di scorta:
“Uno scoppio terribile, un’enorme fiammata e il “MONTELLO” è scomparso in una palla di fuoco. Una visione che rivedremo poi nel fungo dell’atomica a Hiroshima e Nagasaki. L’esplosione improvvisa delle munizioni di cui era carica la nave è stata così violenta da causare la caduta di uno degli aerei inglesi, risucchiato dal vortice di calore, e di una miriade di schegge di ogni forma e dimensione che hanno seppellite – colpendole – le navi del convoglio. Tutti siamo rimasti attoniti e sconvolti: la nave è sparita in meno di dieci secondi, letteralmente dissolta in aria. E con la nave tutto il povero equipaggio”.
Storditi da quanto è appena avvenuto, i marinai della torpediniera trovano comunque il modo di ripescare e portare in salvo i due aviatori inglesi dell’apparecchio abbattuto.
Per i 33 marinai del “MONTELLO” (marittimi e militari addetti alla mitragliera) non c’è scampo. Alcuni abitano nel Tigullio. Uno di loro si è trasferito qualche anno prima con la moglie e i tre figli a Lavagna da Marciana Marina (Isola d’Elba) per essere più vicina a Genova e agli imbarchi. Al lavoro, al pane. Si chiama Guido Casabruna, ha 37 anni, è fuochista addetto alla caldaia a carbone del “Montello”.
Guido Casabruna era mio nonno: il nonno che non ho mai conosciuto, il nonno che si è dissolto in una palla di fuoco, il nonno che si è fatto sole sopra le secche di Kerkennah. Oggi, settant’anni dopo quel giorno, il fiore che idealmente le famiglie dei 33 uomini del “Montello” affideranno al mare, perché le onde lo cullino dolcemente fino a Kerkennah, è il fiore del ricordo, che è più forte del tempo e dello spazio. Della guerra, della morte. Il ricordo è il messaggio in bottiglia destinato ai 33 uomini del “Montello”, mandati a morire in acque lontane per un assurdo sogno di conquista. Dice semplicemente no, nessuno di voi è stato dimenticato.
pettinaroli@il secoloXIX.it
IL SECOLO XIX
Venerdì 3 giugno 2011
Roberto Pettinaroli è nato a Lavagna (Genova) il 16 luglio 1962. Sposato, una figlia, è giornalista professionista dal 1988. A 16 anni ha iniziato a collaborare con il quotidiano genovese “Il Lavoro”. Nel 1982 è passato al “Secolo XIX” di Genova, della cui redazione di Chiavari è stato per 13 anni (dal 1992 al 2005) vice responsabile. Attualmente lavora nella redazione genovese come caposervizio dello staff di Cronaca.
ALBUM FOTOGRAFICO
A cura di Carlo Gatti
IL “MONTELLO” sullo scalo del cantiere di Riva Trigoso.
(Archivio Carlo Gatti)
La cartina mostra una rotta tipica dei convogli italiani destinati in Tunisia. In essa viene mostrata la posizione di KERKENNAH
Incrociatore RN GARIBALDI
FIAT C.R.42 Falco
CANT Z 501
Cacciatorpediniere AVIERE – CAMICIA NERA – GENIERE
Classe Soldati 1° serie
Cacciatorpediniere DARDO
ROBERTO PETTINAROLI è nato a Lavagna (Genova) il 16 luglio 1962. Sposato, una figlia, è giornalista professionista dal 1988. A 16 anni ha iniziato a collaborare con il quotidiano genovese “Il Lavoro”. Nel 1982 è passato al “Secolo XIX” di Genova, della cui redazione di Chiavari è stato per 13 anni (dal 1992 al 2005) vice responsabile. Attualmente lavora nella redazione genovese come caposervizio dello staff di Cronaca.
A cura di Carlo GATTI
Rapallo, martedì 5 Aprile 2022
LA LEGGENDARIA STORIA DEL GENERALE UMBERTO NOBILE
PARTE PRIMA
La leggendaria storia del generale UMBERTO NOBILE
UMBERTO NOBILE
Da HISTORIA REGNI riportiamo:
Umberto Nobile è il protagonista di una delle più grandi imprese del Novecento: la prima trasvolata del Polo Nord.
Generale del Genio aeronautico, ideatore, progettista e pilota di dirigibili semirigidi, esploratore polare, docente di Costruzioni Aeronautiche dell’Università di Napoli, scrittore, Umberto Nobile nacque a Lauro, provincia di Avellino, da Vincenzo e Maria La Torraca. Suo padre discendeva da un ramo cadetto della nobile famiglia delle Piane, che, avendo rifiutato l’omaggio ai Savoia in segno di fedeltà ai Borbone, era stata privata del titolo nobiliare e aveva assunto il cognome di Nobile a memoria dell’antica condizione sociale.
La sua storia si illumina il 10 aprile del 1926, il dirigibile Norge della missione decollò da Ciampino per arrivare alla base artica della Baia del Re, sulle isole norvegesi Svalbard, il 7 maggio e puntare poi al Polo Nord.
Dopo un volo di circa 5.300 km, durato tre giorni, il 12 maggio del 1926 “si prende l’altezza del sole. Siamo al Polo; rallento i motori. Si piantano le bandiere (la norvegese, l’americana e quella italiana)…”. Così Umberto Nobile annotava, sul Brogliaccio del Norge, il successo della prima spedizione aerea transpolare della storia, l’obbiettivo era stato raggiunto, fu toccato quel punto singolare della superficie terrestre dove i quattro punti cardinali si confondono in uno solo, il Polo Nord. Con l’allora colonnello Nobile c’erano Roald Amundsen e Lincoln Ellswotrh. In “In volo alla conquista del segreto polare”, così Umberto Nobile ricordò quei momenti:
“La nebbia, che era durata fittissima per un’ora e dieci minuti, verso le 22,30 cominciò a diradare, lasciando intravedere il ghiaccio. Poco più tardi dileguò del tutto.
Intanto il cielo si era andato annuvolando. Il paesaggio aveva assunto di colpo un aspetto triste e solenne. Non c’è di meglio del sole per vivificare anche le cose morte, ma ora il sole erasi nascosto dietro le nuvole alte, e la sua assenza faceva sentire il silenzio mortale che avvolgeva tutto. L’immenso piano ghiacciato cessava di essere monotono: qua e là fiocchi di nebbia radi vi producevano delle macchie bigiastre.
Tutto l’ambiente aveva assunto una tonalità di color grigio perla.
La quota era di 780 metri. Ci andavamo gradualmente abbassando, quasi senza accorgercene, come per un’attrazione lenta verso il suolo. All’una eravamo a 350 metri e, pochi minuti dopo, a 250. Oramai eravamo a poca distanza dal Polo. Larsen era curvo ad un finestrino col sestante fra le mani, pronto a cogliere l’istante in cui il sole avesse fatto capolino tra le nubi.
Man mano che ci andavamo avvicinando, l’eccitazione a bordo cresceva. Nessuno parlava, ma si leggeva nei volti la contentezza. Io ero un po’ nervoso; mi riempiva il cuore una grande gioia che a stento riuscivo a contenere. Pensavo alla nostra bandiera che finalmente avrei fatta sventolare ancora una volta. Avevo solennemente promesso di farla sventolare su ghiacci del Polo, e detto a me stesso che ciò sarebbe stato fatto a qualunque costo: finalmente l’attimo sospirato, in cui si sarebbe adempiuta la promessa, stava per giungere. Non era che un gesto assai semplice da compiere, ma rappresentava come un rito sacro; non vi era che buttare giù un pezzo di stoffa, ma quel pezzo di stoffa era l’Italia lontana.
Una grande gioia che a stento riuscivo a contenere mi riempiva il cuore.
Chiamai impaziente Alessandrini:
– Prepara la banidera.
La norvegese e l’americana erano piccole e fissate a delle aste come stendardi: avevano perciò potuto – senza ingombrare – tenersi sempre pronte nella carena. La nostra no, era grande; bisognava estrarla dal cofano, spiegarla e fissarla all’asta che i miei ufficiali avevano preparato allo Spitzberg.
Alessandrini andò, e com’egli si attardava a compiere accuratamente, amorosamente, l’operazione, io lo sollecitai impaziente. Stavamo per giungere.
– Fa’ presto. Vieni. Portala.
Finalmente era lì, accanto a me.
Alle 1,30 l’altezza del sole – che di tanto in tanto traluce fra le nubi – ci avverte che siamo al Polo. Discendiamo ancora di più, forse fino a 200 metri, perchè voglio accostarmi alla superfice dello sterminato mare di ghiaccio più vicino che sia possibile. Ora rallento i motori. Il loro ritmo si attenua, sicché il silenzio del deserto si sente più profondamente. In questo silenzio, religiosamente, si compie il rito.
Primo Amundsen lascia cadere la bandiera norvegese, poi Ellsworth l’americana. Sono di seta, piccole, graziose, fatte a posta per la circostanza. Ora viene la mia volta. Prendo la bandiera fra le mani. Essa contrasta con le altre due, è grande, vecchia, logora, una bandiera di combattimento: quella medesima che per due anni ha volato Italia sulla poppa dell’aeronave ITALIA: ha l’orlo sfilacciato dal vento, un po’ lacera, assai bella.
La prendo fra le mani e la sporgo fuori dalla cabina. Il vento l’investe gonfiandola: essa mi palpita fra le mani come un’ala viva. La lascio andare. La vedo scorrere lungo la parete della cabina ed impigliarsi nel derivometro. Corro a liberarla. Ecco ora che cade tutta aggrovigliata come una massa informe, poi si distende, si spiega tutta, discende solennemente. La vedo fluttuare: i bei colori attraverso l’aria fredda e trasparente vibrano contro il biancore immacolato dei ghiacci; il margine del drappo freme nell’immenso deserto come se partecipasse alla nostra emozione; il mio sguardo la segue come affascinato, né vale a distrarmi nemmeno la preoccupazione della condotta della nave. La bandiera raggiunge il ghiaccio, vi si abbatte, scompare. E’ realmente l’ala d’Italia che si posa sul Polo”.
IL COMUNE DI ROMA
L'AERONAUTICA MILITARE
NEL CENTENARIO DELLA NASCITA 1885-1985
UMBERTO NOBILE - Ingegnere aeronautico ed alto ufficiale dell'aeronautica militare, effettuò con i dirigibili spedizioni sopra il Polo nord. L'ultima ebbe esito tragico: la navicella si schiantò al suolo mentre il dirigibile riprendeva quota perdendo poi fra i ghiacci parte dell'equipaggio. I superstiti della navicella dovettero attendere 42 giorni (riparati alla meno peggio in una tenda, che dipinsero di rosso) prima di essere scoperti e salvati. Una commissione d'inchiesta esautorò Nobile dal suo grado. Dopo la guerra una seconda commissione lo riabilitò.
BREVE STORIA DELLA DRAMMATICA
"SECONDA SPEDIZIONE ARTICA"
DEL GENERALE UMBERTO NOBILE AL COMANDO
DEL DIRIGIBILE ITALIA
IN MEMORIA DEL
GENERALE PROF. ING.
UMBERTO NOBILE
ESPLORATORE-SCIENZIATO
PIONIERE DELL'AERONAUTICA ITALIANA
DUE VOLTE
CONQUISTATORE DEL POLO NORD
CON LE AERONAVI
"NORGE" (1926) E "ITALIA" (1928)
DA LUI PROGETTATE
COSTRUITE E COMANDATE
QUI VISSUTO
FINO ALLA SUA SCOMPARSA
IL 30 LUGLIO 1978
Il 15 aprile 1928 il dirigibile ITALIA partì da Milano (Aerodromo di Baggio), fece tappa a Stolp (Pomerania), a Vadsö (Norvegia) ed infine giunse alla Baia del Re il 6 maggio compiendo un volo di circa 6.000 km.
Il primo volo esplorativo a Nord Est delle isole Svalbard si concluse con il rientro alla base a causa di venti forti e guasti tecnici;
Il secondo volo durò tre giorni e diede alcuni risultati positivi: furono definiti gli estremi confini occidentali della Terra del Nord, fu dimostrata l'inesistenza della Terra di Gillis e vennero effettuati diversi rilevamenti sulla Terra di Nord-Est.
Il terzo volo fu disastroso: doveva esplorare la parte settentrionale della Groenlandia, alla ricerca di terre emerse, per dirigersi quindi sul Polo, dove erano previste misurazioni scientifiche sul pack.
Alle 4.28 del 23 maggio 1928 l'ITALIA si alzò in volo con sedici persone a bordo e, nonostante una violenta perturbazione, raggiunse il Polo Nord alla mezzanotte fra il 23 e il 24 maggio. Fu impossibile attuare la discesa sui ghiacci, a causa del forte vento. Alle 2.20 Nobile ordinò quindi che si prendesse la via del ritorno ma alle 10.30 il capo motorista Cecioni diede l'allarme: l'ITALIA stava perdendo rapidamente quota. Tre minuti più tardi, per cause che restano tuttora sconosciute, il dirigibile si schiantava sul pack, a quasi 100 km dalle isole Svalbard. Dieci uomini caddero dalla navicella di comando sui ghiacci. Il meccanico Pomella fu trovato morto dai superstiti subito dopo la caduta; Nobile e Cecioni subirono fratture agli arti. Sull'involucro privo di comandi restarono invece Alessandrini, Caratti, Ciocca, Arduino, Pontremoli e Lago, il giornalista.
Quando giunse la tragica notizia della perdita del dirigibile “ITALIA”, tutte le nazioni artiche offrirono il loro aiuto nella ricerca dei superstiti. L'Italia inviò due aerei, tra cui un Savoia 55, pilotato dall'italiano Umberto Maddalena.
Dal Sito della Marina Militare riportiamo:
“L'aeronave si risollevò lentamente scomparendo nella fitta nebbia: della sua sorte e di quella dei sei uomini rimasti a bordo non si ebbero più notizie. Fu rinvenuta una parte dei viveri e delle attrezzature, che l’impatto aveva disperso sui ghiacci ma soprattutto la tenda preparata per la discesa sul Polo e la radio di soccorso Ondina 33. La tenda, colorata di rosso con l'anilina per rilevazioni altimetriche, diventò un indispensabile rifugio per i naufraghi e un punto di riferimento per i soccorsi. Il radiotelegrafista Biagi montò subito l'antenna della radio e attivò l'apparecchio. Il 30 maggio, dopo cinque giorni di infruttuose trasmissioni Mariano, Zappi (da Mercato Saraceno, Forlì)) e Malmgren lasciarono la tenda per una marcia disperata verso la terraferma. Quattro giorni dopo, il 3 giugno, un radioamatore russo di nome Schmidt intercettò l'SOS dei naufraghi. Iniziarono cosi le operazioni di salvataggio che porteranno al recupero di Nobile. In Italia il governo fascista si limitò ad autorizzare la partenza di un idrovolante Siai S-55 pilotato dal maggiore Umberto Maddalena ma finanziato da privati.
La spedizione di soccorso che giunse a salvare gli uomini fu quella sovietica che impiegò due rompighiaccio, il Malyghin e il Krassin. La prima nave, partita da Arcangelo il 12 giugno, doveva raggiungere la parte orientale delle Svalbard e di qui dirigere verso nord. Il Krassin, comandato da Karl Eggi e con a bordo il professor Samoilovich, salpò da Leningrado il 16 giugno. Doveva raggiungere le Svalbard da ovest e perlustrare tutta la parte settentrionale dell'arcipelago verso l'isola di Foyn. La sera del 23 giugno due aerei svedesi raggiunsero nuovamente la Tenda Rossa: uno era il Fokker-31 di Lundborg, che riuscì ad atterrare sulla pista di neve e ghiaccio e a trarre in salvo il "solo" Nobile, che avrebbe dovuto dirigere dalla base svedese le successive operazioni di soccorso. Il comandante di un veliero è l'ultimo ad abbandonare la nave in procinto d'affondare e per questo fu anche lungamente criticato. Lundborg tornò poco dopo in aiuto degli altri naufraghi, ma in fase di atterraggio il suo Fokker si ribaltò e il pilota rimase a sua volta prigioniero dei ghiacci. Il 3 luglio, a nord delle Svalbard, il Krassin subì danni a un'elica; ulteriori avarie convinsero Samoilovich a ritornare per le riparazioni e per rifornirsi di carbone. Ma Nobile telegrafò al comandante della spedizione sovietica, pregandolo di non rinunciare alle ricerche, e riuscì a ottenere che dal rompighiaccio fosse calato il trimotore Junkers pilotato da Boris Ciuknowski. L'aereo decollò alle 16 del 10 luglio e riuscì ad avvistare il gruppo Mariano ma non a rientrare al Krassin. La nebbia lo costrinse infatti a un atterraggio di fortuna presso le Sette Isole, dove il velivolo restò bloccato dai danni subìti. Samoilovich, sostenuto da un equipaggio noncurante delle avarie e della scarsità di carbone, decise di proseguire. All'alba del 12 luglio vennero avvistati e tratti in salvo Mariano, che aveva un piede congelato, e Zappi. Malmgren, purtroppo, non aveva retto alla tremenda marcia sui ghiacci. Alle 20 dello stesso giorno fu avvistata la Tenda Rossa: mezz'ora dopo il rompighiaccio iniziava il salvataggio dei cinque naufraghi rimasti. La tenda fu smontata e trasferita sulla nave insieme all'Ondina 33. Erano trascorsi 48 giorni dal tragico impatto dell'ITALIA. La Tenda Rossa, riportata in Italia, è oggi al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica. La radio Ondina 33 è conservata dal Museo della Marina militare italiana di La Spezia.”
PARTE SECONDA
CITTA’ DI MILANO
Una Nave una Storia
Missione Artica di supporto al Dirigibile ITALIA
La nave posacavi CITTA’ DI MILANO aveva un dislocamento di 5.380 tonnellate. Lunghezza f.t. 97,72 mt. Varata il 21 ottobre 1905 nei Cantieri tedeschi Schichau di Danzica con il nome “Grossherzog Von Oldemburg” fu consegnata al governo italiano nel 1919 per “risarcimento danni di guerra”. Il 1° agosto 1921 entrò in servizio nella Regia Marina.
MISSIONE ARTICA: Scopo della missione era dare il necessario apporto logistico e organizzativo all'impresa pianificata e fortemente voluta dal generale Umberto Nobile. Fu rinforzato lo scafo mediante la ricopertura di lastre d’acciaio come protezione contro la morsa dei ghiacci polari.
Nel 1927 fu equipaggiata con le ultime novità scientifiche in materia di Radio e apparati meteorologici. Al normale equipaggio si aggiunsero alpini, studenti universitari e naturalmente scienziati.
20 marzo 1928 la "Città di Milano", al comando di Giuseppe Manoja, partì dal porto di La Spezia con la funzione di nave appoggio alla spedizione artica del dirigibile "Italia". Prima meta erano le Isole Svalbard.
Rompighiaccio KRASSIN
Si attivarono soccorsi d’imbarcazioni e aeroplani provenienti dalla Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia che inviò anche il rompighiaccio militare "Krassin" appartenente all'armata sovietica. Altre unità ebbero un ruolo fondamentale nel recupero dei superstiti come la Hobby, baleniera norvegese, e la Braganza.
La Città di Milano bloccata dai ghiacci
Dalla nave “Città di Milano” si attivarono le procedure di coordinamento, ricerca e soccorso che permisero il salvataggio dei superstiti, passati alla storia delle esplorazioni polari come i “naufraghi della Tenda Rossa”.
Le operazioni di ricerca andarono avanti per giorni, fino a quando, avvistati dal pilota italiano Umberto Maddalena vennero recuperati e messi in salvo Cecioni Natale, Felice Troiani, Giuseppe Biagi, Viglieri Alfredo, Mariano Adalberto, Zappi Filippo e lo stesso Umberto Nobile a bordo della nave "Città di Milano".
Intrapreso il lungo viaggio di ritorno, il "Città di Milano" attraccò nel porto di La Spezia il 20 ottobre 1928 concludendo così la spedizione.
Il 10 giugno 1940 la “Citta’ di Milano” interruppe i cavi telefonici di collegamento tra Gibilterra e Malta. Era la nostra prima missione nel primo giorno dell’entrata in guerra dell’Italia nella Seconda guerra mondiale.
Piano di costruzione
CARTOLINA COMMEMORATIVA DEL 90° ANNIVERSARIO DELLA SPEDIZIONE AL POLO NORD - 1928 - 2018
TELEGRAPH SUPPORT SHIP "CITTA DI MILANO"
Sulla fine della CITTA’ DI MILANO riportiamo una preziosa TESTIMONIANZA di Giorgio Andreino Mancini, che si rivolge a suo zio Pancrazio Ezio (storico)
in merito all’auto affondamento della regia nave Città di Milano, dicendo che ha avuto una confessione dal Marinaio genovese Di Maria imbarcato su quella nave, e adesso proverò a dirti cosa è successo tra l’8 e il 9 settembre del 1943 nel Porto di Savona da quello che mi ha raccontato Di Maria iscritto all’A.N.M.I.-di-Genova.
“Come tu saprai dall’8 settembre del 1943 è successo di tutto e non solo a Savona, c’era molta confusione, per farla breve nel porto, oltre ai Marinai della Regia Marina, c’erano quelli tedeschi della Kriegsmarine, si conoscevano e c’era anche un sano cameratismo tra loro ed è per questo che non c’è stato nessun atto di forza da parte della Kriegsmarine per impossessarsi della nave (questo naturalmente l’8 settembre). Sempre dal racconto del Di Maria pare che gli stessi marinai della Kriegsmarine avevano avvisato che il giorno 9 reparti della Wermacht avrebbero fatto un colpo di mano per impossessarsi della nave, cosa che poi avvenne il giorno successivo. Mi raccontava che quel giorno successe di tutto nel Porto di Savona, fischiavano pallottole da tutte le parti, l’equipaggio della Città di Milano ha risposto al fuoco con le armi che aveva, ma la superiorità tedesca era nettamente superiore. E’ stato allora che il Di Maria insieme ad un altro Marinaio (che non ricordo il nome) sono scesi in sala macchine per aprire le valvole per l’auto affondamento, operazione avvenuta con successo.
I tedeschi della Wermacht erano molto arrabbiati, fortunatamente per i marinai della Città di Milano, quelli rimasti (parecchi avevano disertato, non so se tu voglia scriverlo), sono stati fatti prigionieri da quelli della Kriegsmarine che li hanno trattati bene, prima di internarli nei campi di prigionia.
Spero di essere stato d’aiuto nell’aggiungere un’altra pagina della storia dei Marinai di una volta, sicuramente il Marinaio Di Maria è stato l’artefice dell’auto affondamento della regia nave Città di Milano!
Vedi se riesci a correggere qualcosa, come ti ho già scritto non sono bravo a scrivere, ma ci ho messo tutte le emozioni che il Di Maria mi ha trasmesso raccontandomi questa storia!
Ti auguro una serena serata e come dici sempre Tu:
Un abbraccio grande come il mare della Misericordia”
Giorgio Andreino Mancini
PARTE TERZA
Intervista del giornalista Gianni Bisiach al generale Umberto Nobile
DIRIGIBILE ITALIA di UMBERTO NOBILE AL POLO NORD
https://www.youtube.com/watch?v=HaVlSI_2D1Q
Ernani Andreatta
LA CONQUISTA DELL'ARTICO E DELL'ANTARTICO
https://www.youtube.com/watch?v=vlUOKAv3LFc
IQ3VE – Sezione ARI di Venezia
GIUSEPPE BIAGI – LA TENDA ROSSA
http://www.arivenezia.it/giuseppe-biagi-la-tenda-rossa/
mmta517 - Convegno sul dirigibile Italia - Versione ridotta
https://youtu.be/tWxPbc8BpfY
Venerdì 19 Ottobre 2018 si è tenuto il Convegno sul Dirigibile Italia a 90 anni dalla Tenda Rossa. I relatori hanno ricordato la tragedia che sconvolse la vita del Generale Umberto Nobile. di membri del suo equipaggio che vi persero la vita con implicazioni politiche, sociali e umane nello stesso tempo. Ma il convegno, che si è rivelato di grande successo, ha coinvolto personalità della scienza, della tecnica e della navigazione registrando così un evento inaspettato con la presenza dell'Ammiraglio di Divisione Alberto Bianchi Comandante delle Scuole Militari Italiane. La manifestazione è stata organizzata e condotta dal Tenente Colonnello Guido Casano con la regia del Comandante della Scuola TLC di Chiavari C.V. Nicola Chiacchietta.
mmta503 – Massimo Minella racconta il Campo 52
https://youtu.be/Ecfkiq99B60
mmta504 – 1928 Dalla Spezia al Polo Nord
https://youtu.be/-Jm4-aHYWZ0
Museo della Memoria - Museo Marinaro Chiavari - Edizioni Giacche'
Michele Coviello Allievo nocchiere di La Spezia nel 1928 faceva parte dell'equipaggio della nave appoggio Città di Milano. Durante la permanenza alle isole Svalbard scatto’ una serie di fotografie che lasciò in eredità alla nipote Annalisa Coviello, giornalista e scrittrice. Attraverso l'editore "Giacchè" ne usci un interessante libro dal titolo "1928 da la Spezia al Polo Nord"
mmta505 – Spedizione Nobile - Collegamento telefonico eredi Mariano
https://youtu.be/djzUF2cc1ro
mmta506 - 1928 DA LA SPEZIA AL POLO NORD
https://youtu.be/ffqx6X-VyuM
Carlo GATTI
Rapallo, 30 Marzo
LE NAVI DEI FILOSOFI
LE NAVI DEI FILOSOFI
In questo periodo caratterizzato da devastanti venti di guerra che ci travolgono ormai dal 24 febbraio 2022, è difficile indirizzare altrove i nostri pensieri, così com’è difficile esprimere opinioni politiche che in questa sede, per abitudine ormai consolidata, non riveliamo per non aprire dibattiti che esulerebbero dagli scopi istituzionali della nostra Associazione.
Tuttavia ci sono altri modi per rimanere sia nel campo navale che in quello della tragica attualità, specialmente quando essa c’impone la riflessione sul tempo che passa… che migliora gli standard di vita di tutti i popoli del mondo, anche di quelli che non intendono mutare il proprio pensiero di fondo che rimane antidemocratico! Uno snodo etico-morale sul quale non ci sarà mai un incontro ma piuttosto uno scontro…
Questo almeno è il messaggio che il sottoscritto ha percepito ascoltando la trasmissione PASSATO E PRESENTE mandata in onda alcuni giorni fa da Paolo Mieli (nella foto) in cui il bravo storico ha voluto dedicare al suo pubblico una pagina dimenticata ma sempre attuale, intitolata: Le Navi dei Filosofi.
Della trasmissione ho colto soprattutto il desiderio dell’autore di ricordare, con l’aiuto di altri esperti e giovani storici, almeno uno dei metodi di deportazione forzata di liberi pensatori, scrittori, dissidenti politici che erano già stati vittime dello “zarismo”. Stiamo parlando della Russia di ieri che “appare”, per molti aspetti, speculare a quella di oggi.
La nave dei Filosofi: Si tratta di uno sguardo sul destino di molti intellettuali filosofi, teologi, sociologi e scienziati, che dopo la rivoluzione bolscevica sono stati costretti a lasciare il Paese, insieme ad oltre un milione di russi dissidenti.
A tanto si può arrivare per impedire la libera circolazione delle idee!
LE NAVI DEI FILOSOFI FURONO DUE:
- Oberbürgermeister Haken
- Preussen
Un po’ di Storia
Il 6 febbraio 1922 la Čeka diventava Direzione Politica di Stato: GPU, una sezione dell'NKVD della RSSF Russa. Fu quindi il GPU che ricevette l’incarico di arrestare gli intellettuali.
Era il maggio del 1922 quando LENIN ordinò di studiare un piano per esiliare l’élite degli intellettuali russi che si opponevano con i loro scritti ai bolscevichi, una fazione marxista rivoluzionaria di estrema sinistra fondata da Vladimir Lenin.
Nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1922 gli intellettuali furono sommariamente processati, condannati e costretti a scegliere tra l'esecuzione e l'espulsione. Chi sceglieva l’esilio doveva pagarsi il viaggio e lasciare in patria gli oggetti di valore e persino i libri.
Le cronache riportano che: “Le due navi che trasportarono gli intellettuali da Pietrogrado a Stettino erano due, la prima partì il 29 settembre 1922 e giunse a destinazione il 1º ottobre 1922 con 35 intellettuali russi e le loro famiglie. La seconda si chiamava Preussen e partì a novembre.”
La data di partenza della nave l'Oberbürgermeister Haken entrò nella storia rappresentando il momento simbolico che fece da spartiacque tra la cultura sovietica e la cultura emigrata.
La Oberbürgermeister Haken, una delle due navi che trasportò gli intellettuali dal porto sovietico da Pietrogrado a Stettino verso la Germania
Monumento dedicato all'espulsione dei "filosofi" a San Pietroburgo
Intellettuali espulsi